Arte sacra contemporanea. Trasfigurazione

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MUSEO DI ARTE SACRA TAVARNELLE VAL DI PESA

ARTE SACRA CONTEMPORANEA TRASFIGURAZIONE “Trasumanar significar per verba non si porìa” Teologia, Iconologia, Simbologia e Iconografia incontro tra Oriente e Occidente


con il Patrocinio MUSEO DI ARTE SACRA TAVARNELLE VAL DI PESA

ARTE SACRA CONTEMPORANEA TRASFIGURAZIONE

“Trasumanar significar per verba non si porìa”

Teologia, Iconologia, Simbologia e Iconografia incontro tra Oriente e Occidente

del

unione comunale chianTi fiorenTino

20 settembre - 22 novembre 2015

con la collaborazione

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con il contributo di

Progetto grafico e impaginazione edizioni polisTampa - firenze

www.polistampa.com

© 2015 edizioni polisTampa via livorno, 8/32 - 50142 firenze Tel. 055 7378711 (15 linee) info@polistampa.com - www.leonardolibri.com isbn 978-88-596-0000-0

L’evento è stato reso possibile grazie allAssociazione “Amici del Museo” di Arte Sacra di Tavarnelle Val di Pesa


indice

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inTroduzione

Gli “Amici del Museo”

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il criTisTianesimo e le immagini. le basi del problema

Franco Cardini la virTù della bellezza

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Antonio Natali arTe sacra crisTiana ieri e oggi

18

Timothy Verdon arTe sacra

- arTe liTurgica

arTe profana e soggeTTo religioso

26 a

Igùmeno Andrea (Wade)

arTisTi monia bucci filippo rossi cinzia granata sergio nardoni giancarlo pellegrini antonio possenti francesca pari giampaolo Talani aleksandr stal’nov luca alinari maria ea egentini elena bianchini paolo orlando giovanni maranghi

40 42 46 48 52 54 58 60 64 66 70 72 76 78



introduzione Amici del Museo

nato nel 1989, con l’intento non solo di rendere fruibili le significative opere sparse nelle chiese e nelle cappelle del piviere di san piero in bossolo, molte delle quali ormai abbandonate e in condizioni di totale degrado, ma anche di salvaguardarle dalle ingiurie del tempo e degli uomini, il museo d’arte sacra di Tavarnelle val di pesa, ha fin da subito intrapreso l’intento di porsi non solo quale luogo di conservazione, perlopiù sconosciuto, destinato alla visita di pochi appassionati, ma come centro promotore di cultura e di idee. come ogni museo “di campagna” espone opere che sono testimonianze della storia del nostro territorio, di ciò che la fede e la devozione popolare è riuscita nel tempo a realizzare, la funzione che svolge è essenziale per la comprensione dei contesti socio-culturali ma, nell’intento dei fondatori, ed ancor oggi, il museo era ed è inteso non come una realtà statica, chiusa in sé stessa, ma quale struttura viva e pronta ad accogliere e porgere “ i nuovi linguaggi” della cultura, siano essi musica, arte o letteratura. l’ arte sacra è stata nel tempo grande promulgatrice di bellezza, conoscenza e insegnamenti, mentre ora sta attraversando, almeno nel mondo occidentale, un momento di involuzione e di crisi, sia per le difficoltà ad esprimere la sacralità con gli attuali linguaggi,; sia per la progressiva laicizzazione della società. nell’oriente cristiano, invece, rimasto profondamente legato alla tradizione artistica greco/bizantina la situazione si presenta molto diversa e l’arte sacra rimane praticata ed apprezzata ed è ancora mezzo comunicativo di alti e profondi significati. nel nostro museo è presente una bellissima tavola raffigurante la “Madonna col Bambino e angeli” attribuita a meliore di Jacopo e riferibile all’ottavo decennio del Xiii secolo che abbiamo voluto assurgere a emblema della mostra di pittura “Trasfigurazione. trasumanar significar per verba non si poria “con la quale iniziamo anche la pubblicazione di una collana “i Quaderni della pieve” di cui questo volumetto costituisce il primo numero. uno dei principali obiettivi dell’iniziativa è quello di promuovere la rivalutazione dell’arte sacra per renderla fruibile ed apprezzata in tutti i suoi contenuti teologici, iconologici, simbolici e iconografici. si è qui inteso indagare l’evoluzione e la sperimentazione della rappresentazione sacra nell’arte contemporanea occidentale – sono presenti infatti linguaggi diversi, dalla figurazione classica all’astrattismo – confrontandola con le dinamiche figurative e teologiche delle “icone” il cui linguaggio è ancorato ai canoni del vii concilio ecumenico di nicea del 787. sono stati scelti sette temi biblici: dalla natività all’assunzione della vergine, affidando ciascun tema ad un pittore contemporaneo e ad un “iconografo”. le opere, tutte


introduzione

realizzate espressamente per l’occasione, sono di grande qualità , ma anche ricche di spiritualità ed atte a stimolare il pensiero, a destare la riflessione sul rapporto parola-immagine. altrettanto di qualità e molto stimolanti si rivelano i contributi critico/storici che permettono di capire meglio il perchÊ di queste differenze artistiche. un grande grazie agli artisti e agli autori dei brevi saggi, che hanno accolto prontamente la nostra richiesta, un ringraziamento al comune di Tavarnelle val di pesa, al sistema museale del chianti e valdarno fiorentino per la fattiva collaborazione ad alla chiantibanca senza il cui contributo non avremmo potuto realizzare la mostra. gli amici del museo della pieve di san piero in bossolo


il cristianesimo e le immagini. le basi del problema Franco Cardini

c’è un paradosso di fondo nell’atteggiamento dei cristiani dinanzi alle immagini. nella primissima fase della diffusione della nuova fede, quando ancora la sua diversità rispetto all’ebraismo non era chiara e anzi erano forti le correnti che tendevano a sottolineare l’ebraicità di coloro che, aspettando il messia, lo avevano con certezza identificato in gesù di nazareth, l’aniconicità del culto dovutogli era fuori discussione; le cose cominciarono a cambiare tuttavia molto presto, all’indomani del prevalere della tesi di paolo e di barnaba rispetto all’Ecclesia e gentibus rispetto all’Ecclesia e religione, per quanto si mantenesse viva la difidenza contro le immagini umane e anche animali nella misura in cui esse potevano indurre a deviazioni sincretistiche nei confronti dei circostanti sistemi miticoreligiosi dei “gentili”, i nuovi convertiti non-ebrei si sentivano a disagio rispetto al totale abbandono delle tradizioni, delle arti e delle tecniche che comportavano le immagini. con la cristianizzazione delle istituzioni imperiali, poi, divenne evidente che l’uso delle immagini doveva venir accettato nel momento stesso in cui era necessario stabilire una netta differenza tra le immagini sacre, cui si doveva un culto di adorazione (“latrìa”) e le altre alle quali era lecito solo dedicare un atteggiamento di venerazione (“dulìa”). l’originaria diffidenza cristiana nei confronti delle immagini, sino alla proibizione del loro culto e addirittura della loro fabbricazione, si fondava sia sulla lettera veterotestamentaria (Esodo, Levitico, Deuteronomio)1, sia sulla memoria dell’iconolatria pagana e di quanto la sua presenza avesse ostacolato la conversione delle gentes e fosse addirittura stata protagonista della repressione e della persecuzione dei cristiani tra i e iv secolo. Questi dati senza dubbio comuni alla cristianità sia greca che latina, erano largamente presenti prima del loro reciproco distanziarsi ed erano chiari in entrambe: come si resero pertanto possibili, nelle due tradizioni, esiti tanto diversi? i fenomeni d’iconofobia e d’iconoclastia, infatti, non investono in modo autonomo e sistematico l’europa occidentale (che forse sarebbe meglio definire qui come l’europa latina) fino al rinascimento con il suo riappropriarsi e rielaborare la cultura greco-romano-ellenistica “pagana” e alla conseguente riforma, soprattutto nell’àmbito che al riguardo si è dimostrato più radicale, quello calvinista. in altri termini, iconofobia e iconoclastia non si radicano nel mondo cristiano occidentale se non dopo che esso è rientrato profondamente in contatto con quella cultura antica dalla quale la crisi e la decadenza dei secoli v-viii lo aveva fatto progressivamente allontanare e con la quale – nonostante i successivi “rinascimenti” carolingio, ottoniano e “ovidiano” – protoscolastico del Xii secolo – esso non si è incontrato di nuovo, e in manie-

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cfr. Rom., 1, 23-24.


il cristianesimo e le immagini. le basi del problema

ra profonda e pregnante, prima del Xiv-Xv secolo. mentre, al contrario, il mondo della cristianità “orientale” dall’eredità ellenico-ellenistica non si era mai sostanzialmente allontanato, o lo aveva fatto in modo differente da quanto in occidente era accaduto. uno dei grandi padri della gloriosa chiesa di cappadocia, gregorio di nissa, profondamente formato alla tradizione platonica e toccato dal magistero di origene, poteva da una parte sostenere che la vera immagine di dio è quella interna, impressa nell’amore dell’uomo, il che rende superfluo qualunque inadeguato tentativo di rappresentarla sensibilmente, ma dall’altra palesare la tendenza a stabilire una qualche sia pure incidentale similarità tra verbo e immagine. gregorio mostrava una considerazione intensa del ruolo che le immagini potevano in qualche modo sostenere nell’istruire chi fosse più ignorante nelle cose della fede;2 e, confessando di non poter mai passar senza commuoversi dinanzi a un’immagine che ritraesse ad esempio il sacrificio d’isacco, riconosceva in modo esplicito il valore che le immagini potevano avere nel suscitare la compassione. di avviso analogo erano gli altri due grandi padri cappadoci, gregorio di nazianzo e basilio di cesarea. ma le resistenze permanevano molto forti. alla fine del iv secolo epifanio vescovo di salamina, sostenuto dal concilio di elvira del 313 che si era espresso al riguardo in modo molto rigoroso, ordinava che qualunque immagine venisse rimossa dalle chiese della sua diocesi3. si era frattanto avviata quella “rivoluzione atanasiana” che aveva trionfato nel concilio di nicea e che, contro le istanze tradizionalistiche rappresentate da ario, aveva imposto il dogma della natura divina del cristo e la sua consustanzialità rispetto al padre. spetta ad atanasio l’aver posto la questione dell’immagine al centro della cristologia: “la divinità del figlio è anche quella del padre, ch’è identica nel figlio. chi avrà compreso ciò, si persuaderà facilmente che chiunque abbia visto il figlio ha visto il padre4, perché ha contemplato la divinità del padre nel figlio. ciò sarà ancora più facile a comprendersi prendendo a esempio l’immagine imperiale. nell’immagine si trovano in effetti l’aspetto e la forma (eìdos kài morphé) dell’imperatore […] chi compie la proskynesis dinanzi all’immagine si prostra in realtà al cospetto dell’imperatore ch’è in essa, in quanto l’immagine è il suo aspetto e la sua forma”5. il dettato atanasiano era tuttavia suscettibile di dar luogo a opposti esiti: alla tesi della legittimità dell’adorazione delle immagini divine in analogia con le imperiali, ma anche a quella di quanti consideravano invece l’ eìdos kài morphé della sostanza divina fisicamente irrappresentabile. sta proprio qui la radice dello scontro fra opposte e inconciliabili istanze. l’evoluzione della chiesa nei confronti dell’uso delle immagini, nella quale il problema degli acheiropoieta e la venerazione delle reliquie ebbero senza dubbio un rilevante peso, si 2

gregorio nisseno, Oratio laudatoria sancti ac magni martyris Theodori, in pg, Xlvi, col.757; Kitzinger, Il culto, cit., p.84. 3 cfr. n.h. baynes, The icons before Iconoclasm, in idem, Byzantines studies and other and other essais, london 1955, pp.226-39. 4 Io., 14, 9. 5 atanasio, Oratio III contra arianos, in pg, XXvi, col.332.


Franco Cardini

compì comunque fra iv e vii secolo, sia pure con ritmi differenti tra oriente e occidente, nella misura in cui da una parte il timore che le immagini favorissero in qualche modo la permanenza di forme devozionali a carattere pagano veniva meno mentre da un’altra – e non senza qualche contraddittorietà – si faceva strada la convinzione che un certo grado d’iconodulia avrebbe facilitato e accelerato la conversione di quanti restavano in qualche modo legati ai vecchi costumi e delle nuove gentes che frattanto stavano entrando in contatto con l’impero o, nella pars Occidentis, con quel che ne rimaneva. in particolare l’immagine antropomorfa del cristo svolgeva un duplice ruolo: in senso antigiudaico e antiereticale, nella misura in cui riaffermava che il messia era davvero giunto e che si trattava del vero dio ch’era nondimeno anche vero uomo; e in senso antipagano il carattere dell’icona di quel dio che si era reso visibile attraverso l’incarnazione, per questo qualitativamente del tutto diversa dagli idoli inanimati (o animati diabolicamente) degli inesistenti dèi pagani la distanza percorsa, sia pure in oltre tre secoli, si apprezza confrontando il canone 36 del concilio di elvira del 313, il quale prescrive che nessuna immagine debba esser effigiata sulle pareti degli edifici ecclesiastici, con i canoni 82 e 100 del concilio quinisesto di costantinopoli del 692, il “trullano”, nel quale si sancisce la liceità dell’onore dovuto alle figure (typoi) in quanto simboli della verità citando il caso concreto di un’immagine zoomorfa proposta quale simbolo del salvatore, l’agnello di dio, pur confermando la vigilanza nei confronti delle immagini in generale, in quanto attraverso di esse le sensazioni corporali s’introducono nell’anima del fedele. il passaggio dal radicalismo del concilio di elvira alle aperture del quinisesto si compì gradualmente, attraverso una pluralità di episodi e di scelte verificabili in molteplici testi, dei quali è impossibile rendere analiticamente conto in questa sede. appare comunque molto importante, ad esempio, la lettera con la quale ipazio, metropolita di efeso tra 531 e 538 e teologo autorevolmente ascoltato da giustiniano, consigliava al suo suffraganeo giuliano vescovo di adramytium6 – il quale tollerava nelle sue chiese le pitture, ma si opponeva all’installazione in esse di statue in quanto troppo vicine alla tradizione pagana – di accettare qualunque tipo d’immagine: non ch’esse fossero indispensabili, sottolineava il presule, tuttavia (e qui si riecheggiava gregorio di nissa) esse soccorrevano i più ingenui e ignoranti consentendo loro di accedere in qualche modo alla comprensione delle realtà spirituali. più tardi, comunque in età già postgiustinianea, il testo del cosiddetto pseudoatanasio, alla Questione 39, distingueva accuratamente l’atteggiamento dei cristiani che venerano le immagini in segno di amore per quel ch’esse rappresentano, da quello dei pagani che adorano dei semplici oggetti inanimati; ma soprattutto introduceva esplicitamente nell’ormai maturo dibattito un nuovo elemento, che collegava le ragioni della venerazione per le immagini a quella per le reliquie: il fatto cioè che quelle, non meno di queste, potessero proporsi a tramite di eventi miracolosi.7

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Kitzinger, De cultu, cit., p.17. pg, XXviii, coll.621-22.


