DANIELA FRASCATI
Amori anomali
Copyright © 2010 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2010 CIESSE Edizioni Amori anomali di Daniela Frascati Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 – 049 8862964 Fax 049 2108830 E-Mail redazione@ciessedizioni.it P.E.C. infocert@pec.ciessedizioni.it ISBN 9788897277347
Collana GREEN Versione eBook http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e”mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario. Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun contributo economico all’Autore.
BIOGRAFIA DELL’AUTRICE DANIELA FRASCATI è nata in Toscana, ad Abbadia San Salvatore (SI). Vive a Roma dove ha lavorato come assistente parlamentare per un Gruppo della sinistra italiana e presso la Direzione Nazionale del Partito. Impegnata da anni nelle politiche della differenza di genere, nel sindacato e nel sociale, anche come organizzatrice di eventi culturali, ha ideato e condotto, per Radio Città Futura (1996), una trasmissione dal titolo “Il Pane e le Rose” sulla cultura e il pensiero femminista. Ha collaborato con vari giornali territoriali. BIBLIOGRAFIA 2001 INCUNABOLI FUTURI (Robin edizioni) 2002 raccolta antologica con altri autori Oltrel@rete (Proposte Editoriali) 2005 PIAZZA BELLA PIAZZA - con altri autori - (Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A.) allegato ad alcuni quotidiani
2007 LA ROSSA PRIMAVERA - con altri autori - (Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A.) allegato ad alcuni quotidiani 2007 FRAGOLE E SANGUE - con altri autori - (Ed. Clandestine) ristampa 2008 LA ROSSA PRIMAVERA - con altri autori - (Ed. Clandestine) ristampa 2010 NUDA VITA (Absolutely Free Edizioni)
a Giada e Jeshua
Invano ci separano i convessi oceani e i deserti del pianeta; da questa casa di un remoto porto della mia America del Sud ti seguo ...e sogno, o tigre che costeggi il Gange (J.L.Borges)
1. IL COLLOCATORE Il collocatore fu il primo uomo di cui Fenisia s’innamorò. Era il 1950. Fenisia aveva dodici anni, il collocatore cercava una camera in affitto e ne dimostrava all’incirca ventisei. Le sembrava alto, era chiaro di pelle e scuro di capelli, con gli occhi più neri e profondi che Fenisia avesse mai visto. Per lungo tempo fu vivo in lei il ricordo di come le fosse apparso all’improvviso al centro della strada sterrata nella luce limpida di quel settembre. Era seduta come faceva spesso sulle scale esterne della casa. Tratteneva i gomiti dietro la schiena, ben puntellati sul gradino, la testa verso l’alto, in un atteggiamento che quasi le causava dolore e con gli occhi a fessura si abbandonava alla luminosità della mattina.
A distanza di anni si ricordava ancora di come fosse precisa in lei la sensazione che qualcosa di molto importante stesse accadendo quel giorno nella sua vita. Così, per lungo tempo, continuò ad associare la dolcissima sensazione di espansione che le provocava il cielo con l’emozione calda dell’innamoramento. Il collocatore si portava dietro un sapore di marmellata di arance e Fenisia ne sentì la presenza già a occhi socchiusi. Quando li aprì era di fronte a lei. Le chiese se quello era il paese di Abbadia e dove potesse trovare una stanza per passare la notte. «Nonna, nonna» chiamò Fenisia salendo le scale, «c’è un signore che deve chiederti una cosa.» La nonna, allarmata dal tono incalzante della ragazzina si affrettò più che poteva. «È lui!» indicò Fenisia con aria trionfante. La nonna sorrise intuendo che la bellezza del giovane uomo doveva
entrarci qualcosa con l’agitazione della nipote. «Posso esserle d’aiuto?» «Conosce qualcuno che affitta una camera? Avrei bisogno di trovare una sistemazione, anche provvisoria, per il momento.» La vecchia lo guardò con aria interrogativa. «Sono il nuovo collocatore» si presentò «non conosco nessuno qui, siete le prime persone che incontro.» Fenisia aspettava la risposta della nonna trattenendo il respiro. «Mmm... non credo le sarà facile trovare una stanza da queste parti; la gente è molto chiusa, non ama gli estranei. Però, se si accontenta, potrei affittarle io una camera. Faccio uno strappo alle mie abitudini sa, proprio per non farla trovare in mezzo a una strada!» Fenisia sentì nel punto del corpo che più di ogni altro le pareva avere una solida consistenza di una crepatura gelida che le fendeva la carne e, in un attimo,
