Eva Ibbotson LE ZIE IMPROBABILI Illustrazioni di Teresa Sdralevich
Dice una leggenda che gl'istrici scagliano i loro aculei, come frecce, su chi li stuzzica. Provate a stuzzicare i nostri Istrici ed essi vi pungeranno: colpiranno la vostra fantasia e il vostro cuore, divertendovi, affascinandovi e spaventandovi, abbiamo cercati in tutto il mondo e ora sono qui per pungervi, pungervi.
«Rapire i bambini non è una buona idea. Eppure qualche volta va fatto». Non che zia Etta, zia Coral e zia Mirta siano delle sequestratrici nate, ma quando si deve badare a un'isola piena di vecchie sirene, foche parlanti, una Sibilla barbona e un baco gigante afflitto dal complesso di lunghezza, oltre ai tanti animali avvelenati dall'inquinamento, c'è assoluto bisogno di aiutanti, validi e sicuri come sono i bambini. E così le sorelle si improvvisano Zie Improbabili, e invece di accudire i bambini, come le Zie Utili, li portano con sé nella loro Isola. La bellezza della natura incontaminata e il bisogno di aiuto di esseri mostruosi finirà per affascinare i bambini rapiti, non più desiderosi di tornare tra adulti egoisti e ottusi. ILLUSTRAZIONI DI TERESA SDRALEVICH Grafica di John Alcorn
GL'ISTRICI I libri che pungono la fantasia 161
Sono nata a Vienna e ho passato la mia prima infanzia in viaggio attraverso l'Europa, andando dall'uno e dall'altro dei miei genitori, divorziati. Scrivevo allora storie di famiglie felici, dove tutti vivevano uniti, con un cane, un canarino e un ghiro. A me non successe. Più tardi, frequentando in Inghilterra quella scuola alternativa in cui si era liberi di fare ciò che si voleva, tanto era il mio desiderio di normalità che saltavo in piedi e pregavo: «Non ditemi che posso fare quello che voglio, ma quello che devo fare!» Durante le lezioni di inglese scrivevo e scrivevo senza fermarmi, mentre durante quelle di matematica piangevo e piangevo senza fermarmi. Quando ebbi figli miei, raccontai loro quelle storie infinite che continuano mentre i bambini fanno il bagno, cenano e vanno a spasso, e capii allora che siccome tutta la mia famiglia, le mie zie e i miei zii, nonne e nonni erano così originali, sarebbero stati degli splendidi fantasmi, streghe e mostri: i protagonisti dei miei libri. Eva Ibbotson
Collana diretta da Donatella Ziliotto Premio Andersen — Baia delle Favole 1989 alla Collana Premio Città di Padova 1994 alla Collana
Titolo dell'originale inglese MONSTER MISSION Traduzione di Mariarosa Zannini ISBN 88-8451-004-X
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Copyright © Eva Ibbotson 1999 Copyright © 2001 Adriano Salani Editore s.r.l. Milano, corso Italia, 13
Indice LE ZIE IMPROBABILI.......................................................................................................................2 Capitolo uno.........................................................................................................................................6 Capitolo due..........................................................................................................................................9 Capitolo tre.........................................................................................................................................17 Capitolo quattro..................................................................................................................................23 Capitolo cinque...................................................................................................................................29 Capitolo sei.........................................................................................................................................34 Capitolo sette......................................................................................................................................37 Capitolo otto.......................................................................................................................................41 Capitolo nove......................................................................................................................................49 Capitolo dieci......................................................................................................................................51 Capitolo undici...................................................................................................................................53 Capitolo dodici...................................................................................................................................56 Capitolo tredici...................................................................................................................................59 Capitolo quattordici............................................................................................................................62 Capitolo quindici................................................................................................................................66 Capitolo sedici....................................................................................................................................69 