Comune di Figline Valdarno
L’antica Spezieria dello Spedale Serristori
Grafica: Auro Lecci • Fotografie di copertina: Antonio Quattrone • Stampa: Tipografia Bianchi
Settore Servizi alla Persona
L’antica Spezieria dello Spedale Serristori Testi di Daniela Matteini Paolo Luzzi
Comune di Figline Valdarno Settore Servizi alla Persona
L’antico Spedale Serristori Daniela Matteini
Sommario
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Daniela Matteini L’antico Spedale Serristori
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Paolo Luzzi L’antica Spezieria dello Spedale Serristori Raccolta semplici e composti
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Elenco dei semplici e composti della Spezieria Serristori
Copyright © 2012 Comune di Figline Valdarno
Progetto grafico e layout: Auro Lecci Stampa: Tipografia Bianchi, Figline Valdarno
Le mura trecentesche dell’antico borgo di Figline Valdarno sembrano ergersi ancora oggi a protezione dei suggestivi simboli di una trascorsa e presente vita cittadina che sempre ha gravitato intorno al cuore pulsante del paese, la piazza oggi intitolata all’umanista e filosofo Marsilio Ficino e un tempo nota come piazza del “mercatale”. Intorno a questo spazio si insediò la popolazione scampata alla distruzione dell’antico castello di Feghine posto sulle colline circostanti; qui si svolgevano i traffici e gli scambi commerciali, qui sorse la pieve di Santa Maria e fu innalzato il Palazzo Pretorio, simbolo del potere politico. Su una stessa piazza si concentrava quindi la vita religiosa, politica, economica e fu proprio qui che una delle più importanti famiglie figlinesi, i Serristori, volle lasciare un segno tangibile della propria presenza con la costruzione di un “hospitale”, destinato all’accoglienza dei pellegrini, dei bisognosi e dei malati. L’antico “Spedale Serristori” nacque dunque per volontà di ser Ristoro di ser Jacopo, che, dettando le sue ultime volontà il 26 ottobre 1399 nella cappella Cocchi nella chiesa di Santa Croce a Firenze, destinò parte dei propri beni immobili, case e terreni, nonché una cospicua somma di denaro, duemila fiorini, alla fondazione di uno “spedale” posto nella piazza del “mercatale” in Figline Valdarno. Le disposizioni testamentarie prevedevano che “in aiuto e sollievo e sostentamento di tutti e ciascuno dei poveri e persone mendicanti”(…)”si facesse un bello e onorevole e utile Spedale con altare, nel quale sieno e esser debbano dodici letti” (…) ”per ritenere e accettare e ospitare i poveri mendicanti, e specialmente i poveri infermi. Il quale Spedale si chiami e chiamare si debba in perpetuo lo Spedale della Vergine Maria dell’Annunziata”. Con estremo scrupolo e lucidità venivano impartite una serie di regole relative all’amministrazione dell’istituto; si disponeva infatti che la gestione e il funzionamento dello spedale fossero affidate ad uno “spedalingo o prete”, ovvero un “uomo onesto e di buona condizione” nominato ed eletto direttamente dagli eredi della famiglia Serristori. Pur stabilendo poi che le rendite dei beni dello spedale fossero destinate al sostentamento dell’istituzione stessa, ser Ristoro non trascurò di disporre che le proprietà dovessero rimanere comunque in perpetuo ai suoi discendenti, nel tentativo di evitare qualsiasi futura ingerenza nell’amministrazione e nelle decisioni da parte di “alcun altra persona ecclesiastica o secolare”. Diversamente quindi dalle fondazioni benefiche e caritatevoli assistenziali sorte nel corso del Trecento, soprattutto dopo la peste del 1348, che si contraddistinguevano per essere state fondate in prevalenza da ordini religiosi, quella di ser Ristoro era e rimarrà per sempre un’istituzione di impronta laica. Le fortune di ser Ristoro, illustre rappresentante di una famiglia di notai originaria di Tassinaia, località nel vicino territorio del Castello di Gaville, avevano avuto inizio nella città di Firenze, dopo che vi era emigrato intorno al 1348; qui esercitò con successo l’attività notarile e, grazie alla sua ambizione e intraprendenza, raggiunse una posizione economica e sociale
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1. Ampollone con marca ‘Ro’, serie per Santa Maria Novella, 1620. Figline Valdarno, Spedale Serristori. 2. Utello con marca del crescente lucifero, da Montelupo, 1610-20. Figline Valdarno, Spedale Serrisori.
3. Sala ???, Figline Valdarno, Spedale Serrisori. 4
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di prestigio, arrivando a ricoprire importanti incarichi pubblici per la Repubblica fiorentina: membro del Consiglio del Popolo, Notaio della Signoria, Priore delle Arti, veste ufficiale in cui spesso appare nei ritratti che lo raffigurano. All’esercizio della professione e agli impegni pubblici seppe unire con successo anche l’attività imprenditoriale, finalizzata all’investimento delle proprie risorse finanziarie; immatricolandosi all’Arte della Lana (1384) pose infatti le fondamenta della futura impresa familiare della lavorazione di tessuti di lana che, esercitata dai figli Tommaso e Salvestro e dai loro discendenti, avrebbe incrementato sensibilmente il patrimonio familiare e avrebbe consentito negli anni successivi l’avvio di lucrose attività nel campo della lavorazione dei tessuti di seta e del commercio internazionale di drappi pregiati. Dopo una vita segnata da una serie di successi personali, che gli avevano permesso di innalzarsi dalla condizione di ”parvenu” a quella di esponente dell’elite delle famiglie fiorentine, approssimandosi ormai la fine della sua esistenza terrena, aveva avvertito la necessità di destinare parte delle proprie ricchezze a finalità filantropiche a beneficio di chi meno di lui aveva avuto fortuna. Non dimentichiamo che la fondazione dello “Spedale Serristori”, seppur ispirata da tali nobili fini, si inquadrava comunque in un contesto storico-sociale fortemente influenzato dalle suggestioni emotive e religiose suscitate dalle manifestazioni devozionali della confraternita dei Bianchi, movimento penitenziale diffusosi in tutta Europa e in Italia nel 1399 e nato in seguito alla miracolosa apparizione della Madonna che avrebbe preannunciato l’imminente distruzione dell’umanità: soli superstiti sarebbero stati coloro che, indossato l’abito bianco di penitenza, avessero intrapreso un pellegrinaggio di nove giorni. Risulta chiaro come le disposizioni impartite nel testamento da ser Ristoro, frutto di questo clima di timore generale, fossero da intendersi “pro remedio animae”, ovvero funzionali all’espiazione dei peccati che affliggevano numerosi i ricchi signori dell’epoca, tra cui spiccava il prestito ad usura. Umiltà e modestia non ispirarono comunque il nostro benefattore, il quale volle che l’istituto sorgesse nella piazza principale del paese, collocato di fronte alla Pieve di Santa Maria, perpendicolare alla “via magistra”, importante direttrice viaria di comunicazione del paese. La scelta di tale localizzazione dimostrava grande oculatezza poiché il nosocomio si sarebbe inserito in uno spazio strategico di rilevanza economica e a prevalente vocazione pubblica, quasi a sottolineare come questa nuova “fabbrica” fosse, alla stregua della Pieve e del Palazzo Pretorio, un edificio di importanza civica, una struttura preposta ai bisogni della collettività. L’edificio, andando così a delimitare il lato settentrionale dell’”antico mercatale”, sarebbe stato inoltre non solo la testimonianza nel tempo della munifica generosità del capostipite dei Serristori, ma avrebbe perpetuato il ricordo e il nome della famiglia, rimarcando allo stesso tempo il forte legame affettivo con la loro terra d’origine. Dopo la morte di ser Ristoro, avvenuta il 20 agosto del 1400 durante un’epidemia di peste, i lavori ebbero subito inizio, e dai documenti d’archivio possiamo dedurre come già intorno al 1420 si fosse concretizzato l’ambizioso progetto, perseguito in vita dal notaio, di dotare Figline di una grande struttura in cui si “abbia ad esercitare l’officio della pietà verso i poveri e gli abbandonati”. L’assenza di progetti rende difficile stabilire quale fosse l’impianto originario dell’ospedale; in base ad alcune indicazioni riportate nel testamento, possiamo soltanto limitarci a constatare come lo “Spedale di ser Ristoro” si andasse costituendo sulle strutture preesistenti di “certe case con le loro volte sotto terra …et altri edifici fino al tetto”. All’epoca quindi della fondazione,
l’ospedale risulta dotato di dodici letti, ognuno corredato di “saccone e coltrice e piumacci e guanciali e coltroni tutti azzurri e bianchi”: gli undici letti, destinati ai malati, erano forniti di una “lettiera”, ovvero di una struttura in legno che li rialzava da terra, mentre il dodicesimo, destinato ai pellegrini, era appoggiato direttamente sul pavimento. In realtà la struttura poteva ospitare un numero maggiore di bisognosi, dal momento che era prassi comune che più persone condividessero lo stesso letto, pur con patologie e necessità diverse. Nell’arredamento degli ambienti svolgeva un ruolo preminente anche l’aspetto simbolico e devozionale: il numero dei letti alludeva infatti agli Apostoli, l’azzurro e il bianco richiamavano i colori delle vesti della Vergine Annunziata, sotto la cui protezione era posto l’istituto, che per il gran numero di altari, inginocchiatoi e immagini sacre presenti ovunque ricreava la suggestione di un luogo di culto, sottolineando come la cura dell’anima non fosse secondaria a quella del corpo, ma anzi il primo conforto offerto ai bisognosi. Anche lo “Spedale di Ser Ristoro”, come del resto gli altri hospitales medievali, non aveva come finalità prevalente l’assistenza e la cura dei malati, ma la funzione di “alloggio ai pellegrini e ai vagabondi”, soprattutto durante il periodo invernale; era quindi un ricovero per coloro che vivevano ai margini della società, per i diseredati che affollavano le vie della città, i quali trovavano in queste istituzioni caritatevoli un rifugio e un luogo dove si provvedesse alle loro prime necessità. A tal riguardo nei documenti ricorre spesso l’indicazione di ”vitto e alloggio dato ai malati e ai vagabondi”, l’annotazione di offerte di “limosine ai malati habitanti nelle loro case”, la distribuzione di “un pane, et una mezzetta di vino e mezza libbra di castrato”, come pure l’assistenza domiciliare nel “mandare ad altri il vitto a casa”. Appare significativa a tal proposito la considerazione riportata in un Libro di Ricordanze dove lo scrivano annota come “vi attendessero più tosto a nutrirli, che a medicarli”, rimarcando così la prevalente connotazione caritatevole dell’ente, ma allo stesso tempo la forte vocazione religiosa, tradotta nello spirito di dedizione e sostegno in applicazione dei principi evangelici delle opere di misericordia. Forse fu proprio per questa valenza fortemente cristiana, ma sicuramente anche per l’esplicita richiesta della famiglia Serristori, che papa Innocenzo VIII concesse nel 1485 l’indulgenza plenaria a tutti quelli che “morivano in questo ospedale” e a tutti quelli che “umilmente sono e saranno per assistere in detto spedale”, come pure allo spedalingo e agli inservienti. Se nel primo periodo di funzionamento del nosocomio (XV secolo) si accettarono i malati senza fare distinzione in base alla patologia di ricovero, dal XVI secolo, proprio a causa della promiscuità dilagante e delle carenze della struttura, non si ammisero nell’istituto “quelli che hanno infermità che si attaccano, o contagiosi o che causano cattivi odori”, mentre si ospitarono i febbricitanti, i purganti, gli infermi e anche “i forestieri di ogni nazione”. I malati più gravi o coloro che non potevano essere accolti venivano invece inviati all’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze. Assistiamo quindi in questo periodo ai primi tentativi di riorganizzazione degli spazi secondo criteri di razionalità e funzionalità più idonei sia ad accogliere i pellegrini e gli infermi bisognosi di cure, che a consentire lo svolgimento delle mansioni quotidiane del personale adibito al funzionamento dell’ente. Risale infatti al 1523 la prima testimonianza che attesta come l’ospedale fosse nettamente diviso in due zone: un’area destinata agli uomini e alle donne, suddivisa in “infermeria degli uomini” e “infermeria delle donne”, e un’altra nettamente distinta e separata,
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lo “spedale dei poveri”, dotato di 11 letti con relativi corredi, ospitato dapprima nella stesso fabbricato dello spedale e poi trasferito nel 1701 in un altro edificio appositamente costruito ex novo. La connotazione prevalentemente terapeutica dell’ospedale richiese la presenza di una spezieria interna: se infatti per tutto il Quattrocento si era provveduto al reperimento dei medicinali presso la spezieria del paese, fu nel 15231 che fu aperta una farmacia nel nosocomio, impiegando nella gestione la stessa famiglia Palmieri proprietaria della spezieria in Figline a cui si era fatto fino ad allora ricorso. L’organizzazione e la gestione dell’ente erano affidate, nel rispetto delle volontà di ser Ristoro, ad uno spedalingo, nominato in carica dalla famiglia Serristori e preposto alla direzione dell’ospedale con il compito di presiedere al “generale buon governo” del nosocomio e di decidere circa l’ammissione dei ricoverati, animato da spirito di “charità e discretezza”. L’accesso all’ospedale era gratuito e alla cura dei malati provvedevano un medico esterno che aveva l’incarico di visitarli due volte al giorno, e un cerusico, che praticava clisteri e “aveva l’obbligo di cavar sangue e di medicare anco feriti piaganti e di far la barba a tutti quelli di casa”. A completare l’organico dell’istituto vi erano inizialmente tre donne, dette “serviziali o commesse”, che assolvevano da sole tutti i compiti dell’assistenza agli infermi e si occupavano allo stesso tempo dei poveri; successivamente queste vennero affiancate da terziarie laiche, che prestavano il loro servizio nell’infermeria delle donne, e da infermieri salariati assunti con regolare contratto annuale, i quali si occupavano dell’assistenza degli uomini. Gli inventari della “casa et abitazione dello spedale” ci forniscono testimonianze significative sia sull’arredo e le suppellettili presenti nei vari ambienti, che sulla disposizione e sull’uso dei singoli locali. La parte riservata agli uomini era quella in cui trovavano spazio, oltre all’infermeria, la spezieria (almeno fino al ’600, poi trasferita nell’ala femminile), lo scrittoio, le stanze “dei garzoni” e i locali destinati a conservare i prodotti provenienti dai vari possedimenti agricoli, in parte utilizzati per il sostentamento dell’ospedale, come il granaio, la tinaia, la stanza dell’olio, la stalla. Nella parte femminile, oltre all’infermeria, erano situati i locali adibiti ai lavori domestici, come la cucina, la stanza del pane, quella del telaio e la guardaroba, costituita da casse, cassoni e armadi, disseminati nei vari ambienti, in cui era riposta la biancheria per i ricoverati. Nella seconda metà del Cinquecento, quando nel 1562 le suore subentrarono nell’assistenza dei bisognosi, in questa parte del complesso fu ricavato anche un convento che si estendeva nella parte retrostante della struttura, verso la via San Lorenzo; i documenti nel 1589 menzionano a tal proposito tutta una zona destinata alle religiose comprendente il dormitorio, la cucina e la “chiesina delle monache”, riservata alla loro devozione. L’ingresso delle suore in convento, a discrezione della famiglia Serristori, avveniva, come era tradizione, dietro il versamento di una somma in denaro corrispondente alla dote delle fanciulle destinate alla monacazione, a cui si aggiungeva un “fornimento completo” per il letto, biancheria, oggetti di devozione personale, un cappello di paglia per svolgere i lavori nell’orto, oltre all’occorrente per il cucito e il ricamo, il tutto conservato all’interno di un cassone personale. La lettura degli inventari ci offre un interessante spaccato della vita che si svolgeva all’interno del convento; le suore sembravano avere un ruolo preminente nella gestione della sezione femminile e nello svolgimento delle varie mansioni necessarie alla vita dell’intero spedale: oltre alla ”custodia“ delle donne ricoverate, erano impegnate in una serie di lavori domestici quali la preparazione dei pasti, fare il bucato con il
“ceneracciolo”2, la cura della spezieria e la lavorazione di tessuti. Esisteva infatti nel convento una “stanza del telaio”, corredata da un filatoio, un telaio da nastri, “tre telara e tutti gli arnesi per tessere panni di lino”; sembra di capire che le religiose si occupassero della realizzazione della biancheria per la famiglia Serristori, come pure dell’esecuzione del corredo per la chiesa, nonché della confezione di “biancheria nuova da vendersi”, il cui ricavato costituiva una buona fonte di reddito per l’ospedale stesso. A sottolineare l’intensa attività tessile delle religiose conviene menzionare come dalla fine del Seicento venisse qui impiantato un allevamento di bachi da seta gestito in autonomia dalle stesse in tutte le fasi della produzione e della lavorazione della seta. Una nota caratteristica che ricorre spesso scorrendo le pagine degli inventari dei vari ambienti è la presenza di un numero incredibile di casse e cassoni in cui venivano riposti indumenti, vesti per gli assistiti, biancheria da letto e per la tavola, “sciugatoi”, ovvero semplici teli di stoffa bianca di canapa o stoppa, necessari all’igiene o alle diverse operazioni mediche. Un così imponente guardaroba era giustificato peraltro anche dalla prassi seguita per i ricoverati: le persone che entravano nell’ospedale si spogliavano dei poveri panni quotidiani per indossare camicie, berretti e cuffie forniti direttamente dall’istituto. Lo “Spedale di Ser Ristoro” fu oggetto durante tutto il Quattrocento e il Cinquecento di donazioni, di lasciti testamentari e della carità di numerose famiglie figlinesi e del territorio circostante. L’accoglienza stessa degli infermi e dei poveri andò sempre più aumentando, ma soprattutto iniziò a definirsi nella seconda metà del Cinquecento il carattere principalmente curativo dell’istituzione. Nei primi anni del Seicento si registrò però una situazione di “rovina di tutta la casa et spedale dove abitano gli uomini”; numerose erano state le riparazioni già in precedenza apportate ai tetti, che comunque presentavano “travi et legnami fradici”. Si avvertì inoltre l’esigenza di poter elevare questa parte dell’ospedale per ospitarvi nuove camere; si provvide di conseguenza a far alzare tutta la struttura di “braccia cinque” e a dotarla di una loggia sopra e sotto e a edificare stanze nella parte superiore “per poter riporre nostre grascie et altro”; sotto la loggia furono poi aperte delle buche per la conservazione dei cereali. I lavori ebbero inizio il 12 novembre 1604 e i “Giornali” ci forniscono un resoconto estremamente dettagliato delle varie fasi di ristrutturazione dell’edificio e di messa in opera della loggia, soffermandosi perfino sulle dimensioni delle travi di castagno (“correnti”) e sulla provenienza delle pietre, estratte dalla “cava di Sinicatto” e dalla “cava de’ Fracassi”. La “loggia sulla piazza”, impostata su otto arcate rette da colonne di ordine tuscanico in entrambi i piani, fu realizzata da Oriano di Giovanni Rapitti dell’Opera di Santa Maria del Fiore di Firenze, mentre le colonne e gli altri elementi strutturali e decorativi in pietra furono lavorati da Giovanni di Domenico Della Bella, scalpellino “da Fiesole”. L’innalzamento di un porticato sul fronte del fabbricato rappresentava un elemento architettonico di prestigio, che se da un lato allineava l’ospedale di ser Ristoro alla tipologia tradizionale dei più importanti complessi ospedalieri fiorentini, dall’altro enfatizzava l’importanza della famiglia. A completamento dell’opera, nel 1623, “un’Arme de’Serristori” fu posta nel mezzo del parapetto della loggia. Del successivo ampliamento del nosocomio, attuato nel 1660, fu incaricato Gherardo Silvani (1579-1675), uno dei più importanti architetti del Seicento fiorentino, che, per coerenza stilistica, adottò per il proseguimento del loggiato linee e moduli architettonici della parte più antica.