il cristianesimo e le immagini. le basi del problema

che tra la fine del vi secolo e il primo quarto dell’viii l’iconodulia facesse straordinari progressi in oriente (mettiamo da parte per ora l’occidente, sul quale torneremo tra poco)8, dando luogo anche ad abusi e a forme di manipolazione religioso-politica dei fedeli, è cosa nota. le origini del movimento iconoclasta come reazione a quegli accessi sono tuttavia da rintracciare altresì tanto nelle ragioni iconofobe caratteristiche del primo cristianesimo, quanto nel loro rinnovarsi come reazioni alla pressione iconofila9. sappiamo che nell’armenia del vi-vii secolo si verificò un movimento che si potrebbe definire “protoiconoclasta”. d’altronde, il culto delle immagini si era affermato prima, e si rafforzò in seguito, anche nella misura in cui si svilupparono le tematiche antigiudaiche e la letteratura contra Judaeos: agli ebrei, che li accusavano di idolatria, i cristiani rispondevano sia richiamandosi a esempi d’immagini oggetto di culto nello stesso antico Testamento, come i cherubini nel tabernacolo mosaico, sia ribadendo il carattere “transitivo” del culto dal significante al significato. vero è tuttavia che una vera e propria storia analitica della genesi dell’iconoclastia in tutti i suoi aspetti e le sue cause non si potrà davvero mai scrivere in mancanza dei testi redatti dagli iconoclasti, che furono distrutti dopo la vittoria degli iconoduli. È tuttavia indubbio che, accanto alle molte ragioni di tipo politico ed economico addotte per giustificare, dopo la celebre giornata iconoclasta del 726 a costantinopoli, la promulgazione dell’editto del 730 da parte del basileus leone iii che proibiva le immagini – a proposito del quale appaiono ormai molto indebolite le ipotesi relative a una qualche suggestione ricevuta dal modello aniconico musulmano –, quella dell’esigenza di una forte riforma religiosa giustificata dal bisogno di arginare un’ondata idolatrica crescente appare la principale; insieme con quella del contenimento dell’influenza dei monaci, sostenitori d’un’iconodulia intensa ed interessata.10 È ovvio che gli avversari del culto delle immagini si richiamassero alla lettera veterotestamentaria e all’aniconismo, se non all’iconofobia, manifestata negli scritti degli apologisti. È caratteristico che gli iconofili si rifacessero o di continuo alla letteratura apologetica nelle sue argomentazioni antigiudaiche, le quali esplicitamente o implicitamente riguardavano sovente il rapporto con le immagini, mentre per contro gli iconofobi si ricollegassero alla stessa letteratura, attingendo però al suo ricco repertorio adversus paganos, dove la tematica contraria agli idoli era molto ricca. ad ogni modo, resta significativo che la grande crisi iconoclasta avesse il suo formale inizio in un episodio che molto impressionò per l’intensità simbolica che lo caratterizzava: la distruzione per ordine del basileus leone iii, nel 726, dell’effigie del cristo che ornava l’ingresso principale del complesso residenziale sovrano. un atto di quella gravità aveva probabilmente, alla sua base, un motivo simbolico-politico molto forte: la necessità, avvertita dal basileus, di reagire al fatto che a partire almeno dal vi secolo l’immagine del cristo si era andata pro-

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Kitzinger, De cultu, cit., pp.iX, 19 sgg. Ibidem, p.4. 10 cfr. s. gero, Byzantine iconoclasm during the reign of Leo III, louvain 1973. 9


Franco Cardini

gressivamente sostituendo, nell’iconica pubblica, a quella imperiale come immagine primaria e legittimante del potere politico.11 nel palazzo di Tiberio ii (578-582) l’immagine del salvatore dominava il trono imperiale, mentre sotto giustiniano ii (685-711) essa prendeva addirittura posto sul dritto delle monete, relegando quella dell’imperatore sul rovescio. l’immagine cristica coniata sul solidus aureus di giustiniano ii, un busto con lunghi capelli, barba fluente, non coronato da nimbo ma dietro la testa del quale si scorgono i bracci superiore e laterali della croce, ha fatto pensare che quello fosse, appunto, il modello iconico dell’immagine sovrastante il portone di bronzo dell’ingresso del palazzo imperiale fatta distruggere da leone iii. a quel che pare, protomodello iconico di quell’immagine cristica era la statua dello zeus di olimpia, opera di fidia la decisione imperiale di abbracciare la tesi iconoclasta provocò una durissima reazione da parte di mistici e di teologhi. con l’ascesa al trono del minorenne costantino vi, nel 780, la causa iconoclasta ricevette un colpo irreversibile. la reggente, la basilissa irene, convocò nel 787 il secondo concilio di nicea: erano presenti ben trecentosessantasette vescovi, compresi i rappresentanti degli altri patriarchi. in esso, le conclusioni del 754 vennero rovesciate e la venerazione delle icone dichiarata lecita.12 a rigore, non si può dire che il dettato conciliare del 787 confutasse le tesi sostenute da quello di trentatré anni prima, in quanto ben poco ci si occupò di argomentare: l’anatema e la condanna si sostituirono alla dimostrazione teologica. sostanzialmente tornando alla tesi di san basilio, i padri di nicea si limitarono a ribadire che l’adorazione delle immagini, lungi dal trovare in esse un obiettivo finale, transitava diretta verso il prototipo. al di là delle intricate questioni teologiche, la vera vittoria nella contesa delle icone era stata quella della resistenza popolare, sostenuta dai monaci dell’area palestinese i quali, fuori dal territorio dell’impero e sotto sovranità musulmana, erano stati sottratti per oltre mezzo secolo alla repressione degli imperatori iconoclasti. vero è che la teologia di giovanni damasceno era stata messa in crisi dalle risoluzioni del concilio di hiereia; tuttavia, la forza devozionale aveva alla lunga avuto la meglio. sul piano propriamente teologico, invece, si dovette aspettare ancora oltre un trentennio dopo il secondo concilio di nicea. solo nell’843, con una solenne cerimonia in santa sofia, tenuta l’11 marzo, si riaffermò solennemente e definitivamente il dettato del secondo concilio di nicea favorevole al culto delle immagini. Tale soluzione fu accettata solo tardivamente da parte della chiesa patriarcale romana, per ragioni che non vanno addebitate solo a un “ritardo” nella meditazione teologica occidentale o alle conseguenze del non sempre facile rapporto fra la nuova e la vecchia roma. nella pars Occidentis dell’impero, l’allontanamento dalla chiesa greca e il parallelo imporsi di quella patriarcale romana in un progressivo rapporto egemonico rispetto alle altre, raccordato con l’insorgere di varie esigenze missionarie e pastorali connesse con le successive ondate delle Völkerwanderungen, aveva determinato senza 11

Kitzinger, Il culto, cit., p.64. mansi, Sacrorum conciliorum, Xiii, 1747, pp.373-80; J.J. Yannias, A reexamination of the “Art Statute” in the Acts of Nicaea II, “byzantinische zeitschrift”, 80, 2, 1987, pp.348-59. 12


il cristianesimo e le immagini. le basi del problema

dubbio soluzioni differenti da quelle proposte dalla complessa e raffinata teologia orientale che sapeva di potersi appoggiare alla solidità e alla coerenza delle istituzioni e delle strutture pubbliche. ammonendo in due successive lettere, rispettivamente del luglio 599 e dell’ottobre 600 sereno vescovo di marsiglia – una diocesi, non a caso, strettamente collegata all’inquieto mondo dell’oriente –, il quale aveva rimosso le immagini sacre dalle chiese della sua diocesi con una decisione abbastanza prossima al radicalismo di un epifanio di cipro e più dura dell’iconofobia moderata di giuliano di adrimytium, papa gregorio magno forniva già al tempo suo all’ormai vecchia questione una soluzione pratica, non lontana del resto dalle indicazioni di san gregorio di nissa: le immagini sono i libri ydiotorum, si debbono salvaguardare nelle chiese “in modo che gli analfabeti possano almeno leggere, guardando le pareti, quel che non sono in grado di leggere nei libri”. la direttiva ispirata alla pratica pastorale e alle esigenze didascalico-catechetiche indicata da gregorio magno, e più tardi ribadita da beda, rimase fondamentale nella chiesa latina, la quale resisté alle sollecitazioni che le giunsero da parte imperiale, nell’oltre mezzo secolo compreso fra l’editto iconoclasta di leone iii isaurico e il secondo concilio di nicea. Tuttavia neppure gli atti di quest’ultima assise, che papa adriano i – al quale costantino vi e irene si erano già rivolti nel 785 per annunziargli la convocazione di un concilio ecumenico volto a risolvere la questione delle icone, e che aveva risposto con una Synodica costituita da una raccolta di prove a favore della tesi iconodula che cominciava proprio dall’episodio del “sogno di costantino” ammalato di lebbra secondo gli Actus Silvestri, cui erano apparsi gli apostoli che solo grazie al riscontro con le icone avevano potuto essere identificati come tali13 inviò alla corte di carlo re dei franchi in una traduzione latina peraltro piuttosto scorretta e incompleta, convinsero colui ch’era ormai il protettore della sede episcopale romana e i suoi consiglieri. per ordine del sovrano, fra 791 e 794 si rispose preparandone all’interno dell’ambiente dei dotti che lo circondavano – ne furono autori, sembra, alcuino, o Teodolfo d’orléans – una confutazione sistematica che venne formulata nel sinodo di francoforte del 794 ed espressa poi in quelli che conosciamo con il nome di Libri carolini. in questo testo, il carattere complesso del dettato niceno viene eluso, forse mal compreso: vi si afferma con rigore tutto agostiniano la superiorità del verbo sulle immagini, alle quali si attribuisce, riprendendo e semplificando la posizione gregoriana, una funzione puramente didattica. da qui il nec adorare nec frangi, nucleo pratico della scelta carolina, che ignora la fondamentale distinzione tra iconolatria e iconodulia, riduce la questione a un problema di rispetto in funzione didattico-pastorale distinguendo fra la rappresentazione di dio e dei santi da una parte e le pitture narrative che non pervengono a tradurre i misteri della fede ma possono valorizzare i santuari dall’altra e approfitta delle distanze così prese dal concilio imperiale, gli atti del quale stanno all’origine della sua problematica per immettere nella discussione elementi di polemica

13 cfr. m. andaloro, Dal ritratto all’icona, in m.andaloro-s. romano, Arte e iconografia a Roma da Costantino a Cola di Rienzo, milano 2000, p.37.


Franco Cardini

antibizantina, quali il rifiuto della tesi della pentarchia delle cinque sedi patriarcali e la rivendicazione del ruolo egemonico dei franchi sulla cristianità latina. È incerto perfino che i teologi di carlo abbiano finito in qualche modo, al riguardo, col cercare un’intesa con la stessa curia pontificia, dal momento che al riguardo le posizioni successive, come quelle del sinodo di parigi o quelle proposte da agobardo di lione e da giona d’orléans, sono ancor più radicali. sarebbe semmai spettato ad altri teologi, ad esempio a Walafrido strabone, il rendere la questione un po’ più flessibile. egli sembrava tornar a papa gregorio, insistendo sul ruolo devozionalmente e didatticamente inteso delle immagini (pictura est quaedam litteratura inletterato) che giudicava in modo del tutto positivo senza mostrar preoccupazione per eventuali pericoli di permanenza o di rinascita idolatra che ad esse avrebbe potuto connettersi.14 una netta rivalutazione delle immagini e del relativo ruolo si ebbe nel sinodo tenuto ad arras nel 1025 e gestito da gerardo di cambrai in funzione antiereticale: vi si continuava naturalmente a negare alle immagini qualunque forma di adorazione, ma si sottolineava – ancora una volta senza sostanzialmente discostarsi da gregorio magno – che l’impressione da esse suscitata nel cuore del fedele illetterato che avesse venerato quelle species, quelle apparenze esteriori, lo avrebbe comunque condotto ad adorare il cristo. non pare quindi il caso di parlare di una “filoiconoclastia” carolingia, né sembra legittimo il connettere in qualche modo i Libri carolini a intenzioni politiche o diplomatiche di sorta della corte di aquisgrana rispetto a quella di costantinopoli. preme semmai ribadire le soluzioni costantemente didattico-pastorali proposte dai teologi occidentali a quella che in oriente era divenuta un’intricatissima questione. ci si può senza dubbio chiedere se gli aspetti più complessi e raffinati di essa furono davvero mai colti dalla chiesa latina dei secoli viii-Xi: d’altronde, fu proprio questa sua “desacralizzazione” delle immagini religiose, ridotte a oggetti materiali e liberate quindi – con ben maggiore anche se certo meno raffinata decisione di quanto non avesse proposto il patriarca niceforo – dell’ipoteca teologica che le rendeva sempre oggetti carichi d’una loro terribilità, a sgombrare il campo dal presupposto platonico del rapporto tra prototipo e icona e a liberare da allora l’arte occidentale, nel suo sviluppo, da quelle restrizioni che invece obbligarono quella greca e orientale, a causa del loro persistente rapporto diretto col soprannaturale, al rispetto di schemi fissi.15 la sottrazione delle immagini alla loro potenza sacrale – e la loro liberazione, pertanto, dall’ipoteca della minaccia magica – consentì all’arte occidentale un’estrema libertà sul piano delle scelte didattiche e interpretative sia dei committenti, sia degli artisti. si può dire sotto questo profilo che da qui abbia inizio il processo di laicizzazione dell’occidente; e che per molti versi sia stato anzi tale inizio a renderlo possibile.