Capitolo diciassette.............................................................................................................................75 Capitolo diciotto.................................................................................................................................80 Capitolo diciannove............................................................................................................................85 Capitolo venti.....................................................................................................................................88 Capitolo ventuno................................................................................................................................90 Capitolo ventidue................................................................................................................................94 Capitolo ventitré.................................................................................................................................99 Capitolo ventiquattro........................................................................................................................103
A mio marito, che ama veramente le creature improbabili
Capitolo uno Rapire i bambini non è una buona idea. Eppure, qualche volta va fatto. Zia Etta e zia Coral e zia Mirta non erano delle sequestratrici nate. Per prima cosa, stavano invecchiando, e rapire i bambini è un lavoro pesante; e poi, per quanto avessero un aspetto un po' bizzarro, erano persone molto buone. Avevano cura del loro vecchio padre e della grinzosa cugina Sibilla che viveva in una grotta e tentava di predire il futuro - e soprattutto avevano cura degli animali dell'Isola su cui vivevano, molti dei quali erano molto molto strani. Alcune delle creature che si erano rifugiate sull'Isola avevano varcato il vasto oceano per essere accudite, e negli ultimi tempi le zie avevano dovuto ammettere che non ce l'avrebbero fatta a lungo senza aiuto. E «aiuto» non voleva dire persone adulte con abitudini già consolidate. Aiuto voleva dire bambini, che erano giovani e forti e desiderosi di imparare. Così in una rigida e ventosa giornata d'aprile le tre zie si riunirono intorno al tavolo della cucina e decisero di agire. Era necessario trovare dei bambini e portarli sull'Isola, e rapirli sembrava l'unica soluzione ragionevole. «Così potremo scegliere quelli adatti» disse zia Etta. Era la maggiore; una donna alta e ossuta che faceva cinquanta flessioni sulle braccia ogni mattina prima di colazione, e aveva dei simpatici baffetti sul labbro superiore. Le altre guardarono fuori dalla finestra verso i soffici prati verdi e al mare scintillante e sospirarono, pensando alle cose da preparare. I sonniferi, le polpette drogate, le borse e i sacchi e le custodie di violoncello necessarie per portar via i bambini... «Urleranno e scalceranno, secondo voi?» chiese zia Mirta, che era la più giovane. Soffriva di mal di testa e odiava i rumori. «No, certo che no. Saranno incoscienti» disse zia Etta. «Totalmente. A me ripugna quanto a voi» aggiunse, «ma avete visto il programma alla tele l'altra settimana». Le altre annuirono. Quando erano arrivate la prima volta sull'Isola non c'era la luce, ma quando il padre ebbe compiuto cent'anni gli alluci cominciarono a diventargli blu perché non gli arrivava abbastanza sangue fino ai piedi, e allora avevano ordinato un generatore perché potesse avere una coperta elettrica. Dopo di che pensarono che tanto valeva avere anche un bollitore elettrico, e poi un televisore. Ma il televisore era stato uno sbaglio per via dei programmi sulla natura. I programmi sulla natura finiscono sempre male. Prima vedete i vombati australiani dal naso peloso che capriolano con i loro cuccioli e poi, cinque minuti prima della fine, vi dicono che ormai sono rimaste solo dodici coppie in grado di riprodursi in tutta l'Australia. Oppure vedete le rane arlecchino del Costarica che gracidano a tutto andare sulle foglie di ninfea, e dopo un minuto vi avvertono che sono condannate perché le loro paludi sono state prosciugate. Ma il
peggio sono le foreste pluviali. Le zie non riuscivano mai a vedere un programma sulle foreste pluviali senza piangere, e la settimana scorsa ce n'era stato uno particolarmente brutto con della gentaglia che bruciava e abbatteva gli alberi, e con le scimmie e i giaguari che fuggivano terrorizzati. «E se ci estinguessimo anche noi?» aveva chiesto zia Coral, soffiandosi il naso. «Non solo i vombati e le rane arlecchino, ma noi». Le altre avevano capito al volo. Se poteva estinguersi un'intera foresta pluviale, perché non tre anziane signore? E se si estinguevano dove sarebbe finito il loro lavoro e chi si sarebbe occupato delle creature che venivano sull'Isola alla ricerca di consolazione e di cure? C'era un'altra cosa che preoccupava le zie. Ultimamente gli animali che arrivavano all'Isola semplicemente non volevano più andarsene. Già guariti da tempo, si trattenevano ancora - era come se sapessero qualcosa - e questo significava lavoro in più per