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Negli anni successivi (1663-1727) l’ospedale fu un cantiere in continuo divenire: numerosi furono gli interventi volti a rinnovare gli ambienti preesistenti e ad ampliare gli spazi dell’edificio estendendo il fabbricato sull’area retrostante verso via San Lorenzo. Si registrarono le spese per la costruzione del nuovo ospedale degli uomini e delle donne (1671) e per l’allestimento al primo piano di un appartamento signorile, destinato ad accogliere il commendatore dell’istituzione; il quartiere custodiva una piccola ma prestigiosa collezione di opere di maestri del Rinascimento e del Manierismo fiorentino, testimonianza del gusto raffinato e della sensibilità artistica della committenza Serristori, indirizzata del resto verso artisti che orbitavano nell’entourage della famiglia dei Medici, quasi a rimarcare così il ruolo e il prestigio sociale ormai raggiunto. E proprio al più rinomato stuccatore attivo a Firenze nella prima metà del Settecento, Giovanni Martini Portogalli, fu affidata nel 1725 la decorazione “alla moderna” del nuovo appartamento destinato a ospitare i molti e illustri visitatori di passaggio da Figline. In tali circostanze si provvide ad arredare il quartiere inviando da Firenze mobili, tendaggi, quadri, argenteria, porcellane, come accadde nel 1803, quando, in occasione della visita di Maria Luisa di Borbone, si “fece parare il salotto di velo verde e così la camera gialla e verde”. In questi anni anche la chiesa dell’ospedale subì interventi di rinnovamento e di adeguamento allo stile seicentesco. I documenti fin dal Cinquecento menzionavano una cappella, un semplice vano rettangolare dotato di un solo altare centrale arricchito dall’immagine di “una Nunziata in panno lino e crocefissino”; successivamente sull’altare fu collocato il trittico raffigurante la Madonna con il Bambino e Santi, attribuito a Giovanni di Tano Fei, opera eseguita intorno ai primi anni del Quattrocento e legata al momento della fondazione dell’ospedale, come si può desumere dalla data “1399” dipinta sul gradino del trono su cui siede la Vergine. Per rimarcare il culto verso la Vergine Maria, oggetto di devozione fin dalla fondazione del nosocomio, i Serristori nel 1580 commissionarono al giovane artista Ludovico Cardi, detto il Cigoli una tela destinata all’altare della chiesa raffigurante l’Annunciazione, trasferita poi nel 1890 nella cappella del convento dell’ospedale della Villa di San Cerbone. I maggiori interventi di abbellimento alla chiesa furono effettuati dalla fine del Seicento (1691-1696), quando si inserirono i due altari laterali con le edicole in pietra serena destinate ad accogliere le due tele di Niccolò Lapi, l’Apparizione della Madonna a San Filippo Neri e il Transito di San Giuseppe (attualmente conservate nella cappella del convento dell’ospedale a San Cerbone), e fu rinnovato l’altare maggiore su disegno di Giovan Battista Foggini (1652-1725), scultore e “architetto primario della casa Serenissima dei Medici”. Non dovrà quindi meravigliarci se in questi anni furono coinvolti nelle commissioni di suppellettili liturgiche per la chiesa orafi e argentieri quali Bernardo Holzmann e Cosimo Merlini il Giovane, artisti attivi presso la corte medicea e stretti collaboratori del Foggini, del resto nominato nel 1694 direttore artistico delle botteghe granducali. Anche Francesco Lucatelli, orafo sul Ponte Vecchio e argentiere di fiducia di Vittoria della Rovere, fu incaricato della lavorazione di “fiori d’argento di gersomino”, che andarono ad ornare la cappella. Nell’Ottocento lo “Spedale” attraversò un momento di crisi legato alla cattiva gestione dell’istituto, momentaneamente sfuggito al controllo diretto dei Serristori, ed alla mancanza delle consuete entrate derivanti dalle numerose proprietà terriere, spesso trascurate o in stato di abbandono a causa della carenza di manodopera legata all’assorbimento di giovani braccia
nelle guerre napoleoniche. Nell’intento di risanare le finanze il conte Luigi Serristori, patrono dell’ospedale, emanò dal 1830 una serie di provvedimenti tesi a porre rimedio alla precaria situazione economica anche attraverso misure impopolari quali la chiusura temporanea del nosocomio stesso; il successo di tali iniziative fu in gran parte dovuto alla figura di Andrea Magherini, incaricato di gestire l’ospedale dal 1838 al 1872, che riuscì “con incrollabile e benevola autorità a procurare grandi vantaggi morali e materiali” all’istituzione. La Villa di San Cerbone I problemi creati dalla presenza dello “Spedale della Vergine Maria dell’Annunziata” nel centro dell’abitato di Figline indussero Alfredo Serristori, figlio di Luigi e ultimo discendente diretto della famiglia, a considerare la possibilità di trasferire il complesso in altro “luogo più salubre” e rispondente “ai precetti della scienza”. Indubbiamente il contatto fra gli ammalati che sostavano nella loggia e le persone del paese rappresentava un potenziale rischio, poiché poteva alimentare il diffondersi di malattie e violava le più semplici norme igieniche a tutela della guarigione dei malati e a salvaguardia della salute della popolazione. La scelta si appuntò quindi sulla Villa di San Cerbone, antica dimora nobiliare che si ergeva imponente sul colle sovrastante l’abitato figlinese e che rimandava alle vicende delle nobili famiglie legate alla storia del paese. Primi proprietari ne erano stati i Franzesi della Foresta, signori di Figline, originari di Cetinavecchia, che fissarono qui la loro dimora familiare probabilmente alla fine del XIII secolo. La struttura, almeno all’inizio del XV secolo, “aveva la forma, le dimensioni e le caratteristiche di un palagio residenziale con un cortile interno, una loggia e una dozzina di vani destinati ai proprietari ed alle altre necessità della famiglia, compresi i magazzini dove venivano raccolti i prodotti delle proprietà terriere”. Nel 1461 l’ultima erede della famiglia, religiosa nel monastero di Sant’Apollinare di Firenze, vendette la proprietà a Giovanni Serristori; nel 1533 Costanza Serristori, andata sposa ad Alamanno Salviati, banchiere e nipote di Lorenzo il Magnifico, porterà la villa in dote al casato dei Salviati, che ne rimarranno proprietari fino alla fine del Settecento3. All’iniziativa e alle risorse economiche di Alamanno Salviati sembra siano quindi da attribuire i numerosi cambiamenti che conferirono alla villa l’aspetto di un elegante e vasto edificio cinquecentesco, impreziosito dallo stemma dei Salviati4 su tutti gli architravi in pietra serena delle porte. Alcuni documenti dell’archivio Salviati confermerebbero infatti che “detto palazo, la magiore parte è stata fatta da Messer Alamanno Salviati“ e in particolare “la parte verso levante” e “verso mezzogiorno un corridoio da pasegiarvi e longho quanto il palazzo”. Le caratteristiche dell’edificio non dovevano allontanarsi molto da quelle attuali; all’esterno si presentava come un blocco compatto, di austera semplicità, con un imponente portale profilato da conci di pietra forte. La costruzione si sviluppava, come negli edifici fiorentini rinascimentali, intorno ad un cortile centrale delimitato da un loggiato impostato su pilastri ottagonali con originali e insoliti capitelli decorati a file di foglie sovrapposte, la cui estremità arricciata creava un motivo simile ad una valva di conchiglia5. Nella parte superiore della loggia correva un’altana, elegante terrazzo tipico delle dimore signorili rinascimentali. La villa rimase fino al 1794 residenza di campagna della famiglia Salviati; passò poi in eredità ai Borghese e ai Caprara e dal 1816 divenne la dimora di Raffaello Lambruschini6, reli-
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gioso, pedagogista, che qui fondò e guidò dal 1830 al 1847 l’Istituto di San Cerbone, scuola con annessa azienda agricola nata per dare un’educazione e insegnare l’arte e i mestieri sia ai figli delle famiglie agiate che ai figli delle famiglie contadine. Interprete delle ultime volontà di Alfredo Serristori, promotore del trasferimento dell’ospedale nella Villa di San Cerbone, fu, dopo la sua morte, il nipote Umberto Tozzoni Serristori, figlio della sorella Sofia, che “trasferì la sede dell’ospedale dal paese di Figline al vicino colle di San Cerbone, riducendone e ampliandone il fabbricato, accomodandolo a tutte le esigenze della scienza”. Le trattative per l’acquisto iniziarono nel 1886 e nel 1887 fu redatto l’atto di compromesso e quindi conclusa con la signora Emma Bondi, vedova Ademollo Lambruschini, la vendita dell’immobile con terreni annessi per la cifra di 125.000 lire, “a cancelli chiusi”. Per adattare la preesistente struttura della villa alla nuova destinazione furono realizzati più progetti, fra i quali fu approvato quello dell’architetto Mariano Falciani, professore all’Accademia di Belle Arti di Firenze e collaboratore di Giuseppe Poggi, che già aveva lavorato per la famiglia Serristori attuando nel 1883 il rifacimento della facciata del loro palazzo sul Lungarno fiorentino (attuale Lungarno Serristori). Il piano di ristrutturazione per San Cerbone ideato dal Falciani, nell’intento di preservare i volumi cinquecenteschi e salvaguardare la tipologia dell’antico edificio, ridefiniva gli spazi della villa destinandone parte a sede amministrativa e a residenza della famiglia, parte al convento delle religiose e alla cappella, mentre prevedeva la costruzione exnovo di due ali laterali da adibire a corsia degli uomini e delle donne. Il nuovo ospedale, dotato di riscaldamento, acqua e sala chirurgica attrezzata di un letto di ferro articolato per adagiarvi il paziente e di una stufa sterilizzata, si distingueva per essere un vero ospedale modello, all’avanguardia, considerato il primo del Valdarno7. Non si può tralasciare in questa sede un breve cenno a quella che era la cappella delle suore, che nello stesso periodo andava trovando una sua sistemazione grazie anche al diretto interessamento della contessa Hortense de la Gàndara, nobildonna di origine spagnola, moglie di Umberto Serristori e dama di palazzo della “bella Elena”, Regina d’Italia, consorte di Vittorio Emanuele III di Savoia . Nella nuova chiesa delle suore, che, seppur di dimensioni ridotte, richiamava nella planimetria, nella disposizione e nel numero degli altari quella dello “Spedale di ser Ristoro”, furono ricollocati i dipinti provenienti dall’arredo del vecchio oratorio che si affacciava sulla piazza. Sull’altare maggiore fu inserita, come già accennato, l’Annunciazione (1580), opera di Ludovico Cardi, detto il Cigoli (1559-1613). L’artista formatosi con Alessandro Allori, fu promotore a Firenze, negli ultimi decenni del XVI secolo, del rinnovamento della pittura, volta a recuperare, dopo il periodo manierista, un linguaggio più naturale, aderente alla realtà, combinando alla perfezione del disegno fiorentino il virtuosismo cromatico dei veneti, approdando così a quel “colorire naturale e vero” che caratterizzò la sua produzione. Tanto fu “il suo studio nella luce e nel colore” da essere definito da Filippo Baldinucci “il Tiziano e ‘l Correggio di Firenze”. Agli altari laterali il Transito di San Giuseppe e l’Apparizione della Madonna a San Filippo Neri (1690), tele di Niccolò Lapi (1666-1732); allievo di Pier Dandini, l’artista si distinse nella decorazione ad affresco e nella realizzazione di soggetti a carattere religioso, influenzato nel suo stile dal linguaggio tardo barocco di Luca Giordano.
La piccola cappella delle monache fu inoltre oggetto della raffinata committenza della contessa Hortense: nel 1897 alla finestra fu montata “una bella vetrata a colori” con la raffigurazione dell’Annunciazione, acquistata nella “Fabbrica Reale” di Monaco di Baviera; l’anno successivo, in ricordo della nascita del suo primo figlio maschio Dedo, “venne rifatto in pietra l’altare grande con il rimontaggio della residenza” disegnato dall’architetto Bellini e realizzato da Italiano Graziani di Figline. Finalmente il 25 maggio 1890 fu inaugurato il nuovo Spedale alla presenza del “popolo festante” e di varie autorità arrivate da Firenze con il treno. Il momento fu immortalato dal fotografo Pagnari e, a “memoria dell’inaugurazione”, fu posta nel cortile d’ingresso una epigrafe che tramandasse ai posteri la solennità dell’evento. Nel 1899, in occasione della ricorrenza dei 500 anni dalla fondazione dello Spedale, ebbe luogo una cerimonia commemorativa durante la quale si ripercorsero le tappe della storia di “una istituzione sorta in pieno medioevo e giunta al limitare del XX secolo in condizioni di prosperità per l’opera di una sola famiglia”; in tale circostanza fu collocato sotto il loggiato del cortile il busto in bronzo di ser Ristoro, realizzato dallo scultore fiorentino Gaetano Trentanove (1858-1937)8. I locali del vecchio “spedale” furono venduti dopo pochi mesi dal trasferimento; il quartiere padronale e la fattoria furono acquistati in società da Antonio Noferi e Giovanni Magherini Graziani, mentre il convento dalle due sorelle Eleonora e Marianna Gilles, monache della Croce, per trasferirvi la comunità religiosa, poiché il monastero delle Agostiniane era stato ceduto dal Governo al Comune di Figline: un libro di Ricordanze dello Spedale narra che nel 1892 “le monache agostiniane di Santa Croce dal vecchio loro convento si sono recate in tante carrozze chiuse, in quello finora abitato dalle nostre oblate”. Il conte Umberto Serristori volle infine, per sentimento religioso, che la chiesa rimanesse aperta al culto. Breve storia dell’antica Spezieria Serristori Le prime testimonianze dell’esistenza della spezieria all’interno dello Spedale risalgono ad un periodo successivo all’istituzione del nosocomio; tale assenza è probabilmente da attribuire al carattere precipuo dell’ente, il quale, preposto principalmente all’accoglienza e all’assistenza di umili e bisognosi o di pellegrini di passaggio, non espletava un compito vero e proprio di medicalizzazione tale da richiedere l’attivazione di una spezieria, potendo usufruire dei servizi di quella presente nel paese. Fu solo nel 1523, il 10 marzo (circa cento anni dopo la fondazione dell’ospedale), che nei documenti relativi all’inventario dello “Spedale della Nunziata” compare il termine “spezieria”, riferito ad un ambiente contiguo all’infermeria degli uomini e affacciato sul cortile, ben protetto con “toppa e sua chiave”, seppur con una dotazione ridotta a “due calderotti, fiaschi e albarelli di più sorte”; in tal modo si andava a definire uno spazio adibito per lo più alla conservazione dei medicinali o alla preparazione di semplici medicamenti. Nell’ottobre dello stesso anno, inoltre, “si pose a salario nella nostra spezieria” Luigi Palmieri, incaricato di “fare e comprare a nostre spese tutte le cose sono da necessità alla nostra spezieria e per gli ammalati, e così ogni altra cosa ci fosse di bisogno”. Da questo momento la farmacia fu quindi gestita e organizzata materialmente da uno speziale che provvedeva all’acquisto delle materie prime, erbe officinali, minerali e altre sostanze curative presso le spezierie di
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Firenze o del territorio. Già da qualche anno l’ospedale, avvalendosi della collaborazione di un medico e di un cerusico, aveva infatti iniziato ad assumere un carattere più specificatamente terapeutico, attuando proprio nel 1523 una netta distinzione fra persone bisognose di cure mediche e “poveri” emarginati; era sorta quindi la necessità di inserire la figura dello speziale, al quale competeva la preparazione di tutti quei rimedi curativi prescritti dal medico su un ricettario, in relazione alle patologie dei malati. Lo speziale era spesso un uomo di cultura, laico o religioso, che, pur affidando la propria formazione ad un periodo di apprendistato da svolgersi presso la bottega di un maestro, doveva avere una buona dimestichezza con la lingua latina, oltre a possedere nozioni di botanica e di chimica. Non dobbiamo dimenticare però che i primi studi sulle virtù salutari delle sostanze vegetali applicati alla medicina furono intrapresi all’interno dei monasteri, dove vennero impiantati i primi orti botanici per la coltivazione delle erbe officinali. In ambito laico per esercitare la professione era indispensabile l’iscrizione all’Arte dei Medici e degli Speziali: era questa una delle sette “Arti maggiori” sorte a Firenze nel XIII secolo, che aveva come santa protettrice la Vergine “salus infirmorum” e accoglieva al proprio interno non solo gli speziali e i medici, ma anche intellettuali, scrittori e pittori come, per esempio, Dante Alighieri e Giotto. L’appartenenza alla corporazione, oltre a tutelare l’iscritto, costituiva peraltro una garanzia della qualità del lavoro dello speziale, che era sottoposto da parte dell’Arte a periodici controlli per verificare la “bontà“ delle materie e dei prodotti da lui smerciati. La spezieria dunque, prima forma di moderna farmacia, si configurava come una bottega fornita delle più diverse sostanze e materie anche preziose. Chi entrava nel negozio di uno speziale sapeva di poter reperire l’occorrente a soddisfare varie necessità: non solo si potevano trovare rimedi che alleviassero i sintomi delle malattie del tempo (erbe officinali, sciroppi, composti, unguenti), ma i pittori potevano rifornirsi dei colori o delle colle per la preparazione delle tavole dipinte, come pure le signore vi entravano alla ricerca di “cosmetici” che valorizzassero la loro bellezza o di sostanze odorifere, muschi, ambre e zibetti, per profumare la propria persona in tempi in cui il ricorrere ad una igiene giornaliera del corpo non era pratica diffusa. Qui si acquistavano le costose spezie provenienti dall’Oriente, come il pepe e la noce moscata, i chiodi di garofano e il prezioso zafferano, impiegati in farmacopea, ma pure indispensabili in cucina anche per mitigare odori e sapori sgradevoli derivati spesso da una impropria e lunga conservazione delle carni. Perfino per le sostanze tossiche come l’arsenico, prudentemente “riposto in un armadio chiuso a chiave”, o per oli e balsami usati nella composizione dei corpi dei cari estinti, si ricorreva alla spezieria. L’immagine che ne deriva è quindi quella di un negozio simile ad un emporio che assolveva ai molti bisogni di una vasta clientela. Un noto proverbio riferiva a tal proposito che soltanto alcune cose non si trovavano dallo speziale: la pazienza, il giudizio e l’onore. Una tale varietà di offerta non si può d’altra parte attribuire alle farmacie ubicate all’interno degli ospedali, che avevano una funzione più specifica e finalizzata alla cura dei malati. Nel caso della spezieria dello Spedale di ser Ristoro, l’organizzazione degli ambienti, come si desume dalle descrizioni di un Inventario del 1543, sembrava corrispondere con quella delineata nei trattati di farmacopea, che solitamente davano indicazioni sui requisiti necessari per l’allestimento di un laboratorio farmaceutico e dell’officina di distribuzione e vendita. Nel locale principale trovavano posto pochi ma funzionali mobili quali “un banco grande da
lavoro”, tre mortai di pietra, un armadio, una serie di palchetti posti intorno alla stanza in cui erano disposti numerosi albarelli di differente grandezza e molti fiaschi destinati alla conservazione delle acque distillate. La spezieria si avvaleva inoltre di aree di servizio quali la cucina, adibita a laboratorio, dove “vicino al fuoco” erano collocati “sistole di rame, calderotti di stagno e mortai”, e il cortile, luogo di ricovero per “una campana di stagno da stillare” e molte botti di vino rosso e aceto. Da tali informazioni possiamo quindi dedurre come la spezieria divenisse operativa proprio in questo periodo; negli anni successivi assistiamo, attraverso la lettura dei documenti, ad un importante intervento di ristrutturazione che vide “la spezzeria vecchia” interessata da lavori di riassetto degli ambienti, con conseguente spostamento in altri locali, e da un potenziamento dell’attrezzatura e della dotazione di contenitori, indice di un’evoluzione della funzione medica dell’ospedale come pure del graduale affermarsi della lavorazione di medicinali in loco. Proprio in relazione agli specifici compiti di uno speziale, ovvero pestare, lavare, fare infusioni, cuocere, distillare, comporre medicine con droghe scelte secondo tutte le regole dell’Arte, l’iniziale corredo si andò sempre più rifornendo di una serie di strumenti quali “campane da stillare, mannaia a due manici”, mortai di differenti dimensioni e materiali, albarelli e fiaschi. L’arricchimento della strumentazione è da porre anche in relazione con la crescente ricettività dell’ospedale, che, se durante tutto il Cinquecento era stato in grado di ospitare dai sessanta agli ottanta “ammalati”, alla metà del Seicento arrivò ad accogliere circa centosessanta infermi all’anno, fino a sfiorare i duecento nel Settecento. In corrispondenza di tale incremento fu infatti ristrutturato e ampliato l’edificio ospedaliero con conseguente spostamento dei locali della spezieria, che già dalla fine del Cinquecento risultava trasferita nella parte del complesso riservato alle monache (“la spezieria del convento”), alle quali dal Settecento sarà demandata la cura e la gestione della spezieria; costante sembra essere comunque negli anni il rapporto con la famiglia Durazzini, speziali in Figline, referenti principali per “la manipolazione” delle sostanze nella farmacia stessa e per il rifornimento dei medicinali. Dai dettagliati inventari redatti puntualmente alla morte di ogni priora, possiamo desumere come la spezieria, dalla metà del Seicento alla metà del Settecento, andasse regolarmente implementando la propria dotazione di strumenti da laboratorio e contenitori da farmacia. In osservanza alle norme e ai principi della moderna farmacopea, la costituzione della spezieria di Figline, articolata in più locali, rispondeva a precisi criteri di funzionalità, ordine e pulizia. L’ambiente principale, denominato “spezieria”, era riservato alla distribuzione e alla vendita dei medicinali; qui era presente un banco da lavoro con pesi e bilance, usato per “manipolare” le varie sostanze necessarie all’esecuzione “estemporanea” di medicine, e una serie di mobili per contenere e preservare materie prime e preparati: di solito un armadio e cassettiere nelle quali venivano riposte, raggruppate per specie, le erbe officinali essiccate e le droghe, in modo da evitare “contaminazione” di odori, sapori e proprietà. Sulle pareti intorno alla stanza erano poi disposti scaffali di legno, spesso decorati da cornici colorate, sui quali trovavano collocazione vasi di terracotta e fiaschi di vetro, ognuno dal contenuto ben individuato grazie all’apposizione di “polizzini” (etichette) sui quali era specificato il nome della sostanza. Nella strumentazione non mancavano i mortai, indispensabili utensili di varie misure e materiali diversificati in relazione alle materie da lavorare e al grado di pestatura e di polverizzazione da ottenere. Un’officina farmaceutica utilizzava, come pure riscontriamo dagli inventari della
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spezieria dello Spedale, mortai di bronzo per “droghe in stato di secchezza”; di pietra erano i mortai “da erbe”, in porfido i mortai per ridurre in polvere fine, quasi impalpabile, i fossili. In un secondo locale, adibito a laboratorio per le preparazioni farmaceutiche, trovavano posto un camino, fornelli, un acquaio, setacci, spatole, una serie di recipienti (“sistole” e “calderotti”) “per uso del medicinale e per fare gli unguenti” e “uno strettoio per ricavare l’olio di mandorle dolci”. Nella spezieria di Figline viene ricordata alla fine del Seicento anche una “stanza degli stilli”, ovvero un locale in cui si svolgeva il processo della distillazione, attraverso il quale si estraevano principi attivi dalle erbe; qui erano presenti “campane da stillare rose et altre erbe”, un “tamburlano con serpe e cappello” per la produzione di acquavite e “vasi da stillatoio di terra invetriati” fatti fare a Cancelli, luogo specializzato nella produzione di ceramiche da cucina. La cantina infine, posta sotto il locale della spezieria, era indispensabile per una corretta conservazione di oli, acque distillate, unguenti, acque aromatiche e tutto ciò che doveva essere preservato dal calore estivo; allo stesso tempo poteva fungere da magazzino per riporre casse di zucchero, senna, droghe etc. La spezieria si caratterizzava comunque per la presenza di un gran numero di contenitori che razionalmente ordinati, diversi per forma, materiale e decorazione, facevano bella mostra di sé sugli scaffali, concorrendo a creare l’immagine fortemente suggestiva di un ambiente che si proponeva come la “summa” dell’antica sapienza medica. Il corredo “da farmacia” della nostra spezieria risultava così in questi anni particolarmente eterogeneo per la varietà delle tipologie e per il numero dei contenitori, sui quali per la prima volta appariva, quale emblema della farmacia stessa, “l’Arme dei Sig.ri Serristori”, che figurava nel 1676 su “38 vasi grandi bianchi da sciroppo, n°60 vasi piccoli e n°68 vasi da unguenti e conserve”, e nel 1685 su “163 albarelli di maiolica nei quali tutti vi è di lattovari, o giulebbi, o unguenti, o conserve”. Completavano la dotazione “duecento fiaschi pieni d’acqua stillata” e “cento ampolle” destinate a custodire al loro interno elisir di “meravigliosa virtù”. Poiché le qualità terapeutiche dei medicinali dovevano essere scrupolosamente preservate, era esigenza primaria ricorrere a contenitori che fossero adatti alla conservazione e al trasporto delle sostanze e in particolare fossero “tali che le medicine non abbiano a contrarre per essi proprietà nocive o a perdere di loro efficacia”: in tal senso un materiale come la ceramica si rivelò particolarmente confacente all’uso in farmacia. L’impiego dei vasi in maiolica, come raccomandava già il “Ricettario fiorentino” del 1498, era motivato dal particolare rivestimento in smalto invetriato, che rendeva le pareti impermeabili ed allo stesso tempo proteggeva il contenuto dalla luce, mantenendo così inalterate le qualità del prodotto. Inoltre i bassi costi di fabbricazione e la possibilità di ottenere manufatti personalizzati per forma e per decorazione, la rendevano adatta alla realizzazione di contenitori di diversa dimensione. La tipologia più antica era rappresentata da recipienti in terracotta invetriata detti “albarelli”9, di forma cilindrica e con un leggero restringimento nella parte centrale del vaso che offriva alla mano un’ottima presa nei frequenti passaggi dagli scaffali, dove solitamente erano collocati, al banco da lavoro. Destinato generalmente a contenere unguenti o prodotti di una certa densità e materie “secche”, il vaso si contraddistingueva per un’ampia apertura profilata da un bordo sporgente che rendeva agevole la chiusura con carta o pelle fermata da uno spago.