comprese che proprio lì, per mille volte ancora, la sua ragione si sarebbe sfaldata. Allora con un impulso che nasceva più dall’orrore di quel vuoto che da un vero e proprio slancio affettivo buttò le braccia al collo del giovane. Avvertì sotto le labbra, il fresco della sua pelle e il profumo che ne sprigionava. La notte sognò un cielo limpidissimo, con una sola nuvola che improvvisamente cominciò a precipitarle addosso dando al sogno un inatteso senso di panico. Si svegliò urlando, madida di sudore. Dalla stanza accanto, la nonna udì il sonno agitato di Fenisia. Ne intese il pianto basso schiacciato tra i cuscini, ma non si alzò per consolarla. Desiderò, con rabbia e per amore, che si abituasse ai morsi impietosi della solitudine. Aveva sperato che la presenza del giovane le fosse di aiuto nel crescere quella nipote rimasta senza genitori troppo presto. Trattava il collocatore come mai aveva trattato suo figlio vero del quale non aveva condiviso le scelte,
dal matrimonio precoce alla clandestinità assieme ai partigiani. Solo alla notizia della fucilazione sua e della giovane compagna, il risentimento aspro che le aveva murato il cuore aveva lasciato il posto a un senso di colpa che la prostrava ancora. Il collocatore era come quel figlio che il destino le aveva fatto ritrovare e aveva cura che tutto fosse perfetto e lo facesse star bene, ma intanto non si accorgeva quanto quella presenza strozzava l’infanzia di Fenisia in un assillo continuo. Del resto il giovane ricambiava la sua ospitalità con mille attenzioni, cercando al tempo stesso di non interferire con le abitudini della casa. C’erano sempre complimenti per lei e sorrisi affettuosi per Fenisia e, quando le scarse risorse economiche glielo permettevano, arrivava con certi bonbon liquorosi, di una consistenza talmente delicata che si squagliavano non appena sentivano il calore tiepido del palato. Allora la serata
prendeva una piega insolita, quasi mondana. L’anziana signora diventava inaspettatamente loquace e, tra un ricordo di gioventù e un rimpianto impiastricciato di sciroppo al maraschino, dispensava banalità di buon senso al giovane che illanguidiva man mano che saziava la sua golosità. *** Ogni mercoledì, giorno di mercato, diventava per Fenisia e la nonna un giorno speciale. La casa veniva invasa dai profumi della fiera e l’odore di zucchero filato e di cannella entrava con le folate del vento e si mescolava alla persistente esalazione amarognola di arance che ormai impregnava gli ambienti. La camera del collocatore occupava una stanza d’angolo con grandi finestre e anche lui ai primi rumori dei venditori che predisponevano i banchi, apriva gli occhi e si precipitava alla finestra attratto dalla confusione che
improvvisamente si ingenerava. Fenisia, la nonna e la vecchia governante, di prima mattina, aprivano il portone che dava sulla piazza, utilizzato in quella occasione e in poche altre perché durante la settimana si servivano della porta sul retro, e si tuffavano nel trambusto della fiera. Per la vecchia era uno dei rari contatti che aveva con la gente del posto e rivelava la considerazione di cui ancora godeva ad anni di distanza dalla morte del marito podestà del paese. Lei stessa sembrava trasformarsi. I suoi passi affaticati si dispiegavano in una camminata spedita che apriva varchi tra la folla accalcata intorno alle bancarelle. Gli uomini si toglievano il cappello e in segno di saluto bisbigliavano il suo nome; le donne le erano intorno sollecite, con il fare un po’ servile come sono soliti usare i sottoposti anche quando si sono affrancati dalla loro condizione. Per Fenisia la fiera era ogni volta un avvenimento. L’affascinava la capacità
della nonna di concludere a suo favore i mercanteggiamenti con i venditori, specialmente con il Turco delle stoffe con il quale imbastiva un tira e molla interminabile. Quando rientravano erano seguite da muli e carretti carichi di ceste di frutta, stoffe, tappeti, cipolle, terrecotte varie, come tornassero da un lungo viaggio o da un trasloco mal organizzato. Dentro al cortile la nonna sembrava perdere l’austerità con cui si era aggirata tra i banchi del mercato. Aiutata dalla vecchia Apollonia trasportava casse, sollevava sacchi di farina e di legumi con un tale impegno da far temere a Fenisia che da un momento all’altro potesse rimanere schiantata sotto il loro peso. Una davanti e l’altra dietro, le due donne, trascinavano le mercanzie attraverso i lunghi corridoi infilandole a casaccio dentro le stanze abbandonate e la casa, una volta piena di mobili solidi e arredi di buon gusto, diventava ogni