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Walafrido strabone, De ecclesiasticarum rerum exordiis et incrementis, 8, in pl, cXiv, col.927sgg.; cfr. duggan, Was art, cit., p.230. 15 non possiamo esimerci qui dal richiamare lo splendido saggio di p. florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, tr.it., a cura di e. zolla, milano 1977.


il cristianesimo e le immagini. le basi del problema

d’altro canto, questa sottrazione delle immagini al dibattito teologico non fece di fatto che rinviare la questione a tempo indeterminato. il ritorno massiccio in occidente della cultura greca, e con essa della teologia greca, avrebbe da una parte riproposto – ben al di là di qualche superstizione e di qualche leggenda, veicolata magari attraverso la letteratura d’origine orientale – il problema del rapporto fra le immagini e la magia; e dall’altra fatto nascere nell’europa moderna, sei-sette secoli dopo la chiusura del problema nella cristianità orientale, una nuova questione iconoclasta sottesa alla riforma. la modernità che, col “processo di laicizzazione” in larga misura s’identifica, inaugurò un altro dei molti paradossi storici, un’altra delle molte aporìe e delle molte rotture sulle quali la storia ci obbliga di continuo a meditare; e sulla base delle quali siamo potuti peraltro uscire dallo pseudo-problema della ragione e del senso da attribuirle.


la virtù della bellezza Antonio Natali

nei giorni che seguirono l’esplosione della bomba agli uffizi del 1993 fu detto (eppure si piansero anche morti) che era era stato compiuto un attentato alla bellezza. venne naturale pensare che fosse stata oltraggiata la bellezza perché gli uffizi sono giustappunto il luogo della bellezza, e tutti nella bellezza vedono una virtù capace di nobilitare l’animo umano. ma se la bellezza è un impulso all’elevazione e alla trascendenza, allora il suo contrario non è soltanto il brutto, ma anche il male. riflettendo sulla bellezza come virtù d’elevazione, m’è tornato opportuno rileggere due brani della Lettera agli artisti, scritta nel 1999 da giovanni paolo ii: “la bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente”1. e, alle prime battute: “il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. la bellezza è in un certo senso l’espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza”2. nella Lettera di giovanni paolo ii si percepiscono chiaramente gli esiti del pensiero sortito dal concilio ecumenico vaticano ii, che a me – credente – sembra essere stato assai più importante (purtroppo) come dichiarazione d’intenti e segno d’apertura che come origine d’una spiritualità più generosa. Quegli esiti dunque che s’avvertono nella Lettera di giovanni paolo ii avevano trovato un’icastica espressione nel Messaggio agli artisti di quell’intellettuale fine che fu paolo vi, papa sensibile alla pastorale delle immagini nelle chiese. È infatti lui a dire: “Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione”3. un altro riverbero forte di quest’idea di bellezza si coglie infine nelle parole che nel novembre del 2009 benedetto Xvi ha rivolto agli artisti: “che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l’animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull’orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? […] l’esperienza del bello […] porta a un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall’oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso”4. parole ragguardevoli, come si può capire, quelle di benedetto Xvi, ma che non possono prescindere da un riscontro con la realtà. parole che non avrebbero bisogno di nessuna chiosa se a essere evocata fosse soltanto la bellezza del creato (almeno là dove essa è rimasta inviolata); perché i cieli azzurri, i monti, i mari, i profili d’insenature e baie, sono tutte epifanie che davvero lasciano il cuore stupefatto e inducono la mente a pensieri 1

giovanni paolo ii, Lettera agli artisti, 4 aprile 1999, 16. ivi, 3. 3 Chiusura del Concilio Vaticano II. Messaggio del Santo Padre Paolo VI agli artisti, 8 dicembre 1965, 4. 4 Incontro con gli artisti. Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, 21 novembre 2009. 2


la virtù della bellezza

alti. ma lì l’artefice è dio (per chi crede) o la natura (per chi invece rimette la creazione a una casualità misteriosa). il problema si pone però quando è l’uomo il demiurgo; quando cioè ci si riferisca alle opere umane. in questo caso il concetto di bellezza si fa complesso e delicatissimo. non è vero che la bellezza di un’opera d’arte è universale. esistono semmai artisti universalmente reputati altissimi perché c’è un’educazione che ci ha insegnato a ravvisarli come tali. anche i meno cólti dispongono, infatti, di quel tanto d’educazione (magari geneticamente assunta) che consente loro l’apprezzamento di quegli artisti medesimi. ma è l’istruzione, la consuetudine con la cultura (tutta, non soltanto quella figurativa), la frequentazione di testi letterari, l’abitudine a guardare e a riflettere su quanto si veda, che ci fanno riconoscere e apprezzare quella bellezza che non è in natura, bensì creata dagli uomini. mi limito – per motivi di spazio – a una considerazione ch’è strettamente connessa alle parole dei pontefici or ora evocate. parole che partono dagli anni sessanta del novecento e giungono a oggi, coprendo pertanto l’ultimo mezzo secolo. se si reputa che la bellezza sia una via d’elevazione, proprio in quanto credente, mi viene spontaneo pormi questa domanda: se la chiesa si dimostra così attenta a mantenere relazioni forti con gli artisti e invita tutti a reputare la bellezza come veicolo financo di redenzione, perché sugli altari delle nostre chiese si sono collocate e si continuano a collocare – per lo più – opere di poco o nessun pregio? non intendo ovviamente interrogarmi sul rapporto odierno fra arte e religione, perché sarebbe un campo d’indagine sterminato e pure scivoloso. il punto è un altro. se gli altari sono luoghi del sacro davanti a cui lo spirito s’innalza nella preghiera e se la bellezza si reputa uno strumento utile all’elevazione, viene facile presagire che quando si decida di porre un’opera su un altare sia giudicata messaggera di bellezza da chi ne ha disposto una così nobile collocazione. e però – ripeto – sono veramente assai rare le opere belle esibite nelle chiese dalla metà del novecento in poi. credo sia importante meditare su questa constatazione nel momento in cui – credenti e non credenti – ci si domandi che ruolo possa avere la bellezza in un percorso di riscatto etico. ritengo sbagliato e perfino pericoloso reputare la bellezza una virtù oggettivamente percepibile. È semmai una dote che può essere apprezzata da chi sulla bellezza stessa sia stato educato. le tavole o le tele che nei secoli trascorsi venivano dipinte per gli altari delle chiese erano davvero in gran parte dotate di quella virtù, ma erano anche, per solito, commissionate da uomini cólti (ecclesiastici o laici) che avevano non solo ottima nozione di teologia, ma anche conoscenze approfondite nell’ambito dell’espressione figurativa. e quasi naturalmente nascevano opere di contenuto forte e di poesia sublime. opere, però, che per esser comprese e stimate nella loro bellezza richiedevano – e ora, ancor più, richiedono – un’adeguata educazione. la bellezza nelle opere umane non è un pregio che si possa cogliere d’istinto. anche quando l’espressione è informale, o addirittura gestuale (prendendo a campione i linguaggi


Antonio Natali

meno aderenti al dato naturale), sempre ad essa sono sottese un’ideologia, una visione del mondo, una disposizione di pensiero, un’attitudine dello spirito, che vanno studiate e capite. sennò la bellezza – anche se c’è – sfugge, o non si lascia abbracciare appieno. sperimentiamo quest’asserzione su un’opera capace di dimostrare in maniera lampante come la ‘bellezza’ sia virtù complessa. evocherò la cosiddetta Deposizione del pontormo in santa felicita, così celebre da esimerci da esibirne qui un’illustrazione. la pala del pontormo è sicuramente ‘bella’ in sé; ma quanto parrà più bella dopo che – seguendo le omelie di sant’agostino – se n’è scopra il significato sotteso; si scopra cioè ch’essa non illustra una deposizione di croce, bensì il lento calare (operato da efebici cristofori: gli angeli) del corpo di gesù sulla mensa dell’officiante, perché diventi pane eucaristico. cristo come ‘pane dell’altare’, ‘pane del cielo’, ‘pane degli angeli’. significato profondo – anzi arduo – e insieme però lirico. come il suono armonioso d’una poesia composta di vocaboli belli. la quale, però, rivelerà tutta la sua vera bellezza quando si capisca che quel suono armonioso è la veste nobile di pensieri alti. È questa la bellezza che redime. la bellezza che fa elevare lo spirito. la bellezza del creato si palesa d’istinto. Quella delle opere dell’uomo si manifesta in forma e contenuto. e nel contenuto – più ancora che nella forma – si esprime la grandezza dell’animo umano. ¿cos’è che sommuove le corde del cuore in un componimento poetico? ¿i vocaboli, il ritmo, le immagini, oppure il significato da loro svelato, il concetto sotteso, cioè? di certo alla bellezza d’una poesia come l’Infinito di leopardi partecipano giustappunto i vocaboli, il ritmo, le immagini; ma quello che alla fine ci commuove è appunto il senso sotteso: il turbamento che provocano l’infinito e l’eterno, la necessità d’un approdo (anche umile) che preservi il nostro cuore dallo sgomento, l’ascolto del tempo che trascorre e il soave perdersi della mente nell’eterno. cosa verrebbe dall’Infinito leopardiano se questi pensieri restassero a noi incomprensibili? basterebbero le parole in sé a elevare il nostro animo? e, per converso, che effetto avrebbero questi stessi pensieri se ci venissero comunicati con parole vacue e dozzinali? forma e contenuto, dunque, per elevare. in una poesia; come in un’opera d’arte figurativa; ch’è poi – essa pure – poesia; solo che s’esprime in effigi invece che in parole. la bellezza è sì strumento d’elevazione, purché, però sia chiaro che anche la bellezza, per esser conosciuta e apprezzata, esige studio e applicazione. come d’altronde a ognuno di noi è richiesto dalla vita. Tanto più quando la vita ponga imperativi morali d’alto tenore, come a me pare pretenda l’attuale stagione.

Quello qui pubblicato è il testo dell’intervento letto al Convegno umanesimo e bellezza ieri e oggi, tenuto a Firenze nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio il 17 ottobre 2011 e organizzato dal ‘Cortile dei gentili’.


la virtù della bellezza Timothy Verdon

con il termine «arte sacra» tradizionalmente s’intende un’arte adatta alla liturgia, ed è di questo che mi propongo parlare qui. ora, in molte culture antiche l’estro creativo al servizio del culto è considerato un dono di dio, e l’arte in tutte le sue forme – ogni capacità di ideare e creare cose belle e significative – viene pensata in rapporto al sacro. nell’antico Testamento, ad esempio, l’origine delle arti viene inequivocabilmente presentata in funzione del culto, e “gli artisti che il signore aveva dotati di saggezza e d’intelligenza perché fossero in grado di eseguire i lavori della costruzione del santuario” vengono istruiti da mosé in persona, perché facciano “ogni cosa secondo ciò che il signore aveva ordinato” (esodo 36,1). Questo brano, tratto dal capitolo 36 del libro dell’esodo, è forse il fondamento della concezione giudeo-cristiana dell’arte. nel racconto biblico della fuga dalla schiavitù d’egitto verso la libertà di una “terra promessa”, la chiamata degli artisti e la costruzione del santuario sono infatti gli atti conclusivi di una serie di eventi determinanti per la storia e per l’identità stessa del popolo di dio. sarà utile ricordare brevemente questi eventi. mentre sul monte mosé riceve le tavole della legge – i dieci comandamenti – il popolo, diffidente, fa fare un vitello d’oro e si mette ad adorarlo (esodo 32, 1-6). Quando scende dal monte, mosé – offeso dall’infedeltà degli israeliti – frantuma le tavole e obbliga il popolo a scegliere tra Yahweh e l’idolo, dicendo: “chi sta con il signore, venga con me!” (esodo 32, 15-28). pregando, ottiene poi il perdono del peccato del popolo e la promessa che il signore camminerà in mezzo ad esso. Quando però mosé chiede per se stesso il privilegio di vedere dio direttamente, Questi risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (esodo 32,20-33,20). al suo amico, dio fa tuttavia una concessione: “ecco un luogo vicino a me. Tu sarai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (esodo 32,30-33,23). mosé allora risale la montagna e vede, in questo modo parziale, Yahweh che, mentre passa, si identifica come un dio “misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di fedeltà”. dio stabilisce un’alleanza con israele, e le dieci parole vengono riscritte su nuove tavole (esodo 34, 1-28). a questo punto, di nuovo sceso dalla montagna, mosé chiede al popolo un “contributo volontario” di quanto dovrà servire materialmente al culto, e chiama il primo degli artisti, bezaleel, affermando che Yahweh stesso “l’ha riempito dello spirito di dio perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro,


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argento, rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro ingegnoso” (esodo 35, 31-33).

in questa sequenza – che apre con il vitello d’oro e chiude con gli ornamenti del santuario – l’arte ha a che fare col peccato e col perdono; segna una radicale scelta da parte del popolo; e materializza la promessa di dio di “camminare” in mezzo ad esso. inoltre prolunga una parziale rivelazione della divina gloria (le spalle viste da mosé, non il volto) e manifesta la volontà del popolo di contribuire con i propri mezzi a realizzare un “luogo vicino a dio”, il cui architetto è sempre dio che fornisce il disegno e dota gli artisti di talento. Tale “volontario contributo” da parte del popolo diventa poi segno di penitenza per il peccato d’idolatria, come la conseguente bellezza del santuario sarà segno dell’alleanza offerta da un dio “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni e perdona la colpa, la trasgressione e il peccato” (esodo 34, 6-7). così com’è presentata nell’antico Testamento, cioè, l’arte diventa uno dei segni del patto sussistente tra l’uomo peccatore e il dio che, perdonando la colpa, cammina in mezzo al suo popolo; è quasi un ‘sacramento’ della presenza e della salvezza che dio offre. Cristo e l’arte Queste funzioni, che in israele furono concentrate nel santuario portatile fatto realizzare da mosé e successivamente nel Tempio gerosolimitano, sembrano destinate a venir meno nella nuova alleanza istituita da gesù cristo. parlando con una donna della samaria, gesù dirà infatti che né il monte sacro dei samaritani né il tempio degli israeliti servono più, perché “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il padre in spirito e verità, perché il padre cerca tali adoratori. dio è spirito”, gesù continua, “e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (giovanni 4,21-24). sul medesimo tono, un giorno mentre insegnava, sentendo alcuni parlare “del Tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che l’adornavano, gesù disse: ‘verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta’” (luca 21, 5-6). e in un’altra occasione usa termini paradossali per ridimensionare la fede liturgico-artistica di israele, quando, dopo aver scacciato i venditori e cambiavalute dal cortile esterno, si giustifica dicendo: “distruggete questo Tempio e io in tre giorni lo farò risorgere” (giovanni 2,19). ma ecco subito la vera chiave di lettura di simili passi: l’evangelista giovanni, chiosando lo stupore degli ascoltatori – “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?” – precisa che cristo “parlava del suo corpo” e che, “quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla scrittura e alla parola di gesù” (giovanni 2, 20-22). per la teologia cristiana, è infatti lui – gesù in persona – il nuovo “tempio”, il “luogo vicino a dio” dove il credente contempla la gloria del padre.