le zie. Non c'era alcun dubbio, bisognava procurarsi un aiuto, e alla svelta. E così ora stavano decidendo sul da farsi. «Come troveremo i bambini giusti?» chiese Mirta e guardò con nostalgia lo sperone di roccia dove riposavano le foche. Una delle foche, Herbert, era un suo amico speciale, e Mirta avrebbe preferito molto essere là fuori a suonargli il violoncello o a cantargli le sue canzoni. «Diventeremo Zie» disse Etta con fermezza, sistemandosi gli occhiali sul lungo naso. Le altre la guardarono interdette. «Ma noi siamo zie» dissero. «Come possiamo diventarlo?» Era vero. Molti anni prima cinque sorelle erano venute sull'Isola con il loro padre. Avevano trovato una casa diroccata e spiagge deserte con solo le orme dei piro piro e dei piovanelli sulla sabbia, e oche faccia bianca che sostavano durante il volo dalla Groenlandia, e foche che, per nulla spaventate, uscivano dall'acqua per partorire i piccoli. Si erano messe a riparare la casa, avevano coltivato un giardino, e poi un giorno avevano trovato un uccello sott'olio gettato su uno scoglio dal mare... Solo che non risultò essere un uccello sott'olio. Piuttosto, era sotto petrolio, e da quel momento esse capirono di essere state chiamate sull'Isola da un Potere Superiore, e di aver trovato il lavoro della loro vita. Ma a una delle sorelle, Betty, l'Isola non piaceva. Odiava il vento e la pioggia e le scaglie di pesce nella sua tazza da tè e gli edredoni annidati nelle sue pianelle; così se n'era andata, aveva sposato un ispettore delle tasse a Newcastle sul Tyne, e ora abitava in una casa con tre tipi di deodorante per il water e spray per dare fragranza alle ascelle e non una sola scaglia di pesce in vista. Ma il punto era che aveva due bambini. Erano orribili, ma erano bambini. Chiamava il maschio Bubù e la femmina Picci (anche se naturalmente avevano dei veri nomi). Ma malgrado fossero orribili, erano dei bambini, e fu così che le sue sorelle diventarono zie perché per diventare zie non occorre fare nient'altro che avere dei nipoti. Ecco perché le sorelle rimasero sorprese e dissero: «Ma noi siamo zie». «Non quel tipo di zie» disse Etta con impazienza. «Volevo dire quelle che stanno in un ufficio o in un'agenzia e hanno nomi come Zie Utili o Zie Globali o Zie srl, il tipo di zie che i genitori pagano per portare i loro figli a scuola o dal dentista, o per star sedute accanto al letto quando sono malati». «Perché non lo fanno i genitori?» chiese Mirta. «Perché hanno troppo da fare. Una volta la gente aveva delle vere zie e delle nonne e delle cugine che si occupavano di questo, ma ora le famiglie sono troppo piccole e le vere zie vanno a ballare e hanno il fidanzato» disse Etta, sbuffando.
Coral annuì. Era la sorella con talento artistico, una donna grande e florida che dava da mangiare alle galline con un boa di piume e dei gioielli vistosi, e di notte ballava il tango alla luce della luna. «È una buona idea» disse. «Così potremo scegliere i bambini. Non vogliamo ritrovarci con un Bubù o una Picci». «Sì, ma se i genitori vogliono veramente bene ai bambini non dovremmo prenderli» disse Mirta, allontanando dalla faccia i lunghi capelli grigi. «Certo che no» disse Etta. «Non vogliamo provocare un can-can». «Ma se i bambini sono carini i genitori gli vorranno bene per forza» disse Mirta. «E anche in questo caso non dovremmo prenderli». Etta sbuffò. «Sarete sorprese. Ma è pieno di bambini i cui genitori non sanno la fortuna che hanno». Continuarono a discutere a lungo ma nessuna riuscì a trovare niente di meglio del piano di Etta, se bisognava mantenere segreta la posizione dell'Isola, il che era la cosa più importante. C'era un'altra zia che sarebbe stata utile -non quella con i tre tipi di deodorante per il water, che valeva meno di zero - ma la zia Dorothy, che era un po' più giovane di Etta e sarebbe stata la persona giusta per una spedizione del genere. Ma Dorothy si trovava in prigione a Hong Kong. Era andata laggiù per far smettere al padrone di un ristorante di servire cotolette di pangolino - i pangolini sono animali bellissimi e stanno diventando rari e non si dovrebbe mai mangiarli - e Dorothy si era seccata e aveva colpito il padrone in testa con il suo stesso wok, e l'avevano messa in prigione. Doveva uscire tra un mese, ma nel frattempo potevano partire per la missione solo in tre, e non erano nemmeno sicure di Mirta che era un po' imbranata fuori nel mondo e quando era via si struggeva sempre per Herbert. «Sei sicura di non voler restare, Mirta?» chiese Coral. Ma Mirta aveva deciso di mostrarsi coraggiosa, e disse che voleva venire e fare la sua parte. «Solo non diremo niente a papà» disse Etta. «Dopo tutto, rapire i bambini è reato e potrebbe preoccuparsi». Il Capitano Harper viveva al primo piano in un grande letto, e guardava il mare con un telescopio. Avevano quasi rinunciato a raccontargli le cose. Intanto era sordo come una campana per cui ci voleva un sacco di tempo per spiegargli qualsiasi cosa, e poi appena vedeva qualcuno cominciava a raccontare com'era la vita quando lui era ragazzo. Erano delle belle storie, ma ogni singola zia le aveva sentite almeno