settimana di più, un grande magazzino stracolmo di ogni bendiddio. Il collocatore faceva ormai parte della famiglia e ne condivideva la vita semplice e ordinata. Non aveva amici ma era cordiale e disponibile con tutti anche se, per la sua eccezionale bellezza, era diventato il centro dell’attenzione di ogni donna del paese, venivano persino dalle località vicine per vederlo. Fenisia si sentiva importante quando le compagne di scuola e soprattutto le loro madri e le sorelle più grandi le rivolgevano domande su di lui e sulle sue abitudini. Tutte ormai sapevano che alle sette cominciava la giornata con un bagno caldo dove Apollonia aveva messo a decantare un sacchetto di fiori d’arancio e che, dopo mezz’ora d’immersione, lo aiutava a frizionarsi energicamente. Non sapevano, però, che persino la vecchia non mancava di pensare, tra sé e sé, che era senz’altro il più bell’esemplare di essere umano che
mai le fosse capitato di vedere e di toccare. Un’altra mezz’ora serviva al collocatore per completare la sua accurata toilette. Poi scendeva in cucina dove la nonna gli serviva pane croccante e caffè d’orzo. Alle otto e mezzo in punto, apriva la porta. Fenisia lo vedeva esitare un attimo prima di attraversare la piazza, fare un lungo respiro e con passo sciolto avviarsi al lavoro. *** Scorrevano i mesi, le giornate si facevano brevi e gelide con quei crepuscoli che sembravano portare tutte le tristezze del mondo. Fenisia tornava dalla scuola infreddolita e, dietro i vetri, aspettava le cinque del pomeriggio per vedere la stella del tramonto brillare nell’aria nitida. Quella era l’ora in cui il collocatore rientrava dalla sua giornata di lavoro. In quell'autunno ventoso e terso il giovane aveva preso l’abitudine di
prolungare la sua assenza da casa trascorrendo le ore del primo pomeriggio al bar del corso. Occhieggiava da dietro il giornale i clienti, sorseggiando un vino leggero dal colore ambrato e fumava l’unica sigaretta della giornata. Dietro le volute di fumo il suo sguardo, di solito profondo ma netto, si faceva morbido e intrigante. Fenisia, mentre ne attendeva il rientro, a stento controllava un'ansia maligna che, in altro tempo e in altro luogo, avrebbe chiamato gelosia. Un giorno che non seppe trattenere oltre la curiosità uscì di nascosto decisa a scoprire dove trascorreva i pomeriggi. Seguì un percorso complicato per strade che non conosceva. Da un vicolo laterale sbucò sul corso proprio affianco al bar Centrale. Davanti alla vetrina, riparata da scatole di caramelle e bottiglie di amari poté, non vista, guardare il collocatore lontano dalle mura familiari
della casa che lo ospitava. Provò una stretta al cuore. Nell’animazione artificiosa del bar la sua figura, impacciata nel vestito scuro e perfettamente stirato, sembrava fuori posto. Era rannicchiato in un angolo, aveva un che di pressante nello sguardo e il suo pallore buttava fuori una trasparenza verdastra. Pareva che l’odore di marmellata d’arance fosse tanto acuto che persino il vapore sui vetri, anziché di fumo e di fiati, diventasse un’emanazione di quell’odore condensato. Lo spiò a lungo, ritraendosi ogni volta che lui distoglieva lo sguardo dalla lettura del giornale in tempo per cogliere il cenno di saluto che rivolgeva a qualche conoscente. Un sorriso tra l’artefatto e lo spaurito che gli scopriva il bianco brillante di una dentatura tanto perfetta da apparire come il capolavoro di un dentista in vena di raffinatezze. Quella perfezione quasi finta svelava, proprio
dove il canino affondava impercettibilmente nel labbro, un accenno di avidità. E se la prima emozione Fenisia l’aveva sentita nel cuore, ora quella positura dei denti le affondava nel ventre come il morso di un lupo. «Com’è bello!» pensò, e solo allora si accorse di quante donne affollassero il locale. Bevevano liquori e chiacchieravano con animazione. Ridendo, lanciavano occhiate al giovane nell’angolo. Fenisia notò come invece tutti gli uomini presenti sembravano ignorarlo ma, ogni tanto, girandosi verso di lui si davano di gomito sghignazzando e lanciandosi battute. Intuì in quel disprezzo una sorta di barriera, il rifiuto di una diversità da deridere e da cui, con ostentazione, prendere le distanze. La nonna aveva provato a insinuarsi in quella diversità che la lunga frequentazione aveva finito col rendere palese. La sera, mentre assieme al