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nel nuovo come nell’antico Testamento, l’uomo non può vedere dio direttamente, e il quarto vangelo insiste che “dio nessuno l’ha mai visto” (giovanni 1,17). ma aggiunge subito che “proprio il figlio unigenito, che è nel seno del padre, lui lo ha rivelato” (giovanni 1,18) – affermazione risalente a cristo stesso, il quale – all’apostolo filippo, che aveva chiesto di vedere dio – disse: “chi ha visto me ha visto il padre” (giovanni 14,9). nel medesimo spirito, un testo paolino dirà di gesù: “egli è l’immagine [εικον, icona] del dio invisibile” (colossesi 1,15). ma se cristo è la personale ed incarnata “icona” dell’invisibile padre – l’irradiazione di quella gloria che mosé volle vedere e non poté –, allora il ruolo delle immagini nella nuova alleanza dovrà essere non meno ma più importante che nell’antica. il luogo maggiormente decorato del Tempio gerosolimitano (come prima, nella “dimora” o “Tenda” fatta da bezaleel) era la cella interna o Sancta sanctorum contenente l’arca in cui erano conservate le dieci parole di dio su tavole di pietra; i rivestimenti in pregiato legno di cedro con rilievi raffiguranti boccioli di fiori alludevano all’importanza delle parole di dio (cfr. 1 re 6, 14-18). in gesù cristo però non “dieci parole” ma la parola – il Λογοσ o Verbum – si fece carne. non era nascosta in un’arca in una cella inaccessibile, ma manifesta a tutti, così che la prima lettera di giovanni potrà dire: “ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il verbo della vita (poiché la vita si è fata visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 giovanni 1,1-3).

il ruolo dell’arte nella nuova alleanza sarà appunto quello di un annuncio, finalizzata alla comunione, di “ciò che era fin dal principio” e che alcuni hanno ora sperimentato in modo sensorio – che hanno cioè “veduto”, “contemplato”, “udito” e perfino “toccato” –: la parola incarnata, vita eterna che, rendendosi visibile, suscita in chi la vede una testimonianza gioiosa. la frase che conclude il brano evangelico citato sopra recita infatti: “Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 giovanni 1, 4). La liturgia cristiana e le immagini ora, nella vita della chiesa, il luogo ufficialmente deputato all’espressione della gioia – l’ambito tipico di testimonianza e comunione – è la liturgia. le immagini al suo servizio diventano perciò automaticamente parte di un annuncio che è anche incontro, in analogia con i sacramenti, i segni di salvezza e vita nuova istituiti da cristo. dalla liturgia sacramentale attingono ‘presenza’, ‘forza’, ‘realtà’. per i teologi dei primi sei secoli cristiani, i sacramenti stessi sono da considerarsi “immagini”. secondo san basilio, ad esempio, nel battesimo (che è partecipazione alla morte e risur


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rezione di cristo: cfr. romani 6), “l’acqua ci offre l’immagine della morte, accogliendo il corpo come in un sepolcro”1. e parlando dell’eucaristia, gaudenzio di brescia afferma che “il pane è considerato con ragione immagine del corpo di cristo” perché fatto “di molti grani di frumento” che, macinati, impastati con l’acqua e cotti al fuoco, diventano segno complessivo della comunione di molte persone battezzate nell’acqua e nel fuoco dello spirito santo – persone che diventano a loro volta l’unico “corpo mistico” di cristo, cioè la chiesa2. in queste citazioni, dove sembra dominare l’aspetto metaforico del rapporto “immagine-sacramento”, non manca la dimensione visiva. san leone magno arriva a dire che, dopo il ritorno di cristo al padre nell’ascensione, “quello che era visibile del nostro redentore è passato nei riti sacramentali”, rivelatori di quella “arcana serie di azioni divine” su cui “l’intera esistenza del cristiano si fonda”3. Tale infatti è l’importanza di questa conoscenza per immagini sensibili, che gaudenzio da brescia ritiene “necessario che i sacramenti siano celebrati nelle singole chiese del mondo sino al ritorno di cristo dal cielo, perché tutti – sacerdoti e laici – abbiano ogni giorno davanti agli occhi la viva rappresentazione della passione del signore, la tocchino con mano, la ricevano con la bocca e con il cuore e conservino indelebile memoria della nostra redenzione”4. ma se l’intera comunità deve sempre avere davanti agli occhi la passione di cristo, consegue che, insieme ai riti che costituiscono la “viva rappresentazione” della morte e risurrezione del salvatore, avranno grande dignità anche i mosaici e dipinti, le vetrate e sculture che, avvicinate ai riti, ne visualizzano i contenuti. Rito come immagine a legittimare simili associazioni è uno scritto neotestamentario, la lettera agli ebrei, che presenta tutta l’opera di cristo come una liturgia, e già nelle prime battute introduce l’idea dell’immagine come “necessaria”, uno strumento indispensabile alla comunicazione del messaggio. “dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato per mezzo del figlio […] che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (ebrei 1,1-3).

non più solo parole, cioè, ma un’esperienza visiva (“irradiazione”) e addirittura tattile (“impronta”) sono le coordinate della nuova alleanza. 1

Trattato sullo Spirito Santo, 15:35. J. p. migne, Patrologiae cursus completus, series graeca (=pg), 242 voll., parigi 1857-66 : 32, 130-31 2 Trattato 2. Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum (=csel), vienna 1866ss: 68, 30-32 3 Discorso 2 sull’Ascensione, 1 :4. J. p. migne, Patrologiae cursus completura, series latina (=pl), 221 voll, parigi 1844-64:54, 397-99. 4 Trattato 2, cit. (nota 3).


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Questo figlio, poi, è “sacerdote” – anzi, è quel sommo e definitivo sacerdote di cui il servizio degli antichi sacerdoti levitici era solo l’ombra. “i giorni della sua vita” vengono concepiti come un ininterrotto sacrificio, l’incessante offerta a dio di “preghiere e suppliche con forti grida e lacrime” (ebrei 5,7). e il luogo in cui viene celebrata questa “liturgia” estensiva con la vita stessa del “sacerdote” non è un santuario terrestre – non è la Tenda con arredi comandati a bezaleel, ma “una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione” (ebrei 9, 11). la “tenda più grande” è lo stesso corpo fisico di gesù, in cui, come “sommo sacerdote dei beni futuri […] non con il sangue di capri e vitelli ma con il proprio sangue” egli entra “una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna” (ebrei 9,11-12). e non solo: penetrando al cuore del luogo sacro, se stesso, cristo inaugura per tutti una “via nuova e vivente […] attraverso il velo” che separava il Sancta sanctorum dalle aree esterne della Tenda e poi del Tempio, e quella via è la sua carne (ebrei 10,20)! offrendo la propria vita al posto di quella di animali rituali, cristo apre all’uomo una nuova strada verso dio. ma se la “via nuova” è la sua carne, essa è collegata all’incarnazione e quindi alla visibilità del salvatore. “egli stesso si costruì nella vergine un tempio, cioè il suo corpo”, dice sant’atanasio, “e, abitando in esso, ne fece un elemento per potersi rendere manifesto”5. si rende manifesto poi per condurre altri sulla stessa via: tutti infatti hanno “piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di gesù, per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne” (ebrei 10, 19-20). le immagini perciò – come i sacramenti che tengono viva la memoria della passione di cristo – costituiscono una sorta di “segnaletica”. raffiguranti corporalmente cristo, maria e i santi, i dipinti e sculture indicano la “via nuova e vivente” che è la carne del salvatore presente nel pane consacrato ma anche nel corpo mistico che è la chiesa. non è un ragionamento astratto, questo: anzi, è intensamente personale, perché la nuova via a dio, la carne di cristo, è anche la nostra carne, e l’immagine del corpo in cui egli ha celebrato i riti di un sacerdozio eterno è anche l’immagine del nostro corpo. “Vedete, vedete in me il vostro corpo, le vostre membra, il vostro cuore, il vostro sangue”, cristo dice ai credenti in uno straordinario testo di san pietro crisologo. “E se temete ciò che è di Dio, perché non amate almeno ciò che è vostro? Se rifuggite dal padrone, perché non ricorrete al congiunto?”6 commosso da quest’idea, crisologo poi esclama: “o immensa dignità del sacerdozio cristiano! l’uomo è divenuto vittima e sacerdote per se stesso. non cerca fuori di sé ciò che deve immolare a dio ma porta con sé e in sé ciò che sacrifica”.

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Discorso sull’incarnazione, 8-9. pg 25, 110-111. Discorso 108. pl 52, 499-500.


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invitando poi a imitare cristo, esorta: “sii, o uomo, sacrificio e sacerdote […], fa del tuo cuore un altare, e così presenta con ferma fiducia il tuo corpo come vittima a dio. dio cerca la fede, non la morte. ha sete della tua preghiera, non del tuo sangue. viene placato dalla volontà, non dalla morte”7.

in questa prospettiva, oltre ad essere annuncio e segno dell’alleanza, l’arte figurativa nel contesto cultuale è anche uno specchio in cui il cristiano contempla la propria dignità, e in molte immagini avvicinate ai riti il verbo sembra proprio dire: “vedete in me il vostro corpo, fa del tuo cuore un altare”. È il caso dello schienale di un trono abbaziale o vescovile duecentesco conservato ai musei vaticani dove, nella parte centrale, vediamo un altare con una grande croce e, dietro l’altare, cristo risorto che celebra. la nudità di questo “sacerdote”, nonché il suo gesto orante – le braccia allargate ed alzate (il gesto appunto del sacerdote che celebra la messa) – traducono in termini rituali il sacrificio compiuto da cristo sul calvario. sopra questo “sacerdote-vittima”, una seconda raffigurazione lo presenta poi glorificato, in quasi letterale traduzione di un altro passo della lettera agli ebrei, dove si afferma di cristo che, “in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l’ignominia, e si è assiso alla destra del trono di dio” (ebrei 12,2). ecco, dipinta sulla sedia da cui un prelato si alzava per andare all’altare, quest’immagine comunica perfettamente il rapporto “speculare” sopra accennato: l’abate o vescovo che celebrava doveva avere in sé “gli stessi sentimenti che furono in cristo gesù”, non agendo per interesse o vanagloria ma accettando pure lui l’ignominia “in cambio della gloria che gli era posta innanzi” (filippesi 2,3-5; ebrei 12,2). i fedeli dovevano similmente vedere il corpo di cristo nel corpo di un loro fratello, l’abate o vescovo, rendendosi conto che il vero “celebrante” è sempre lui, cristo, sacerdote della nuova ed eterna alleanza. molte opere eseguite per il luogo della celebrazione liturgica infatti presentano cristo, maria e i santi nei termini “sacerdotali” di un impegno della propria vita: il mosaico della basilica di san clemente a roma; il Battesimo di Cristo di piero della francesca, ora a londra; la penultima Pietà di michelangelo, a firenze; il Risorto in croce di giuliano vangi nel duomo di padova. in questi casi, sopra l’altare dovevamo vedere – a san clemente e a padova vediamo tuttora – l’immagine del nostro corpo offerto, al posto di vitelli e capri, da chi ci ha lasciato un esempio perché ne seguiamo le orme (cfr. 1 pietro 2,21). perfino le raffigurazioni del bimbo in braccio alla madre, avvicinate all’eucaristia evocano il sacerdozio di chi, “entrando nel mondo”, promise al padre che, al posto degli olocausti di tori e capri, avrebbe offerto il corpo che gli era stato preparato (ebrei 10,4-7: cfr. figg. 12, 13, 14, 111).

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ibid.


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così, riconoscendo la propria natura, la propria umanità nel corpo raffigurato di cristo o di un santo, il credente si scopre “sacerdote” e “vittima”, capace in cristo di offrire sull’altare del proprio cuore un sacrificio che “rende perfetto, nella sua coscienza” l’offerente (ebrei 9,9). e le cose promesse nell’antico Testamento – l’alleanza di perdono, la vicinanza di dio e una parziale visione della sua gloria – vengono riportate all’esperienza che il cristiano ha di se stesso quando, nella liturgia, incontra il redentore nella concretezza della propria vita elevata a dignità sacerdotale. Una proposta per oggi oggi molti artisti, desiderosi di contribuire con le loro opere alla vita della chiesa, sperimentano con l’astrazione come idioma adatto al sacro. il linguaggio astratto si offre in effetti come analogia del processo d’interiorizzazione delle scritture, il cui senso emerge dal paziente collegarsi tra loro di indizi parziali d’irresistibile fascino. l’astrazione non può certamente spaventare il cristiano, se cristo stesso, verbo umanato, pur nella concretezza del corpo assunto da maria non esitò a presentarsi in termini lontani da ogni possibilità figurativa, come “via”, “verità”, “vita” e “luce” degli uomini. soprattutto nel contesto liturgico, dove l’arte accompagna riti che spingono oltre l’aspetto esterno delle cose, i linguaggi del contemporaneo, tra cui l’astrattismo, sono adatti al mistero vitale celebrato. È chiaro che la tradizione figurativa, così importante nell’arte della chiesa passata, presente e futura, rimane e rimarrà un punto di riferimento fondamentale. ma a quanti pretendono che il figurativo sia l’unico stile cristiano possibile, va ricordato una pagina di sant’agostino in cui si parla dell’arte canora – e precisamente del “canto nuovo” che il salmo 32 invita ogni credente ad innalzare. “lodate il signore con la cetra, con l’arpa a dieci corde a lui cantate. cantate al signore un canto nuovo!” recita il testo sacro (sal32,2-3), e agostino allora esorta: “spogliatevi di ciò che è vecchio ormai; avete conosciuto il nuovo canto. un uomo nuovo, un testamento nuovo, un canto nuovo. il nuovo canto non si addice a uomini vecchi. non lo imparano se non gli uomini nuovi, uomini rinnovati, per mezzo della grazia, da ciò che era vecchio, uomini appartenenti ormai al nuovo testamento, che è il regno dei cieli. Tutto il nostro amore ad esso sospira e canta un canto nuovo. elevi però un canto nuovo non con la lingua ma con la vita”.8 secondo agostino, questo canto che si eleva a dio “non con la lingua ma con la vita” è astratto, non figurativo – usa solo suoni e non parole, cioè. affermando che è dio stesso a dare il tono, il vescovo d’ippona infatti ingiunge a chi vorrebbe così cantare: “non andare in cerca delle parole, come se tu potessi tradurre in suoni articolati un canto in cui dio si diletti. canta nel giubilo. cantare con arte a dio consiste proprio in questo: cantare nel giubilo. che cosa significa cantare con giubilo? comprendere e non

8 Commento sul Salmo 32, discorso 1,7-8: cfr. Corpus Christianorum series latina, Turnhout 1953ss, 38,253-254.


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saper spiegare a parole ciò che si canta col cuore. coloro infatti che cantano sia durante la mietitura, sia durante la vendemmia, sia durante qualche lavoro intenso, prima avvertono il piacere suscitato dalle parole dei canti, ma in seguito, quando l’emozione cresce, sentono che non possono più esprimerla in parole e allora si sfogano in sola modulazione di note. Questo canto lo chiamano ‘giubilo’”.9

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ibid.


arte sacra - arte liturgica arte profana a soggetto religioso Igùmeno Andrea (Wade) sia che vogliamo definirli crisi oppure sviluppi, i cambiamenti nell’approccio artistico ai temi religiosi, particolarmente in occidente, sono un fatto comunque evidente. i cristiani ortodossi, specialmente, sono talvolta sorpresi o perfino disorientati quando incontrano alcune opere recenti occidentali che sono proposte per essere esposte nelle chiese e in altri contesti liturgici o devozionali. pare evidente che il concetto stesso di arte sacra sia assai diverso nell’occidente e nell’oriente cristiani. come ogni altro fenomeno culturale, la spiegazione del presente si trova nei fatti storici. il grande liturgista robert Taft usava dire nelle sue lezioni: “chi non conosce la storia sarà vittima dell’ultima moda”. ora invece dice più succintamente: “chi non sa la storia non sa nulla.” nell’antichità non appare nessuna distinzione tra arte sacra e arte profana, se non nel soggetto raffigurato. sarebbe più esatto dire che tutta l’arte antica è sacra, a soggetto religioso o profano. gli affreschi e le statue dell’antico egitto sono ieratici quando raffigurano gli dei, ma anche i personaggi civili. anche nella preistoria, le tracce rimasteci nelle grotte hanno tutte un’impronta numinosa, anche nelle scene di caccia, con animali sacri, rituali, simboli di fertilità, ecc. nonostante gli sviluppi notevoli nello stile e nella tecnica, la sacralità dell’arte rimane anche in epoca greca e romana. il sacro pervade perfino gli affreschi di carattere più marcatamente da baccanali delle tombe etrusche. Tutta l’arte indiana e cinese ha una forte impronta sacra, come le varie tradizioni indigene nelle altre parti del mondo. si direbbe che per l’uomo il fatto stesso di raffigurare aveva qualcosa di misterioso, di magico, e quindi di sacro. il cristianesimo ha ereditato questa situazione e le prime raffigurazioni, ovviamente di soggetti religiosi, seguono i canoni dell’arte nella cultura dei tempi e dei luoghi. così vediamo l’influenza dell’arte romana a roma negli affreschi delle catacombe e nei mosaici delle absidi delle antiche chiese. in egitto, i ritratti funebri di el-fayyûm furono presi come modelli per le icone ad encausto del vi secolo conservate nel monastero di santa caterina sul sinai. l’arte antica bizantina, siriaca, armena e georgiana ha continuato i modelli dell’arte sacra dell’epoca, gradualmente sviluppando uno stile proprio che trova la sua eco anche in occidente. fino all’viii secolo, il concetto sacro dell’arte appare sostanzialmente identico in occidente e in oriente, seppure vi siano diverse tendenze e molteplicità di stili all’interno della tradizione. anche la teologia dell’immagine come oggetto venerando per il prototipo, ma non adorando come un idolo, sviluppata da basilio il grande, giovanni damasceno e leonzio di bisanzio, è radicata nella sacralità dell’arte e arriva dopo la crisi dell’iconoclasmo alla definizione del vii concilio ecumenico di nicea ii nel 787. ma è stato questo il momento della frattura per questa tradizione in occidente.