trecento volte e così non si trattenevano molto se potevano evitarlo. Ma alla Sibilla andarono a raccontarlo. Era la vecchia cugina che era arrivata sull'Isola poco dopo di loro. Sibilla amava leggere i libri, e un giorno aveva letto un libro sulla mitologia greca e su una persona chiamata la Sibilla (non solamente Sibilla) che era una profetessa e sapeva leggere il futuro. Così aveva cominciato a profetizzare sul tempo, borbottando di depressioni sull'Islanda e del fattore di raffreddamento del vento, e in realtà non sbagliava molto più spesso dei meteorologi della TV. Poi era passata ad altro, era andata a vivere in una grotta con i pipistrelli perché era lì che ci si aspettava vivesse una profetessa, e poi aveva smesso di lavarsi perché diceva che lavarsi indeboliva i suoi poteri, e perciò era anche lei una persona con cui non si desiderava intrattenersi troppo a lungo. Quando le zie le dissero che andavano sulla terraferma a rapire dei bambini, la Sibilla si eccitò moltissimo. La faccia le diventò blu e i capelli le si rizzarono in testa e per un momento sperarono che stesse per dir loro qualcosa di importante sul viaggio. Ma risultò che tutto quello che aveva da predire erano dei piovaschi burrascosi, e raccomandò di «prendere le pillole contro il mal di mare», cosa che avevano già deciso di
fare. Dovettero ancora assicurarsi che il loro cuoco, che si chiamava Art, sapesse esattamente cosa fare mentre loro erano via in missione. Art era evaso dal carcere ed era stato spinto dall'acqua sulla loro spiaggia in una barchetta a remi. Aveva ucciso un uomo quando era giovane, ma ora per nessuna ragione avrebbe ucciso un essere provvisto di braccia o gambe o occhi - nemmeno un gamberetto - e faceva dell'ottimo porridge. Poi riunirono tutte le cose di cui avrebbero avuto bisogno: cloroformio e sonniferi e le freccette anestetizzanti che usavano per stordire gli animali feriti quando dovevano curarli. Ciascuna aveva un contenitore in cui portar via un bambino: zia Etta una grande sacca da viaggio e zia Coral un bauletto di alluminio con dei fori e zia Mirta la custodia del suo violoncello. Mentre, a bordo della Peggoty, aspettavano che il vento cambiasse per poter raggiungere l'isola più vicina e prendere il piroscafo, erano terribilmente eccitate. Era un viaggio lungo e difficile: molti anni prima l'esercito aveva tentato di utilizzare l'Isola per esperimenti con i segnali radio, e per tenerne segreta la posizione aveva alterato le mappe e vietato alle barche di avvicinarsi. Alla fine non l'avevano utilizzata ma era ancora un posto dimenticato e le zie intendevano far di tutto perché rimanesse tale. «Naturalmente non sarà un vero sequestro perché non chiederemo un riscatto ai genitori» disse Etta. «Sarà più che altro uno scippo» ammise Coral. Ma che fosse sequestro o scippo di bambini, era sempre una cosa pericolosa e perfida, e mentre agitavano le mani per salutare l'Isola il loro cuore batteva molto forte.
Capitolo due A dieci anni, Minette aveva già fatto il viaggio tra Londra ed Edimburgo quarantasette volte. Quarantasette pasti al buffet della stazione; quarantasette visite alla toilette del treno e quarantasette mal di pancia perché cambiare famiglia le faceva sempre venire il mal di stomaco. Il padre di Minette viveva a Edimburgo in una grande casa grigia e faceva il professore di grammatica. La madre di Minette viveva in un appartamento a Londra e faceva l'attrice, o meglio l'avrebbe fatta se qualcuno le avesse dato una parte. Erano separati da quando Minette aveva tre anni e si odiavano accanitamente. «Di' a quel pidocchioso di tuo padre che è di nuovo in ritardo con i soldi» era il genere di messaggio che inviava la madre di Minette accompagnandola a King's Cross per metterla sul treno per Edimburgo. Oppure: «Scommetto che tua madre gestisce ancora quel dormitorio per attori ubriachi» diceva suo padre andando a prenderla al treno. Minette non riferiva mai questi messaggi ai genitori. Inventava delle frasi cortesi e amichevoli, ma né sua madre né suo padre se le bevevano. E durante il viaggio, che all'inizio, quando era piccola, durava cinque ore, Minette guardava fuori dal finestrino cercando una casa dove lei e sua madre e suo padre sarebbero vissuti insieme un giorno come una famiglia normale con un gatto e un cane. Poiché continuava a farle male, molto male, non che i suoi genitori fossero separati - molti bambini che conosceva avevano i
