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Ogni uomo è colpevole di tutto il bene che non ha fatto Voltaire
Ai miei genitori
Alfredo Paluselli
il Diavolo generoso La storia di
Tita Piaz
il Diavolo delle Dolomiti
«Il coraggio è quello stato d’animo tranquillo che rende l’uomo capace, in un equilibrio armonioso dei nervi e dello spirito, di guardare in faccia il pericolo immediato, senza perdere la visione serena della situazione, mettendo in conto, con calma, anche l’eventuale conclusione estrema.» Tita Piaz In copertina: passaggio sospeso alla Guglia de Amicis, primi ‘900
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Introduzione
“Chiunque scriva di te è certo di dover poi incassare duri giudizi” scriveva Arturo Tanesini rivolto a Piaz nell’introduzione del suo libro “Tita Piaz, il Diavolo delle Dolomiti”. Nonostante l’avvertimento, di Tita Piaz è stato scritto molto. Perché quindi arrischiarmi anch’io in una nuova opera su questo temerario uomo di montagna? Credo che la risposta più corretta sia: perché la merita. Ma anche perché credo che quella di Tita Piaz sia una vicenda intrigante e avvincente, da raccontare ancora e ancora, fino a diventare leggenda. E se una leggenda include anche la presenza di un personaggio esemplare, allora vale proprio la pena raccontarla di nuovo, soprattutto in questi tempi in cui di esempi c’è evidente bisogno. Ma che potrò dire su Tita Piaz che non sia stato già detto? Giudicherà il lettore che in queste pagine troverà una suggestiva biografia, preziose testimonianze, numerose fotografie, un’utile cronistoria e molti documenti inediti. Tra quest’ultimi, finalmente, anche il capitolo perduto, di cui tanto si è parlato, dal titolo “Sull’incudine dei trentini”. Il ritrovamento di nuovi documenti su Piaz fu fortuito. Successe che durante le ricerche ritrovai un fascicolo rimasto dimenticato per oltre trent’anni in un cassetto della Val di Fassa. La cartella conteneva molti documenti riguardanti la vita di Piaz, ma non era mai stata esaminata in maniera approfondita. Il disordine di Tita era conosciuto e proverbiale, e ne capii presto il perché. Carte processuali si mischiavano ad abbozzi di autobiografia, memorie militari si nascondevano tra incomprensibili scritti teatrali, lettere personali si celavano tra ricordi di montagna e così via. Non credo nella completezza a tutti i costi, e così,
di quanto ritrovato in quella e in altre circostanze, ho scelto di pubblicare una limitata selezione. Previo consenso dei discendenti di Piaz metterò comunque a disposizione dei futuri studiosi il materiale rinvenuto. Anche sui mille intrighi politici della vicenda ho scelto di non dilungarmi molto, nel tentativo di produrre un’opera agevole, in equilibrio tra narrazione e cronaca, diversa da quanto già disponibile. Il libro è stato diviso in due sezioni: Storia (da pag. 11) e Dossier (da pag. 73). Eccoci dunque di nuovo faccia a faccia con la leggenda del Diavolo delle Dolomiti; nella ricorrenza del settantesimo anniversario dalla scomparsa, e a cent’anni dalla fine della prima guerra che dominò una parte centrale della sua vita. Ogni leggenda che si rispetti è ambientata in un luogo magico, ricco di fascino e pericolo. La storia di Tita Piaz non è da meno in quanto si sgroviglia fra le seducenti ma paurose rocce delle Dolomiti. Queste fantastiche montagne che fortunatamente restano sempre lì, più solide di tutto ciò che attorno a loro accade. A farci da bandiera e a farci da esempio. E come detto, di esempi, oggi, c’è indiscutibile necessità. Alfredo Paluselli, gennaio 2018
Nota dell’autore: Quest’opera segna il compimento del mio omaggio editoriale alle Dolomiti. Un sogno che nacque nel 2011 quando iniziai a comporre “Vento da Nord”, che inseguii nel 2015 con “Riflessi nelle Dolomiti” e che concludo ora, nel 2018, con “il Diavolo generoso”.
Nella pagina seguente: Tita Piaz con la sua bicicletta e il cane Satana
Storia
12... Prologo 13... Infanzia 16... Gli studi a Bolzano 18... Espulsione 20... Scalare e amare 24... Sete di conquista 26... Tra naja, diari e nostalgia 28... Terzo reggimento Cacciatori Tirolesi 30... Un altare sul Vajolet 31... Un ponte verso la storia 32... Amore per l’Italia 33... Mattoni e donne a teatro 37... Il Diavolo delle Dolomiti
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39... La fame del Diavolo 40... Fra alpinismo, conferenze e disperazione 42... Prima guerra mondiale 47... In Italia 48... Scalate patriottiche 52... Anni Venti 55... Rifugi 60... Anni Trenta 64... Il Diavolo generoso 66... Seconda guerra mondiale 68... Nelle grinfie delle SS 70... Ancora sindaco 71... Epilogo
Prologo
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N
el mezzo di una valle fra le Dolomiti c’è un grande sasso annerito dai secoli.