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prima di esaminare i fatti storici che hanno condotto alla desacralizzazione dell’arte sacra, sarà certamente utile descrivere il ruolo delle icone nella chiesa ortodossa giacché non tutti i lettori occidentali conoscono la loro importanza nella vita liturgica e spirituale dei fedeli ortodossi. Il ruolo liturgico delle icone nella chiesa coloro che visitano una chiesa ortodossa per la prima volta, particolarmente durante le celebrazioni liturgiche, saranno certamente impressionati dall’onnipresenza delle immagini sacre. idealmente, l’interno (e in alcuni luoghi come in moldavia anche l’esterno) della chiesa è interamente ricoperto di raffigurazioni sacre. Queste immagini sono disposte secondo un sistema consacrato nei secoli. sarebbe troppo complicato presentare un trattato completo su questa tradizione, ma possiamo segnalare alcuni elementi salienti. se la chiesa ha una cupola centrale, nella cupola sarà raffigurato il cristo pantocrator (“che regge tutto”), benedicente dalla cupola che rappresenta il cielo. attorno a lui saranno gli apostoli, nelle semicupole che sostengono la cupola centrale vi saranno i quattro evangelisti. nell’abside ci sarà la madre di dio con il figlio da lei incarnato; sotto, la comunione degli apostoli o la concelebrazione degli ierarchi. il santuario è separato dalla chiesa mediante l’iconostasi, un muro con tre porte che mostra tutto un programma iconografico, rivolto verso i fedeli che stanno nella chiesa, pregando verso oriente. a destra e a sinistra della porte regali, quelle centrali, vediamo cristo benedicente e la madre di dio con il figlio; sulle porte regali vediamo l’annunciazione e, di solito, i quattro evangelisti; sulle porte laterali o diaconali stanno gli arcangeli oppure i santi diaconi. l’iconostasi può salire fino a sette ordini d’icone, comprendendo gli apostoli, i profeti, le dodici feste principali dell’anno liturgico, altri santi e, nel centro, una deesis (cristo con la madre di dio a destra e san giovanni battista a sinistra che si inchinano a lui). l’iconostasi della cattedrale di pskov nel nord della russia si eleva fino a 42 metri di altezza. ma anche nelle piccole chiese, più umili, lo schema essenziale del programma iconografico è rispettato. nella chiesa sono esposte icone di santi per la venerazione dei fedeli e nel centro ci sarà l’icona della festa o del santo del giorno su un leggio. Quando entrano in chiesa i fedeli vanno a baciare le icone di cristo, della madre di dio e della festa, poi visitano le altre icone, salutandole e accendendo candele davanti ad esse. durante la celebrazione liturgica, le icone sono venerate e incensate ripetutamente: l’incensazione di tutta la chiesa segue l’ordine stabilito: l’altare attorno, il trono alto nell’abside, la tavola della preparazione, il lato destro del santuario, poi il lato sinistro, poi l’icona sopra le porte regali dentro il santuario. il diacono esce dalla porta settentrionale e incensa l’icona sopra le porte regali poi le icone delle porte regali, il lato destro dell’iconostasi, poi il lato sinistro, l’icona in mezzo alla chiesa e i cori, poi gira tutta la chiesa dal lato del salvatore incensando le icone e i fedeli. Quando arriva di nuovo all’iconostasi, incensa un’altra volta le icone di cristo e della madre di dio, poi rientra nel santuario e incensa l’altare sul davanti, i celebranti e i ministranti. si noterà che durante questa azione liturgica, le icone e le persone presenti sono incensate allo stesso modo. i personaggi sacri rappresentati sulle


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icone sono considerati presenti nella chiesa nello stesso modo in cui sono presenti i celebranti e i fedeli. anche questi ultimi sono icone, perché siamo creati ad immagine e somiglianza di dio1, e l’immagine che ha sofferto per il peccato è stata restaurata dall’unione con cristo nel battesimo. l’iconostasi di una casa privata riflette il ricco programma della chiesa. ogni casa ortodossa ha l’angolo delle icone, che spesso si ripete in ogni stanza. l’angolo sarà situato verso oriente e assomiglierà nella sua semplicità all’iconostasi della chiesa. i fedeli recitano le loro preghiere del mattino e della sera davanti a queste icone, si segnano con il segno della croce e le venerano. spesso accendono candele e bruciano incenso davanti ad esse. l’esperienza ci insegna che le icone benedette veicolano una presenza spirituale e facilitano il dialogo di preghiera con cristo e i santi. il metropolita antonio (bloom) di sourozh, citando san giovanni crisostomo, dice che quando si prega davanti all’icona, conviene chiudere gli occhi2. Quindi non è semplicemente una raffigurazione artistica. se i canoni tradizionali rendono subito riconoscibili i personaggi e i fatti rappresentati, il ruolo dell’icona non si esaurisce nella semplice istruzione (degli analfabeti nei secoli passati). la tradizione sacra dell’icona esprime una dimensione specifica che non può essere sostituita con la parola o i simboli. in questo senso, l’icona non è (solo) arte, ma utilizza l’arte. lo stesso metropolita antonio, parlando della presenza di cristo o del santo nell’icona, dice una cosa che può sconvolgere il cristiano occidentale: “non possiamo dire che la presenza del santo nell’icona sia identica o perfino simile a quella che troviamo nei santi doni.”3 da una parte, non si tratta di un cambiamento ontologico come nell’eucaristia, ma dall’altra o una presenza è reale oppure irreale, cioè inesistente. se cristo è presente nell’eucaristia, nella parola del vangelo o nell’icona, è sempre lo stesso cristo che è realmente presente. l’ultima osservazione che conviene fare sull’icona è che non si tratta semplicemente di riprodurre schemi o modelli tradizionali. un’icona è sacra perché dipinta con la preghiera e il digiuno. le immagini non dipinte con la preghiera e il digiuno non saranno sacre e quindi non si potrà parlare di arte sacra cristiana. chiarito questo, possiamo passare all’esame degli sviluppi storici e teologici che hanno influenzato l’arte sacra, nell’occidente in particolare. Il rifiuto in Occidente del Concilio Nicea II il concilio di francoforte è stato un grande sinodo dell’occidente, celebrato nel 794 in presenza di carlo magno e dei legati del papa adriano i e composto dei vescovi della gallia, della germania e dell’aquitania. lo scopo principale di questo concilio era di condannare l’adozionismo, ciò che fu fatto nel primo canone. il secondo canone di questo concilio si occupava della questione della venerazione data alle immagini e della pretesa del concilio nicea ii di essere un concilio ecumenico. 1

genesi, 1:26. archbishop anthony bloom, Living Prayer (london, libra books : 1966) p. 68. 3 Ibid., p. 69. 2


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ecco il testo del canone ii: “È stata sollevata la questione riguardante il sinodo recente che i greci avevano tenuto a costantinopoli [sic] sull’adorazione [sic] delle immagini, dicendo che tutti dovevano essere giudicati degni d’anatema se non rendevano alle immagini dei santi il servizio e l’adorazione come alla divina Trinità. i nostri santissimi padri hanno rigettato con disprezzo e in ogni maniera tali adorazione e servizio e li hanno condannati unanimemente.” bisogna osservare che il conciliabolo iconoclasta (che pensava esattamente come il sinodo di francoforte!) fu tenuto nel 754 a costantinopoli sotto l’imperatore costantino copronimo, mentre il settimo concilio ecumenico fu tenuto nel 787 a nicea. sembrerebbe che i vescovi a francoforte abbiano confuso questi due sinodi, benché i difensori di quei vescovi abbiano cercato di spiegare l’apparente contraddizione affermando che questo concilio fu convocato a costantinopoli e poi trasferito a nicea. inoltre, l’ultima riunione fu tenuta nel palazzo di costantinopoli. più grave della confusione geografica è quella teologica: né l’uno né l’altro di questi sinodi (né alcun altro) ha pronunciato l’anatema contro il “servizio” (latreia) e l’“adorazione” (proskinesi), dovuti alla santa Trinità, resi alle “immagini dei santi”. prima di situare questo canone nel suo contesto storico, conviene menzionare l’assemblea dei vescovi tenuta a parigi, secondo fleury4 roisselet de sauclières5 e hefele6 nel mese di novembre 825. Questi autori dicono che i vescovi hanno condannato il settimo concilio ecumenico e approvato i libri carolini. È interessante osservare che così tardi, nell’825, un’assemblea di vescovi occidentali abbia rigettato un concilio ecumenico approvato dal papa adriano i già prima del concilio di francoforte, accusando il papa di aver “ordinato agli uomini di adorare le immagini superstiziosamente” (quod superstitiose eas adorare iussit) e chiedendo al papa di quel tempo (eugenio) di correggere gli errori dei suoi predecessori. Queste decisioni clamorose non hanno provocato nessuna reazione da roma! eppure, tutti i documenti redatti durante questo concilio furono portati a ludovico dai vescovi halitgare di cambrai e amalare. l’imperatore li ha approvati e mandati al papa eugenio tramite i vescovi geremia di sens e giona di orléans, ai nomi dei due imperatori ludovico e lotario. Questa riunione era stata provocata dalle azioni intraprese dall’imperatore iconoclasta di bisanzio, michele, che proveniva da una famiglia giudeocristiana della frigia. i testimoni contemporanei lo descrivono come un uomo molto ignorante. sapeva appena leggere ed era nemico dell’istruzione. l’unico interesse scientifico che dimostrava era lo studio degli animali domestici e le loro qualità. verso tutto il resto manifestava la più totale indifferenza. disprezzava particolarmente i monaci. nell’824, l’imperatore michele aveva meno paura degli ortodossi iconoduli e inviava ambasciatori all’imperatore dell’occidente, ludovico il pio, figlio di carlo magno, al quale 4

fleury, Hist. Eccles., lib. 47.4. roisselet de sauclieres, Hist. Chronol., vol. 3, no. 792, p. 385. 6 hefele, Concilien § 425. 5


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indirizzava una lettera che contiene i passi seguenti7 “vi informiamo che diversi dei nostri hanno introdotto delle innovazioni perniciose, allontanandosi dalle tradizioni apostoliche. hanno tolto le croci dalle chiese e le hanno sostituite con delle immagini davanti alle quali accendevano lampade e bruciavano incenso come davanti alla croce.” Qui conviene osservare che questo culto delle immagini non era affatto una innovazione. perfino in occidente, leggiamo da fortunato nel vi secolo in gallia: “Qui sul muro c’è l’immagine del santo e sotto i suoi piedi una piccola finestra e una lampada. nel vetro di questa lampada brucia il fuoco.”8 l’imperatore michele continua: “cantavano davanti a queste immagini, le adoravano e supplicavano il loro soccorso. molti offrivano loro dei vestiti e le facevano madrine dei loro figli”. “facevano cadere su di esse i primi capelli che tagliavano dei loro figli; altri offrivano i capelli della loro tonsura monastica. alcuni sacerdoti grattavano la pittura delle immagini, mescolavano questa polvere al vino consacrato e lo distribuivano ai comunicanti. altri sacerdoti mettevano il pane eucaristico sulle mani dei personaggi dipinti sulle immagini, e i comunicanti lo prendevano dalle immagini per comunicarsi. alcuni sacerdoti utilizzavano le tavole sulle quali erano state dipinte le immagini come altari, e celebravano i santi misteri nelle case private. si potrebbero segnalare anche altri abusi”. “È per rimediare a questo che gli imperatori ortodossi hanno convocato un concilio, con l’accordo dei vescovi più dotti. hanno deciso che le immagini sarebbero state tolte dal basso dei muri delle chiese e ricollocate in alto, ove non potevano essere altro che un mezzo di insegnamento per i fedeli. così collocate, gli ignoranti non potevano più adorarle, accendere delle lampade davanti ad esse e offrire loro l’incenso. alcuni di questi ignoranti si sono rifiutati di sottomettersi alle decisione dei concili locali e si sono rivolti a roma, calunniando la nostra chiesa. noi non teniamo nessun conto dei loro cattivi discorsi e vi dichiariamo che siamo ortodossi. crediamo alla Trinità di un solo dio in tre persone, all’incarnazione del verbo, alle sue due volontà e due operazioni. chiediamo l’intercessione della santa vergine, madre di dio, e di tutti i santi; veneriamo le loro reliquie; riceviamo tutte le tradizioni apostoliche e le decisioni dei sei concili ecumenici.” “inviamo le nostre lettere al papa di roma con un evangeliario ornato di oro e pietre preziose, una patena e un calice per essere offerti alla chiesa di san pietro dai nostri ambasciatori. vi preghiamo di farli condurre a roma con onore e sicurezza e di scacciarne i cattivi cristiani che calunniano la nostra chiesa”. così, sotto le apparenze dell’ortodossia, l’imperatore michele attaccava il culto delle icone e si rifiutava di riconoscere il concilio nicea ii come ecumenico. ludovico fece accompagnare a roma gli ambasciatori dell’imperatore di costantinopoli dai propri ambasciatori che chiesero al papa l’autorizzazione di far esaminare la que-

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delalande, supplém. concil. gall.; eginb. Annal., ann. 824. migne, Pat. Lat., vol. 88: De Vita Sancti Martini, lib. iv, 690 (col. 426).