Col tempo la forma dei vasi si diversificò adottando altre morfologie sempre più appropriate alle sostanze farmaceutiche che dovevano contenere, conservare e dispensare. Fra le più antiche tipologie di vasi presenti possiamo citare dei contenitori a forma di ampolla, a corpo piriforme, con beccuccio versatore contrapposto ad un’ansa verticale, detti in Toscana “utelli” o ampolloni: destinati alla conservazione degli sciroppi e delle sostanze liquide in generale, avevano già fatto la loro comparsa in un rilievo di Andrea Pisano nel Campanile del Duomo di Firenze, dove veniva illustrato l’interno di una bottega di uno speziale con i relativi oggetti necessari allo svolgimento della professione. La complessa varietà di sostanze medicamentose e in particolar modo, dalla fine del Cinquecento, il crescente ricorso alle acque odorose e medicinali come terapia preventiva e curativa, portò all’adozione di un vaso a forma di orcio, definito appunto “orciolo”, di dimensioni più grandi rispetto agli utelli, con versatore cilindrico e dotato di doppie anse. Oltre alla ceramica fin dalle origini si fece ricorso anche al vetro: i “fiaschi”, bocce rivestite di paglia per garantirne una migliore stabilità, ricorrevano in gran numero nelle spezierie, utilizzati quasi esclusivamente per raccogliere il prodotto della distillazione. Vi figuravano poi albarelli e curiose ampolline in vetro. Quest’ultime in termine farmaceutico erano definite “nasse”; utilizzate per racchiudere preziosi elisir o altri principi tendenti ad evaporare con facilità, si caratterizzavano per possedere un’unica apertura costituita da un sottile beccuccio. Il termine e la funzione stessa del contenitore sembrano rimandare alle ceste usate per la pesca delle aragoste o ricordare un modo di dire toscano, dove, per “essere nelle nasse”, si intende il trovarsi in una situazione difficile, senza via di uscita. Gli albarelli in vetro, diversamente, contenevano spesso minerali, pietre preziose10, coralli, necessari per la confezione dei medicamenti. Dagli elenchi di acquisti presenti nell’Archivio dello Spedale Serristori si può dedurre quali fossero le medicine maggiormente impiegate, come pure gli ingredienti che entravano nella preparazione dei rimedi del tempo. Le principali cure erano rivolte a placare infiammazioni e dolori, a debellare febbri, epidemie quali peste, tifo, vaiolo, che periodicamente si abbattevano sulla popolazione, o a prevenire le stesse depurando e disintossicando l’organismo con salassi e purghe, terapia quest’ultima molto praticata, alla quale si ricorreva regolarmente due volte all’anno, in maggio e settembre: infatti in un inventario del 1676 figuravano in spezieria “30 canne da cristeri”. Dai Libri di Entrata e Uscita si possono inoltre ricavare informazioni sui continui rifornimenti di sostanze e di preparati di cui la spezieria doveva essere provvista per far fronte alle necessità dell’ospedale. Costante risultava essere l’acquisto di senna, olio di ricino, “cassia in foglie”, teriaca come pure “acqua da bachy” e altre materie quali cannella, anici, noce moscata, aloe, zucchero per la confezione di sciroppi, decotti, acque distillate, “acqua odorifera”, olio di mandorle; dalla fine del Seicento ricorrono poi ordini per provviste di “polvere della china china”, nuovo principio attivo, efficace contro le febbri, che la stessa spezieria Serristori “vendeva al minuto” ricavandone buoni profitti che poi erano reinvestiti nell’acquisto di altre sostanze. Una nota curiosa è data dalla quantità e varietà di zuccheri acquistati, da quello bianco, rosato o rosso, a quello in pane, “rottame”, o “moscanato”, ognuno utilizzato in base alla proprie caratteristiche e indicato negli antichi ricettari quale ingrediente fondamentale per pestare le spezie, per fare decotti e nella confezione di molti preparati, in particolar modo
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sciroppi e purghe, poiché non solo “aggiustava il sapore, ma preservava dalla corruzione”. Il rifornimento delle materie prime e di alcuni medicinali già preparati, come “l’olio contri a veleni” o “l’acqua di Tettuccio”, avveniva presso “botteghe” fiorentine, alle quali erano soliti rivolgersi anche altre officine farmaceutiche della Toscana. I nomi che maggiormente ricorrevano erano quelli della spezieria del “Pinadoro Nuovo” sull’angolo di via Calimala e di “Santa Caterina” al ponte alla Carraia, probabilmente le più famose e le più rifornite; nei documenti ne venivano comunque menzionate molte altre alle quali si ricorreva per specifici acquisti o per la qualità del prodotto, come nel caso della “cassia”, il cui fornitore era un mercante di Livorno o di Lione. Alla fine del XVII secolo dunque, come già precedentemente accennato, l’Ospedale era stato oggetto di una profonda ristrutturazione che nel 1701 era culminata nella separazione degli spazi destinati agli infermi da quelli destinati ai poveri, trasferiti in altro fabbricato; va sottolineato come tale trasformazione, che aveva portato a ridefinire il ruolo stesso della struttura ospedaliera in senso prevalentemente terapeutico, aveva investito in modo altrettanto radicale anche la stessa spezieria, che agli inizi del Settecento aveva subito un rinnovamento negli arredi e nelle attrezzature tale da giustificare l’assunzione di un’importanza fondamentale per l’ospedale. Fu in questo periodo che la gestione della spezieria fu affidata alle suore dell’ospedale: nel 1703 infatti Francesco Neri, speziale a Firenze, era rimasto per quattordici giorni ad “insegnare alla spetiala a far diversi medicamenti”. Suor Maria Teresa Fortunata, componente della famiglia Serristori, proseguì negli anni successivi la consuetudine di “esercitare l’impiego di speziala”, seppur sotto il controllo di uno speziale esterno che più volte all’anno interveniva nella farmacia per “riconoscere i medicamenti e per manipolare di nuovo, acciò le monache restino meglio istruite”. Nell’Ottocento, dopo un iniziale periodo di crisi, il nosocomio si riaffermò come punto di riferimento per il territorio circostante, seguendo una tendenza che ormai vedeva gli ospedali trasformarsi, a fronte di una crescente esigenza di medicalizzazione da parte della popolazione, in “veri pilastri” della sanità pubblica. In questo processo di specializzazione, la spezieria andò consolidando il proprio ruolo divenendo punto di riferimento non solo per il servizio interno, ma anche per la commercializzazione esterna dei medicamenti preparati nella farmacia. Fu nel 1832 che il Commendatore dello Spedale, Luigi Serristori, decise di dare piena autonomia alle religiose facendo abilitare alla professione una delle oblate ed eliminando così nel contempo i contrasti con gli speziali e le spese sostenute dall’ospedale per la “supervisione” degli stessi nei processi di manipolazione dei medicinali. “Si pensò a trovare una persona che per lungo esercizio e intelligenza di medicamenti, potesse sostenere l’esame di speziale e riportare la necessaria matricola. Il 25 maggio lo spedalingo Pietro Barlacchio condusse Suor Teresa dell’Imperatore (in compagnia di Suor Rosa Bernini) a Santa Maria Nuova a Firenze, dove giornalmente veniva istruita nella scuola del dr. Gioacchino Taddei, professore di Chimica Farmacologica. Fu sottoposta all’esame […]. Il 29 settembre riportò la matricola e a Santa Maria Nuova fece la provvista di alcuni oggetti mancanti a questa spezieria. La religiosa era rimasta a Santa Maria Nuova per quattro mesi in circa”. Indubbiamente era un elemento di prestigio l’aver frequentato la scuola di Santa Maria Nuova di Firenze, considerata a livello internazionale uno degli esempi più prestigiosi per la pratica ospedaliera di chirurgia e di spezieria. La scuola si avvaleva infatti dell’insegnamento
di un noto maestro, chimico e farmacologo di eccellenza, Gioacchino Taddei11, studioso aperto alle innovazioni e sostenitore di un metodo basato sulla sperimentazione e sull’indagine scientifica. Il tirocinio svolto in un tale ambiente, all’avanguardia nel metodo farmacologico, determinò sicuramente un cambiamento nella qualità delle preparazioni e nelle competenze professionali degli addetti alla farmacia. Da questo momento infatti si incrementerà l’assortimento delle sostanze medicamentose e una connotazione più scientifica caratterizzerà la spezieria: gli Inventari registrano infatti una classificazione in categorie12 dei medicinali che probabilmente doveva rispondere ad un’analoga loro disposizione all’interno della bottega, dettata anche da un criterio di ordine e funzionalità legato alla vendita dei medicinali all’esterno, che la spezieria attuerà in maniera stabile dal 1837. Nel 1890, con il trasferimento dello Spedale Serristori nella Villa di San Cerbone, anche la spezieria subì la stessa sorte. In un primo tempo venne sistemata negli ambienti del convento delle monache, analogamente alla precedente sistemazione nel vecchio ospedale, poiché erano sempre le suore ad occuparsi della spezieria. In seguito alla morte di Suor Nazarena Frilli, “speziala patentata”, non trovandosi nessuna altra suora che avesse i requisiti per tale servizio e constatando che non era “possibile ricorrere a farmacie o farmacisti del paese per fornire medicamenti al nostro spedale”, si decise nel 1896 di procedere alla nomina di un farmacista esterno, affidando la spezieria ad Umberto Dell’Imperatore, “patentato”, peraltro imparentato con la già citata Suor Teresa che per prima aveva inaugurato la serie delle speziali abilitate presso la rinomata scuola di Santa Maria Nuova. Si pose quindi il problema della permanenza della spezieria all’interno del convento; considerando che a causa della nomina del nuovo speziale “il locale servito fino ad ora per uso di farne farmacia e posto all’interno del convento abitato dalle oblate non sarebbe più adatto all’uopo e che il mantenere la farmacia aperta al pubblico può essere sempre di vantaggio per lo spedale”, si decise di trasferire la farmacia negli spazi allora occupati dal Refettorio delle suore, “corrispondente sul cortile”, rendendo quindi “libero e comodo” l’accesso alla spezieria. Quindi su proposta del conte Umberto Serristori, patrono dell’Ospedale, vennero approvati i lavori, affidati all’ingegner Maccantelli, per la ristrutturazione dei locali “ad uso di Farmacia, Medicheria e Refettorio delle Oblate”; il 15 marzo 1896 fu compiuto il trasferimento della farmacia e fu inaugurato il nuovo ambiente. La Spezieria nella Villa San Cerbone La “Sala rossa”, al piano terreno del nuovo Ospedale Serristori, è oggi il luogo che conserva memoria dell’attività dell’antica spezieria. L’ambiente, fortemente suggestivo per il color rosso scuro che ricopre le pareti e per il soffitto a cassettoni decorato in stile neogotico, dove campeggiano piccoli scudi dipinti con lo stemma dei Serristori, evoca, nel gusto ottocentesco dell’arredamento, una sala adibita alla vendita dei farmaci: uno spazio antico dove i ricordi di una famiglia, la grandezza di un’istituzione sono stati accuratamente preservati e tramandati. Il piccolo vano, come uno scrigno, accoglie al suo interno strumenti utilizzati per la lavorazione delle essenze e magnifici contenitori in vetro e in ceramica, un tempo in uso per trasportare e conservare le preparazioni mediche. Tutto appare in un ordine innaturale e immobile, sospeso: gli albarelli di vetro conservano ancora antichi residui di minerali e polveri dalle virtù misteri-
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ose e sulle cassettiere di legno scorrono nomi di erbe officinali rinomate per le loro proprietà terapeutiche. Nei Libri di Ricordanze del 1896, in occasione dell’ inaugurazione della nuova spezieria, così annotava Giovanni Doni, spedalingo: “Una delle stanze già occupata dalla vecchia farmacia, cioè quella accanto all’attuale refettorio delle oblate e che serve da sala di ricevimento è stata restaurata con molto gusto secondo le indicazioni del Conte e negli scaffali e nelle vetrine che c’erano sono stati accomodati e disposti in bell’ordine i vasi antichi più pregevoli scelti fra i molti posseduti dallo Spedale. In questa sala il signor Conte ha fatto collocare un ritratto dipinto ad olio di Ser Ristoro, la tavola da lui fatta restaurare e fatta mettere sotto vetro, eseguita come dice l’iscrizione che vi si legge nel 1399 e che stava all’altare dello Spedale primitivo e un ritratto con dedica autografa del principe di Napoli”. L’arredamento della stanza, dettato dal gusto del Conte Umberto Serristori, o più probabilmente della raffinatissima moglie Hortense della Gàndara, fu realizzato con armadi e cassettiere di un precedente allestimento del 1826, intervenendo sull’originario “color ulivo” dei mobili con una ridipintura nei colori attuali. Sugli scaffali e dentro gli armadi raffinate maioliche decorate si mostrano con la loro eleganza, i loro colori brillanti e le loro forme curiose: insoliti contenitori di antichi medicinali che affidavano le loro virtù terapeutiche alla bellezza di preziosi vasi di ceramica. La spezieria di Figline Valdarno custodisce al proprio interno un importante patrimonio vascolare. Tale dotazione, unica testimonianza superstite del passato corredo, è composta da contenitori di differente tipologia come albarelli, ampolloni e orcioli, attribuiti alle manifatture di Montelupo e di Siena. Il numero più consistente di vasi appartiene ai laboratori di Montelupo13 e gli esemplari più belli del “fornimento”, un tempo destinati a contenere “medicamenti reali”, sono stati prudentemente riposti, come in origine, in un armadio con sportelli a vetro. Tali manufatti, in base ai loro disegni, ai marchi apposti dai laboratori che li avevano fabbricati, o alla presenza della data stessa mimetizzata nell’esuberanza dei loro decori, possono essere datati ad un periodo compreso tra l’inizio e la metà del XVII secolo. La più antica e frequente decorazione utilizzata nella produzione di Montelupo a destinazione farmaceutica è quella cosiddetta a “palmetta evoluta”, stilizzazione dell’analogo motivo di derivazione orientale, dall’intenso colore blu cobalto. Seguono ampolloni con decoro a “foglia bleu”, dipinto a monocromo, costituito da una foglia di vite accostata ad un solo frutto, e a “foglia policroma”, evoluzione del precedente motivo, individuabile dall’uso di caldi colori gialli e arancio che ricoprono metà della superficie della foglia di vite; questi motivi vegetali rappresentavano il repertorio comunemente più diffuso, al quale si ricorreva con maggior frequenza per la produzione ordinaria delle varie spezierie. Alla manifattura di Montelupo sono pure da ascrivere una serie di maioliche che appartenevano in origine alla dotazione farmaceutica dei conventi fiorentini di San Marco e di Santa Maria Novella. Tale presenza si giustifica con il ricorso, avvenuto nella prima metà del Seicento, ad acquisti esterni presso quelle officine farmaceutiche conventuali che producevano medicamenti e che proprio in quel periodo andavano sviluppando la propria attività, come accadeva nei due conventi domenicani fiorentini. Detti acquisti risalivano probabilmente al 1610-1630, ovvero ad un periodo segnato da ricorrenti epidemie di peste a Firenze e nel contado; sembra quindi che l’arrivo di questi vasi debba attribuirsi ad una
situazione di emergenza, confermata dal fatto che i due laboratori conventuali si privarono di una parte del loro fornimento per inviarne il contenuto allo “Spedale Serristori”. La serie dei cinque utelli di Santa Maria Novella, fabbricati nel 1620, come ricaviamo dall’esemplare che reca una piccola targa dipinta con questa data, si distingue per un raffinato motivo “a raffaellesca” liberamente ispirato alla pittura murale fiorentina, diffusa a Firenze nell’ultimo quarto del Cinquecento e inizio Seicento, e rappresentata dalla scuola di Alessandro Allori e Bernardino Poccetti che impreziosirono con l’esuberanza e la freschezza di tali curiose figure i soffitti dei più prestigiosi palazzi fiorentini fra i quali si può ricordare lo stesso Corridoio di levante della Galleria degli Uffizi. Sulla superficie dei vasi a fondo bianco si dispiega un repertorio di figure fantastiche di grandi dimensioni, definite con l’uso di pochi colori quali il blu, il giallo e il verde. La committenza dell’Ordine domenicano è indicata da un piccolo stemma ovale con i colori nero e bianco, riferimento all’abito dei monaci (mantello nero e saio bianco), accompagnati da una stella, riferimento alla sapienza di San Tommaso, teologo dell’ordine. In una parte meno visibile del vaso, sotto l’ansa, la scritta “Ro” indica la marca della bottega produttrice. I due ampolloni di San Marco si distinguono invece per un’ ornamentazione che richiama i motivi dell’oreficeria. Protomi leonine in rilievo sottolineano l’attaccatura dell’ansa e del pippio versatore (beccuccio), mentre la superficie, divisa in fasce orizzontali, è dipinta, nella parte bassa, con un motivo a baccellatura stilizzata e con festoni verdi, al cui interno si inseriscono testine alate; sopra compaiono nastri intrecciati e motivi vegetali e floreali finemente stilizzati. La marca del “crescente crucifero”, posta sotto l’ansa, permette di datarli ad un periodo compreso tra il 1613 e il 1626. Una nuova tipologia ornamentale è rappresentata dal decoro a “girali foliati”, tipica della produzione farmaceutica di Montelupo dell’inizio del XVII secolo, che si impose per le eleganti e rigogliose volute di foglie di acanto bianche profilate di giallo, ottenute “a risparmio” dalla colorazione in azzurro, eseguita a pennello, del fondo smaltato. La bellezza pittorica, data dal segno rotondo ed elegante delle volute e dall’accostamento di colori decisi che contribuiscono a dare un effetto di profondità al decoro vegetale, è da attribuire alla sapiente lavorazione dei maestri ceramisti della bottega del “crescente lunare” e del “crescente crucifero”, di cui gli ampolloni portano le sigle, mimetizzate fra i fogliami. La produzione di Montelupo andò declinando nella resa tecnica e decorativa nella seconda metà del XVII secolo; testimonianza di questa involuzione stilistica sono una serie di albarelli e ampolloni, a fondo bianco, commissionati dallo stesso “Spedale” rispettivamente nel 1676 e nel 1685, che sembrerebbero costituire la sua prima dotazione vascolare, come indicato dallo stemma della famiglia Serristori nelle due versioni con lambello e senza, sormontato dalla figura di un cherubino. L’esuberante cromatismo della precedente produzione è stato quindi sostituito da una maggiore sobrietà, evidenziata nell’affermarsi delle superfici smaltate di bianco su cui risalta l’insegna nobiliare dei Serristori, unico elemento decorativo. Lo scadimento cromatico dei pigmenti è evidente soprattutto nel tono del marrone e nei bianchi che hanno perso la loro luminosità virando verso una tonalità beige. Nei primi anni del Settecento, proprio a causa della decadenza delle botteghe di Montelupo, lo Spedale si rivolse per una nuova commissione14 alla manifattura di Siena. I documenti
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riportano la notizia che nel 1703 Giovanni Battista Ciabattini di Siena fabbricò “vasi di più sorte”, mentre nel 1704 si fa chiaro riferimento ad una dotazione di “n°106 vasi per la spezieria di più sorte”, ma tali indicazioni non permettono di identificarne né il luogo o la bottega di provenienza, né la decorazione. A questa produzione si attribuisce la serie di vasi a due manici, ampolloni e albarelli, caratterizzati dallo stemma Serristori dipinto su fondo bianco, secondo l’esuberante gusto barocco con nastri svolazzanti e cordoni intrecciati terminanti in nappe. Alla manifattura dell’Impruneta si devono invece i due grandi orci in maiolica con “effetti di marmorizzazione” in giallo e verde, datati nel sottocoperchio 1782. Per quanto riguarda la dotazione dei vetri, le notizie sono molto sommarie; l’unico dato certo riguarda i fiaschi (XVI-XVII secolo) che i documenti riferiscono alle vetrerie di Montaione, presso le quali ci si riforniva comunque anche per altri oggetti destinati “all’appartamento da signori”. Dalla metà del Settecento subentrò nella fornitura la vetreria figlinese, specializzata proprio nella produzione di tali contenitori. Comunque dal 1688 e poi fino alla metà del Settecento, i Libri di spese riferiscono di acquisti di “ albarelli di vetro, ampolle e più sorte vasi per la spezieria”; nel 1711 ad esempio “vasetti di vetro” risultano comprati a Firenze nella bottega del Castagnoli”. Gli albarelli in vetro raccolti nella Spezieria, graziosamente “acconciati” nella loro semplicità con riccioli di carta pergamena e nastri colorati, opera delle mani virtuose delle monache dell’ospedale, si possono riferire ad una fabbricazione locale, considerando il fatto che la produzione vetraria a Figline ha antiche origini: sono gli stessi Serristori che detengono la proprietà di una “fornace da bicchieri” fin dal 1484. Gli oggetti databili probabilmente alla fine del XVII- inizio del XVIII secolo, come sembrano indicare i documenti e confermare la forma a “rocchetto”15, raccolgono ancora resti di antiche preparazioni suggerite da nomi talvolta bizzarri tracciati sui polizzini scritti a mano “in stampadello” nel 1826 da Giuseppe Dell’Imperatore. Destano sicuramente curiosità le ampolle, cosiddette “nasse”, destinate a contenere elisir o altri medicamenti tendenti a evaporare con facilità e per tal motivo concepite con un coperchio chiuso e un fine beccuccio. Tipologia molto diffusa nelle farmacie toscane, appare qui decorata da smerlati bordi blu o da fili di lattimo bianchi applicati. Quest’ultima decorazione rimanda allo stile veneziano, il cosiddetto “façon de Venise”, che trovò ampia diffusione in tutta Europa dalla metà del XVI fino alla fine del XVII secolo proprio per l’originalità e la raffinatezza dei motivi decorativi e delle tecniche. Il grande favore riscosso portò alla nascita di manifatture vetrarie “alla veneta” presso le quali si rivolgeva anche la committenza degli ospedali. I recipienti della spezieria, databili probabilmente fra la fine del XVII e l’ inizio del XVIII secolo, possono essere comunque attribuiti ad una lavorazione fiorentina o addirittura locale, poiché le tecniche di lavorazione e il repertorio ornamentale delle vetrerie veneziane si erano diffusi a Firenze sin dalla metà del Cinquecento grazie all’intraprendenza di Cosimo I de’ Medici, che fece impiantare ad artigiani di Murano botteghe per la lavorazione del vetro e del cristallo. A ricordare che alla base della maggior parte dei processi di lavorazione della spezieria vi era la faticosa attività di pestatura con il mortaio, in genere affidata a giovani garzoni di bottega detti ciurmatori, sono presenti nella “Sala rossa” un mortaio di bronzo, fatto rifondere nel 1691 dal “Cenni fonditore di Sua Altezza Serenissima16 in Fortezza da Basso”, e uno di porfido comprato a Firenze nel 1743.
Nella “Sala rossa” ha trovato inoltre accoglienza un’opera che rappresenta la più antica testimonianza artistica ricollegabile alla fondazione e alla vita dello “Spedale di Santa Maria all’Annunziata”, la Madonna in trono col Bambino, identificabile con la parte centrale di un trittico che le fonti cinquecentesche degli inventari dell’Ospedale riferiscono collocato sopra l’altare della cappella. Il trittico, purtroppo smembrato, presentava nelle parti laterali le belle figure dei santi Giacomo, Giovanni Battista, Andrea e Antonio17. L’opera, databile ai primi anni del Quattrocento, è attribuita a Giovanni di Tano Fei18, artista fiorentino formatosi nella cerchia di Agnolo Gaddi, ma per la sensibilità e la raffinatezza cromatica e per la vivacità delle sue composizioni, “aggiornato” ai nuovi sviluppi della cultura tardogotica rappresentata in città dalla pittura dello Starnina e di Lorenzo Monaco. Alle vicende storiche dello “Spedale” di ser Ristoro19 rimandano i molti ritratti dei personaggi della famiglia Serristori disposti intorno alla stanza, sopra le scaffalature. Come in un album fotografico scorrono sotto i nostri occhi le immagini ufficiali di ser Ristoro, il capostipite, di Antonio Serristori, primo commendatore dello Spedale, di Alfredo Serristori, personalità poliedrica e luogotenente degli Ussari, di Umberto Serristori, vestito in alta uniforme, promotore del trasferimento dell’ospedale e infine di Sofia Serristori Bossi Pucci, donna di raffinata bellezza e di rara generosità, ultima discendente della nobile casata.