genitori separati - ma che si odiassero tanto. In questi viaggi Minette veniva di solito affidata a una zia. La zia veniva da un ufficio che si chiamava Zie Utili, ed era importante che tipo fosse perché se parlava in continuazione o voleva fare degli stupidi giochi, Minette non poteva concentrarsi nel trovare la casa dove vivere con i suoi genitori, o nell'immaginare splendide scene in cui lei veniva investita e portata all'ospedale e sua madre e suo padre si precipitavano al suo capezzale e si guardavano sopra il corpo insanguinato della figlia e scoprivano che dopo tutto si amavano. Poi, il giorno in cui si alzò per compiere il suo quarantottesimo viaggio, Minette si rese improvvisamente conto che non le importava che tipo di zia avrebbero mandato a prenderla, perché aveva perduto ogni speranza. I suoi genitori si sarebbero sempre odiati e lei avrebbe passato il resto della sua vita viaggiando da Londra a Edimburgo e viceversa, senza mai sapere bene quale fosse casa sua e dove avesse le sue radici. E come se Qualcuno Lassù l'avesse sentita, quel giorno le mandarono una zia assolutamente speciale. Era così diversa dalle altre zie con cui aveva viaggiato che sia lei che sua madre rimasero allibite avvicinandosi all'edicola del primo binario della stazione di King's Cross, dove le stava aspettando. «È lei...?» cominciò la madre di Minette. La donna annuì. Era molto alta con dei piccoli baffi e aveva una grande borsa da viaggio che emanava un vago odore di pesce. «Sono la vostra zia» disse con voce profonda e indicò il risvolto della giacca dove era appuntato un cartellino che diceva Zie Improbabili e sotto 'Mi chiamo Etta'. Se la madre di Minette non avesse avuto fretta di andare al cinema con il suo ultimo fidanzato avrebbe forse fatto qualche altra domanda. Dopo tutto una Zia Improbabile non è lo stesso di una Zia Utile, ma sta di fatto che lei le consegnò i soldi per i biglietti e per il pranzo di Minette, si tolse la sigaretta di bocca per il tempo necessario per baciare la figlia, e filò via. E così Minette e la zia si sedettero una di fronte all'altra in uno di quei vecchi scompartimenti senza corridoio, e guardarono la periferia di Londra che scorreva fuori dal finestrino. Quella settimana a Londra era stata dura per zia Etta e per le sue sorelle. Avevano trovato una pensione piena di gente come loro: persone ziesche venute in città per esibire il loro carlino a una fiera canina o per partecipare agli incontri per l'istituzione di una casa di riposo per asini anziani. Ma odiavano il rumore e il traffico e l'aria sporca, e non fu facile farsi assumere da un'agenzia. E quando Etta ricevette il suo cartellino e uscì per i primi incarichi, i bambini che le vennero affidati erano indescrivibili. Accompagnò un bambino a fare una gita sul fiume, e quello passò tutto il tempo a rimpinzarsi di gelati, di popcorn e di patatine, gettando i sacchetti nell'acqua. Portò una bambina a farsi pulire i denti e la vide mordere la mano del dentista, e tenne compagnia a un piagnone che si chiamava Tarquinio Vallestern-Pesce e aveva il morbillo. Così prima di incontrare Minette alla stazione di King's Cross, Etta aveva cominciato a pensare che quell'idea di rapire bambini fosse in fondo piuttosto stupida. Il mondo sembrava pieno di Bubù e di Picci, ed era meglio estinguersi, come le foreste pluviali, che portare bambini simili sull'Isola. La prima occhiata a Minette non la rincuorò. La bambina aveva un aspetto sgualcito, striminzito; era piccola per la sua età e molto magra, e pareva nata stanca. Una bambina debole e fiacca sarebbe stata del tutto inadatta al lavoro che c'era da fare. Era anche vestita
in modo assurdo, con una quantità di vaporosi pompon nei lunghi capelli castani e una maglietta con su scritto Se mi strizzi strillo, e una borsettina di plastica rosa a forma di cuore le dondolava dalla spalla. E se l'aspetto di Minette non piacque a Etta, Minette non trovò affatto di suo gusto zia Etta. Per un po' rimasero tutte e due in silenzio. Di tanto in tanto una goccia d'acqua cadeva dalla borsa di tela che la zia aveva gettato sulla rastrelliera dei bagagli e le finiva sulla crocchia di capelli grigi in cima alla testa, ma lei non pareva accorgersene. «C'è qualcosa che perde?» chiese Minette. La zia guardò in su e scosse la testa. «La tela non si asciuga mai del tutto. Uso la borsa per spostare le foche. Solo i piccoli naturalmente; una foca adulta non ci starebbe mai». Minette cominciò a provare interesse; la sua faccia perse l'espressione inquieta e striminzita. «Allora fa la veterinaria?» «Non esattamente. Ma in un certo senso sì». Ci fu ancora silenzio. Minette non voleva far la curiosa e così guardò di nuovo fuori dal finestrino. Stavano passando davanti alla prima delle case che Minette aveva scelto per abitarci con i suoi genitori. Era un vecchio casello di capostazione con vasi di fiori e un piccolo frontone sulla facciata. E come se le leggesse nel pensiero, la zia disse: «Che bel posto per abitarci. Magari di notte ci passano dei treni fantasma con spettri interessanti. Renderebbe vivace l'ambiente». Minette la fissò. «Lei crede ai...» «Ma sicuro» disse asciutta la zia. «Certamente. Credo quasi in tutto, e tu no?» «Mio padre dice che non dobbiamo credere in niente che non si possa vedere o dimostrare» disse Minette. «Davvero?» Dopo la prima ora di viaggio, Minette aprì la sua valigia e si diede un gran daffare. Aveva dei calzini rosa e arancione con un bordo di Topolini. Ora se li tolse e se ne mise un paio tutti bianchi. Poi sostituì la maglietta che diceva 'Se mi strizzi strillo'' con una blu a maniche lunghe e senza scritte. Infine ficcò in valigia la borsettina a cuore e ne tirò fuori una classica di pelle. La zia non disse nulla, osservando Minette che si trasformava da bambinetta trendy in seria scolaretta all'antica.