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stione delle immagini dai vescovi dell’impero franco, ciò che avrebbe dovuto darle una più alta importanza agli occhi di tutta la chiesa. il papa eugenio, successore di pasquale, accordò questa autorizzazione e fu così che ludovico convocò i più dotti vescovi del suo impero a parigi per il mese di novembre dell’825. il trattato inviato dai membri dell’assemblea a ludovico dimostra che nella chiesa franca si erano conservate tutte le idee false dei padri del concilio di francoforte riguardante la fede degli orientali sul culto delle immagini. i vescovi, pur condannando il concilio iconoclasta di costantino copronimo, attaccarono la risposta del papa adriano ai libri carolini e gli atti del secondo concilio di nicea come erronei, opposti alla vera tradizione cattolica e favoreggiatori di un culto superstizioso delle immagini. raccolsero una grande quantità di testi più o meno adatti a illuminare la questione. hefele osserva che questi vescovi non solo falsificano l’insegnamento di adriano e del settimo concilio, ma citano un passo di sant’agostino che, scrive, “insegna esattamente il contrario delle intenzioni di questo sinodo, perché il passo dice che la parola colere può essere adoperata per gli uomini”. poi, i membri del concilio redassero due progetti di lettere, una di ludovico al papa e l’altra del papa all’imperatore michele. Tutti questi documenti non dimostrano un rigore teologico incontestabile, ma si intravede facilmente, attraverso una valanga di ragionamenti poco corretti, che la loro opinione sul culto delle immagini era ortodossa nel fondo; soltanto, confondevano il culto puramente onorifico che esigevano i papi e il secondo concilio di nicea con l’adorazione propriamente detta che è dovuta a dio solo. L’opposizione di Carlo Magno a Costantinopoli l’avanzamento dell’islam nel bacino mediterraneo nell’viii secolo ha fortemente contribuito alla separazione dell’occidente dall’oriente cristiani. isolato da bisanzio, l’occidente decise di stabilire il proprio impero “romano”9. come è ben risaputo, il giorno di natale dell’anno 800 carlo magno, re dei franchi, riuscì a farsi incoronare imperatore dal papa. prima e dopo questo, carlo magno ha cercato in tutti i modi di ottenere un riconoscimento da parte dell’imperatore di bisanzio, ma senza successo; come osserva il metropolita Kallistos,10 i bizantini aderivano ancora al principio dell’unità imperiale e consideravano carlo magno come un intruso e l’incoronazione papale come un atto di scisma nell’impero. la creazione di un “sacro romano impero” in occidente ha avuto l’effetto di alienare ancora di più l’occidente dall’oriente. davanti all’atteggiamento di bisanzio, carlo magno cercava di giustificarsi. il rinascimento culturale alla corte di carlo magno era colorito già dall’inizio da un forte pregiudizio contro i greci. l’ostilità del nuovo impero romano verso costantinopoli non era soltanto politica, ma anche culturale e teologica.11

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Timothy Ware, The Orthodox Church (penguin, harmondsworth: 1963), p. 53. Loc. cit. 11 Op. cit, p. 54. 10


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la politica teologica franca era di stabilire un’autorità universale per il vescovo di roma e di condannare costantinopoli per eresia. il risultato sarebbe stato che l’oriente sarebbe sparito e carlo magno sarebbe diventato il re del mondo intero. dopo aver reso il papa suo vassallo, carlo magno diede ai suoi teologi il compito di stabilire la tesi che il vescovo di roma fosse l’unico successore dell’apostolo pietro, il quale avrebbe avuto giurisdizione sopra gli altri apostoli, e che il papa di roma avesse di conseguenza una giurisdizione universale e un’autorità suprema e infallibile in materia di fede. era necessario creare dei documenti falsi per sostenere questa tesi rivoluzionaria, poiché perfino gli autori patristici latini condannavano una tale dottrina. d’altronde, sembrerebbe che paolo, non pietro, abbia fondato la chiesa di roma.12 inoltre, il beato agostino d’ippona dimostra che petrus non è petra (Pietro non è la pietra).13 nel vi secolo, san gregorio magno, papa di roma, combatteva ferocemente l’idea che un vescovo potesse essere universale o superiore agli altri. nonostante tutto questo, gli autori franchi inventarono interamente le False decretali e la Falsa donazione di Costantino. nelle False decretali, si legge che gli antichi vescovi di roma pretendono per loro stessi quegli stessi diritti e le prerogative che i papi si erano fatti attribuire dai teologi carolingi. Queste False decretali appaiono per la prima volta a colonia, Treviri e metz. riculfo di magonza ne fece redigere delle copie, angelramn di metz ne portò la prima collezione a roma, poi riculfo le portò un’altra volta. se le decretali di questa collezione fossero autentiche, sarebbero uscite da roma e non dalla germania per andare a roma.14 in ogni caso, nessuno storico dei nostri giorni cerca di dimostrare l’autenticità di questi falsi. ma la strategia era molto astuta. Questi falsi documenti franchi giustificavano il potere temporale e spirituale che i teologi franchi attribuivano al papa di roma, vassallo dell’impero. Questo lusingava i papi i quali però, una volta divenuti complici, erano presi in trappola, divenendo strumenti della gloria dell’impero carolingio. il papato che pos-

12 paolo non fa menzione di pietro nella sua lettera ai romani, ma nel capitolo 15, versetto 22, promette di venire prossimamente per evangelizzare la capitale. nel versetto 20 dice che non usa predicare il vangelo dove cristo è già nominato, per non costruire sopra le fondazioni di un altro. Questo è confermato da sant’ireneo di lione (c. 150-c. 210) in Adversus hæreses, l. 3, c. 3 (crf. epifanio, Adv. hær., e Tertulliano, Prescrizioni, cap. 32), il quale dice che paolo ordinò i primi due vescovi di roma, lino e cleto, e che pietro venne a roma solo per morirvi, durante l’episcopato di cleto. pietro vi ordinò clemente, che divenne il terzo vescovo di roma. se sant’ireneo chiama clemente il terzo vescovo di roma, significa che lino ne era il primo, ciò che rende difficile da sostenere la tesi che i vescovi di roma siano i successori di san pietro. 13 “non gli fu detto infatti: tu es petra, ma: tu es Petrus. ma la petra era il cristo (i cor 10:4) che simone ha confessato, come tutta la chiesa lo confessa: è stato chiamato Petrus”. (agostino, Contro l’eretico Donato). “poiché la pietra era il cristo, e pietro è il popolo cristiano. ‘Tu sei’, dice, ‘pietro’, e sopra questa pietra che tu hai riconosciuta, dicendo ‘Tu sei il cristo, il figlio del dio vivente’, edificherò la mia chiesa. edificherò te su di me, non me su di te.” (agostino, Sermo 76, 1). cipriano di cartagine (c. 200-258) in De unitate Ecclesiæ scrive: “ogni vescovo siede sul trono di pietro”. 14 guettée, Histoire del l’Eglise vol. 6, p. 2.


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sedeva le collezioni di dionisio il piccolo e di isidoro di siviglia15 avrebbe dovuto protestare contro la collezione falsificata, ma non lo fece affatto, accogliendo a roma con favore ciò che confortava le loro pretese. sul fronte propriamente teologico, i teologi carolingi si fecero paladini della nuova dottrina del Filioque contro constantinopoli. più tardi, un secolo dopo il concilio di francoforte, fozio il grande rifiutò i ragionamenti di incmaro di reims, di Teodulfo di orléans e di ratramno di corbia nella sua celebre Mistagogia dello Spirito Santo. anche roma resistette a lungo contro la nuova dottrina dei franchi. insieme al Filioque, il cavallo di battaglia dei teologi carolingi contro costantinopoli era il rifiuto del culto delle immagini. il concilio di francoforte si appoggiava sui Libri carolini, i quali rifiutano il vii concilio ecumenico, ma accettano il vi concilio di costantinopoli iii, tenuto nel 680-681, quasi un secolo prima. forse gli autori non ne avevano letto gli atti, perché vi avrebbero trovato l’anatema contro il papa onorio di roma per aver sostenuto l’eresia monotelita, un testo difficilmente conciliabile con la nuova dottrina franca sul papato. i Libri carolini esistono in due redazioni, una più breve (85 capitoli), mandati al papa adriano i verso l’anno 790, subito dopo nicea ii, e condannata dal papa, che riconosceva nicea ii come ecumenico, e un’altra (120 capitoli), ratificata a francoforte. i Libri contengono una condanna mal informata e grossolana di nicea ii. eppure pare certo dalla lettura dei Libri che i loro autori non abbiano mai letto gli atti né i decreti del settimo concilio ecumenico che essi condannano, né quelli del conciliabolo iconoclasta del 754. per esempio, nel libro iv, capitolo Xiv, e di nuovo nel capitolo XX16 si accusa il settimo concilio, e particolarmente gregorio, vescovo di neocesarea, di aver lusingato l’imperatrice eccessivamente. ma le osservazioni cui si riferisce questa accusa furono fatte al conciliabolo del 754 e non al secondo concilio di nicea, e non da gregorio di neocesarea, il quale non faceva altro che leggere estratti degli atti di questo pseudo-concilio durante il concilio ecumenico del 787. altri esempi abbondano. i Libri carolini fanno anche prova di incompetenza teologica; per esempio, nel libro iii, capitolo Xvii, l’autore attribuisce a costanzo, vescovo di cipro, l’assurda dichiarazione che alle immagini sacre sarebbe dovuta l’adorazione suprema che spetta alla santissima Trinità, ciò che dimostra una totale incomprensione degli atti del concilio nicea ii. non vi è dubbio che la versione latina degli atti di nicea ii inviata dal papa adriano i a carlo magno era così mal fatta che molti passi erano incomprensibili e pieni di errori teologici di base. in genere, questa traduzione confondeva l’adorazione (proskinesi, latreia) con la venerazione o il servizio (douleia), distinzione fondamentale per la dottrina di nicea ii, traducendo tutti questi termini con adoratio. anastasio il bibliotecario dice di questa traduzione: “il traduttore ha mal capito la natura della lingua greca, ma anche della

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Op. cit., p. 3f. migne, col. 1213 et 1226.


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lingua latina, traducendo semplicemente parola per parola e in un modo tale che non sia quasi mai possibile (aut vix aut nunquam) indovinarne il senso; poi nessuno legge mai questa traduzione né ne fa delle copie.”17 aldilà di questi problemi di traduzione, la volontà di condannare i greci con disprezzo appare attraverso tutti i Libri carolini, pieni di affermazioni false.18 il contenuto di questi errori non è altro che un pretesto per l’agenda anticostantinopolitana dei franchi, talmente testardi da condannare la dottrina iconodula del papa adriano i mentre insegnano la sua infallibilità e universalità, negli stessi Libri carolini e al concilio di francoforte. pare evidente che, per i franchi, il papa serviva soltanto per universalizzare l’autorità dell’imperatore dell’occidente, e che la sua pretesa infallibilità veniva ignorata quando non corrispondeva alla politica della corte. uno dei frutti più amari di questa politica è stato un certo iconoclasmo occidentale che affonda le radici nel contesto dell’opposizione a constantinopoli e quindi al concilio nicea ii e in ultima analisi alla giusta venerazione delle immagini sacre. Questa situazione sarà il primo colpo di mazza contro l’arte sacra come era conosciuta fin allora in occidente. Il nominalismo dopo la ferita inflitta all’arte sacra dai carolingi iconoclasti, troviamo in occidente, ancora una volta, una nuova ferita più insidiosa inflittale dalla filosofia. i filosofi scolastici della scuola domenicana (in particolare, l’influente Tommaso d’aquino) preferivano aristotele a platone, e costruirono un sistema impressionante e complesso di metafisica. la scuola francescana si trovava generalmente in opposizione a quella domenicana ed è stata la culla della radicale reazione del nominalismo contro ciò che era percepita come un’ipertrofia di categorie metafisiche. Tipico di questo approccio è il cosiddetto “rasoio di occam” (novacula Occami o lex parsimoniae in latino), che recita “pluralitas non est ponenda sine necessitate” – “non considerare la pluralità se non è necessario”. William ockham (o guglielmo di occam), c. 1280-1349, un frate francescano dell’università di oxford, non sfruttava il suo celebre detto per demolire la metafisica e la teologia, ma altri non si sono tirati indietro e, basandosi sulla sua dottrina, arrivarono fino allo scetticismo teologico. possiamo datare l’inizio del declino del pensiero cristiano nell’occidente a questo periodo. le condizioni erano ora pronte per la desacralizzazione dell’arte. L’architettura gotica e il Rinascimento fiorentino ora che l’iconoclasmo era ben insediato in occidente già dal concilio di francoforte (benché la dottrina ufficiale rimanesse quella di nicea ii) e che la metafisica stava subendo la demolizione operata dal nominalismo, non sorprende affatto che gli effetti comincino a vedersi nell’arte sacra di quel periodo. fino al Xiii secolo è difficile parlare di arte

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mansi, vol. xii, 981. percival, op. cit., p. 581.


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che non sia sacra, ma ora le cose cominciavano a cambiare. come ha indicato l’artista ortodosso alsaziano bernard latuner, nell’architettura lo stile gotico flamboyant ha introdotto la fantasia umana per sostituire gli stili precedenti, che rimanevano al servizio dei bisogni liturgici dell’edificio di culto. nelle arti figurative, il movimento comunemente chiamato il “rinascimento” produsse una rivoluzione. da giotto in poi, i criteri tradizionali dell’arte al servizio del sacro cominciavano a essere compromessi da una nuova ondata di realismo e di sensualismo. l’arte cominciava a essere sentimentale e mirava a provocare una reazione che era più emozionale che spirituale. È il momento della scomparsa dell’arte sacra nell’occidente, nonostante il nascere di tanti capolavori di arte a soggetto religioso. saranno senz’altro capolavori di arte, ma questa non è più arte sacra; piuttosto si tratta di arte profana a soggetto religioso. la teologia, e soprattutto la spiritualità, seguiva la stessa direzione di sentimentalità nestorianizzante, contemplando l’umanità di cristo separata dalla sua divinità, particolarmente gli aspetti più commoventi di questa umanità: la nascita del bambino, le sofferenze, le percosse, il sangue, ecc. l’attenzione dei fedeli era concentrata sull’umanità di cristo e la sua divinità si eclissava progressivamente. la crocifissione era dipinta con un realismo scioccante – mostrando il cristo morto invece del “re di gloria” che regna dall’albero della vita –, mentre la risurrezione si ritirava gradualmente nella sfera della mitologia nostalgica. Il barocco l’arte sacra era già diventata arte profana nell’occidente, ma un nuovo traguardo sulla strada verso la desacralizzazione fu raggiunto quando l’arte barocca cercò di “mettere in scena” i misteri della fede. le immagini non erano più presentate per la venerazione dei fedeli, come insegnava il secondo concilio di nicea nel 787 e perfino il concilio controriformista di Trento, che presenta una dottrina perfettamente ortodossa su questo punto. gli artisti del barocco cercavano di impressionare gli spettatori con effetti teatrali, come nell’opera brillante ma ambigua del bernini, L’Estasi di santa Teresa d’Avila nella chiesa di santa maria della vittoria a roma. in quest’opera, gli spettatori sono perfino scolpiti nei loro palchi di teatro sulle pareti laterali della cappella. Il romanticismo e oltre il culto dell’artista come creatore ispirato comincia con il “rinascimento” con geni colossali quali il fiorentino michelangelo buonarroti, e continua durante il barocco con altri maestri quali il bernini. Questo fenomeno è una conseguenza diretta della filosofia umanista. l’antropocentrismo di questo approccio ha lasciato indefinito il concetto di “ispirazione”. i padri della chiesa, particolarmente evagrio pontico, vedono l’idea dell’ispirazione legata all’influenza, o ai “λογισμοί”, di angeli o demoni, i quali ci suggeriscono delle scelte che adottiamo oppure rigettiamo. però, il romanticismo tendeva a vedere l’artista stesso come la sua propria fonte di ispirazione. Tale autosufficienza allontanava ancora di più l’artista da dio, divenuto ormai dispensabile, e conduceva all’individualismo e all’egocentrismo. Tutto era pronto per l’epoca moderna, nella quale l’artista gode di un