Un giorno di cui nessuno ricorda, quella colossale pietra si staccò dalle montagne sovrastanti per rotolare fino al fondovalle. E lì si fermò. E lì rimase. Con il passare del tempo un’intera comunità di persone si stabilì nelle vicinanze, dando vita ai numerosi paesini della Val di Fassa. Pietra... pedra... perra... pera... Così la gente iniziò a chiamare il paese nato attorno al grande sasso: Pera di Fassa. Il 13 ottobre 1879, non lontano dalla grande pietra che prese il nome di «Sass de Salin», in una umile casetta, un lumicino a olio ardeva, illuminando i vetri di una minuscola finestra. Quel giorno, in quella casetta, si attendeva un lieto evento.
Infanzia
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Il bambino che nacque fu chiamato con lo stesso nome del padre: Giovanni Battista Piaz, ma fu presto soprannominato da tutti ‘Tita’, un po’ per affetto e un po’ forse per distinguerlo più facilmente. Tita era il terzo figlio dopo le due sorelle Oliva e Maria. Giovanni Battista padre, conosciuto dalla gente di Fassa con il soprannome di ‘Pavarin’, negoziava giocattoli in legno e bestiame, spostandosi a piedi tra Val di Fassa e Val Gardena, ed era un impegnato attore filodrammatico, di buon richiamo per il pubblico. Il teatro e la religione furono gli unici svaghi di quella famiglia altrimenti sempre impegnata nella lotta per sopravvivere. Mamma Caterina, economa e severa, era venditrice ambulante di merceria e, appena il figlio maschio fu abbastanza grande, iniziò a farsi aiutare da lui in queste faccende. Tita era felice di vedere posti nuovi, anche se le camminate di lavoro erano tutt’altro che facili. Uno dei percorsi più frequenti era infatti quello verso Bolzano attraverso il Passo di Carezza e la Val d’Ega: più di quaranta chilometri, quasi mai pianeggianti.
Tita Piaz in giovane età Nella pagina successiva: Pera di Fassa a fine ‘800. Nota: è possibile che la radice del nome ‘Pera’ sia legata non solo al ‘Sass de Salin’, ma anche al ‘Sas de Pere da Fech’ (‘sasso delle pietre focaie’, 2143m), boscosa altura che sovrasta la Val Jumèla (un’isolata traversa della Val di Fassa). Il toponimo del monte è dovuto alla parete rocciosa sottostante la vetta dalla quale un tempo si ricavavano pietre focaie.
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Infanzia
Tita iniziò a imparare l’arte dell’arrampicata per conto suo, nella casa paterna. La particolare costruzione, simile a un fienile, offriva diverse possibilità di sfogo per il giovane arrampicatore e spesso le piccole imprese diventavano uno spettacolo per stupire gli amici. Mamma Caterina arrivò più volte a rinchiudere Tita in una cassapanca per tentare di smorzarne l’allarmante vivacità, ma le difficoltà di confinare quel figlio esagitato la indussero sempre a preferire il metodo educativo convenzionale di famiglia: serie interminabili di sculacciate. La casa dei Pavarin a Pera di Fassa, o Perra come si diceva a quel tempo, era vicina all’enorme monolito chiamato Sass de Salin. Nella primavera del 1892, in un gioco pasquale tra amici, Tita vinse qualche soldo che spese per acquistare un pettirosso. Una mattina l’uccellino fuggì e andò a posarsi proprio sulla cima del grande masso. Tita concitato non ci pensò due volte e iniziò l’arrampicata.
Infanzia
Mamma Caterina e le sorelle Oliva e Maria vedendo la scena iniziarono a urlare disperate al giovane scapestrato di tornare giù. Ma egli nemmeno sentiva. Poco dopo Tita conquistò quasi inavvertitamente la sua prima vetta, anche se ciò servì solo per veder volare nel cielo il piccolo amico alato. Gli amici di Tita erano i più scapestrati e di quelli lui era il capo carismatico. In età adulta scriverà: «I ragazzi studiosi, seri, disciplinati, quieti, che non conoscevano altra strada che quella dalla scuola alla casa, non figuravano nella mia combriccola»1*. Tita prediligeva gli intelligenti e i coraggiosi, dimostrando invece poca clemenza per stupidi e vigliacchi. La vivacità e l’ostinatezza erano incontenibili, la sincerità disarmante, l’intelligenza promettente. Le lunghe camminate di lavoro con la madre riuscivano a distoglierlo dalla prevedibile vita di paese, permettendogli di maturare una personale visione del mondo. La famiglia, al termine delle scuole dell’obbligo, si ritrovò a chiedersi quale fosse il futuro più adatto per quel ragazzo così intelligente. Ma gli scarsi mezzi finanziari lasciavano poca scelta.
* riferimenti alle fonti a pag. 195
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