Ma Minette non aveva ancora finito. Prese pettine e spazzola, si sistemò uno specchio sulle ginocchia, e incominciò a legare i capelli in due codini lunghi e stretti. «Mi cambio sempre qui» spiegò, «perché fuori non c'è niente di interessante da guardare. A mio padre non piacciono i vestiti con le scritte. O le calze buffe. Dice che sono volgari. E odia i capelli spettinati». «E quando torni ti cambi di nuovo, ti metti i pompon e ti sciogli i capelli?» «Sì. A mia mamma piacciono sciolti». «E a te? Come ti piacciono?» Minette sospirò. «Io li vorrei corti». «Be', io ho qui le forbici. Perché non li tagliamo?» Aprì un'enorme borsa e ne estrasse un paio di forbici. «Oh no! Non posso. Si arrabbierebbero tutti e due». Zia Etta si strinse nelle spalle e lasciò cadere di nuovo le forbici nella borsa. «In effetti i capelli lunghi possono essere utili». «E come?» «Oh, per levigare qualcosa... gusci d'ostrica e simili. E se cadi nell'acqua si sa dove afferrarti». Erano arrivati alla seconda casa dei sogni di Minette, una casa bianca e bassa nell'ansa di un fiume, con un salice e un giardino che scendeva fino all'acqua. Ma questa volta Minette non vide sua madre e suo padre che prendevano il tè insieme sul prato. Sentì suo padre che diceva: «Quel salice lo dobbiamo abbattere, toglie tutta la luce», e sua madre che diceva: «Se tagli quell'albero ti faccio rinchiudere coi matti». E improvvisamente, senza nessuna ragione, raccontò a quella strana donna i suoi infiniti viaggi dal piccolo appartamento di sua madre con l'odore di cipria misto a quello di curry dal ristorante cinese di sotto e i collant che gocciolavano nel bagno, alla casa fredda, ordinata e solenne di suo padre con il ticchettio del grande orologio a pendolo. E i sogni sciocchi di riunirli ancora, e come non ci fosse più speranza. «Pensa che ci possa essere un terzo posto? Non la casa di mio padre o l'appartamento di mia madre, ma un altro posto... vicino al mare forse? E che un giorno io possa trovarlo?» Si ritrasse, improvvisamente spaventata, perché la terribile zia la stava scrutando troppo intensamente. Ma zia Etta annuì. «Certamente» disse. «Certamente esiste un terzo posto. Ce n'è sempre uno per tutti. Ma non vale la pena riempirlo di persone della tua vecchia vita. Se vuoi trovare il terzo posto devi trovarlo da sola». «Ma sono una bambina. Non posso andare a vivere da sola». «Forse no. Non proprio, ma potresti ugualmente ripartire da zero se ne trovassi il coraggio». «Non ho coraggio» disse Minette con fermezza. «Sono una fifona». Era una delle poche cose su cui i suoi genitori si trovavano d'accordo. «Ho paura del buio e di tuffarmi dal trampolino più alto e dei bambini prepotenti». Il treno si fermò a York e la zia comprò dei panini da un carrello. «Sarà meglio che tu vada a lavarti le mani e a rimetterti in ordine» disse, «perché è ora di pranzo. Che panino preferisci: uova e lattuga o formaggio e pomodoro?» «Formaggio e pomodoro, per favore». Se Minette avesse saputo quello che avveniva mentre lei era fuori dello scompartimento si sarebbe spaventata davvero. Poiché dalla tasca dei suoi lunghi pantaloni blu la zia estrasse una polverina color caffelatte che cosparse con cura al centro del panino al formaggio e pomodoro. Poi aprì la cerniera della borsa da viaggio e si appoggiò allo schienale con un
sorriso soddisfatto. «La mia prima» mormorò tra sé. «La mia primissima. Che emozione tremenda!» E poi: «Chissà come se la cava Coral!» Per Coral era stato molto più difficile assumere l'aspetto di una Zia d'Agenzia. Coral era la zia cicciottella che da ragazza aveva fatto il liceo artistico e a cui piaceva differenziarsi dal gregge, ma si era sforzata di assumere un'aria affidabile. Portava solo due collane e un paio di orecchini tintinnanti, e gli svolazzi dipinti a mano sul vestito e sul turbante erano degli svolazzi tranquilli, e così mentre suonava il campanello del palazzo di Mayfair si sentiva più ziesca di quanto avrebbe mai pensato. L'idea di andare a prendere Hubert-Henry Mountjoy alla casa dei nonni a Londra per accompagnarlo al suo collegio nel Berkshire faceva cader le braccia a zia Coral. La sua prima serie di bambini era stata pessima come quella di Etta: un perfido bambinetto grasso che aveva tentato di prenderla a pedate negli