arte sacra - arte liturgica - arte profana a soggetto religioso

narcisismo perfetto, palesando le manifestazioni del suo genio per la sua propria gloria, senza preoccupazione alcuna per il servizio della bellezza o di dio. nel frattempo, in europa e nell’america del nord, l’arte diventava gradualmente inaccessibile al grande pubblico. con l’arte astratta e il rifiuto degli artisti di spiegare le loro opere, l’arte non comunica più in termini riconosciuti da tutti, come succedeva invece nei secoli passati. inoltre, gli artisti cercano l’originalità a ogni costo; vogliono scioccare lo spettatore, protestare e così via. Quando il sistema comunista collassò, gli artisti dei paesi extotalitari spesso sembravano operare per dare scandalo e per demolire i canoni estetici tradizionali. il futuro sembra piuttosto incerto. Quale arte sacra per oggi? dopo queste considerazioni storiche, quale potrà essere la visione cristiana e ortodossa dell’arte nel mondo contemporaneo? lo scrittore ortodosso philip sherrard ha ripreso l’opinione espressa da platone nella Repubblica, ove il filosofo considera gli artisti come persone di scarso valore. eppure, nell’ortodossia, l’arte ha la missione sublime di essere un veicolo della fede cristiana e un segno dell’incarnazione. dobbiamo forse concludere che l’iconografia tradizionale sia l’unico mezzo artistico accettabile per un cristiano ortodosso? nell’iconografia ortodossa, il pittore cede ai canoni della Tradizione per mettersi al servizio della rivelazione divina. grazie alla Tradizione, il linguaggio delle icone è immediatamente comprensibile a qualunque fedele dotato di una certa cultura ortodossa. nonostante l’umiltà dell’artista (talvolta carente in alcuni iconografi greci contemporanei che firmano le loro opere in modo ben chiaro), i suoi talenti possono comunque manifestarsi – come si vede nelle opere di sant’andrea rublëv oppure di san massimo il greco, le quali non sono affatto meno sublimi esteticamente di quelle di rembrandt oppure di leonardo. eppure, un cristiano ortodosso può sicuramente accettare e ammirare altre forme di arte diverse dall’iconografia. bisogna però distinguere bene i diversi generi artistici: arte sacra, arte liturgica e arte profana a soggetto profano o religioso. l’iconografia tradizionale rimane l’unico mezzo possibile per l’uso liturgico e per l’arte autenticamente sacra. nonostante ciò, nella creazione artistica vi è posto altresì per l’arte profana, a soggetto profano oppure religioso. gli ortodossi però rifiuteranno sempre le cosiddette opere di arte religiosa moderna come quelle create per la cattedrale anglicana di coventry oppure la statua curiosamente smembrata della madre di dio nella cattedrale cattolica romana di evry in francia. anche la creazione artistica profana deve essere al servizio di qualcuno e di qualcosa. forse gli eccessi del romanticismo, con il culto del genio dell’artista, sarebbero da evitare: l’arte non dovrebbe essere al servizio del narcisismo individuale. come definire il concetto di “ispirazione”? i cristiani credono che dio abbia dato dei talenti agli uomini, compresa la capacità di creazione artistica, per la quale questi talenti dati da dio forniscono i mezzi. l’esperienza artistica dell’essere “ispirati” può procedere dalla psicologia dell’artista, anch’essa data da dio, oppure, come avrebbe detto evagrio, da suggerimenti ispirati da dio, da angeli – oppure anche da demoni.


Igùmeno Andrea (Wade)

per un cristiano, tutto deve servire dio. dio è amore, e i metafisici hanno dimostrato che l’amore, la verità, la bellezza e la bontà sono spiritualmente equivalenti. naturalmente, dobbiamo anche accettare la satira, l’umorismo, la critica sociale, ecc., ma nel suo fondamento l’arte deve sempre essere al servizio della verità, della bellezza e della bontà, e quindi dell’amore e di dio stesso. essere un artista cristiano nell’europa di oggi rappresenta senz’altro una sfida. gli artisti cristiani devono costantemente confrontarsi con il problema di un linguaggio artistico comprensibile. con la frammentazione e le demolizioni culturali in corso nel mondo contemporaneo, un linguaggio accessibile non sarà facile da trovare. inoltre, l’arte a soggetto sacro può essere destinata a diversi contesti spaziali: uno stile sarà adatto alle parete di una chiesa, un altro potrebbe essere più adatto a una galleria d’arte. l’arte destinata ad uso liturgico o devozionale dovrebbe escludere il narcisismo dell’artista e scegliere la strada della comunicazione. conviene quindi distinguere chiaramente tra le nostre tre categorie: arte sacra, arte liturgica e arte profana a soggetto religioso.



E il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14)

iconografo contemporaneo

Monia Bucci Filippo Rossi


Monia Bucci iconografo «e il verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come del figlio unigenito che viene dal padre, pieno di grazia e di verità […]. dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia». (gv 1,14-16). il mistero dell’incarnazione come perno attorno al quale ruota la salvezza dell’intero creato, tutto e tutti sono resi partecipi di questo evento salvifico e i più prossimi sono

i “piccoli”: gli umili e coloro i quali faticano nella fede, raggiunti per grazia dal suo annuncio e dalla sua misericordia. «dio mandò il suo figlio, nato da donna…» (gal 4,4), una donna e il suo sì: al centro la capacità di accogliere il mistero facendosi grembo per la venuta di dio nella vita di ogni uomo, invito all’essere “porta aperta” tramite la quale la luce entra nel mondo e salva.

monia bucci. È nata a rimini nel 1974 e risiede a riccione. dopo aver conseguito il diploma di maturità in arte applicata all’istituto statale d’arte di riccione con indirizzo di moda e costume, segue corsi di architettura e dal 2004 si avvicina all’iconografia perfezionandosi con i maestri pellegrini e stal’nov. partecipa alla realizzazione dell’iconostasi del monastero novodievicj di san pietroburgo e della chiesa di san giuseppe a riccione nonché del ciclo iconografico situato presso la cappella san benedetto del seminario vescovile di rimini. nel 2008 avvia lo “studio d’iconografia porta orientale”.


La natività di Gesù di Cristo tempera all’uovo su tavola fondo in oro doppia foglia, cm 100x70


Filippo Rossi contemporaneo il nostro è un dio che si fa carne. È un movimento in discesa, di totale abbassamento verso di noi. dio sembra non trattenere nulla di se stesso pur di starci accanto, per portare colore e luce nelle nostre vite cosi’ frammentate.

“Perché tu lo sai quel che abbiamo dentro al cuore: Tu l’hai fatto per te. E la gioia vera immensa solo Tu la doni e splendi su noi che spesso preferiamo questa notte scura ma se ti incontriamo e ti lasciamo entrare la festa inizierà” (R. Giacopuzzi).

filippo rossi (firenze 1970) abbandona la figurazione alla fine degli anni ’90 iniziando la ricerca di un linguaggio più astratto-simbolico. dal 2004 approfondisce il tema del sacro con la creazione di pannelli definiti “icone astratte”. alunno della scuola libera del nudo dell’accademia di belle arti di firenze, ha studiato con vignozzi, stefanelli, d’elia e vaina. laureatosi in storia dell’arte presso l’università di firenze, dal 1997 insegna alla stanford university, dove tiene corsi di studio art contemporary art e museology. collabora con il museo pecci di prato e con l’accademia di belle arti di firenze e scrive in diverse riviste specializzate di critica, storia dell’arte e design


Shining Light Tecnica mista e foglia oro su polistirene estruso, cm 128,5x63



Uscendo dall’acqua vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere su di Lui come una colomba (Mc 1,10)

iconografo contemporaneo

Cinzia Granata Sergio Nardoni


Cinzia Granata iconografo “Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” s. paolo (gal. 3,27). con il battesimo sperimentiamo l’esperienza di morte e resurrezione: come il maestro è morto e poi risorto, così nel battesimo l’uomo vecchio muore per poi rinascere a uomo nuovo, come dice san paolo: “ così se qualcuno è in cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie passarono, ecco tutto divenne nuovo”(cor. 5,17 ). l’immersione nelle acque ri-

chiama l’immersione negli inferi, nel cuore della terra, ma anche la nascita, come il bambino che esce dal grembo materno. le icone aiutano a vivere il mistero e il fascino dell’evento: la bellezza del figlio di dio, la sacralità del gesto del battista, la meraviglia del mondo invisibile che partecipa ed infine la presenza dello spirito santo che crea un collegamento tra cielo e terra. l’icona è stata dipinta utilizzando anche terra e acqua del fiume giordano.

cinzia granata (lodi, 1977) dopo aver conseguilo con il massimo dei voti il diploma al liceo artistico di lodi, si specializza in illustrazione presso l’istituto europeo di design di milano. gli anni di studio sono caratterizzati da una profonda ricerca spirituale che la porta, tra l’altro, ad un appassionato interesse per l’iconografia, frequenta il laboratorio di iconografia alla facoltà Teologica dell’emilia romagna. dopo la specializzazione con i maestri pellegrini e stal’nov avvia la “scuola di iconografia fiorentina”, un laboratorio di arte sacra presso le sedi dei “ricostruttori” in firenze e a santa maria in acone.


Il Battesimo del Signore tempera all’uovo e doratura al bolo su tavola, cm 100x76


Sergio Nardoni contemporaneo “…Ed ecco, si aprirono i cieli…” ( Mt 3,13-17). parole, queste, capaci da sole di evocare visionari paesaggi e frantumare ogni regola fisica, ma anche di costruire nella mia mente, nel mio cuore, e di lì fino sulla mia tela, un’architettura degna di accogliere la grandiosità di un avvenimento, il battesimo di cristo, che mi è stato chiesto di dipingere.

una pioggia di luce, trasfigurando nella sua discesa tutto quello che incontra, si fa strada tra le nubi, sospendendo le figure del signore e del battista in una dimensione dove sembra che il tempo si sia fermato, mentre alcuni astanti – uomini, donne, animali – quasi fossero poco meno degli angeli, sono chiamati a testimoniare, attoniti, questo frammento di eternità.

sergio nardoni (firenze 1947), di antica famiglia toscana, sergio nardoni de’ nardi vive e lavora nel chianti, a sambuca val di pesa. Talento precoce, disegna fin da bambino e dipinge il suo primo quadro ad olio all’età di sette anni in casa della maestra elementare, delicata pittrice dilettante. più tardi nonostante la famiglia lo volesse continuatore nella conduzione della piccola azienda patema, s’iscrive all’accademia, dopo studi assai disordinati e la pratica di molti mestieri. risente inizialmente del clima concettuale che si sta diffondendo in italia alla fine degli anni settanta, ma è subito attratto da altre esperienze che non abbandona più. insegna per alcuni anni per poi dedicarsi esclusivamente alla pittura. dal 2005 è ritrattista ufficiale del corpo della nobiltà europea.


Il Battesimo di Cristo olio su tela, cm 80x80



Gesu disse loro: “Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini”. E subito lasciarono le reti e lo seguirono. (Mc 1, 17-18)

iconografo contemporaneo

Giancarlo Pellegrini Antonio Possenti


Giancarlo Pellegrini iconografo “Il Signore chiama Simone e Andrea a diventare pescatori di uomini”. gesù benedicente chiama simone e andrea, i quali lasciate le reti, si prostrano e lo adorano. prima pescatori di pesci, ora andranno là dove lo spirito del signore li guiderà. passaggio da una certezza, da una vita misera, ripetitiva, difficile, ad una sequela avventurosa, dove non si conosce la meta. senso di abbandono e di timore, di fiducia e di spae-

samento. unica certezza: il cristo signore, il maestro e salvatore delle loro anime. l’autorità del cristo li conquista, loro, pescatori semplici, rozzi, non uomini di cultura. nessuna preparazione, o forse l’unica preparazione possibile: la fede di pii israeliti che riconoscono il figlio di dio, il messia. non sapienti, non colti, ma credenti e per questo pronti a seguire la chiamata del signore. pescatori di uomini e pastori di anime delle due chiese, d’oriente e d’occidente.

giancarlo pellegrini (bologna 1957). diplomato in pittura all’accademia di belle arti in bologna si è laureato in storia orientale, in ebraico biblico nel 1977. durante un soggiorno gerosolimitano, per lo studio dell’ebraico, nasce il suo amore per le icone, consolidato nel tempo, in un rapporto di discepolato con due maestri iconografi russi: l’arciprete georges drobot e il giovane iconografo aleksandr stal’nov dell’accademia Teologica di san pietroburgo. nel 1986 apre lo “studio labarum coeli” e dal 1989 comincia a tenere corsi di iconografia che, nel tempo, si estendono dall’italia alla francia e alla spagna. con i suoi allievi realizza l’iconostasi del monastero novodievicj di san pietroburgo. nel 2009 fonda il laboratorio d’iconografia presso la facoltà Teologica dell’emilia romagna, dove insegna.


La chiamata di Simone e Andrea tempera all’uovo fondo oro su tavola, cm 100x80


Antonio Possenti contemporaneo prima o poi saremo chiamati a confrontarci con le nostre capacità di misericordia. a volte è molto difficile spingere lo sguardo al di là del ristretto orizzonte che ci interessa da vicino. Talvolta è addirittura un passo insopportabile e diveniamo abilissimi costruttori di muri, confini e altrettanto ingegnosi inventori di appropriate giustificazioni. occorre poter applicare l’invito da cui nasce la coscienza umana già inciso più di duemila anni fa sul frontone del tempio di apollo a delfi: “conosci te stesso”. la rilevazio-

ne cosciente della propria natura, delle proprie qualità ed anche dei propri difetti diventa misura del comportamento verso gli altri. se ne apprezzano i lati positivi ma siamo pronti anche a comprenderne gli errori e la fragilità, consapevoli che potrebbe essere anche la nostra. al di là delle difficoltà a iniziarlo e a percorrerlo, il sentiero della misericordia è comunque straordinariamente consolante: è la via tracciata dal cuore. improvvisamente le stelle.

antonio possenti. nato a lucca nel 1933 dove vive e lavora. compiuti gli studi classici, si laurea in giurisprudenza esercitando per poco tempo la professione di avvocato e più a lungo la docenza in materie giuridiche. autodidatta dopo un periodo iniziale dedicato alla grafica e alla illustrazione, passa alla pittura, assecondando un’inclinazione al racconto favoloso che ha sempre mantenuto, da attento osservatore quale è della “commedia umana”. fondamentali per la sua formazione gli incontri con chagall e vence. hanno scritto di lui molti importanti autori fra cui dino buzzati. È un grande viaggiatore.


Siate misericordiosi olio su tavoila, cm 40x50



Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. (Lu 9, 29)

iconografo contemporaneo

Francesca Pari Giampaolo Talani


Francesca Pari iconografo l’icona della Trasfigurazione propone il momento centrale del racconto evangelico, esprimendone il contenuto teologico in tutte le sue sfumature. in alto, troviamo gesù con Mosè ed Elia rappresentanti della legge e dei profeti che cristo viene per portare a compimento. la loro morte misteriosa è preannuncio del passaggio di cristo, oggetto della conversazione fra i tre. la figura di Gesù è avvolta da una mandorla segno della presenza di dio, della sua glo-

ria: da essa escono dei raggi che formano una croce, a sottolineare il legame di questo evento con la passione di cristo. nella parte bassa, troviamo Pietro, Giovanni e Giacomo rappresentati scomposti nelle loro figure per indicare il timore che coglie l’uomo davanti alla manifestazione del divino. sullo sfondo la montagna, luogo privilegiato dell’incontro dell’uomo con dio. l’icona si caratterizza per la sua trasparenza e luminosità, segno della manifestazione dello splendore divino agli uomini.

francesca pari. nata a pesaro nel 1974. diplomata in moda e costume all’istituto d’arte di pesaro e in pittura all’accademia di belle arti di urbino nel 1999. viene iniziata all’iconografia prima dalla maestra maria stella secchiaroli e poi presso la scuola di seriate. nel 2005 entra nella bottega del maestro giancarlo pellegrini, iconografo in bologna, dove collabora alla scrittura di icone per privati e chiese. partecipa attivamente alla progettazione e alla realizzazione dell’iconostasi del monastero novodievicj di san pietroburgo.