giovane ascoltava per radio qualche buon programma di musica o qualche classico teatrale, ricamando centrini al piccolo punto, non mancava di punzecchiarlo. «Sarebbe ora che si scegliesse una fidanzata, ci sarebbe...» e cominciava a enumerare le virtù delle figlie di vecchie amiche di gioventù e delle tante domestiche e inservienti che aveva avuto. Non trascurava di sottolineare le condizioni economiche o morali della famiglia. Il collocatore si schermiva e sorridendo rispondeva. «Ogni cosa a suo tempo.» Ora Fenisia sapeva che quel tempo non sarebbe arrivato mai. Vederlo lì, disposto a sopportare la volgarità di quella gente, con il sorriso tirato tra la condiscendenza e la vergogna, nella speranza di ricevere un frantume di amicizia, la faceva soffrire. Non poté sopportare oltre. Fece di corsa la strada che la separava da casa, appena
in tempo, prima che la nonna e Apollonia si accorgessero dalla sua prolungata assenza. Gelata fin nelle viscere e rossa in viso per la tramontana affrontata impavidamente senza la minima copertura, poggiò la fronte ai vetri della finestra. Piangeva piano. Provava una gran compassione per il collocatore e vergogna per averlo spiato. Il tepore familiare di resina bruciata e di castagne arrosto, piano piano, la calmarono. All’ora di cena, come ogni sera, il collocatore si accomodò accanto alla nonna. Non aveva più lo sguardo torbido e appannato del pomeriggio, anzi, i suoi occhi nerissimi brillavano di una luce tanto accesa che Fenisia ne ebbe timore. Sembrava che, da un recesso misterioso, piccole fiammelle di un inferno privato trovassero la strada per metterla sull’avviso di qualcosa da cui doveva guardarsi. Era confusa. Alla compassione di qualche ora prima si era sostituita un’ansia
violenta che le faceva serrare la mascella come fosse una morsa; tutti i denti le dolevano e la lingua sembrava incollata al palato. Il collocatore a quell’ora diventava amichevole e loquace. La nonna si divertiva moltissimo ai suoi racconti. Aveva un modo così colorito di riportare i fatti che la vecchia riacquistava il gusto, da tempo dimenticato, della battuta e del pettegolezzo . «Fenisia questa sera non ha appetito» disse il giovane rivolgendosi alla nonna «non avrà per caso preso freddo tornando da scuola?» Lei si sentì andare a fuoco. Ora capiva quelle vampe negli occhi del collocatore. Si era certamente accorto che l’aveva spiato e le piaceva tormentarla con quel sarcasmo sul freddo e sulla salute. Si sentiva intrappolata in un segreto di cui non comprendeva il senso. Un segreto che la faceva precipitare in un luogo ignoto e insondabile dove il vero
collocatore, creatura terribile e minacciosa, la catturava con quel vischioso sapore di marmellata d'arance. Fenisia aveva le lacrime che stavano per traboccarle dagli occhi e non vedeva l’ora di scappare nella sua camera lontana dal collocatore e dalle premure della nonna. La paura di quella sera frenò per un po’ la sua curiosità, fino al luminoso pomeriggio di aprile quando, nel bar Centrale, le cose precipitarono per un ammiccamento di troppo che il giovane aveva indirizzato all’assistente di studio del notaio. *** Quello fu senz’altro un anno speciale. I giorni si succedevano portando ognuno un indizio effimero ma riconoscibile nella trama della vita di Fenisia. Il collocatore languiva ormai in un letargo da bestia ferita. Un che di grinzoso e verdastro sembrava gli si fosse appiccicato addosso. Perfino la perfezione del sorriso era scardinata
da una velatura malsana, come se qualcosa dentro il suo corpo stesse andando a male. L’odore di arance era diventato un maleodorante lezzo di agrumi ammuffiti che lo costringeva a continui lavaggi e abluzioni. Ora la pelle aveva una ruvidità molliccia e sottile, come il gonfiore di un affogato. Intanto era arrivata l’estate. Le giornate erano un grumo d’afa e polvere. Un sole senza tregua martellava le cose. I rumori solitari della campagna d’estate, il cinguettio svogliato degli uccelli, il muggito di qualche rara mucca, arrivano imbozzolati dentro una patina tremolante di calore. Fenisia, seduta sulla scala della grande casa, con l’ombra esigua di un vecchio cappello, guardava l’orizzonte immobile della campagna. Il riverbero accecante di quella luce sembrava spalancarle un occhio interiore col quale poter vedere oltre il possibile. E ciò che vedeva la