Un fantasma…in villa! Varcato il grande portone della Villa di San Cerbone, fra le molte lapidi poste sulle pareti, frammenti di un tempo passato, una in particolar modo colpisce la nostra attenzione: “Esempio singolare del costume del suo tempo Veronica Cibo inviata al marito infedele Iacopo Salviati la testa recisa della sua rivale Caterina Canacci in questa sua villa riparava a godere la gioia amara della compiuta vendetta gennaio MDCXXXIV”… poche efficaci parole per lasciare memoria di un fatto drammatico che ebbe come scenario Firenze e la Villa di San Cerbone. La storia ci riporta indietro nel tempo, nel Seicento, in un periodo in cui non era l’amore a sancire l’unione fra due persone, ma gli affari, le alleanze politiche, la bramosia del potere. Le donne purtroppo, in una società fortemente maschilista, subivano con totale remissione e sottomissione le scelte volute dai padri per le loro vite, soffocando spesso nel silenzio dei loro cuori passioni e desideri. Ma quali i fatti… e chi erano le due donne, Veronica e Caterina, che si contesero l’amore per lo stesso uomo, Jacopo Salviati? Veronica Cybo20, figlia dei principi di Massa, aveva sposato giovanissima, nel 1628, Jacopo Salviati21, affascinante e promettente giovane, duca di San Giuliano, erede di una delle più importanti e influenti famiglie della società del tempo. Caterina Brogi, figlia di un tintore casentinese, seppur giovane e bella, era invece andata in moglie a Giustino Canacci, uomo rude e vecchio, ma ricco. Veronica e Jacopo, dopo il matrimonio, si erano stabiliti a Firenze, ma l’amore non fu la nota dominante di questa relazione: lui, bello e vanitoso, trascurò fin dall’inizio la moglie, descritta del resto come una donna non particolarmente bella e dotata di un carattere forte e
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altezzoso. Se Veronica subì il fascino e la bellezza del suo sposo, altrettanto non fu per Jacopo che, ritenendo la sposa a lui destinata poco avvenente, rivolse dunque le sue attenzioni amorose altrove. La storia di Veronica dovette suscitare molto scalpore nella Firenze granducale governata dal mite Ferdinando II dei Medici (1621-1670), considerata anche la fama della famiglia Salviati e il rapporto di vicinanza con la casa regnante; certo è che a impressionare l’immaginario collettivo dovette essere soprattutto la particolare ferocia e la brutalità con la quale si svolsero i fatti. Testimonianze dei crudeli eventi si rintracciano addirittura nella “Istoria del Granducato di Toscana” di Riguccio Galluzzi22, che, citando i documenti del Seicento, descrive a tinte fosche e suggestive questa vera e propria “liaison dangereuse”. “Jacopo Salviati aveva per moglie Veronica Cybo donna trasportata dalla gelosia e dall’ambizione all’impero domestico. Siccome le sue qualità non erano sufficienti ad occupare lo spirito e le passioni del duca, procurava egli qualche sollievo che lo distraesse dalle inquietudini di una moglie molesta. Caterina Canacci, seconda moglie di un vecchio e sventurato cittadino, giovane, bella e dotata di tutte le qualità capaci di preoccupare uno spirito anco il più delicato, aveva interessato il cuore del duca che ardeva di amore per lei. A misura che nel Salviati si fortificava l’amore e si accresceva nella duchessa il furore e il desiderio della vendetta. La Canacci aveva un figliastro che l’ira della duchessa seppe ben presto corrompere per farne l’istrumento del suo furore; costui alla testa dei sicari espressamente fatti venire da Massa, assalì la matrigna il di cui teschio, staccato dal busto, fece il trionfo e la consolazione della infuriata duchessa. Questa femmina inviperita, non contenta di felicitarsi in così orrendo spettacolo, volle anco insultare il marito con farli presentare quel teschio avvolto e disposto in forma di donativo. Il duca a cui era ignoto il successo ne restò inorridito e il Governo perseguitando gli assassini e dissimulando con la duchessa, fece fremere il popolo di orrore e rabbia.” Veronica, ripudiata dalla propria famiglia, fuggì da Firenze e raggiunse la Villa di San Cerbone, dove pensò di trovare un sicuro rifugio all’interno delle forti mura dell’antica dimora. Ma durante la lunga notte insonne il buio e il silenzio furono improvvisamente interrotti dall’apparizione della rivale, la bella Caterina, che, “incorporea presenza, avvolta in una veste bianca”, promise a Veronica che ogni notte le sarebbe apparsa per ricordarle l’atrocità del delitto da lei commesso. Veronica23 sopravvisse a questi eventi e, trasferitasi a Roma, trascorse il resto della sua vita in preghiera e penitenza, forse nel vano tentativo di espiare la sua terribile colpa. Morì nel 1691 e da allora sembra che il suo animo inquieto abbia trovato ancora una volta dimora nel luogo che l’accolse dopo l’efferato delitto, la Villa di San Cerbone. Qui il fantasma di Veronica si aggira ancora oggi per le stanze dell’antica villa e la sua presenza è talvolta rivelata da un rumore insolito, da uno sbattere di porte, da una folata di vento, da un profumo… oppure la sua figura “si materializza” altera con i capelli sciolti e la lunga veste bianca.
Bibliografia G. Magherini Graziani, Memorie dello Spedale Serristori in Figline, Città di Castello, 1892 Una farmacia preindustriale in Valdelsa. La Spezieria e lo Spedale di Santa Fina nella città di San Gimignano. Secc. XIV-XVII, San Gimignano, 1981 Lo Spedale Serristori di Figline. Documenti e arredi, a cura di Alessandro conti, Giovanni Conti, Paolo Pirillo, Fiesole, 1982 L’archivio storico dell’Ospedale Serristori e gli altri archivi aggregati, a cura di Ivo Regoli, Firenze, 1989 V. Pinchera, L’archivio Salviati. La storia degli affari attraverso un archivio familiare, in “Società e storia”, 50, 1990, pp.979-986 V. Pinchera, I Salviati: un patrimonio tra Toscana e Stato pontificio nel XVIII secolo, in “Società e storia”, 54, 1991, pp.849-868 P. Pirillo, Famiglia e mobilità sociale nella Toscana medievale. I Franzesi Della Foresta da Figline Valdarno (secoli XII-XV), Firenze, 1992 E. Karwacha Codini, M. Sbrilli, Piante e disegni dell’archivio Salviati, Pisa, 1993 L’Ospedale Serristori di Figline a San Cerbone. Centenario del trasferimento dello Spedale Serristori nella Villa di San Cerbone, a cura di Adelmo Brogi e Augusto Pancrazi, Figline Valdarno, 1992 A. Laghi, Vetri da farmacia, Arezzo, 1994 F. Berti, Storia della ceramica di Montelupo: uomini e fornaci in un centro di produzione dal XIV al XVIII secolo. Le ceramiche da farmacia, pavimenti maiolicati e produzioni minori, Montelupo Fiorentino, 1999 Da ospizio a nosocomio. Storia della solidarietà valdarnese, a cura di Esther Diana, Firenze, 2000 A. Merli, Entro le mura e a San Cerbone. Un secolo di cure a Figline 1860-1972, Figline Valdarno, 2000 Colorire naturale e vero. Figline, il Cigoli e i suoi amici, a cura di Novella Barbolani di Montauto e Miles Chappell, Firenze, 2008 Arte a Figline. Dal Maestro della Maddalena a Masaccio, a cura di Angelo Tartuferi, Firenze, 2010 Note Il 1523 fu un anno segnato da epidemie di peste. Il ceneracciolo era un telo che copriva i panni sporchi posti nella conca del bucato, sopra il quale si versava la cenerata. 3 La famiglia Salviati si era affermata a Firenze tra il XIV e il XV secolo, raggiungendo una posizione di notevole prestigio nell’ambito del governo e della società fiorentina anche in relazione agli stretti rapporti con la casa Medici. 4 Lo stemma dei Salviati mostra in campo argento tre bande rosse merlate su entrambi i lati. 5 Curiosamente il capitello in angolo, vicino allo scalone che conduce al piano superiore, reca tuttora scolpito sul retro uno stemma con un leopardo incatenato, emblema dei Franzesi della Foresta. 6 Nella Spezieria è presente il ritratto di Raffaello Lambruschini realizzato negli anni 1874-78 ca. da Egisto Sarri, pittore figlinese, a lui legato da un legame di profonda gratitudine e amicizia. Cfr. Egisto Sarri 1837-1901 a cura di Moreno Bucci, cat. mostra, Firenze, 2000. 7 I costi per la costruzione dei nuovi padiglioni e per il “riadattamento” della villa ammontarono a 111.000 lire. 8 Gaetano Trentanove, allievo di Duprè e di Rivalta, si dedicò fin dall’inizio della sua carriera alla scultura e in particolar modo al ritratto storico e religioso. L’artista fu molto apprezzato negli Stati Uniti. Per maggiori notizie sull’artista si rimanda al catalogo della mostra “Omaggio a Gaetano Trentanove 1858-1937. Uno scultore tra Toscana e Stati Uniti” Firenze, 2005. 9 Nella nomenclatura e nella foggia stessa del manufatto potevano alludere e riprodurre in piccolo quella di un tronco d’albero. 10 Le pietre trovano vasta applicazione nella medicina del tempo, poiché si attribuivano loro virtù e proprietà apotropaiche. 11 Gioacchino Taddei (1792-1860), chimico di fama universale, aveva scritto nel 1826 un testo intitolato “Farmacopea 1 2
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generale sulle basi della chimica farmacologica”. Nell’ introduzione Taddei precisava che”con questo libro gli alunni potevano attingere i precetti dell’arte farmaceutica, i farmacisti passare in rivista i metodi preparazione già conosciuti, modificarli e ampliarli”. 12 Radiche e vegetali, semi scorze e vari generi, sali, generi di diverse preparazioni, sostanze purgative, estratti, tinture, essenze, giulebbi composti, acque spiritose, acque itillate, oli, unguenti, cerotti, zuccheri. 13 Per la produzione delle maioliche di Montelupo si rimanda agli esaustivi testi di Fausto Berti, La farmacia storica fiorentina, Firenze, 2010 14 I documenti registrano nel 1693 l’ingresso di “diversi vasi da spezieria, come ampolloni, boccette da sciroppo, da unguenti, da conserve et altri, compri in Firenze. 15 Albarello “a cilindro”: forma cilindrica con rigonfiamenti più o meno espansi alle estremità. 16 Il riferimento è a Cosimo III de’Medici, granduca di Toscana dal 1670 al 1723. 17 Il trittico è stato ricomposto in occasione della mostra “Arte a Figline. Dal Maestro della Maddalena a Masaccio, svoltasi nel Palazzo Pretorio di Figline Valdarno dall’ottobre 2010 al gennaio 2011. 18 Per maggiori notizie sull’opera e sull’artista si rimanda al catalogo della mostra “Arte a Figline. Dal Maestro della Maddalena a Masaccio”, a cura di Angelo Tartuferi, Firenze 2011. 19 Nella spezieria è anche presente copia del testamento di ser Ristoro. 20 Veronica Cibo (1611-1691), era figlia del duca Carlo I Cybo-Malaspina e di Brigida di Giannetto Spinola. 21 Jacopo Salviati (1609-1672) aveva ereditato il titolo di duca di San Giuliano e le ricchezze da un suo avo, il cardinale Antonio Maria Salviati; apparteneva al ramo romano dei Salviati. 22 Riguccio Galluzzi (1739-1801), storico e archivista, pubblicò nel 1781 l’ “Istoria del Granducato di Toscana sotto il governo della Casa Medici”, opera commissionata dal graduca Pietro Leopoldo di Lorena. 23 La storia di Veronica Cybo ispirò nell’Ottocento opere a carattere letterario come “Le Jasmin de Figline”, scritta da Edouard Laboulaye (1876) e “Veronica Cybo”, racconto di Francesco Domenico Guerrazzi (1869).
L’antica Spezieria dello Spedale Serristori Raccolta semplici e composti Paolo Luzzi Museo di Storia Naturale dell’Università di Firenze, sez. Orto Botanico
Introduzione L’esigenza primaria di mantenersi in buona salute o la necessità di far fronte ad una malattia o curare una brutta ferita ha dato origine ad una “cultura delle erbe” universale, patrimonio costante, con gradi diversi di specializzazione e complessità, di civiltà grandi (Egizi, Greci, Arabi), ma anche minori legate a quelle tradizioni popolari che ogni paesino, ogni borgata di campagna o montagna, custodiva gelosamente per lo più nella saggezza degli anziani. Le più antiche testimonianze dell’uso terapeutico delle erbe si possono ritrovare in tavole cuneiformi sumeriche di 4000 anni fa che elencano una serie di preparazioni vegetali per diverse malattie. Una sorta di igiene personale è indicata in testi classici cinesi, compilati per il leggendario imperatore Shen Nong (che regnò nel 2800 a.C. circa) e che contengono anche moltissime indicazioni per svariate affezioni. Oltre 800 ricette con le indicazioni precise delle piante terapeutiche furono scoperte nel papiro egiziano di Ebers risalente a 1500 anni prima di Cristo, frutto di una civiltà straordinaria che aveva inventato le “specializzazioni” nella medicina, dove cioè per ogni malattia c’era un medico-sacerdote particolare (gli egiziani credevano che gli dei stessi, con a capo il dio Anubi, trasmettessero la conoscenza delle piante curative ai sacerdoti) che conosceva erbe e preparazioni specifiche. Le droghe più famose erano tenute in grandissima stima e non sorprende che due doni dei re Magi fossero proprio l’incenso e la mirra. Nell’Odissea spesso si menzionano erbe dotate di virtù particolari: la magica pozione data da Ermes a Ulisse per proteggersi da Circe era a base di mandragora, molto apprezzata nell’antichità come panacea per tutti i mali. Dall’opera di Ippocrate (nato a Coo in Grecia nel 460 a.C., instancabile viaggiatore, scienziato e medico, maestro di numerosi discepoli) prendono per così dire “ufficialmente” il via gli studi sulle piante medicinali. Teofrasto di Efeso, allievo e successore di Aristotele, continuò nel IV secolo a.C. l’opera del maestro e iniziò a parlare di sistematica vegetale. Più di tre secoli dovranno però passare perché veda la luce il De materia medica scritto nel 68 a.C. da Dioscoride Padanio, fisico greco al servizio di Nerone, che descrive 600 medicine derivate dalle erbe: per i successivi 1500 anni il suo testo fu discusso e tramandato e, anche se talvolta con errori, fu comunque la principale base della medicina del Rinascimento.
Teoria degli umori La “Teoria umorale” concepita da Ippocrate di Coo (460-337 a.C.), rappresenta il più antico tentativo, nel mondo occidentale, di ipotizzare una spiegazione eziologica dell’insorgenza delle malattie, superando una più antica concezione superstiziosa, magica e religiosa. Nel VI secolo a.C., Anassimene di Mileto aveva già introdotto nel pensiero greco la teoria dei quattro
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elementi fondamentali (aria, acqua, terra, fuoco) che costituiscono la realtà. Un secolo più tardi Empedocle diede corpo a questa teoria, sostenendo che il mondo fisico che ci circonda, caratterizzato dalla mutevolezza, è composto da elementi immutabili, da lui denominati radici. Ogni radice possiede una coppia di attributi: il fuoco che rappresenta l’estate è caldo e secco e dilata, l’acqua rappresenta l’inverno, gonfia ed è fredda e umida, la terra rappresenta l’autunno, è fredda e secca e restringe, l’aria rappresenta la Primavera, è calda e umida e circola. Ippocrate sfruttò le teorie precedenti e applicò le quattro radici a quattro umori corporali: l’acqua corrisponde alla flemma che ha sede nella testa, la terra alla bile nera che ha sede nella milza, il fuoco alla bile gialla (collera) che ha sede nel fegato, l’aria al sangue la cui sede è ovviamente nel cuore. Il buon funzionamento dell’organismo dipende dal perfetto equilibrio di questi umori, mentre il prevalere di uno sull’altro determina la malattia. Oltre ad essere una teoria dell’eziologia della malattia, la teoria umorale è anche una teoria della personalità: la predisposizione all’eccesso di uno dei quattro umori definisce un carattere, un temperamento e una costituzione fisica detta complessione. L’eccesso di flemma porta al flemmatico, grasso, lento, pigro e sciocco; l’eccesso di bile nera porta al melancolico, magro, debole, pallido, avaro e triste; l’eccesso di bile gialla porta al collerico, magro, irascibile, furbo, generoso e superbo; l’eccesso di sangue porta al sanguigno, rubicondo, gioviale, allegro e goloso. Galeno (129-216 d.C.), definì l’infinita possibilità che gli elementi hanno di combinarsi fra loro come la causa degli infiniti caratteri riscontrabili nella natura umana. Gli umori, inoltre, sono soggetti a prevalere o a diminuire a seconda dei momenti della giornata, delle stagioni o delle età della vita. Il sangue, ad esempio, prevale in primavera, la collera in estate, la flemma in autunno e la bile nera in inverno; nella puerizia prevale la flemma, il sangue nella giovinezza, la collera nell’età matura e la malinconia nella vecchiaia. Il principio fondamentale della vita era lo pneuma (aria, alito, spirito), corrispondente al sangue. Comunque per meglio quantificare gli effetti delle sostanze prescritte come farmaci o, più semplicemente introdotte come alimenti, si arrivò a graduare le qualità fondamentali in quattro gradi diversi per cui due sostanze a parità di complessione potevano essere sbilanciate più o meno verso una qualità che verso l’altra. Ad esempio due alimenti entrambi caldo-umidi potevano avere una prevalenza calda (caldo al terzo grado e umido al primo) o una prevelenza umida (caldo al secondo grado e umido al quarto). Ancora nel seicento, in Inghilterra, la teoria umorale era ancora seguita. Molti pazienti con sintomi riconducibili a quelli di Ippocrate venivano curati cercando di far bilanciare la presenza dei quattro umori nel corpo. A questo scopo era stata anche inventata una sedia rotante ad alta velocità in cui il paziente, dopo alcune sedute, si trovasse con gli umori di nuovo mescolati e quindi bilanciati. Le teorie di Ippocrate rimarranno seguite fino al Rinascimento, ma la sua eredità ha delle testimonianze ancora oggi. Il cuore è ancora indicato come la sede dei sentimenti ed in particolare dell’amore che è alito di vita; malinconia è un sentimento di tristezza ma anche di depressione; collera e flemma descrivono ancora oggi irascibilità e pigrizia; il collerico si rode
il fegato oppure è giallo dalla rabbia. Influenze precise di queste teorie sopravvivono ancora oggi nella medicina naturopatica. La cultura islamica influenzerà profondamente la fitoterapia europea fin dal XII secolo in poi, con l’introduzione di nuove droghe dal medio Oriente e darà un impulso importantissimo allo studio ed alla ricerca tanto che, da questo periodo, inizieranno a nascere scuole di medicina e chirurgia a Venezia e Napoli. A Salerno sorge la prima, importantissima Scuola medica salernitana detta “Madre di tutte le Università”, fondata nel 1231 su decreto di Federico II. A Firenze, fin dal XIII secolo, funziona, nell’Ospedale di Santa Maria Nuova (con orto dei semplici annesso), una scuola di medicina, chirurgia e spezieria che arriverà ad essere la prima in Europa e punto di riferimento per gli studiosi fino al 1700. Sempre nel XIII secolo i Padri Domenicani fondano a Firenze l’Officina Profumo-Farmaceutica di Santa Maria Novella, una delle più antiche farmacie del mondo; tuttora operante, mantiene la sua tradizione plurisecolare di preparazioni medicinali e cosmetiche tutte rigorosamente a base di erbe e prodotti naturali. Nel XVI secolo sono fondati i primi Giardini dei Semplici (nel 1543 a Pisa, nel 1545 a Padova e a Firenze). Sono compilati nuovi ricettari con prescrizioni inedite per varie malattie. La “protomedicina” comincia a distaccarsi se non ancora dalla botanica, almeno dalla filosofia (con Taddeo Alderotti) e dalla magia (Dino del Garbo); infine il genio di Leonardo da Vinci (1452-1519) intuisce la presenza di “sostanze attive” nelle varie parti delle piante. Nel XVI secolo compaiono anche erbari straordinari come quello di Brunfels (1532) con immagini prese dal vero che aiutarono molto la conoscenza e la ricerca di farmacisti ed erbolai (come W. Turner e J. Gerard in Inghilterra) e spinsero il toscano Pier Antonio Micheli a viaggiare oltre i confini nazionali per scoprire e determinare, in tutta Europa, piante medicinali e non, utilizzabili per arricchire le collezioni degli Orti Botanici e delle spezierie affiancate ai sempre più numerosi ospedali. Sempre verso la metà del XVI secolo furono intrapresi i primi veri studi volti a cercare i “principi attivi” responsabili delle virtù terapeutiche di molte piante e fu in particolare Francesco Buonafede, professore di medicina a Padova, il primo a intraprendere tali studi e a dare definizione scientifica di “principio attivo”. Alla fine del XVII secolo si afferma la teoria delle “segnature” secondo la quale si attribuivano virtù medicinali specifiche alle piante che avevano, in qualche loro parte, una somiglianza con un particolare organo umano: per esempio il gheriglio della noce era indicato per la cura di malattie cerebrali, le foglie di Hepatica nobilis, dal color rosso vinaccia della pagina inferiore delle foglie, serviva per la cura del fegato. Nel XVII secolo nascono organizzazioni professionali di chirurghi, fisici e farmacisti e la ricerca botanica comincia a divenire autonoma dalla ricerca medica. Nascono anche le prime Società Botaniche (tra le quali la Royal Society nel 1660, la Società Botanica Fiorentina nel 1716) e gli Orti Botanici di Oxford (1621), Edimburgo (1670) e Kew (1759) in Inghilterra.
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Elenco dei semplici e dei composti della Spezieria Serristori 30
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Digitale
Angelica
Guaiaco
Issopo
Mezzereo
Salsaparigi
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Altea (radiche di)
Anaci puri
Angelica odorata
Arance (scorze)
Taxon attuale: Althaea officinalis L. Nome volgare toscano: Bismalva, Buonvischio, Buon Visco, Rosa di Spagna, Ibisco, Hibisco, Malvavischio, Benefischi, Malvaccioni, Malvarina, Erba che fa pisciare i bovi Nome volgare antico: Evisco
Taxon attuale: Anethum graveolens L. Nome volgare toscano: Aneto, Neto, Finocchio fetido, Finocchio puzzolente, Finocchio bastardo Nome volgare antico: Anaci
Taxon attuale: Angelica archangelica L. Nome volgare toscano: Arcangelica, Angelica domestica, Angelica di Boemia, Erba degli Angeli Nome volgare antico: Herba angelia, Angelica odorata
Taxon attuale: Citrus aurantium L. Nome volgare toscano: Arancio, Melarancio, Pomarancio, Melangolo, Citrangolo Nome volgare antico: Pomarancio
Ambiente in Toscana: luoghi paludosi e sponde dei fossi fino a 1200 mt. Simbologia: l’Altea è il simbolo dell’amore sincero. Composizione: minerali e mucillagine. Usi erboristici antichi: l’altea è calda umida al secondo grado; antigottosa, antinfiammatoria, antidolorifica, bechica, tussifuga. Usi erboristici moderni: emolliente. Preparazioni antiche: decotto, radice cotta e mescolata al grasso, elettuario. Preparazioni moderne: gargarismi, lozioni, linimenti. Una preparazione antica: contro i gonfiori cuocere e battere la radice con del grasso, aggiungere farina di fieno greco, farina di lino e applicare sulla parte malata. Contro la tosse secca questo elettuario: pulire e cuocere una libbra di radici di altea, tagliarla in piccoli pezzi, aggiungere miele bianco (acacia) e cuocere mescolando continuamente; per verificare la cottura, disporre una goccia sul marmo e farla raffreddare: se il dito non si incolla è cotto. Aggiungere due once di polvere di zenzero, mescolare e dare al paziente la sera e la mattina. Note Un altro elettuario si usava contro la sifilide: radice di altea, consolida maggiore, enula campana, foglie di betonica, edera terrestre, issopo, salvia, veronica, zafferano in polvere e sciroppo semplice.
Ambiente in Toscana: coltivata. Composizione: olio essenziale. Usi erboristici antichi: per i mali di stomaco, contro i raffreddamenti e le flatulenze. Usi erboristici moderni: stomachico, carminativo, diuretico. Preparazioni antiche: polvere o infusione nel thè o nel caffè. Preparazioni moderne: frutti, polvere, infusi. Una preparazione antica: contro le emorroidi mescolare con del miele la polvere di semi di ortica e di aneto e ungere le pati malate. Se le emorroidi sanguinano solo la polvere, se sono gonfie anche il miele. Note Spesso usata e confusa sia col finocchio che col prezzemolo con cui divideva le sue proprietà abortive.