stinchi, e un ragazzino che aveva schiacciato uno scarafaggio al parco. Era sicura che Hubert-Henry Mountjoy non sarebbe stato niente di meglio - uno spocchioso mocciosetto dagli occhi freddi e dal sangue blu che si credeva chissà chi - e aveva deciso che se lo coglieva a pestare scarafaggi gliele avrebbe date sode, si sarebbe dimessa da zia e se ne sarebbe tornata a casa. Mentre una cameriera con la puzza sotto il naso la introduceva nell'anticamera dei Mountjoy, si sentiva peggio che mai. La casa era enorme, buia e fredda; c'era un grosso gong di bronzo in un angolo; alle pareti pendevano ritratti di Mountjoy morti con i baffoni a manubrio. Attese il primo incontro con Hubert-Henry nell'uniforme della scuola con la più cupa apprensione. La porta del soggiorno si aprì. Ne uscì un ragazzino, sospinto da un uomo alto con i capelli bianchi identico agli uomini dei ritratti tranne che non era morto - e la bocca di Coral si socchiuse leggermente. Hubert-Henry era piccolo e snello con i capelli neri come l'ebano, la pelle olivastra e enormi occhi scuri. Qualcosa nei suoi movimenti aggraziati e nel suo sguardo cauto le ricordò certe foto di bambini del Sudamerica che vivono tra i rampicanti e le orchidee e gli alberi a foglie larghe della foresta tropicale. Il vecchio con i baffi a manubrio parlò. «Questo è Hubert-Henry» disse come se ragliasse. «Come vede non è un gentiluomo inglese per nascita - ma intendiamo far di tutto perché lo diventi, vero, Hubert?» E mentre il vecchio gli dava un colpo nelle costole, zia Coral vide negli occhi del bambino silenzioso un'espressione di odio tale che lei fece un passo indietro e urtò con le spalle il grosso gong di bronzo. Al che Hubert-Henry gettò indietro la testa e rise. Mezz'ora più tardi, sedevano fianco a fianco in una grande automobile nera diretta alla scuola di Hubert. La macchina era una limousine chiusa tipo quelle che si noleggiano per i matrimoni e i funerali, con un vetro divisorio che taglia fuori l'autista. C'erano tre ore di viaggio per il Berkshire, ma l'autista si era rifiutato di portare Hubert-Henry da solo, e così zia Coral doveva recapitarlo a Tristemelma e darlo in consegna alla governante. Il ragazzino, a quanto pare, aveva tentato di scappare saltando giù dal treno l'ultima volta che l'avevano portato in collegio. «Ti chiami davvero Hubert-Henry?» chiese zia Coral mentre cominciavano a lasciarsi Londra alle spalle. «No». «Come ti chiami?»
«Fabio». Aveva un leggero accento straniero. Spagnolo, forse? O portoghese? Lei sperava che avrebbe aggiunto qualcosa, ma lui rimase muto e imbronciato. Poi: «Gli ho detto che pestavo la prossima zia a cui mi rifilavano. Che la pestavo forte». «Oh, se fossi in te non lo farei» disse Coral. «Io scalcio come un mulo. Per via dei peli, vedi». «Che peli?» «I peli sulle gambe. Abbiamo tutte le gambe pelose, io e le mie sorelle. I peli danno forza, come i capelli; lo dice la Bibbia. Sansone e tutta quella storia». Ma non stava pensando a quello che diceva. Zia Coral era un po' psicologa, come spesso lo sono gli artisti - il che significa che qualche volta sapeva certe cose senza sapere come - e ora scavò nella sua cesta, tirò fuori un blocco e un pezzo di carboncino e si mise a disegnare. Fabio, ancora imbronciato, voltò la testa dall'altra parte. Quando ebbe finito, Coral posò il disegno sul sedile in mezzo a loro. Sentì subito un piccolo sussulto. Il ragazzo aveva afferrato il foglio e lo divorava con gli occhi, e una lacrima gli scendeva sulla guancia. «Era così la tua casa?» chiese lei dolcemente. Fabio annuì. «L'albero è giusto; era una papaya, e la scimmia... era un cebo cappuccino e l'ho addomesticato io. Ma le capanne erano tre in fila, non una... noi abitavamo in quella in fondo, vicino al fiume. Le galline erano nostre ma la capra era dello zio della casa di mezzo. Il maiale l'hai fatto bene, ma aveva la pancia ancora più grossa - strusciava per terra». «E perché sei venuto via, Fabio?» chiese Coral. Il bambino fissava ancora con nostalgia il disegno; il fiume, il grande albero con i frutti appesi ai rami e la barca da pesca tirata a secco. «Esattamente non lo so» disse lui. Ma raccontò quello che sapeva e lei integrò il resto. Suo padre, Henry Mountjoy, era un ricco inglese che possedeva una grande casa di