Trasfigurazione di Gesù Cristo tempera all’uovo e doratura al bolo su tavola, cm 100x75


Giampaolo Talani contemporaneo poteva sembrare un’ombra bianca oppure, ora, un’anima luminosa di potenza antica e

forte, la luce stessa della vita o di tutte le vite. anche di quelle a venire.

giampaolo Talani. nato a san vincenzo (li) nel 1955. dopo il liceo artistico a lucca e a firenze, frequenta l’accademia di belle arti di firenze, dove ha come maestro goffredo Trovarelli. nel corso dei suoi studi sperimenta tutte le tecniche classiche dell’arte per poi aderire alla pittura, dedicandosi anche alla tecnica dell’affresco di cui è uno dei massimi conoscitori contemporanei. negli anni giovanili realizza il grande ciclo di dipinti a fresco a carattere sacro nella chiesa di san vincenzo cui seguono altri lavori, nel palazzo vescovile di massa marittima e al santuario della madonna del frassine. successivamente si afferma anche come autore di opere in bronzo nelle quali disloca tridimensionalmente le sue icone figurative.


Anima Bianca tempera e olio su tavola, cm 96,5x54,5



Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui è risorto. (Lu 24,5)

iconografo contemporaneo

Aleksandr Stal’nov Luca Alinari


Aleksandr Stal’nov iconografo nonostante l’icona della resurrezione di cristo ci riveli l’essenza del vangelo, della “buona novella”, che riempì i cuori dei cristiani della speranza e ispirò i martiri, la sua iconografia proviene da un periodo più tardo, tra i secoli vii e viii. probabilmente, questa iconografia dovette “maturare”, incarnandosi all’inizio nelle immagini poetiche del Tropario di pasqua: «cristo è risorto dai morti, calpestando con la sua morte la morte. e a quanti erano nel sepolcro ha donato la vita» e solo dopo nell’immagine dell’icona dell’anastasis di cristo. l’icona dell’Anastasis ci rivela l’essenza stessa della venuta del figlio di dio nel mondo e così, tramite il linguaggio teologico, esprime

l’idea, molto significativa, del sacrificio di cristo. il figlio di dio è venuto nel mondo per salvare l’essere umano e distruggere la morte; proprio di questo canta il Tropario e proprio questa idea ci rivela l’icona. nelle icone più antiche cristo tiene la mano di adamo, ma l’umano è un essere unico, diviso in due sessi, maschile e femminile. per questa ragione, col tempo, nascono le icone dove il salvatore porta via dagl’inferi, tenendoli per le mani, entrambi, sia adamo che eva. nella mia opera ho seguito proprio quest’ultima iconografia. sull’icona sono rappresentati anche altri personaggi importanti del vecchio e del nuovo Testamento: san giovanni battista, davide e salomone, abele, samuele e noè.

alexandr stal’nov (sasha). nato a san pietroburgo nel 1962. figlio d’arte, il suo primo maestro di disegno è stato il padre, pittore di buon livello, “Sasha” ha iniziato ad occuparsi di pittura seriamente fin dagli anni giovanili. attualmente è maestro iconografo presso il dipartimento iconografico dell’accademia ortodossa Teologica di san pietroburgo. opera presso il laboratorio iconografico “san giovanni evangelista” fondato nel 1999 a san pietroburgo e di cui fanno parte gli iconografi christina prokhorova, valentina zhdanova e ivan Kusov. laboratorio che fa della propria attività un servizio alla chiesa alla quale è arrivato già adulto. È infatti solo nel 1983 ha ricevuto il battesimo e ha cominciato a professare la fede ortodossa. numerose sue opere si trovano in varie chiese italiane .


Risurrezione tempera all’uovo e oro su tavola, cm 100x75


Luca Alinari contemporaneo lo vedevo sfrecciare fra i banconi del supermercato. un acquirente come tanti. mi aveva colpito il suo abbigliamento studiato, particolare. in breve, lo odiavo. ho sempre detestato le ultime mode. le fogge degli abiti che “devono” essere quelle. Quelle pettinature accuratissime con le tempie rasate ed il ciuffo di riccioli sul cocuzzolo. deambulava nei miei pressi fra le scatolette di acciughe sott’olio e le montagne di peperoni multicolori…Quei pantaloni stretti stretti che tramutavano le sue gambe in ridicole zampe impari alla bisogna. la “bisogna” di sostenere, di camminare. continuavo a trovarmelo fra i piedi. nella folla delle casalinghe sceglieva un popone crocchiandolo. e poi quella giacchettina corta corta che lasciava in bella vista due natiche smunte e ripugnanti. lo odiavo sempre di più. avrei voluto, non so, fargli uno sgambetto, calcargli a forza quel padellino improbabile sulla testa. nella fila alla cassa, forse per caso, finii proprio dopo di lui. un discutibile individuo di mezza età che si atteggiava a ragazzino. con quei calzini a quadretti gialli e rosa. figurati. apparve fra i suoi acquisti una forma di pane. era un pane particolare: soffice ed elastico a un tempo che per giorni non induriva. anche io

avevo comprato un pane come quello. lo apprezzavo moltissimo e cercavo di indurre amici inermi ad assaggiarlo, a consumarlo. poi insaccò un barattolo di vetro. erano pesche sciroppate. Quelle stesse di quella marca immutata negli anni e che nella casa dei miei genitori non potevano mancare.. dopo aver pagato, lo rividi in lontananza. allungai il passo. non sapevo perché ma lo stavo seguendo. come spesso succede l’antipatia si trasformava in una bislacca fascinazione. sempre all’interno del supermercato una scala mobile portava ad un primo piano con un paio di esercizi: un parrucchiere e una lavanderia. ero sulla scala, in basso dietro di lui. distanza: venti, trenta metri. arrivata al culmine, la sua figura venne come investita da un tripudio di luce. una vetrata ad occidente nel momento che il sole di un incantevole pomeriggio estivo tramontava. nella luce abbagliante la sua figura s‘irrigidì: alzò la testa in maniera repentina e poi la abbassò di scatto con una specie di grido stridulo. ma no, niente: uno starnuto improvviso. schizzato fuori, il barattolo di vetro rotolava sul gradino semovente . dovevo riconsegnarglielo: al piano lo cercai. lavanderia niente, parrucchiere niente, alla toi-

luca alinari (firenze, 1943). autodidatta, esordisce nel 1968 con la sua prima esposizione personale presso la galleria inquadrature di firenze. durante gli anni settanta avvia una serrata ricerca sul libero accostamento di oggetti e figure all’interno di atmosfere fantastiche e sospese, sulla suggestione delle ricerche neodada e della pop art. in questi anni sperimenta diverse tecniche pittoriche, nelle quali coniuga colori fluorescenti, decalcomania, collage, trasposizioni fotografiche; per proseguire con i paesaggi fantastici della maturità, caratterizzati da una cromia vivace e brillante e da una tecnica pittorica di grande originalità che combina stesure materiche a raffinate campiture di colore levigato e trasparente. il tutto senza mai dimenticare la prospettiva umanistica.


Sono nato ma (Resurrezione) acrilico e tecniche varie su tela, cm 90x90

lette uno scroscio tumultuoso ma ne uscì un corpulento signore. era come scomparso sul culmine della luce. nello starnuto. con la coda dell’occhio individuai nel lucernario del soffitto uno sportello aperto. “potrebbe essere uscito da lì” pensai, “però volando”. una qualche forza poteva averlo risucchiato verso il cielo. via dal supermercato, via dal negozio di parrucchiere, via da tutti quelli che, senza sapere

perché, lo detestavano. via da quel luogo dove i cocomeri non scricchiolavano. “siamo quasi diventati amici, torna! vedrai che….”. ora la scala mi slittava giù in una luce soffusa. l’odio era divenuto amicizia e l’amicizia, quasi, amore. nella nostra fede combattuta e complicata, si amano solo le ombre. “ si ama quello che non può essere. Quello che vola via” pensai. avevo fra le mani le pesche sciroppate sotto vetro. a guardarle luccicavano.



E tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue (At 2,4)

iconografo contemporaneo

Maria Thea Egentini Elena Bianchini


Maria Thea Egentini iconografo in questa icona due tenebre si contrappongono: in basso le tenebre in cui è imprigionato Kosmos, re prigioniero dell’ombra, che impersona la creazione e tende in avanti le braccia per ricevere i rotoli della rivelazione. in alto, nella mandorla, le tenebre del mistero di dio, non buio ma luce inaccessibile; così profondo il mistero che gli occhi dell’anima restano abbagliati. Tra questi due abissi gli apostoli e la madre di dio: sopra il loro abito, dello stesso colo-

re della mandorla, mistero che li abita, indossano manti di colori differenti, come in un arcobaleno ciascuno rifrange in modo unico e personale la luce divina: molteplici i colori come molteplici i doni e i carismi dello spirito. ora l’annuncio è possibile: lo spirito suscita l’ascolto e il dialogo, con dio, tra loro e verso il Kosmo, quella «creazione che attende con impazienza la rivelazione dei figli di dio» (rm 8,19).

maria Thea egentini. nata a bologna nel 1962, si è diplomata al liceo artistico e all’accademia di belle arti in scultura. sin dall’89, dedica la sua attività artistica esclusivamente allo studio ed alla pittura di icone. continua la sua formazione con pellegrini, e stal’nov. dal 1999 inizia una più intensa attività iconografica producendo numerose opere per chiese e privati, partecipando a mostre e tenendo corsi di iconografia presso la scuola teologica di prato ed il laboratorio iconografico nel monastero delle clarisse di pistoia. attualmente vive, lavora e tiene corsi ad arezzo.


La discesa dello Spirito Santo tempera all’uovo e doratura al bolo su tavola, cm100x80


Elena Bianchini contemporaneo un fragore, un tuono, un vento impetuoso e delle lingue di fuoco che scendono sull’umanità. e l’umanità, simboleggiata dagli apostoli e da maria, diventa portatrice del verbo universale. Questo il momento evangelico che ho rappresentato. l’effusione dello spirito santo sotto forma di lingue di fuoco, la luce divina che si traduce in fiamma per arrivare all’umanità. un prodigio, una trasformazione che avviene tempestivamente. Questo movimento di energia dall’alto al basso, dal cielo infinito alla terra finita e uma-

na ha costituito per me un grande pretesto di studio. la contrapposizione tra l’imperfezione terrestre e la perfezione della luce divina è resa nella mia opera attraverso l’accostamento della materia stratificata all’oro, il metallo perfetto e inossidabile, portatore di alti significati simbolici. la sua lucentezza lo rende simbolo di luce divina, di illuminazione interiore in senso eterno e atemporale, come eterno e atemporale è il messaggio che gli umani sono chiamati a trasmettere.

elena bianchini (firenze, 1981) compie i suoi studi tra firenze, parigi e lille laureandosi in storia dell’arte all’università degli studi di firenze. porta avanti fin da giovanissima il suo percorso di pittura e scultura legando le sue creazioni al mondo del teatro. parallelamente al lavoro sulla scena teatrale conduce la sua personale ricerca legata alla sperimentazione pittorica. le sue opere sono caratterizzate da un attento studio sulla materia e sull’accostamento di materiali diversi.


Lingue come di fuoco che si dividevano gesso, stucco, carta, acrilico, bitume, foglia d’oro su tela, cm 100x80



Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. (Ap 12,1) iconografo contemporaneo

Paolo Orlando Giovanni Maranghi


Paolo Orlando iconografo uno. il punto focale è in chi guarda e nello stesso tempo nella scena davanti a lui, nella figura di gesù. due. il senso della relazione tra “il più alto dei cieli” e “il più profondo del cuore dell’uomo” è indicato dalla linea verticale che si coglie nell’abbraccio del figlio con la madre. Tre. la figura del cerchio, presenza delle realtà celesti, si riflette nei nimbi, nella sfera celeste con gli angeli, nella posizione degli apostoli. Quattro. il quadrato che segna le realtà terrestri, delinea il letto funebre, il piano di calpestio e l’insieme della tavola dipinta.

Tre più quattro (fa sette). la linea orizzontale del corpo di maria nell’atteggiamento della morte/dormizione si incrocia con quella verticale nella resurrezione/assunzione in braccio al signore, unendo il cerchio e il quadrato, il cielo e la terra. non è semplicemente un evento storico, ma la celebrazione di un evento, come è illustrato dalla caratterizzazione liturgica (con la processione degli apostoli muniti di candelieri, libro rituale, turibolo e navicella e con la presenza degli angeli). maria, prefigurativamente, è pienamente accolta da dio, che aveva voluto diventare suo figlio.

paolo orlando. È nato a monfalcone nel 1948 e vive a doberdò. dottore in Teologia presso la pontificia università s. Tommaso d’aquino di roma, inizia a lavorare come redattore, conferenziere ed insegnante di teologia e lingua russa presso il centro russia cristiana di seriate entrando così in contatto con varie realtà ecclesiali cattoliche e ortodosse. inizia lo studio dell‘iconografia con padre egon sendler del centro st. george di meudon, diventandone assistente. nel 1982 decide di dedicarsi all’iconografia. si è specializzato a mosca presso l’istituto grabar con a. ovcinnikov e a s. pietroburgo, presso l’accademia teologica ortodossa con a. stal’nov e n. bogdanov. ha eseguito pitture sacre monumentali in varie località in italia e all’estero.


Dormizione/Assunzione della B.V. Maria tempera alla cera con terre naturali su tavola, 100x80


Giovanni Maranghi contemporaneo nell’espressione del volto ho cercato di raffigurare il concetto di “compassione” che, partendo dagli occhi, diffonde all’infinito l’invito del titolo: “usami umanità”. le opere degli uomini e le loro figure diventano così mero sfondo quando dimentichiamo cos’è quell’umanità che ci accomuna, legandoci all’ambiente in cui viviamo e che modifichiamo con le nostre esistenze e le nostre costruzioni. ad immaginaria colonna sonora all’opera, ricordo una voce, quella della can-

tante fiorella mannoia, che recita: “non c’è figlio che non sia mio figlio, né ferita di cui non senta il dolore. non c’è terra che non sia la mia terra, non c’è vita che non meriti amore”. Questa intendo per “luce” della compassione, senza la quale la nostra società rischia di perdere la bellezza e la ricchezza delle diversità che la compongono. “usami umanità” diviene, in questo modo, un monito inalienabile, non solo un invito, più che mai attuale.

giovanni maranghi. nasce nel 1955 a lastra a signa. svolge i suoi studi nella vicina firenze, si diploma al liceo artistico “leon battista alberti” per poi iscriversi alla facoltà di architettura dell’ateneo fiorentino. alterna gli studi da universitario con la frequentazione dei corsi di nudo libero presso l’accademia delle belle arti. frequenta in quegli anni artisti del calibro di primo conti, lucio venna e paulo ghiglia. oltre all’encausto, tecnica da lui a fondo indagata, sperimenta altre soluzioni, che vanno dal “collage”, alle più attuali “resine” e le tecniche miste su “Kristal”.


Usami UmanitĂ tecnica mista su Kristal, cm 80x80


finito di stampare in firenze presso la tipografia editrice polistampa settembre 2015


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