Ambiente in Toscana: coltivata. Simbologia: pianta di origine divine, rivelata nel sogno di un monaco da un angelo, come cura per la peste. Composizione: glucidi, olio essenziale, furocumarine. Usi erboristici antichi: nel Rinascimento raccomandata come la “radice dello Spirito Santo” come capace di guarire tutti i mali. Si masticava la radice, decotto, impiastro. Usi erboristici moderni: stimolante aromatico, stomachico, carminativo. Preparazioni antiche: di Angelica sylvestris, più usata perchè più comune, se ne usava una dramma per libbra di acqua bollente, in infusione, erba o radici. Dell’arcangelica si preferiscono le radici, stomachica, soprattutto in rosoli. Preparazioni moderne: foglie fresche, vino, tintura. Una preparazione antica: alcool con melissa composto: due libbre di melissa fresca, quattro once di scorze di limone, due once di noci moscate, otto once di coriandoli, noce moscata, mezza oncia di garofani, una oncia di Angelica, dieci libbre di alcool. Mescolare e tenere in infusione per dieci giorni, poi distillare a bagno maria fino ad ottenere dieci libbre di fluido. Distillare poi di nuovo. Note Oggi usata per decorare dolci e i grani che danno sapore al liquore Chartreuse dei Benedettini. Sembra avesse anche virtu’ magiche. Un’altra pianta, in Sicilia veniva usata come Angelica odorata: Heracleum sphondilium.
Ambiente in Toscana: coltivato. Simbologia: l’arancio è divenuto nei secoli un simbolo di castità e purezza, il fiore bianco e profumatissimo (la famosa “zagara” siciliana) è dedicato alla Vergine Maria. Armando de Bellovisu vissuto tra il 1296 e il 1323 nel suo trattato «Declaratio difficilium terminorum tam Theologiae quam Philosophiae ac Logicae». (1. ed., 1491) indica una sua teoria per cui l’arancio è uno degli alberi più belli perché vi si possono rintracciare foglie, fiori e frutti nello stesso periodo. Per la stessa ragione è un albero mariano perché nella Madre di Cristo si possono rintracciare insieme il fiore della verginità e il frutto della castità. Per le sue doti di bellezza e profumo fa parte della schiera degli alberi che crescono nel Paradiso terrestre e rappresentano alberi del Bene e del Male e quindi alberi della caduta dell’Uomo ma anche alberi della Redenzione. Composizione: aldeidi, acidi organici. Usi erboristici antichi: antispasmodico, contro le stenie. Usi erboristici moderni: dietetico, vitaminico. Preparazioni antiche: acqua di fiori d’arancio. Preparazioni moderne: frutto fresco, spremute, essenza. Una preparazione antica: prendere tre libbre di fiori d’arancio, 15 libbre di acqua leggermente salata, metti tutto in alambicco e distillane 8 libbre. Note Il famosissimo arancio, vanto del nostro Mezzogiorno, è in realtà, come gli altri agrumi, originario dell’oriente ma già coltivato in epoca romana. È un antico ibrido, probabilmente tra il pommelo ed il mandarino, ma da secoli cresce come specie autonoma e si propaga per innesto e talea. Non era molto considerato nell’antichità come pianta medicinale. La sua patria è la Cina e sembra che sia stato importata in Europa appena nel secolo XIV dai marinai portoghesi. Ma alcuni testi antico-romani ne parlano già nel primo secolo; veniva coltivata in Sicilia e la chiamavano melarancia, il che potrebbe significare che il frutto avesse raggiunto l’Europa via terra. Potrebbero essere corrette entrambe le
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Camomilla
Capel Venere
Centaurea maggiore
Taxon attuale: Matricaria chamomilla L. Nome volgare toscano: Camamilla, Camomilla, Camomilla, Capumilla, Caprimilla, Antemide, Amarella, Amareggiala, Erba Maria Nome volgare antico: Camomilla
Taxon attuale: Adiantum capillus-veneris L. o forse Asplenium adiantum nigrum L. Nome volgare toscano: Adianto, Adianto nero, Capelvenere di Montpellier, Capelvenere, Capovenere, Caponvenere, Capelvenere doppio, Driopteri, Felce piccola, Felce dè muri, Felce femmina Nome volgare antico: Capel Venere, Capilli veneris
Taxon attuale: Centaurea centaurium L. Nome volgare toscano: Centaurea maggiore, Fieledi terra Nome volgare antico: Centaurea maggiore
Ambiente in Toscana: infestante le colture di cereali o su terreni degradati fino a 800 mt. Simbologia: nel linguaggio dei fiori simboleggia la forza nelle avversità. Composizione: olio essenziale, polifenoli. Usi erboristici antichi: due erano le specie usate, la volgare e la nobile. La prima si diceva che contenesse un sale ammoniacale e zolfo e che fosse diuretica lenitiva e febbrifuga tanto che la polvere dei fiori era usata per la malaria. L’infusione era per facilitare la diuresi, usata in clisteri per emorroidi e per sfiammare l’intestino. La specie nobile era usata come rilassante, antidolorifugo e febbrifugo. Per frantumare i calcoli, contro le ostruzioni del fegato e della milza, contro i dolori e gonfiori di stomaco, per provocare il ciclo mestruale e proteggersi dagli aborti. Usi erboristici moderni: amaro, stomachico, carminativo, diuretico, antiallergico, antinevralgico, antinfiammatorio e contro i reumatismi. Preparazioni antiche: infuso, clistere, acquavite (distillata dalla miscela di fiori di Achillea, camomilla, anice e cumino era usata come antispasmodico e carminativo). Preparazioni moderne: infuso, polvere, tintura, estratto fluido, pomate. Olio essenziale. Una preparazione antica: contro i dolori e malattie degli occhi bisogna cogliere la camomilla all’alba e dire: “ti prendo, o erba, per la nubecola bianca della pupilla e per il dolore degli occhi perché tu mi possa prestare soccorso”. La pianta colta deve essere portata al collo. Per avere il massimo dalla pianta bisogna coglierla di notte, quando la Luna è nel segno dell’ariete. I fiori colti devono essere cotti in olio d’oliva con cui poi si ungerà un malato: allo stesso si farà bere dopo una grande quantità d’acqua calda e si coprirà per bene: se il malato suda, guarirà; altrimenti morirà. Contro la tigna della testa tritare la pianta fresca nell’aceto e lavare spesso la testa. Contro i veleni da morsi animale una dracma di camomilla in due ciati di vino.
Ambiente in Toscana: rocce stillicidiose, pozzi, grotte e sorgenti fino a 1500 mt. O rocce e muri fino a 1750 mt. Simbologia: la simbologia del capelvenere è allusiva alla salvezza: particolare in questa pianta è la capacità dì idrorepellenza da cui la possibilità di non contaminazione col peccato e l’idea quindi di salvezza. Composizione: oli essenziali, polifenoli. Usi erboristici antichi: freddo e secco in modo moderato. Diuretico, contro le infiammazioni del fegato, contro i cattivi umori dello stomaco e contro ogni veleno; alopecia, scrofolosi, bubboni e pustole della testa. Per tutte le affezioni polmonari. Usi erboristici moderni: bechico, espettorante Preparazioni antiche: pianta fresca, sciroppo, garze imbevute del succo, vino, impiastro, decotto. Preparazioni moderne: infuso, decotto Una preparazione antica: imbevere delle garze col suo succo e porle sopra il fegato o meglio porre sopra direttamente l’erba tritata. Cuocere la pianta nel vino o mangiarla bevendoci del vino per eliminare qualsiasi veleno. Sciroppo di capelvenere: tanta erba quanta acqua piovana, macera due giorni in acqua bollente le fronde della felce pestate in mortaio di marmo e pestello di legno: poi spremi, filtra e al liquore limpido unisci due parti di zucchero “cotto a perla” in bagno maria.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana (Italia meridionale). Composizione: minerali e steroli, acido oleanolico. Usi erboristici antichi: la Centaurea maggiore è calda e secca al terzo grado. Cicatrizzante, diuretico, purificante, contro i vermi, per schiarire la vista, contro le emorroidi, contro il mal di petto, per provocare il ciclo mestruale. Usi erboristici moderni: febbrifugo, tonico amaro, stimolante, digestivo. Preparazioni antiche: vino, unguento, sciroppo, succo o polvere, collirio, impiastri. Preparazioni moderne: infuso, estratto acquoso. Una preparazione antica: Contro i vermi degli orecchi mettere qualche goccia di succo di centaurea con succo di porro o miele; per schiarire la vista applicare tale succo con acqua di rose; contro le emorroidi applicare cotone imbevuto d’olio di muschio misto a polvere di centaurea; contro il mal di petto succo di centaurea, tre grani di pepe e mischiare con gomma ammoniaca purissima. Per la milza e il fegato si prepara questo sciroppo: cuocere delle radici di appio, prezzemolo e finocchio nel succo della centaurea. Filtrare e aggiungere zucchero. Utile per l’itterizia cronica.
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teorie. Probabilmente l’arancio giunse davvero in Europa per la via della seta, ma la coltivazione prese piede solo nella calda Sicilia, dove la propagazione si arenò. Solo dopo secoli venne riscoperto dai marinai portoghesi. Da notare che a Roma, nel chiostro del convento di Santa Sabina all’Aventino, è presente una pianta di arancio dolce che secondo la tradizione domenicana è stata portata e piantata da San Domenico nel 1220 circa. La leggenda purtroppo non specifica se il santo avesse portato la pianta dal Portogallo o dalla Sicilia, dove essa era giunta al seguito della conquista arabo-berbera.
Note Il nome “camomilla” deriva dal greco e significa piccola mela di terra dal profumo che emana. Gli egiziani, greci e romani già la usavano come febbrifugo e per i dolori intestinali.
Note Spesso, col nome di Capel venere, nel Medioevo si intendeva un’altra felce: l’Adianto nero, il capelvenere nero degli speziali. Col termine “politrico” si intendeva poi un’altra felce ancora, Asplenium trichomanes; comunque tutte e tre le felci hanno le medesime proprietà.
Note Questa Centaurea faceva parte dei rimedi della Scuola di Salerno. Questa pianta sarà poi totalmente sostituita dalla Centaurea minore (Blackstonia perfoliata). Pianta quasi “omnimorbia” utilizzata praticamente per tutto. Il nome deriva dalla leggenda per cui il centauro Chitone utlizzò questa pianta per guarire da una ferita procuratagli da una freccia di Ercole.
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Cina gentile
China pura
Corallina
Digitale purpureo
Taxon attuale: Smilax china S.T. Gmel. Nome volgare antico: Cina gentile
Taxon attuale: Cinchona succirubra Pav. Nome volgare antico: China
Taxon attuale: Corallium rubrum L. Nome volgare toscano: Corallo Nome volgare antico: Corallina
Taxon attuale: Digitalis purpurea L. Nome volgare toscano: Digitale, Guancelli, Ditale della Madonna, Erba nalda, Erba aralda, Fior gentile Nome volgare antico: Digitale purpureo
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Composizione: vedi Smilax aspera. Usi erboristici antichi: vedi Smilax aspera. Usi erboristici moderni: vedi Smilax aspera. Preparazioni antiche: vedi Smilax aspera. Preparazioni moderne: vedi Smilax aspera. Una preparazione antica: vedi Smilax aspera.
Ambiente in Toscana: non presente. Composizione: alcaloidi, tannini. Usi erboristici antichi: contro le febbri, reumatismi, catarri, e arresto cardiaco. Usi erboristici moderni: tonico amaro, contro malattie infettive, malaria. Preparazioni antiche: polvere, vino, infusi. Preparazioni moderne: polvere, estratto secco, estratto fluido, vino, tintura. Una preparazione antica: Due dramme di polvere infuse per tre ore in vino bianco o nel vino moscato dopo una buona purga di sopra e di sotto.
Ambiente in Toscana: scogliere. Simbologia: il corallo è un antichissimo amuleto per i neonati, ancora oggi diffuso. Secondo la tradizione pagana i rametti appuntiti infilzavano il malocchio lanciato per invidia, mentre per i cristiani il suo colore rosso ricordava il sangue di Cristo. Infatti veniva usato già nel medioevo per i reliquiari della Croce. Il corallo assumeva così la valenza di simbolo della doppia natura di Cristo, umana e divina. Per questo si trova in numerosi dipinti rinascimentali, come la Madonna del solletico di Masaccio, la Madonna di Senigallia e la Pala di Brera di Piero della Francesca. Composizione: il corallo è ricco di carbonati di calcio e di magnesio. in effetti si trova molto spesso in commercio come integratore. Usi erboristici antichi: il corallo è caldo e secco al secondo grado. Contro i dolori degli occhi, contro l’emottisi e i sanguinamenti in generale, contro le infiammazioni della bocca e gengive, come cicatrizzante in genere. Usi erboristici moderni: contro l’acidità di stomaco e il bruciore. Preparazioni antiche: polvere, polvere diluita in acqua o miele o gomma. Preparazioni moderne: polvere. Una preparazione antica: la polvere di corallo strofinata sui denti li rende particolarmente bianchi; contro il sangue dalla bocca che proviene dal petto o dai polmoni: pasticche con due terzi di corallo diluito in acqua d’orzo con gomma adragante. Contro il sangue dal naso: inserire nelle narici cotone cosparso di polvere di corallo e borsa del pastore.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Composizione: saponine, eterosidi cardiotonici, digitalici. Usi erboristici antichi: emetico, emmenagogo, vulnerario. Usi erboristici moderni: cardiotonico, rallenta il battito cardiaco, migliora la circolazione periferica. Preparazioni antiche: unguento, decotto. Preparazioni moderne: polvere, macerato, infuso, tintura. Una preparazione antica: foglie di digitale con acetato di ammoniaca per la tisi. Si preparava anche un idromele antiasmatico con foglie fresche di digitale, acqua bollente, gomma ammoniaca, aceto, miele depurato e tintura di benzoino.
Note Ottaviano Targioni Tozzetti nel suo volume “Istituzioni Botaniche” al tomo III del 1813 parla di questa Cina gentile che era una congenere della Salsapariglia chiamata Smilax china. La descrive come una radice tubercolosa, farinacea e rossiccia, la gentile più farinosa, l’altra più legnosa e pesante.
Note Secondo alcuni veniva usata anche per gli ipocondriaci. Usato molto, anche per i bambini, il rosolio di china.
Note Si pensa che la parola corallo derivi dal greco koraillon, cioè “scheletro duro”; per altri invece deriverebbe sempre dal greco kura-halos, cioè “forma umana” ed altri ancora, infine, fanno derivare il termine dall’ebraico goral, nome usato per le pietre utilizzate per gli oracoli in Palestina, Asia Minore e Mediterraneo, tra le quali ruolo preponderante era svolto appunto dai coralli. Essendo un microorganismo protetto, il corallo si ricava dai giacimenti fossili ormai emersi in cui il corallo si è accumulato nel corso di milioni di anni.
Note La Digitale, pianta non del Mediterraneo, era sconosciuta ai Greci e ai Romani e agli Arabi. Fin dal XVII° secolo la sua tossicità era nota in Europa e solo nel 1785 un inglese, Withering ne scoprì le virtù cardiotoniche. Rimane una pianta estremamente tossica che gli animali evitano.
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Dulcamara
Galla di Levante
Garofani cannella
Genziana (radiche di)
Taxon attuale: Solanum dulcamara L. Nome volgare toscano: Dulcamara, Amara-dolce, Solatio legnoso, Morella legnosa, Vite salvatica, Corallini, Erba vitina, Stallaggi, Vite di Giudea Nome volgare antico: Maraviglia, Meraviglia
Taxon attuale: Pericampylus glaucus Merr. Nome volgare antico: Galla di Levante, Cocculo
Taxon attuale: Cinnamomum zeylanicum Nees Nome volgare antico: Cannella
Taxon attuale: Genziana lutea Ruiz et Pav. Ex G. Don Nome volgare toscano: Genziana gialla, Genziana maggiore Nome volgare antico: Genziana
Ambiente in Toscana: boschi umidi e incolti fino a 1100 mt. Composizione: gluco-alcaloidi, saponosidi steroidici. Usi erboristici antichi: fredda e secca al secondo grado. Usata nella sifilide, herpese reumatismi. Diuretica, contro l’itterizia, l’eccessivo riscaldamento del fegato e contro gli ascessi. Usi erboristici moderni: diuretico, depurativo. Preparazioni antiche: succo, tisana, cataplasmo, erba pestata. Preparazioni moderne: infuso, decotto, estratto dolce. Una preparazione antica: contro gli ascessi del fegato e intestino far bere succo di dulcamara in tisana. In caso di ascesso caldo, pestare la pianta per consumare la materia.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Composizione: alcaloidi. Usi erboristici antichi: ifrutti, polverizzati, venivano usati al posto della Smilax aspera. Usi erboristici moderni: antispasmodico drastico, curarizzante. Preparazioni antiche: polvere usata per lo più per pescare. Preparazioni moderne: nelle sale operatorie le piante curarizzanti vengono utilizzate per diminuire la dose di anestetico. In omeopatia il Pericampylos (o Cocculus) viene molto usato per depressione, disturbi della sfera femminile, nausee, vomito e vertigini. Una preparazione antica: ridurre in polvere la mandorla del frutto, unirla a mollica di pane e farne esche per i pesci che, narcotizzati, verranno a galla.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Simbologia: secondo la tradizione simboleggia la divinità di Cristo. Composizione: olio essenziale (aldeide cinnamica), tannini. Usi erboristici antichi: calda al terzo grado e secca al secondo. Contro lo scorbuto e per purificare il sangue. Paralisi, convulsioni, dolori addominali. Usi erboristici moderni: astringente leggero, tonico, stimolante aromatico. Usato in profumeria. Preparazioni antiche: olio, corteccia in decotto. Preparazioni moderne: essenza, vino, alcoolati. Una preparazione antica: per facilitare la digestione unire la cannella agli alimenti insieme alla polvere di Carvi. Una salsa per lo stomaco: polvere di cannella, salvia, prezzemolo e aceto.
Note Spesso, nel Medioevo, veniva confusa la dulcamara con la morella (Solanum nigrum L.).
Note Fa parte delle piante da cui si estrae il curaro, noto e potente veleno per via parentale, quasi inattivo per via orale, che produce una paralisi muscolare conservando la sensibilità.
Note A volte, nel Medioevo, si parla di “cannella grossa” che probabilmente è la corteccia del bagolaro (Celtis australis).
Ambiente in Toscana: Appennino tosco-romagnolo fino a 1500 mt. Composizione: glucidi, pigmenti, eterosidi amari, alcaloidi. Usi erboristici antichi: calda e secca al terzo grado. Contro la peste, ostruzioni del fegato e della milza. Usi erboristici moderni: tonico amaro. Preparazioni antiche: vino, infuso, decotto. Preparazioni moderne: polvere, macerato, tintura, estratto. Una preparazione antica: contro l’asma polvere di genziana con vino ed acqua d’orzo. Oppure ungere il petto con polvere, vino e unguento di dialtea. Contro i morsi di bestie velenose coprire le piaghe con polvere e berla con succo di menta. Per far uscire i bambini morti: supposta di polvere di genziana e succo di artemisia.
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Guanaco (legno)
Incenso in lacrima
Issopo
Taxon attuale: Guaiacum officinale L. Nome volgare toscano: Guanaco, Legno santo, Legno palo, Palo santo Nome volgare antico: Legno palo, Palo santo, Guajaco
Taxon attuale: Boswellia sacra Flueck Nome volgare antico: Olibano
Taxon attuale: Hyssopus officinalis L. Nome volgare toscano: Isopo, Isoppo, Isopo spigato, Isopo ceruleo Nome volgare antico: Isopiglio
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Simbologia: per la durezza del suo legno il guaiaco è sempre stato simbolo di fermezza e perseveranza. Composizione: il principio attivo più importante è il guaiacolo oltre a resine (acido guaiaconico, guaianetico, guaiacico), saponine (guaiasaponina), vanillina, sostanze terpeniche (guaiaguttina, guaiazulene), olio essenziale (5-6%). Usi erboristici antichi: antigottoso, diuretico, antidolorifico, antiartritico. Usi erboristici moderni: balsamico, espettorante, diuretico, sudorifera, depurativo, lassativo, antireumatico, antisettico, antiossidante, antinfiammatorio. Per le sue proprietà il guaiaco viene usato per la cura di reumatismi, intossicazioni, stipsi, respiratorio, per la cellulite dura o molle o media, linfatismo, antiradicali liberi, ringiovanente. Fortemente drenante. Infusi di guaiaco vengono utilizzati nelle zone di origine nella cura della sifilide, anche se la sua efficacia non è ancora stata dimostrata. Preparazioni antiche: decotto, resina, polvere di legno. Preparazioni moderne: distillazione, tintura. Una preparazione antica: una preparazione contro la gotta univa l’estratto di Guaiaco, l’alcool di salsapariglia, resina di scialappa e sciroppo semplice.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Simbologia: nel Vangelo secondo Matteo fu uno dei doni portati dai Re Magi al Bambino Gesù. Secondo la tradizione simboleggia la divinità di Cristo. Composizione: olio essenziale, gomma e resine. Usi erboristici antichi: caldo e secco al secondo grado. Mal di testa, emorragie dell’utero, tosse, vomito, tisi, dissenteria, per curare le infiammazioni degli occhi. Usi erboristici moderni: in profumeria e nelle cerimonie religiose. Preparazioni antiche: vino del decotto, suffumigi, polvere diluita in aceto o grasso. Preparazioni moderne: suffumigi. Una preparazione antica: per rendere le mammelle piccole e minute applicare delle bende imbevute di aceto e polvere di olibano. Diluito nel latte cicatrizza le piaghe recenti; per pulire l’utero e favorire il concepimento esporre l’utero ai fumi di olibano e preparare una supposta con polvere di olibano e olio di muschio.
Note Il legno del G. officinale è uno dei più pesanti esistenti, infatti ha un peso specifico di circa 1330 kg/m3.
Note Incenso è il nome dato ad alcune oleoresine provenienti da diversi alberi-arbusti tra cui il principale è Boswellia sacra Flueck. Gli alberi crescono nelle regioni meridionali della Penisola arabica e dell’Africa orientale. Le culture yemenite dal II millennio a.C. in poi hanno organizzazato i traffici legati all’incenso e alla sua commercializzazione, i regni di Saba, dei Minei, del Qataban, di Awsan e del Hadramawt. I regni etiopici, come quello di Aksum, hanno addirittura invaso le aree sud-arabiche proprio per controllare il monopolio del prodotto. L’uso liturgico dell’incenso è attestato fin dalle epoche più antiche. Ancor oggi numerose religioni usano questo prodotto per glorificare simbolicamente la divinità, mentre nei paesi arabi l’incenso conserva un ben preciso posto nella farmacopea popolare (ad esempio come espettorante, antisettico per mezzo di fumigazioni e inalazioni sfruttanti la gommoresina estratta dai rami e dalle foglie).
Attualmente il consumo di incenso è in forte contrazione; il periodo di più larga diffusione si ebbe negli anni 30 e 40 del secolo scorso. Una parte importante dell’incenso proveniva dalla Migiurtinia, territorio della Somalia Italiana e veniva commercializzato sul mercato di Aden. Spesso, nel medioevo per incenso si intendeva resina di Juniperus phoenicea in masse semitrasparenti. Sinonimo di Olibano.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Nel resto d’Italia in rupi e pascoli sassosi fino a 1200 mt. Simbologia: l‘issopo è stato da sempre associato alla purificazione, al sacrificio rendendo quest’erba sacra. Nella religione ebraica, la pianta è in qualche modo collegata alla simbologia della Pasqua: infatti con i rami di issopo gli ebrei spruzzarono di sangue di agnello le porte delle loro case, come riconoscimento per l’angelo del Signore che seminò la morte tra gli egiziani, prima dell’esodo dall’Egitto. Composizione: flavonoidi, acido ursolico e oleanolico, colina, olio essenziale. Usi erboristici antichi: l’Issopo è caldo e secco al terzo grado. Divide e consuma gli umori, diuretico, contro i raffreddori, gli abbassamenti di voce e i dolori di stomaco. Usi erboristici moderni: stimolante, antitussivo, espettorante, vulnerario. Preparazioni antiche: Vino, fomento, impiastro, cotto in aceto. Preparazioni moderne: infuso, pianta fresca, essenza. Una preparazione antica: contro la tosse bere del vino in cui si saranno cotti fichi e issopo. Oppure bere l’elettuario chiamato “Diahysopus”. Contro i raffreddori mettere la polvere di Issopo in un sacchetto, riscaldarlo e appoggiarlo alla testa. Note Il nome Issopo deriva dall’ebraico “Esop”: nella Bibbia vi sono innumerevoli riferimenti a questa pianta, della quale si esaltano le virtù purificatrici. Nell’acqua di questa pianta ci si immergeva per bagni purificatori e si riteneva che solo con i suoi rami si potessero pulire i templi. Gli antichi conoscevano dell’issopo anche impieghi pratici: ad esempio, succedeva spesso che la carne fosse troppo frollata: l’aggiunta di alcune foglioline di issopo nella cottura garantiva un ottimo aroma e nello stesso tempo evitava il rischio di avvelenamento da cibi avariati.
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Lappa Bardana
Legno amaro
Lichene islandico
Taxon attuale: Arctium lappa L. Nome volgare toscano: Lappola, Lappolaccio, Lappolone, Appolone, Bardana, Bardana maggiore, Cappellaccio, Farfaraccio, Catiglione, Personata, Personata maggiore Nome volgare antico: Lappa, Arcturo, Arturo, Aracio
Taxon attuale: Quassia amara L. Nome volgare antico: Legno del Surinam, Legno di borbone
Taxon attuale: Cetraria islandica (L.) Ach. Nome volgare toscano: Lichene Nome volgare antico: Lichene islandico
Ambiente in Toscana: incolti, ruderi, bordi delle strade fino a 1100 mt. Composizione: le radici contengono nitrato di potassio e inulina; le foglie un principio amaro. l’arctopicrina. Usi erboristici antichi: antipiretico, antinfiammatorio, contro i dolori gastro-intestinali. Usi erboristici moderni: antimicrobico, ipoglicemizzante, contro le foruncolosi. Preparazioni antiche: radice tritata, foglie fresche, decotto. Preparazioni moderne: infuso, polvere, estratto molle. Una preparazione antica: contro i morsi dei cani rabbiosi applicare la radice tritata con un po’ di sale; per far diminuire la febbre le foglie applicate direttamente sul malato; contro le piaghe purulente lavare le ferite con l’acqua del decotto o ungerle con un composto di erba cotta, salnitro, pece grassa e aceto; contro i dolori di corpo bere un ciato del succo delle sue foglie.
Ambiente in Toscana: non presente. Composizione: lattoni, di terpeni. Usi erboristici antichi: usato come tonico, febbrifugo e vermifugo. Usi erboristici moderni: febbrifugo. Preparazioni antiche: decotto. Preparazioni moderne: polvere, decotto.
Ambiente in Toscana: ambiente montano dell’appennino tosco-emiliano fino a 2000 mt. Composizione: ricco di acido unico, mucillagini, acidi lichestarici, lichenina, isolichenina (carboidrati), acido cetrarico (che è un principio amaro, detto anche cetranina), acido usnico ( ad azione antibiotica ed antitumorale). Acidi grassi, vitamine, olio essenziale, triterpeni. Ha un alto contenuto in amidi, polisaccaridi conosciuti con il nome di carraghenina, è ricco di minerali, iodio e di una buona riserva di vitamina C. Usi erboristici antichi: lichene freddo e secco al secondo grado. Tonico, astringente ed espettorante. Usi erboristici moderni: attività battericida, capacità antitumorali, attivo sui batteri Gram negativi e sul bacillo di Koch. Attività gastroprotettiva, è utile nella diarrea, nelle infezioni delle vie urinarie, nelle infezioni polmonari croniche. L’uso del muschio di Irlanda evita i raffreddori e le infezioni bronchiali, il gel dell’alga ha la proprietà di assorbire i raggi X o altri elementi radioattivi dall’organismo. È un antinfiammatorio della mucosa dell’apparato gastro-intestinale, un regolarizzatore intestinale e un antitosse. Preparazioni antiche: infuso, pasticche, vino. Preparazioni moderne: infuso, polvere, utilizzato nelle diete. Una preparazione antica: pasticche di lichene islandico: si fa bollire il lichene in acqua con zucchero bianco; poi si fa evaporare il liquido fino a ridurlo in polvere. Si confezionano poi pasticche con gomma.
Note Già Dioscoride segnalava la Bardana contro le ulcere; nel XVI° secolo era utilizzata come antisifilitica, contro le dermatiti e la gotta. Grande rilievo popolare come diuretico, lassativo, depurativo. Il nome Lappa sembra derivi dal latino o greco e significhi “afferrare o attaccarsi” tenendo conto degli uncini dei frutti si attaccare alle vesti e agli animali.
Note Il nome alla Quassia è stato dato da Linneo in onore di un indigeno, Gramam Quassi, che scoprì le virtù mediche della pianta.
Note I licheni hanno un alto potere nutritivo, tanto che erano alla base della alimentazione delle popolazioni nordiche; per consumarlo si fa bollire a lungo per far perdere il suo sapore. Si impiega per uso esterno nella cosmesi, nella preparazione di creme, lozioni, detergenti (per la presenza di acido usnico è un ottimo antisettico), utile per tutte le impurità delle pelle, con acne, foruncoli.
Teriaca o Triaca Nella storia della medicina esiste un antico rimedio polifarmaco, omnimorbia, la Teriaca (il cui nome deriva dal vocabolo greco “therion”, usato per indicare la vipera o gli altri animali velenosi in genere), dotato di virtù magiche e capace di risolvere ogni tipo di male, prescritto ininterrottamente dai medici per 18 secoli. In origine il suo uso principale era quello di combattere i veleni iniettati tramite il morso di “fiere velenose” e la sua invenzione si fa risalire a Mitridate, re del Ponto, il quale ne faceva uso quotidiano per combattere la paura ossessiva di essere avvelenato. Si tramanda che la ricetta per la sua preparazione sia stata ritrovata da Pompeo nella cassetta di quel re e da qui il primitivo nome di “elettuario di Mitridate”. Fu Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, che perfezionò la ricetta, aggiungendo la carne di vipera, certo che il suo uso avrebbe aumentato le virtù dell’antidoto. Nasceva così la Theriaca Magna o Theriaca di Andromaco, perfezionata poi da Critone, medico di Traiano. Galeno, nel “De teriaca ad Pisonem”, esaltò l’azione portentosa della teriaca e sostenne che era sufficiente assumerne ogni giorno una certa quantità per essere protetti dai più potenti veleni. Con l’introduzione di nuove droghe, la preparazione subì notevoli variazioni, per cui si passò dai 62 componenti citati da Galeno, fino ai 74 utilizzati dalla farmacopea spagnola. Il successo esplose nel XVI secolo, quando presso le “ spezierie” di Bologna, Napoli, Venezia e Roma, la Teriaca veniva preparata in notevole quantità, diventando presto una voce importante per l’economia delle città. La migliore di tutte era però quella che si preparava a Venezia, dal momento che gli speziali della serenissima potevano utilizzare più facilmente le droghe provenienti dall’Oriente, la cui fragranza e rarità conferivano al preparato una qualità superiore. La preparazione della teriaca era un vero e proprio rito studiato nei minimi particolari e a Venezia veniva fatta alla presenza della popolazione, esponendo al pubblico per tre giorni le varie sostanze, affinché si rendesse conto della genuinità e della bontà delle medesime. La sfarzosa cerimonia, alla
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Mandorle amare Mandorle Taxon attuale: Prunus dulcis (L.) Batsch var. amara (Ludwig ex DC.) Focke Prunus dulcis (L.) Batsch Nome volgare toscano: Mandorlo amaro Nome volgare antico: Mandorlo amaro 44
presenza delle più alte autorità della Serenissima e del Protomedico, avveniva durante il mese di maggio, poiché alcuni componenti raggiungevano solo in quel periodo il perfetto stato di impiego ed anche perché gli influssi astrali di quel mese potevano dare facoltà speciali al rimedio. L’elemento più curioso della preparazione sono i Trocisci di vipera, vale a dire carne di vipera dei Colli Euganei, femmina, non gravida, catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, privata della testa, della coda e dei visceri, bollita in acqua di fonte salata ed aromatizzata con aneto, triturata, impastata con pane secco, lavorata in forme tondeggianti della dimensione di una noce e posta ad essiccare all’ombra. Altro componente fondamentale era l’Oppio, che doveva provenire rigorosamente da Tebe, in quanto di qualità superiore rispetto a quello Turco. Altri ingredienti erano l’asfalto, il benzoino, la mirra , la cannella, il croco, il solfato di ferro, la radice di genziana, il mastice, la gomma arabica, il fungo del larice, l’incenso, la scilla, il castoro, il rabarbaro, la calcite, la trementina, il carpobalsamo, il malabatro, la terra di Lemno, l’opobalsamo, la valeriana et alia. La preparazione, per raggiungere il massimo dell’efficacia, doveva “maturare” per almeno sei anni, ed era considerata valida fino al 36 anno. La teriaca era il rimedio sovrano per un’infinità di malattie che spaziavano dalle coliche addominali alle febbri maligne, dall’emicrania all’insonnia, dall’angina ai morsi delle vipere e dei cani, dall’ipoacusia alla tosse. Veniva utilizzata per frenare la pazzia e per risvegliare gli appetiti sessuali, per ridare vigore ad un corpo indebolito, nonché per preservare dalla lebbra e dalla peste. Le modalità di somministrazione ed il dosaggio variavano a seconda della malattia, dell’età e del grado di debilitazione del paziente. Si assumeva stemperata nel vino, nel miele, nell’acqua o avvolta in foglia d’oro, in quantità variabile da una dramma (1,25 g circa) a mezza dramma, ma la conditio sine qua non affinché la teriaca fosse efficace era che doveva essere assunta dopo aver purgato il corpo, altrimenti il rimedio sarebbe stato peggiore del male. Per i trattamenti con la Teriaca il periodo
più favorevole era l’inverno, seguito dall’autunno e dalla primavera. Da evitare, a meno di una situazione particolarmente grave, l’estate. Con il trascorrere dei secoli l’interesse per questo polifarmaco a poco a poco scemò, e nonostante non lo si utilizzasse più, a fine Ottocento lo si trovava ancora iscritto in farmacopee di numerosi paesi, compreso il nostro, tanto che fino al 1850 lo si preparava ancora a Venezia e a Napoli venne prodotto fino al 1906. La Teriaca, dall’epoca di Andromaco fino al XII secolo fu preparata dai medici, poi, nel 1233, con l’editto dell’Imperatore Federico II di Sicilia, noto come “L’Ordinanza Medicinale”, si ebbe una netta separazione tra la professione medica e la professione farmaceutica, per cui ai medici fu vietata la preparazione dei farmaci. Dal XIII secolo, perciò, le preparazioni medicamentose furono affidate alla Corporazione degli Aromatari, sotto il diretto controllo dei medici.
Ambiente in Toscana: comunemente coltivato fino a 800 mt. Simbologia: albero da frutto molto conosciuto, il mandorlo è originario della Persia. E’ nella struttura del frutto e nella difficoltà a raggiungere la bianca polpa, dolce e profumata, che si rintraccia meglio il suo simbolismo. Prima di arrivare alla polpa occorre superare un guscio legnoso, poi una sottile pellicola cartacea ed infine arrivare alla parte edule: già questo diventa simbolo della Santissima Trinità e la mandorla racchiude l’interiorità nascosta, il mistero della Luce e la mandorla di luce che spesso nelle rappresentazioni racchiude Maria o Cristo stesso è un simbolo della Luce divina. Ma per arrivare a queste cose occorre fare un cammino, uno sforzo di purificazione interiore. Simbolo di tutta la Chiesa nel VIII sec., Albero della Vita e attributo della Vergine Maria nell’ XI sec., i suoi frutti sono simbolo della Casa del Signore piena di fortezza, pazienza, giustizia, prudenza (XII sec.), simbolo della Divina Incarnazione del Cristo e dell’Annunciazione e di pietà nel XIII sec. Nell’antico Testamento, per Geremia era promessa di vita nuova: “Cosa vedi Geremia?” E Geremia rispose: “Un ramo di mandorlo io vedo”. E Dio disse: “hai visto bene perché io veglio sulla mia parola per realizzarla” (Ger 1,12). Mosè incontrò il signore sotto un mandorlo sul monte Oreb, nel Medioevo spesso Giuseppe è rappresentato con un bastone di legno di mandorlo. Inoltre il mandorlo era l’albero sacro usato per scegliere i sacerdoti. Nel libro dei Numeri si racconta di un ordine di Dio: prendere un bastone da ognuna delle 12 stirpi di Israele, scrivendo sopra il nome dei loro capi, e riporre il fascio di legni nella tenda della testimonianza. “L’uomo che avrò scelto sarà quello il cui bastone fiorirà”. Così dice Dio e così accade. “Il giorno dopo, Mosè entrò nella tenda della testimonianza ed ecco il bastone di Aronne per il casato di Levi era fiorito: aveva prodotto germogli, aveva fatto sbocciare fiori e maturato mandorle” (Num 17, 16-23). Dio sceglie così i sacerdoti facendo spuntare il fiore del mandorlo, che è anche il primo albero da frutto a fiorire in primavera. Forse anche per questo il candelabro d’oro puro che Dio ordina a Mosè di eseguire, dovrà avere
ornamenti a forma di fiore di mandorlo (Es 25, 3334). Mandorlo dunque è un nome che ha a che fare con la veglia di Dio che vigila sulla sua parola per realizzarla, con la scelta divina dei sacerdoti, e con il mistero del sacro. Inoltre con l’arrivo della primavera, esso segnala il rifiorire della speranza. Nel nuovo Testamento una leggenda simile legata ad un Vangelo apocrifo narra che per scegliere lo sposo di Maria il Sacerdote del Tempio pregò sopra i bastoni dei pretendenti e poi li restituì loro: da quello di Giuseppe sbocciarono i fiori del mandorlo e per questo prodigio fu lui ad avere l’onore e l’onere di sposare Maria. Infine le tre consonanti che danno vita all’albero del mandorlo: “sh”, “k”, “d” sono le stesse della parola esigente “kodesh”, cioè sacro, e in ebraico queste coincidenze premono per essere spiegate. La pianta ha anche leggende legate a fioriture straordinarie: vale la pena ricordare quella del Mandorlo dei Bianchi. Nell’agosto del 1399, durante una terribile pestilenza, la compagnia dei Bianchi di Empoli portò in processione per tutta la Toscana un Crocifisso miracoloso venerato ancora nella Collegiata empolese. Durante una sosta in Val Marina, tra la Calvana e Monte morello, il Crocifisso fu appoggiato ad un mandorlo seccato da tempo. Poco dopo il mandorlo era coperto di foglie e fiori. I Bianchi pensarono che fosse un messaggio divino per la fine della peste e così era stato. In quel momento la peste era cessata. Composizione: le mandorle amare contengono un eteroside cianogenetico, l’amygdalina che, con l’acqua rilascia acido cianidrico, mortale. Le mandorle dolci contengono minerali, lipidi e proteine. Usi erboristici antichi: le mandorle dolci sono calde e umide al primo grado. Puliscono il petto, i polmoni e sono diuretiche. Le mandorle amare sono calde e secche al secondo grado. Riducono gli umori, sono diuretiche, calmano i dolori gastrici e conciliano il sonno. Eliminano i calcoli renali, fanno scomparire le lentiggini e calmano la febbre alta. Contro l’asma e contro la tosse. Usi erboristici moderni: le mandorle dolci sono utilizzate come emulsionanti in dermatologia e
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cosmesi e in pasticceria. Le mandorle amare sono solo utilizzate, poco, come aromatizzanti. Preparazioni antiche: pelate e tritate, cotte col vino, olio estratto. Preparazioni moderne: seme fresco, in polvere, estrazione dell’olio. Una preparazione antica: spezzate e mescolate con aceto, fanno scomparire le lentiggini; contro l’asma, tritate e mescolate con lo zucchero; contro la sordità tritate, poste tra due fogli sotto la cenere e l’olio estratto si mette goccia a goccia nell’orecchio; contro i vermi del ventre unire l’olio a farina di lupini amari. Note Non è consentito attualmente l’uso delle mandorle amare (se non moderatamente per pasticceria) data l’alta pericolosità dei semi. Nel Medioevo non veniva fatta molta distinzione ma si faceva caso soprattutto alla freschezza dei semi.
Manna scelta
Mezzereo
Orzo di Germania
Taxon attuale: Fraxinus ornus L. Nome volgare toscano: Avornio, Avorniello, Ornio, Ornello, Ornirllo, Ornicello, Nocicchio, Costolo, Abornuello, Nocisto Nome volgare antico: Frassinella
Taxon attuale: Daphne mezereum L. Nome volgare toscano: Camelia. Calmelea, Dafnoide, Laureola femmina, Mezzereo, Olivella, Timelea femmina, Fior di stecco, Miserella, Bindella Nome volgare antico: Mezzereo
Taxon attuale: Hordeum zeocriton L. Nome volgare toscano: Orzo riso, Orzo di Germania Nome volgare antico: Orzo di Germania
Ambiente in Toscana: boscaglie degradate fino a 1400 mt. Composizione: minerali e glucidi. Usi erboristici antichi: purificante e pulente ematico. Usi erboristici moderni: leggero lassativo. Preparazioni antiche: infuso filtratoPreparazioni moderne: essudato della corteccia di Frassino. Una preparazione antica: raccogliere la rugiada la mattina, mescolarla a miele, zucchero e liquirizia e trarne un composto duro.
Ambiente in Toscana: faggete, castagneti, brughiere subalpine fino a 1800 metri. Composizione: estere terpenico tossico Usi erboristici antichi: il mezereo spesso era utilizzato in preparazioni con le cantaridi (Cantharis vescicatoria) che sono insetti coleotteri che vivono in numerose colonie di preferenza sui frassini e si raccolgono alla fine di maggio e in giugno. Lunga cm. 2-3, larga mm 6-8, con testa cordiforme ed antenne nere, filiformi, torace quadrato e ristretto, addome cilindroide lungo; sei arti terminati da uncini bifidi, due ali membranose, trasparenti, bruniccie, e due elitre filamentose sericee; la testa, il torace, l’addome e le elitre sono d’un verde dorato brillantissimo con riflessi azzurri. Odore particolare, sapore prima amaro, caldo, infine irritante. Le cantaridi devono essere bene essiccate, conservate in vasi chiusi ed in luogo asciutto Numerosi sono gli usi farmaceutici delle cantaridi. La Pharm. Uff. adotta solo 3 preparazioni farmaceutiche di cantaridi e queste sono: la Tintura alcolica, l’Empiastro e l’Empiastro mite di cantaridi o Mosche di Milano. Le cantaridi naturalmente devono essere impiegate in polvere. Oltre a queste preparazioni officinali ne sono usate altre , tra cui l’empiastro di Mezereo cantaridato. Raramente è adoperata la cantaridina, e quando la si adopera, essa lo è per lo più sotto forma di pomata epispastica, della quale si fa ordinariamente uso dopo l’impiego dell’empiastro cantaridato sulla parte denudata, onde impedire la cicatrizzazione e continuare l’azione irritante e revulsiva. Usi erboristici moderni: Non usato per la pericolosità. Preparazioni antiche: impiastro. Preparazioni moderne: non usato più.
Ambiente in Toscana: non presente allo stato spontaneo. Coltivato. Composizione: piccole quantità di alcaloidi (hordeina e gramina), amido. Usi erboristici antichi: l’orzo è freddo e secco, la farina cotta è utile per la febbre e i dolori del petto, per portare a maturazioni pustole, per raffreddare stomaco e fegato, per spengere la sete. La tisana d’orzo bonifica il sangue e regala una buona vista a chi ha il “cervello sano”. Tisane rinfrescanti e ricostituenti. Usi erboristici moderni: ipertensivo e tonicardico. Usato nell’alimentazione e in veterinaria. Preparazioni antiche: tisane, pappine, impiastri. Preparazioni moderne: in medicina, preparazioni pulverulente. In erboristeria tisane e impiastri. Una preparazione antica: contro gli apostemi caldi un impiastro di farina d’orzo e aceto per farli tornare indietro o farina e tuorli d’uovo per farli maturare velocemente. Per liberare le vie del fegato cuocere l’orzo con radici di finocchio, appio (Sedano selvatico) e accompagnare con oxysacchara (Sciroppo dell’Antidotaire Nicolaei composto da succo di melagrana, zucchero e aceto, contro le febbri malariche e per purgare la bile nello stomaco).
Note La manna in antichità era identificata con una moltitudine di cose. Era il succo di un’erba, la rugiada che cade su erbe diuretiche della Grecia, corteccia del frassino o di altri alberi.
Note Insieme al grano è il cereale più antico, nato in Asia occidentale, dalla Palestina all’Afghanistan. L’Orzo di Germania è molto probabilmente venuto dall’Abissinia. Già gli antichi Egiziani conoscevano il modo di fabbricare dall’orzo la birra. Oggi con questo cereale si produce anche l’whisky e la vodka. Interessante notare come la parola tisana viene dal greco ptisanè = pestare (sott. Krithè = orzo) che indicava nella Grecia antica una pozione refrigerante.
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Papaveri ortacci
Polmonaria
Rabarbaro
Taxon attuale: Papaver rhoeas L. Nome volgare toscano: Rosolaccio, Papavero erratico, Papavero serchione, Papavero salvatico, Pittadonne, Rosillaccio, Rosetta del frumento, Reas, Quattro-fiori, Bubboline, Bombacella, Bamboccia, Bambagella, Pastricciani, Scitole Nome volgare antico: Rosule, Rosette
Taxon attuale: Pulmonaria sp.pl. Nome volgare toscano: Polmonaria, Polmonaria, Borrana salvatica, Salvia di Jerusalemme Nome volgare antico: Polmonaria
Taxon attuale: Rheum rabarbarum L. Nome volgare toscano: Rabarbaro di Ponente, Rabarbaro di Siberia, Reo indiano, Reo sinico, Rabarbaro, Reubarbaro Nome volgare antico: Rabarbaro
Ambiente in Toscana: ubiquitario, soprattutto in campi di cereali. Simbologia: senza avere grandi simbolismi gerarchici o pittorici, questo umile ma splendido fiore ha sempre avuto una valenza altissima popolare. Infatti se provate a guardare dentro il fiore del papavero, vi accorgerete che al centro si vede nettamente un segno di croce e questo, unito al colore rosso fuoco del rosolaccio, basta per fare del fiore un simbolo della Passione di Cristo e di Cristo stesso del suo sangue eucaristico versato per la Salvezza degli uomini. Non solo. Il papavero cresce spesso in mezzo ai campi di grano simbolo del Corpo di Cristo e quindi è visto come un “compagno” assiduo del nostro Signore. Composizione: antocianosidi, alcaloidi (rhoeadina). Usi erboristici antichi: il papavero è freddo e secco. Pulisce le macchie e i tumori dell’occhio, calmante per i bambini. Contro le infezioni e l’infiammazione del fegato. Usi erboristici moderni: blando sedativo nervoso, pettorale. Preparazioni antiche: semi tritati nel latte delle donne per addormentare i bambini. Preparazioni moderne: sciroppo, infuso dei petali. Una preparazione antica: per far dormire il malato applicare sulle tempie un impiastro di papavero con latte di donna e bianco d’uovo.
Ambiente in Toscana: boschi di latifoglie fino a 1600 mt.
Note: esiste nell’antica spezieria era usato anche il papavero bianco (P. somniferum, utile per la tosse) e quello nero (P. setigerum, pericoloso perché “provoca apatia e può uccidere).
La teoria della “Signatura”
Composizione: la pianta ha mucillagine, una saponina, del tannino, acido silicico, fitosterina, zuccheri, alcool cerilico, nitrati di potassio e di calcio, sali minerali. Usi erboristici antichi: per guarire un polmone malato va mangiata spesso o unita a sciroppi che guariscano il polmone. Usi erboristici moderni: diuretico, emolliente, pettorale. Preparazioni antiche: pianta in insalata. Preparazioni moderne: succo fresco della pianta mescolato a miele, (una cucchiaiata di succo due o tre volte al giorno, infusione (una cucchiaiata della pianta secca per tazza), decotto: (5 grammi per 100 d’acqua, bollire 8 minuti), 2-3 tazze; (10% bollire 10 minuti) per irrigazioni, clisteri, colluttori. Sciroppo (tintura dei fiori 10 parti, sciroppo di timo 20 p., sciroppo semplice 70 p.) 3-6 cucchiai. Note Secondo l’antica teoria della Segnatura, le caratteristiche morfologiche della pianta indicavano l’organo o la funzione a cui la pianta poteva essere utile. La polmonaria, con le sue foglie macchiate, ricordava gli alveoli polmonari e quindi era utile per tutte le affezioni dell’apparato respiratorio.
Il grande alchimista Paracelso (Einsiedeln, 14 novembre 1493 – Salisburgo, 24 settembre 1541) nel XVI° secolo capisce che “le cose dell’arte medica debbano derivare dalla natura, non dall’autorità ma da esperienza propria”, rifiuta la Teoria degli umori (la Scuola di Ippocrate, Polibio, Anassimene, Galeno) e sostiene che la salute o malattia dipendono dallo squilibrio di tre principi chimici: il mercurio, lo zolfo e il sale e l’organismo umano è modulato dall’Universo. A lui la novità nel pensare l’organismo umano come organismo chimico. Ma nella sua visone anticipa anche un’altra grande teoria medica che “abbozzata” già negli scritti di Galeno (131-200), fu ufficializzata con la pubblicazione del libro di Jacob Boehme, Signatura Rerum (La segnatura delle cose) nella prima metà del XVII secolo. Questa teoria nasce come filosofia spirituale secondo la quale tutto ciò che è presente in natura è stata creata ad uso e consumo dell’uomo e, per farne capire l’utilizzo, il Creatore ha posto un segno sulle piante che ha creato. Da questo “segno”, che indica l’organo umano a cui la pianta è destinata, si possono trarre indicazioni per curare tutte le malattie. Un valido aiuto era rappresentato dall’astronomia, che era considerata una superstizione dalla medicina scientifica ma che nella storia rappresenta un importante aspetto del pensare medico fino alla fine del XIX secolo. Si poteva quindi distinguere: 1 - una segnatura della forma, ad esempio il gheriglio delle noci serviva per le malattie del cervello, la parte sterile dell’equiseto per i disturbi della spina dorsale ecc.; 2 – una segnatura del colore, per cui lo zafferano che colorava di giallo tutte le preparazioni era utile per le malattie del fegato, l’ iris invece era utilizzato per le contusioni per il suo colore viola che faceva pensare agli ematomi; 3 – una segnatura della funzione per cui, ad esempio, le spine del biancospino erano utilizzate per eliminare le spine penetrate nella carne, un sasso riscaldato serviva per curare il morso del cane che rendeva “calda” la parte interessata. “Similia similibus curantur o curentur”.
Ambiente in Toscana: non presente. Composizione: olio essenziale, derivati antracenici, Antrachinoni, Usi erboristici antichi: calda e secca al secondo grado. Ha la virtù di purgare i caratteri collerici, diuretico, febbri anche gravi, infiammazione del fegato e ostruzione della milza. Usi erboristici moderni: tonico astringente, stomachico, lassativo. Preparazioni antiche: sciroppi, infuso, decotto. Preparazioni moderne: polvere, infuso, vino. Una preparazione antica: contro le febbri simultanee: cuocere in acqua semi di zucca, melone, cocomero, cetriolo; in quest’acqua diluire cassia e tamarindo, filtrare; nel liquido ottenuto far macerare per una notte, due dramme di rabarbaro. Al mattino filtrare ancora e dare a bere. Note Il rabarbaro è una delle droghe più conosciute perché utilizzate in Cina fin dal 2700 A.C. Dioscoride e Plinio lo conoscevano col nome di Rha proveniente dall’Asia minore.
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Ratanja (radici di)
Rose rosse
Taxon attuale: Krameria triandra Ruiz et Pav. Nome volgare antico: Ratanja
Taxon attuale: Rosa gallica L. Nome volgare toscano: Rosa maggese, Rosa ortense, Rosa mistica Nome volgare antico: Rosa rossa, rosa di Provenza
Ambiente in Toscana: non presente. Composizione: catecolo, tannini. Usi erboristici antichi: antiemorragico, contro lo scorbuto, ulcere delle gengive o gengive indebolite. Usi erboristici moderni: antidiarroico, emostatico. Preparazioni antiche: decotto della radice. Preparazioni moderne: estratto secco, pomate, supposte. Una preparazione antica: alcool con ratania acetato: quattro dramme di estratto di ratania, quattro once do alcool a 24°, otto once di aceto: in infusione tre giorni in matraccio di vetro, filtra e serba in boccoa di vetro con tappo smerigliato.
Ambiente in Toscana: cedui, boscaglie, prati aridi fino a 1400 m. Simbologia: “Maria, la rosa fu bianca come la sua verginità e rossa per il suo amore, bianca per il suo amore a Dio e rossa per la sua compassione.” Così scrive San Bernardo. Un tempo esistevano rose senza spine che si trovano nel Paradiso terrestre, ma dopo la caduta di Adamo le rose si sono procurate delle spine, anche per distinguersi dall’unica rosa senza spine che è la Vergine Immacolata. Le rose per la loro bellezza sono da sempre state associate ai Santi o alla Madonna. La loro valenza simbolica varia essenzialmente col loro colore: il colore rosso è associato al sangue e quindi al martirio dei Santi, una croce di rose è il tormento dei martiri in Sant’Ambrogio ed è simbolo degli Apostoli alla Crocifissione di Cristo; il colore bianco è associato alla purezza, all’umiltà e quindi ai Santi non martirizzati, alle Vergini Beate e quindi soprattutto alla Madonna; le rosate sono quelle del Bambin Gesù; le rose gialle sono simbolo del Papato, dei Magi. Se invece guardiamo alla composizione del fiore possiamo notare come la più selvatica di tutte, la Rosa canina, con i suoi cinque petali è simbolo delle cinque ferite di Gesù, e simbolo della Vergine Maria. E’ simbolo delle fiammelle di fuoco della Pentecoste e in tempi non remoti ancora si facevano piovere petali di rosa, a Pentecoste, durante la cerimonia sulla testa dei fedeli. Una rosa d’Oro diventò nel Medioevo il simbolo di Cristo perchè nella quarta domenica di quaresima in San Pietro nel 1096 Urbano II benedisse la prima rosa d’oro. Con i frutti della pianta, in onore della rosa-Maria, dal XII° secolo si diffuse il Rosario, soprattutto tra i discepoli di San Domenico e nel XV secolo il rosario acquisì la struttura come oggi la conosciamo. La Vergine stessa spesso, nelle raffigurazioni di giardino celeste o Hortus conclusus, è chiusa in un cerchio di rose o garden rose, simbolo dell’Immacolata Concezione, della purezza. In molti dipinti si osservano delle rose nella Natività della Vergine, simbolo anche di umiltà. Dante descrive la Madonna come una mistica Rosa; l’Assunzione della Vergine, l’Incoronazione della Vergine sono sempre
Note Pianta molto usata in colluttori e gargarismi, come dentifricio, in tutte le forme di sanguinamento anche interno.
accompagnate fa festoni di rose. Nell’Antico Testamento troviamo un attributo di Cristo come rosa di Sharon nel Cantico (2:1), la rosa di Jeriko. La rosa è un attributo di San Giosberto, Santa Dorotea, Santa Rosa da Viterbo, Santa Elisabetta d’Ungheria, Beata Colomba da Rieti, Santa Rita di Roccaporrena, Teresa del Bambin Gesù. Un grembiule pieno di rose è un simbolo di Santa Elisabetta d’Ungheria, un canestro per Santa Dorotea di Cappadocia, una corona per Santa Cecilia, bianche per Cecilia, rosee per Valeriana, per Santa Rosalia e Santa Rosa da Viterbo, (XIII°sec.). Una rosa dorata è simbolo della morte di Cristo sulla Croce; il fiore è legato alla leggenda di Santa Caterina da Siena, è un attributo degli angeli, per Sant’Ambrogio simbolo delle anime benedette del Paradiso. Vari sono i roseti fioriti per azioni miracolose dei Santi, uno per tutti valga quello alla Porziuncola dove San Francesco andava a gettarsi quando sentiva i desideri della carne. Una leggenda riguarda Santa Maria della Rosa a Lucca: narra che un pastorello muto vide una rosa in un campo. La colse per suo padre e cominciò a parlare. Era Gennaio e quindi fu gridato al miracolo anche perchè si vide che la rosa era cresciuta accanto ad una immagine di Maria e attorno a quella immagine fu costruita una Chiesa. Composizione: eterosidi antocianici, olio essenziale (geraniolo, citronellolo), tannini. Usi erboristici antichi: rosa fredda al primo grado e secca al secondo. Pulisce lo stomaco dagli umori freddi, antidiarroico, contro le debolezze del cuore, contro il vomito, contro l’irritazione del fegato, colliri, unguenti per il viso, profumo contro il deliquio. Usi erboristici moderni: astringente, per gargarismi e colluttori. Usata in cosmetica e profumeria. Preparazioni antiche: miele rosato, zucchero rosato, acqua di rose, olio rosato e sciroppo rosato. Preparazioni moderne: colluttori, miele rosato, conserve. Una preparazione antica: olio rosato: si triturano le rose fresche, si unisce olio di oliva, si mette in vetro e si espone per 40 giorni al sole; (si unge fe-
gato o testa per i dolori). Zucchero rosato: tagliuzzare petali di rosa, unirli a zollette di zucchero e pestare il tutto. Asciugare trenta giorni al sole, in vetro, ogni giorno mescolare. Si può aggiungere a preparati con rose o ad altri preparati. Note Col termine rosa rossa si indicava una rosa (probabilmente quella di Provenza = gallica), i cui fiori erano usati nella febbre, nelle cefalee, nei dolori delle orecchie, delle gengive, e nell’infiammazione della bocca, degli occhi e gola.
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Sasso frasso
Sabina
Salsaparigi
Sena orientale
Taxon attuale: Sassafras albidum (Nutt.) Nees Nome volgare antico: Sasso frasso
Taxon attuale: Juniperus sabina L. Nome volgare toscano: Sabina Nome volgare antico: Sabina
Taxon attuale: Smilax officinalis Kunth Nome volgare toscano: Salsapariglia, Salsapariglia, Zarsapariglia, Zarzaparilla. Nome volgare antico: Isopiglio
Taxon attuale: Cassia angustifolia L. Nome volgare toscano: Senna fiorentina, Senna agasina, Senna d’Agasia Nome volgare antico: Sena orientale
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Composizione: olio essenziale (safrolo). Usi erboristici antichi: usato in decotti antisifilitici, in decotti con il guaiaco, contro l’artrite e sciroppi con la salsapariglia. Usi erboristici moderni: dalla corteccia delle radici si estrae un olio essenziale, utilizzato in erboristeria per le proprietà stimolanti, carminative e diuretiche e in profumeria per l’aroma particolare. Gli estratti di corteccia di sassofrasso vengono impiegati come aromatizzanti nella preparazione di varie bibite. Preparazioni antiche: decotto, sciroppo. Preparazioni moderne: olio essenziale usato in profumeria e in erboristeria. Una preparazione antica: si utilizzava nell’Oppiato napoletano che era una miscela di foglie di senna, ermodattili e turbit, salsapariglia, legno di guaiaco; utile nell’idropisia, vertigini, epillesia.
Ambiente in Toscana: non presente in Toscana. Composizione: tannino, acidi organici, olio essenziale. Usi erboristici antichi: calda e secca al terzo grado. Contro i dolori dello stomaco e dell’intestino. Usi erboristici moderni: emmenagogo, tossico. Preparazioni antiche: vino. Preparazioni moderne: polvere, uso esterno. Una preparazione antica: quattro o quindici grani di Sabina sopprimono i mestrui. Succo mischiato con latte e zucchero per eliminare i vermi e in cataplasma con lardo per guarire la scabbia.
Ambiente in Toscana: non presente. Simbologia: per la facilità con cui si attacca a qualsiasi supporto, la pianta è simbolo di fedeltà e attaccamento ma anche di oppressione. Composizione: amido, minerali, saponine. Usi erboristici antichi: antigottoso, diuretica, antidolorifica. Usi erboristici moderni: antisifilitico, antireumatico, contro le dermatiti, diuretico. Preparazioni antiche: polvere di radice, sciroppo, decotto. Preparazioni moderne: estratto fluido, decotto. Una preparazione antica: una preparazione contro la gotta univa l’estratto di Guaiaco, l’alcool di salsapariglia, resina di scialappa e sciroppo semplice.
Ambiente in Toscana: non presente. Composizione: antrachinoni, antracenosidi, Usi erboristici antichi: la senape è calda e secca. Veniva utilizzato solo il seme. Ha la proprietà di disperdere attenuare e consumare gli umori. Contro le paralisi, difficoltà respiratorie, indurimento della milza, come diuretico e per levare gli umori dalla gola. Usi erboristici moderni: lassativo e purgante. Preparazioni antiche: impiastri, seme cotto nel vino o nell’olio, seme masticato. Preparazioni moderne: infuso, tisane, polvere e sciroppi. Una preparazione antica: contro la paralisi degli organi mettere il seme in piccoli sacchetti cotti poi nel vino; applicateli sulle parti colpite. Per provocare “i fiori” (ciclo mestruale), bagnare il basso ventre con l’acqua in cui sono stati cotti i semi. Per prosciugare ugola e cervello dagli umori fare un gargarismo col vino in cui sono stati cotti i semi con gomma adragante.
Note Il componente tossico dell´olio essenziale di Sassafrasso è il safrolo che ha proprietà neurotossiche. A dosi elevate provoca paralisi respiratoria preceduta da forte depressione circolatoria. Su cavie ha dimostrato di essere epatocancerogeno. E’ usato anche per confezionare la droga Ecstasy.
Note Era utilizzata come abortivo.
Note La nostra Salsapariglia è Smilax aspera ma non è dato di sapere se corrisponde alla Smilax officinalis che cresce in america latina.
Note Originaria dell’Arabia e delle coste vicino a Babilonia, era una delle erbe esotiche più usate in caso di infiammazioni con muco.
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Simaruba
Tè germanico
Tè verde
Tiglio (foglie di)
Taxon attuale: Simaruba officinalis D.C. Nome volgare antico: Quassia simaruba
Taxon attuale: Agrimonia eupatoria Kuntze Nome volgare toscano: Thè del Nord, Thè francese, Thè germanico Nome volgare antico: Tè germanico
Taxon attuale: Camellia sinensis Kuntze Nome volgare toscano: Tè, Thè Nome volgare antico: Tè
Taxon attuale: Tilia platyphyllos Scop. Nome volgare toscano: Tiglio nostrale, Tiglio d’Olanda, Tiglio d’estate, Tiglio femmina. Nome volgare antico: Tiglio
Ambiente in Toscana: non presente. Composizione: simarubina. Usi erboristici antichi: astringente. Usi erboristici moderni: tonico, amaro, febbrifugo. Preparazioni antiche: decotto. Preparazioni moderne: decotto. Una preparazione antica: contro la dissenteria, una dramma di polvere due, tre volte al giorno.
Ambiente in Toscana: prati aridi e incolti fino a 1000 m. Composizione: flavonoidi e tannini. Usi erboristici antichi: utilizzata contro la cateratta negli occhi, astringente e vulneraria. Usi erboristici moderni: antidiarroico, per malattie epatiche e renali; per uso esterno per piaghe e punture d’insetti. Preparazioni antiche: impiastri col grasso contro i lividi, erba fresca pestata o tagliuzzata, mescolata al vino contro i morsi dei serpenti, contro le ferite da spada e lancia, decotto con la radice per i dolori al ventre. Preparazioni moderne: infuso. Una preparazione antica: contro i morsi dei serpenti e altre bestie velenose una mistura di due dracme (8 gr.) di polvere di acrimonia e due ciati (2 decilitri) di vino; la polvere insieme all’aceto guarirà presto ferite da lancia o da altra arma bianca; contro le fistole, raccogliere tre radici di Acrimonia, curandi di essere devoti a Dio e di aver fede nella guarigione e recitando tre Pater noster e tre Ave Maria. Quindi appendere queste tre radici di Acrimonia col nome del paziente sopra del fumo fino a che non siano secche. A quel punto la fistola sarà guarita.
Ambiente in Toscana: non presente. Eventualmente coltivato come ornamentale. Composizione: flavonoidi, catecoli e tannini, caffeina, teofillina, vitamine. Usi erboristici antichi: digestivo, diuretico, rinforzante. Usi erboristici moderni: digestivo, diuretico, stimolante cerebrale e muscolare. Astringente in uso esterno. Preparazioni antiche: infuso, cataplasmi. Preparazioni moderne: infuso.
Ambiente in Toscana: boschi umidi, forre fino a 1200 m. Simbologia: il Tiglio è simbolo di amicizia e di fedeltà. Per assicurarsi un amore longevo e fedele un ramo di tiglio e uno di quercia vanno legati con un nastro verde. Per aumentare il potere di seduzione e per assicurarsi un amore fedele si possono mischiare il profumo di tiglio e quello di rosa. Fiori di tiglio tenuti dentro a un sacchetto di seta proteggono dai cattivi influssi e assicurano calma e serenità. È considerato ovunque un albero benefico e protettore. Composizione: mucillagine, alcani, tracce di geraniolo ed eugenolo. Il tiglio contiene inoltre svariati principi attivi quali tannini e un olio essenziale ricco di farnesolo, tiliacina ed una saponoside. Usi erboristici antichi: si usava moltissimo miscelato ad altre piante in composti vomitivi, antiartritici, calmanti. Usi erboristici moderni: leggero sedativo del sistema nervoso centrale, bechico. Preparazioni antiche: acqua di tiglio a freddo e infuso. Preparazioni moderne: in medicina naturale viene fatto largo uso della tintura madre e del macerato glicerinato chiamato Tilia tomentosa, usato soprattutto nella cura delle molteplici espressioni della distonia neurovegetativa quali sindromi ansiose, insonnia, epilessia, ipertensione arteriosa, palpitazioni, tachicardia. Il tiglio si propone come decongestionante, emolliente, antispasmodico, sedativo, ipotensivo e si offre anche come sudorifero nel trattamento degli stati influenzali e nelle sindromi da raffreddamento. Oltre alle citate tinture madri, all’olio essenziale ed al macerato glicerinato, il tiglio si può assumere anche in infuso per lavaggi, gargarismi e sciacqui. Una preparazione antica: in un elettuario di scorza veniva miscelata acqua di tiglio, succo di cedro, estratto alcolico di scorza di radice di granato e gomma dragante. Si usava contro la tenia.
Note Il nome deriva da dal latino “agros” e “monia” (abitatore dei campi) anche se con “argema“ si intendeva un’ulcera dell’iride.
Note Un liquore prodotto dei monaci olivetani è il Tre Monti (48 gradi, molto forte), di gusto secco e vigoroso, ottenuto con foglie e fiori di tiglio.
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Valeriana silvestre
Viole mammole Taxon attuale: Viola odorata L. Nome volgare toscano: Viola mammola, Viola maura, Mammola, Mammoletta, Mammolina, Violacea, Violetta, Vivola mammola Nome volgare antico: Mammola, Violetta
Taxon attuale: Valeriana officinalis L. Nome volgare toscano: Valeriana, Valeriana silvestre, Valeriana minore, Narso salvatico, Amantilla, Agnellino, Bosone, Erba gatta, Gataria Nome volgare antico: Phu
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Ambiente in Toscana: prati umidi, sponde, boschi umidi (da 0 a 1400 m.). Simbologia: la valeriana è da sempre stata un simbolo della rilassatezza che dà la forza, chiamata anche Erba di San Giorgio (in Spagna). Composizione: alcaloidi (chatinina e valerina), olio essenziale, eterosidi, esteri a proprietà sedative. Usi erboristici antichi: Valeriana calda e secca al secondo grado. Radice fatta essiccare al sole, diuretica come vino insieme al finocchio e all’anice, vino con crusca di grano per problemi al petto, fomento con decotto per umori superflui dell’utero o supposta di cotone con questa acqua e olio di muschio bianco e d’oliva, contro l’ostruzione del fegato e della milza da causa fredda, debolezza di vista, pestilenza, tosse, asma, epillesia, catalessi, scorbuto. Usi erboristici moderni: antispasmodico e sedativo nervoso. Preparazioni antiche: decotto, vivo, supposte. Preparazioni moderne: infuso, acqua distillata, polvere, tintura, estratto alcolico. Spesso associata ad altre droghe, Valeriana composta (con Giusquiamo, Belladonna, Passiflora ecc.). Utilizzata in omeopatia e veterinaria. Una preparazione antica: nella Teriaca di Venezia la valeriana era solo uno dei tanti componenti. Vi entravano elementi inquietanti come i Trocisci di vipera femmina, non gravida, catturata qualche settimana dopo il letargo invernale, senza coda e visceri, bollita in acqua di fonte salata con aneto. Dopo la cottura la carne veniva sminuzzata, impastata con pane secco, trasformata in piccole palline e posta ad essiccare all’ombra. Altre sostanze erano l’Oppio, il benzoino, la mirra, la cannella, il croco, il solfato di ferro, la radice di genziana, il mastice, la gomma arabica, il fungo del larice, l’incenso, la scilla, il castoro, il rabarbaro, la calcite, la trementina, il carpobalsamo, il malabatro, la terra di Lemno, e in particolare l’opobalsamo. Intorno a questo prezioso elemento si svilupparono fantasie e leggende senza mai definire veramente quale dei balsami naturali o artificiali fosse realmente l’opobalsamo. Molti credettero che la droga fosse costituita dalla
gomma raccolta, per incisione della corteccia, dalla pianta del balsamo, altri il prodotto che si otteneva per decozione dei ramoscelli di una pianta che nasce e cresce in Perù (Balsamo del Perù). Comunque l’ingrediente era difficilmente trovabile e veniva sostituito con olio di noce moscata che assomigliava molto per odore e sapore. L’opobalsamo aveva spiccate proprietà terapeutiche ed era impiegato anche come singolo semplice in molti alessifarmaci (farmaci contro i veleni). Note Il nome deriva da Valeria, il nome di una provincia della Pannonia inferiore o dal latino valere = star bene. Probabilmente la prima valeriana utilizzata era la cosiddetta Valeriana phu o semplicemente phu, la valeriana asiatica (Valeriana dioscoridis – non più usato) e considerata semplicemente un diuretico. Nel XIV° secolo furono scoperte le altre virtù erboristiche e terapeutiche. Nel Medioevo era anche usata in filtri d’amore, in pratiche magiche per provocare sogni reali e, nella cultura druidica, in riti esoterici per viaggiare nel subliminale.
Ambiente in Toscana: margini dei boschi, siepi, luoghi erbosi e selvatici; spesso coltivata fino a 1200 mt. Simbologia: la viola è simbolo della modestia e della discrezione ma anche della passione e dell’intelligenza. Composizione: minerali e mucillagine. Usi erboristici antichi: la violetta è fredda al primo grado e umida al secondo. Antipiretico, per il mal di fegato, contro i dolori di testa, rinfrescante, lassativo e contro i foruncoli. Usi erboristici moderni: emolliente. Preparazioni antiche: sciroppo, zucchero, miele ed olio, decotto. Preparazioni moderne: gargarismi, lozioni, linimenti. Una preparazione antica: sciroppo di violetta: cuocere la pianta in aqua e lasciarla macerare per una notte; poi filtrare e aggiungere lo zucchero. Olio: cuocere la pianta nell’olio, filtrarlo e poi aggiungere fiori freschi e lasciarli macerare per venti giorni; filtrare e aggiungere altri fiori. Per far dormire un malato con febbre alta bagnargli i piedi e la fronte col decotto caldo della pianta. Note Un altro elettuario si usava contro la sifilide: radice di altea, consolida maggiore, enula campana, foglie di betonica, edera terrestre, issopo, salvia, veronica, zafferano in polvere e sciroppo semplice.
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Preparati
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Segreto di antipocondria Contro l’ipocondria veniva usato l’ammoniaca liquida diluita con l’acqua o con l’olio in uso interno. Alcool con colocintide: mezza oncia di colocintide, infusione in sei once di alcool anisato per 24 ore e poi filtrare. Diluita nell’acqua o associata a misture. Gas termossigene: riempire fino a metà un matraccio di puro nitro, mettere un collo di vetro che finisce in campane circondate di acqua, circondare il matraccio con carboni ardenti, raccogliere il gas. Usarlo puro o miscelato all’ambiente. Cerotto di Achilon (Diachilon) o sia cerotto comune Mucillagine di radiche d’Altea, mucillagine di semi di Lino, mucillagine di Fieno greco una libbra, tre libbre di olio di oliva, 18 once di litargirio (piombo semivetrificato, ridotto in scorie per l’azione del fuoco) passato per velo; si fa bollire tutto insieme agitando con un mestoloni legno, fino alla consumazione dell’umido fino a che non abbia acquistato la consistenza del cerotto. Magnesia alba Carbonato di magnesia detto anche terra magnesiaca. Il metallo presente è il Magnesio detto Magnum per evitare confusioni con altre magnesie. Sal d’Epsom, o sia sale d’Inghilterra quanto piace. Si scioglie in acqua e si filtra, poi con liscivia di Sal di Tartaro, o di ceneri clavellate (Potassa), si precipita una polvere bianca che è la Magnesia, si zucchera, si asciuga e conserva. Assorbe e neutralizza gli acidi ed è un purgante non drastico. Sola o mescolata al rabarbaro. Precipitato rosso Prob. Mercurio corrosivo rosso Mercurio vivo, si scioglie in Nitro, si pone in una storta e si distilla a bagno di rena fino a secchezza; il nitro va via sottoforma di vapori rossi e rimane una polvere bianca. Allora si rinforza il fuoco finchè la polvere non diventa rossa. Si usava per la sifilide o per eliminare la muffa
Altre indicazioni
Cerotto di diapalma Due libbre di sapone d’ossido di piombo semivetroso, sei once di grasso di castrato, struggi a fuoco lento e poi aggiungi due once di ossido di ferro rosso e fanne un cerotto. Fior di zolfo Zolfo comune pestato; si mette in un recipiente di vetro a tenuta e si pone in fornello a bagno di rena. Si procede alla sublimazione con fuoco moderato: lo zolfo si liquefa, si alza un vapore denso e bianco che s’attacca in forma di polvere bianca al cappello del recipiente. Quando se ne è formata una certa quantità si raccoglie e questo è il fior di Zolfo. Cremor tartaro Tartrato acidulo di potassio. Sale contenuto nel mosto dell’uva, in cristalli, unito ai brodi fortificanti Una parte di tartaro bianco puro, si fa bollire in acqua poi si filtra attraverso un panno di lana in un recipiente di legno. Si lascia raffreddare e poi si raccolgono i cristalli che si sono addossati alla parete del recipiente. Nitro purificato Si prende del Nitro, si diluisce in quattro volumi di acqua, poi si filtra su carta e dopo si fa svaporare fino ad una pellicola. Poi si mette in luogo temperato a cristallizzare finchè non vengono dei bei cristalli prismatici. Utilizzato in polveri antispasmodiche. Gomme Le gomme sono dei sughi mucillaginosi che scolano da alcuni alberi e diventano sode quando perdono il loro umido; si sciolgono nell’acqua. Quando sono più morbide si parla di mucillagini. Le gomme resine si sciolgono nel vino. Varie sono le gomme famose: Gomma adragante, fredda al secondo grado e umida al primo, essudata dall’Astragalus gummifer, chiamata anche, forse Sarcocolla. Gomma ammoniaca, calda e secca la secondo grado, essudata dalla Ferula communis. Gomma arabica, calda e umida al primo grado, essudato da diverse specie di Acacia.
Gomma serapiade, calda e secca al terzo grado, essudato dalla Ferula persica. Gomma elemi, essudato da Boswellia freeriana. Gomma anime, essudato da un albero simile al Mirto. Gomma chino, essudato da un eucalipto o dalla Coccoloba uvifera. Gomma Vopal, essudato da Rhus copallinum. Gomma lacca, essudato del Ficus india. Gommagutta, essudata dal genere Garcinia.
Indicazioni presenti sui recipienti in ceramica Mele Rosato Cola.to: Miele rosato colato. Svo dacetosta D Cedro: Suppositorio? Citrus medica. Svo d’Isopo: Hyssopus officinalis. Svo d asentio cõpos: Artemisia absinthium. Svo di lupoli: Humulus lupulus. ‘o’ Mirtino: Myrtus communis.
Indicazioni presenti su recipienti in vetro “a bocca larga” Spezie di apente: diapente = 5 spezie? Spezie di Jerapis: forse Serapis? Serapias lingua. Gioje ambra grigia e margherite: Bellis perennis. Pasticche purgative Salpr (non si legge) Forse salpetre o salpietra, nitrato di potassio chiamato anche sale infernale. Thè verde della Cina: Camellia sinensis. Sale di Prunella: Prunella vulgaris – usata soprattutto per le piaghe dell’apparato oro-faringeo. Era aggiunta al mastice per pulire le gengive alle persone sofferenti di scorbuto; il succo veniva utilizzato con olio di rose e aceto per i mal di testa. Usata anche contro i morsi di serpenti insieme ad acqua di rose. Rabarbaro: Rheum rabarbarum. Coralli Rossi: Corallium rubrum. Allume di Rocca: Solfato di alluminio. Trocisci di Spodio: Avorio tagliato a pezzi e macinato e riscaldato per eliminare l’umidità. Al posto dell’avorio si usavano anche ossa calcinate di animali che davano una sorta di carbone contro la diarrea. Allume di Rocca Coralli Rossi
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Sangue di Drago: In alchimia era il cinabro (solfato di mercurio). In realtà spesso era una gomma estratta da Dracaena draco o per decozione del frutto di Calamus rotang; usata come astringente. Bolo di Nocera: Il bolo era una terra grassa e oleosa usata per opreparare medicamenti. Fiori di Belzuino: Sostanza resinosa contenente acido benzoico. Cono di Cedre […] spa (non si legge): Cedrus atlantica. Arcano duplicato: Solfato di potassio. Corno di Cervio: Usato per produrre fosfato di calce. Si prendeva il corno, si sbiancava al massimo e poi si riduceva in polvere; se ne faceva una gelatina per il mal di stomaco, oppure veniva usato un antimonio calcinato come antielmintico. Spezie di jerapis: Serapias lingua. Sandracca in lacrima: Resina estratta da Juniperus communis: è a gocce, arida e si stritola facilmente. Si pensava che da J. oxycedrus venisse la resina migliore. La sandracca è una resina estratta dal Tetraclinis articulata, albero della famiglia delle Cupressaceae originario del Nordafrica. È usata per la preparazione di vernici e lacche, talvolta pura, ma più spesso miscelata ad altri componenti. Aggiunta assieme ad altre resine alla gommalacca diventa un ottimo prodotto per la protezione di mobili e strumenti musicali. Gomma lacca in lacrima Balsamo Tolutano: Toluifera balsamum. Zucchero antelmitico: Mercurio dolce, Artemisia maritima e zucchero. Sale inglese: Solfato di magnesio. Belzuino: Si ottiene da Styrax benzoin Dryand, pianta dell’ isola di Sumatra. Si incide e si ottiene un liquido resinoso che si chiama belzuino in gosse masse secche, fragili, lucenti, bianchiccie se pure. Contiene acido ossibenzoico che si estrae col calore nei coni, o con calce o potassa. Si usa sciolto nell’alcool. Usato in profumeria o per fare vernici. Mastice in lacrima: Resina ottenuta da Pistacia lentiscus.
Canfora: Olio volatile ottenuto da Cinnamomun camphora. Roco di Marte aperie: forse Croco di Marte che era lo zafferano di Marte, ossido di ferro, segno alchimistico. Coralli Rossi Sangue ircino Cri […] umano (non si legge) Sal di tartaro vetriolato: Carbonato di potassio in cristalli. Sangue ircino: sangue di capra o di porco.
Indicazioni su ampolline di vetro dette “nasse” che si caratterizzano per una piccolissima apertura Tintura di mirra e balsamo del coppaibe: Myrrhis odorata e Copaiva officinalis, sciolti nella tintura di tartaro erano usati in casi di gonorrea, malattie renali, ulcere e per alleviare i dolori della gotta.
giorni con seme santo, corallina, radice di felce maschio, foglie di senna, carbonato di potassio, oppio puro e vino. Laudano antisterico – In mortaio castoro di Russia, zafferano, estratto di oppio, olio di menta, ruta e macis.
Tintura di lacca: Tintura di una resina ottenuta dalla puntura di un insetto su una specie di Croton.
Laudano cinodiato – Mescolare e conservare per tre settimane polvere di oppio in succo di cotogne, chiodi di garofano contusi e noce moscata. Dopo una settimana zafferano sciolto in zucchero: contro le convulsioni.
Elisir di rabarbaro: Rheum rabarbarum.
Laudano corrosivo – Bicloruro di mercurio.
Citrato di magnese: Citrato di magnesio.
Spirito di coclearia: Cochlearia officinalis.
Spezie di iapittime: ?
Sale di China: Cinchona succirubra.
Sal volante: Carbonato di ammonio.
Olio di torli d’uovo
Tuzia: Fuliggine dei forni dei fonditori di bronzo composta da ossido di zinco. Ne venivano fatte delle palle e vendute. Le bianche si chiamavano Pampolix, le grigie Tuzia. Usate in pomate esterne contro piaghe ed emorroidi.
Olio di carabe ossia succino: Ambra gialla. Con rena umida e secca distillare l’ambra e si ottiene acido cuccinico liquido, in cristalli e un olio antireumatico. Con acqua distillata si estrae l’olio e si impasta con cenere.
Laudano muliebre – Oppio, sandalo rosso e cedrino, pepe lungo, macis e radice di valanga in alcool; si distilla e si aggiunfe sale anodino, zafferano e magistero di madreperle. Tonico e antispasmodico.
Cocciniglia: Colorante estratto dalle femmine degli insetti Dactylopius coccus, indicato nelle etichette con il numero E120Spodio spolverizzato: Carbone polverizzato. Spermaceti: Sostanza oleosa presente nella testa del capodoglio che si rapprendeva in masse bianche e grasse. Si usava dopo il parto, per contusioni, tossi, pleuriti, colera, dissenteria, per espellere la renella. Sciolta nell’olio di mandorle si usava per ungere le pustole del vaiolo per mantenerle umide e non far rimanere la cicatrice.
Olio di scorpione Inchiostro da scrivere Olio di torli d’uovo Tintura di Giusquiamo: Hyscyamus niger o albus. Spirito di melissa: Melissa officinalis. Olio di sasso: Petrolio. Olio di terebinto: Pistacia terebinthus. Tintura di China sanguigna: Cinchona succirubra. Spirito di spigo: Lavandula spica.
Laudano oppiito – Infusione di oppio, vino di malaga e zafferano. Laudano oppiato balsamico – Oppio puro, solfato di potassio, zafferano, liquirizia e balsamo peruviano. Laudano oppiato del Quercetano – Oppio acetoso, zafferano acetato, magistero di giacinti e di coralli, terra sigillata e perle. Laudano orinario – Succo di liquirizia purificato con alchechengi, trementina veneta, gomma dragante, mastice e laudano oppiato, Per la diuresi. Laudano senza croco – Sciogliere a fuoco lento chiodi di garofano, oppio purissimo in acqua e alcool. Laudano senza oppio – Sandalo rosso, cedrino, valanga, pepe lungo, cardamomo minore, macis, alcool carbonato di ferro, megistero di perle, estratto di zafferano.
Sale di assenzio: Carbonato o solfato di potassio.
Tintura di aloe: Aloe arborescens.
Grana paradisi: Semi di Amomum granumparadisi.
Tintura di mirra: Myrrhis odorata. Olio di terebinto: Pistacia terebinthus.
Acido solforico
Tuzzia
Laudano a liquido. Estratto con vino dall’oppio, era usato per procurare il sonno e lenire tutti i dolori acuti e cronici. Era composto da oppio puro, zafferano, cannella, chiodi di garofani macerati in alcool e vino di Spagna per 15 giorni. Usato anche in frizioni per dolori articolari, convulsioni, gotta e insonnia.
Tintura di lacca Tintura di belluino: Forse tintura di belzuino che era fatta da due once di Belzuino (resina tratta da Laurus benzoin) e una libbra di alcool che, allungato con acqua diventava lattiginoso e prendeva il nome di latte verginale. Usato per levare le macchie dalla pelle e moderare l’eccessivo rosso della faccia.
Laudano antielmintico – Infusione di quattro
Spirito di terebinto
Rasura di avorio: polvere di avorio del corno di cervo. Noci moscade: semi di Myristica fragrans. Diasandal: probabilmente elettuario di sandalo.
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Metolodologie e preparati
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Olio di ferite: Un olio particolare per ferite pericolose era fatto con trementina, olio di lino e ragia di pino a cui aggiungevano incenso, mirra, aloe, mastice, sarcocolla, macis croco e legno di aloe. Balsamo Nocenzi: Balsamo innocenziato o pontificio? – si otteneva con una miscela di incenso, mirra, benzoino, aloe, storace calamita, balsamo peruviano, balsamo del Tolù, mastice, gomma edera, estratto di iperico e assenzio montano, radice di angelica, serpentaria e genziana. Cicatrizzante delle ferite e blenorragia.
Essenza di viole mamo […] : Viola odorata. Essenza di viole mammole: Viola odorata Acido nitrico Olio di sasso: petrolio. Tintura di trementina: Oleoresina ottenuta da Pinus sylvestris, trementina di Venezia da Larix europaea, trementina di Cipro da Pistacia terebinthus, trementina di Strasburgo da Abies alba, trementina francese da Pinus maritima. Essenza di bacche di lauro: Laurus nobilis.
Essenza di arance forti: essenza di arancio selvatico.
Tintura di carabe: tintura d’Ambra, usata per l’apoplessia e l’epilessia.
Olio contro i veleni: forse teriaca o mitridato.
Olio di senapa: Sinapis alba, S. nigra.
Olio di scorpioni: Infusione per 10 giorni di punte di foglie di iperico, bollire 24 ore a bagnomaria.
Essenza di spigo: Lavandula spica.
Spremere la massa nel torchio e aggiungere foglie fresche di iperico, camedrio, calaminta e cardo santo. Cuocere a bagno maria per tre giorni e spremere. Aggiungere foglie di iperico bagnate nel vino bianco e riporre in vaso chiuso al sole per 8 giorni. Bollire per tre giorni, spremere e aggiungere foglie di scordio, calaminta montana, cardo santo, verbena, dittamo cretico, centaurea minore. Cuocere due giorni. Aggiungere radice di zeodaria, dittamo bianco, genziana, tormentilla, aristolochia rotunda, foglie fresche di scordio. Cuocere tre giorni e colare. Aggiungere storace calamita, benzoino, bacche di ginepro, semi di nigella, cannella, sandalo bianco, fiori di spinando, radice di cipero rotondo e cuocere tre giorni. All’olio aggiungere trecento scorpioni vivi, cuocere tre giorni e colare. Aggiungere polvere di rabarbaro, mirra, aloe epatico, spigonardo, croco, teriaca eletta, mitridate e bollire tre giorni. In bocce chiuse. Rimedio contro tutti i veleni.
Tintura di China sanguigna: Cinchona succirubra.
Laudano liquido Balsamo da ferite: Balsamo del tolù. Olio di cera: Cera gialla con calce viva. Si facevano delle palline e si distillavano in storte di ferro, controi calcoli e diuretico, anche per alopecia. Olio di sasso: petrolio.
Olio di mandorle d’olci canforate: Prunus dulcis. Tintura di zafferano: Crocus sativus. Spirito di bacche di ginepro: Juniperus communis. Essenza di Pergamotto: Citrus bergamia. Alcool con […] allum […] latte verginale (inchiostro sbiadito!): vedi tintura di Belluino. Liquore anodino: (lettura incerta per inchiostro sbiadito) Calmante. Spirito di coclearia: Cochlearia officinalis. Tintura di terebinto: Pistacia terebinthus. Tintura di castoro: Dal castoro si otteneva il grasso per i mali nervosi e dell’utero, la pelle per la gotta, le ghiandole per il sistema nervoso, come antiveleno e per l’epillesia, per gli orecchi, mal di denti e avvelenamento da oppio. Balsamo del coppaibe: Balsamo tratto da una oleoresina di Copaifera officinalis, albero del Brasile, usato per alcune malattie veneree. Balsamo del Perù: Si otteneva facendo bollire i rami e la corteccia di Myroxilon pereirae. Si deposita un balsamo rosso bruno, si miscela con sale di tartaro e si distilla con spirito di rose, Si prendeva con vino e zucchero di rose contro le malattie nervose. Entrava nella composizione delle pillole aromatiche.
Acetoliti: preparazioni in cui il solvente è l’aceto. Alcooliti: preparazioni in cui il solvente è l’alcool (ad esempio tinture semplici o composte). Bagno: immersione completa del corpo o di parti di esso (bagni oculari) in acqua con l’aggiunta di un infuso o un decotto. Brodo vegetale: decotto bollito per un tempo imprecisato. Cataplasma: preparato molle da applicarsi caldo sulla pelle per qualche minuto. Cerotti: unguenti resi appiccicosi con resine o sapone; applicati si pezzi di tela sono stati gli antenati dei moderni cerotti medicati. Colluttorio: preparato semiliquido per gengive, laringe, tonsille. Compressa: garza imbevuta del preparato e applicata sulla pelle. Crema: composto denso, costituito da un’emulsione di sostanze oleose in acqua, usato per lo più in cosmesi e applicazioni topiche dei medicamenti. Decotto: il materiale vegetale viene immerso per qualche diecina di minuti nel solvente (generalmente acqua) bollente. Digestione: il materiale vegetale rimane a contato col solvente per alcuni giorni a 40-60 °C. Si possono usare anche colonne refrigerate per recuperare l’evaporato. Si possono fare a freddo o a caldo a 40-50 °C. Estratti: preparazioni ottenute per macerazione o percolazione, nelle quali la soluzione deve essere concentrata eliminando l’acqua o il solvente in genere. Si possono ottenere tre tipi di estratti: Estratti fluidi: preparazioni in cui il solvente è evaporato fino a che il peso della soluzione non è uguale al peso della droga secca di partenza; Estratti molli: il solvente non è del tutto eliminato ma non bagna la carta da filtro; Estratti secchi: il prodotto consiste in una polvere fine, molto igroscopica. Elettuari: preparazioni medievali con un numero molto rande di erbe, con poca acqua, dure ed elastiche, conservabili per molto tempo. La proporzione tra drighe e materiale zuccherino si aggirava tra ¼ e ⅛. si cuoceva schiumando il miele fino a raggiungere a freddo la consistenza voluta. Mentre il composto si raffreddava si aggiungevano le erbe
nelle proporzioni voluta. Fomentazione: applicazione di compresse o cataplasmi caldi e umidi sulle parti malate. Fumigazione: vaporizzazione di oli essenziali o altre sostanze medicamentose nell’ambiente. Giulebbi: si preparavano in antico con acqua, vino o miele e succhi concentrati di frutti o erbe aromatiche, anche sgradevoli al gusto. I più famosi sono quelli con acqua di rose o di viole nella proporzione di 1,5 litri di acqua e un litro di miele. Alla fine del 1600 invalse l’uso di aumentare la quantità di zucchero in modo da cnservarli di più. Gliceroliti: preparazioni in cui il solvente è la glicerina. Idroliti: preparazioni in cui il solvente è l’acqua (infusi, decotti, tisane). Impiastro: medicamento semisolido che si modella sul punto da curare. Inalazione: fumigazione respirata direttamente dal paziente. Infusione: il solvente bollente (generalmente acqua), viene versato sulla droga e fatto raffreddare. Irrigazione: introduzione del liquido medicinale in una cavità del corpo. Latte: liquido ottenuto polverizzando semi oleosi nell’acqua. Lattovari = Elettuari Linimento: miscuglio oleoso per frizioni ad azione antinfiammatoria. Locchi: si preparavano in antico cuocendo insieme succhi di frutta o erbe con miele. Poi venivano aggiunte gomme, erbe aromatiche; molto più densi degli sciroppi e molto simili alle attuali caramelle gommose. Lozione: preparato liquido con cui si lava rapidamente una parte del corpo. Macerazione: immersione del materiale vegetale nel solvente ad una temperatura di 15 - 35 °C per un certo tempo. Il solvente deve essere sostituito più volte e il materiale alla fine spremuto. Mitridato: medicamento composto, secondo il Ricettario fiorentino, da 42 o più elementi tra vegetali, animali e minerali tenuti insieme anche dal miele. Morselletti: antichepreparazioni simili agli elet-
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tuari ma con proporzione tra droga e zucchero di 1/12. buone da succhiare sono i veri progenitori delle caramelle. Oleiti: preparazioni a base di olio di oliva o di semi. Percolazione: la droga finemente macinata viene attraversata da un flusso di solvente per un tempo variabile. Vengono usati anche più percolatori in serie mantenuti in agitazione per favorire l’omogeneità del processo. Pillole: Erbe finemente polverizzate e mescolate a succhi di frutta o acqua o liquidi di elettuari. L’impasto, consostente, veniva ridotto in grossi cilindri, i “maddaleoni”, che erano incartati e conservati a lungo. Al momento del consumo veniva aggiunta acqua e, ridotti in pillole, consumati subito. Polveri: venivano così indicate le antiche preparazioni in cui le erbe erano accuratamente seccate in corrente di aria fresca e polverizzate più o meno finemente; per l’uso interno la polvere doveva essere sottilissima, usata anche negli elettuari; per uso esterno era unita a cerotti e impiastri. Pozione: liquido da bere ottenuto per decozione o infusione. Profumo: essenza vegetale ricca per lo più in oli essenziali e sostanze volatili. Robbi: Antiche preparazioni costituite da succhi di frutta o erbe lasciati concentrare al sole o al fuoco tanto da risultare autoconservanti. Venivano adoperati come caramelle gommose per le affezioni della mucosa oro-faringea. A volte nelle preparazioni venivano aggiunte mosto e miele. Sciroppo: preparazione ottenuta con l’aggiunta di zucchero o di sciroppo di zucchero.
Soluzione: preparato liquido con un solvente (acqua, alcool, aceto ecc) e un soluto. Succo: preparazione ottenuta meccanicamente per pressione o spremitura dei liquidi presenti nelle piante fresche, nei frutti o nei semi. Teriaca o Triaca: era una specie di elettuario, una miscela di erbe, a nimali e minerali variamente composti. Il numero dei componenti era elevatissimo ma l’ingrediente principale era la carne di vipera. Tisana: miscuglio di erbe i cui diversi principi attivi presentano un sinergismo di azione e un completamento di attività farmacologica. In una tisana si distinguono: un rimedio di base o Remedium cardinale che sono due o tre droghe specifiche per l’affezione da curare; un adiuvante o Adjuvans che è una droga che in genere favorisce l’assorbimento delle droghe principali; un complemento o Costituens, che sono una o più sostanze che rendono più gradevoli l’aspetto e la tessitura della tisana; alcuni correttori o Corrigens, che sono una o più droghe aromatiche per migliorare i caratteri organolettici della preparazione. Trocisci: preparazioni medievali in cui le droghe venivano prima polverizzate o ridotte in poltiglia, poi veniva aggiunto succo vegetale o acqua o decotti. Si lavorava il composto fino a ridurlo ad una pasta elatica e da questa venivano ritagliati degli spaghetti corti che poi erano fatti seccare. Venivano consumati come caramelle. Unguenti: antiche composizioni a base di oli grassi semplici o composti uniti a cere per dare una consistenza cremosa e una buona spalmabilità: gli antenati delle moderne creme cosmetiche.
Finito di stampare nel mese di gennaio 2012 presso la Tipografia Bianchi a Figline Valdarno