campagna; ma aveva il vizio del gioco. Si era riempito di debiti e alla fine era partito per il Sudamerica alla ricerca dell'oro. Solo che naturalmente l'oro non lo trovò. Si ammalò e la madre di Fabio, che ballava in un nightclub, l'aveva trovato mezzo morto di fame, lo aveva curato, e dopo un certo tempo si erano sposati. Ma lui aveva la salute a pezzi e non riusciva a trovare lavoro e subito dopo la nascita di Fabio se ne tornò in Inghilterra. Da allora Fabio era vissuto prima con sua madre a Rio e poi, quando lei andò a vivere con un altro uomo, nella foresta lungo il fiume con i nonni, lo zio e i cugini. Nelle tre capanne c'era moltissima gente e pochissimi soldi, ma Fabio era assolutamente felice. Suo nonno era un indio amoriano e sapeva tutto, e sua nonna aveva lavorato da cuoca presso un piantatore portoghese e gli raccontava le storie più fantastiche. Poi poco più di un anno fa sua madre era arrivata con un inglese vestito tutto buffo, che continuava ad asciugarsi il viso e che arricciava il naso quando passava vicino al maiale. Venne fuori che il padre di Fabio era morto e che sul letto di morte aveva supplicato i genitori, i vecchi Mountjoy, di portare Fabio in Inghilterra e di educarlo da gentiluomo inglese. Fu l'inizio di un incubo. Sua madre aveva insistito che andasse. Henry Mountjoy le aveva così tanto parlato della sua maestosa casa in Inghilterra che lei voleva che Fabio godesse la sua parte. Ma la maestosa casa era stata venduta per pagare i debiti di Henry, e i genitori di Henry, data un'occhiata al selvatico ragazzino, rabbrividirono. Dato che i nonni erano troppo vecchi per trasformare Fabio in un gentiluomo inglese, questo strano compito doveva essere affidato a un collegio. Ma i collegi, a detta dei vecchi
Mountjoy, si erano rammolliti. Ne avevano provati due dai quali Fabio era ritornato più o meno come prima, solo parlando meglio l'inglese. Il Collegio di Tristemelma però era diverso. Il Preside credeva non solo nell'efficacia delle docce gelate e dell'intransigenza, ma di tutta una serie di cose che non si sarebbe mai detto esistessero ancora, e i ragazzi erano incattiviti. «Mi chiamano 'scimmia' o 'stecchetto' e cercano di legarmi. Ma io questa volta li ammazzo. Li ammazzo e poi ammazzo il Preside e possono mettermi in prigione che me ne infischio!» Ma prima di riuscire ad ammazzare il Preside, Fabio incominciò a vomitare. Vomitò subito dopo Slough, e appena passato Maidenhead e nell'ingresso di una casa chiamata «i Lauri» a Reading, e più si avvicinavano a Tristemelma più Fabio vomitava. E quando Coral vide Tristemelma, pensò che avrebbe vomitato anche lei se avesse dovuto entrarci. Era un'enorme casa tetra con le sbarre di ferro alle finestre, e le mura di pietra erano viscide e fredde. Era il momento di agire. L'autista doveva lasciarli alla scuola e Coral sarebbe tornata in treno per conto suo. «Aspettami qui, Fabio» disse al bambino. «Lo tenga d'occhio, signor Fowler. Non se lo lasci scappare». Il ragazzino, che cominciava ad aver fiducia in lei, si rannicchiò sul sedile e Coral marciò al portone d'ingresso. L'odore di Tristemelma sarebbe bastato a darle la nausea per la vita. Disinfettante d'ospedale, cavolo torturato, latrine... In quanto alla Governante, quando uscì dal suo ufficio pareva la perfetta imitazione di un cammello: il naso camuso, il beffardo labbro superiore, gli occhi torbidi e diffidenti. Tranne che i cammelli non hanno colpa dell'espressione che hanno, e le persone sì. «Temo di portare brutte notizie di Hubert-Henry Mountjoy» disse zia Coral. «Gli è venuto un attacco di biri-biri e per il momento non può tornare a scuola». La Governante sporse le labbra. «Be', certo, c'è da aspettarselo in questi bambini stranieri. Se lo sarà preso in quella capanna nella giungla». Dato che zia Coral si era inventata il biri-biri sul momento, fece solo sì con la testa e disse che l'avrebbe informata appena il bambino stava meglio. Poi ritornò alla macchina e disse: «Mi spiace dovervi dire che c'è stato un caso di meningite nella scuola. Sono tutti in quarantena e per ora Hubert non può essere ammesso». Il ragazzino, che se ne stava accasciato sui cuscini, a queste parole si raddrizzò e sorrise. Aveva un sorriso molto simpatico e zia Coral prese la sua decisione. «Be', io non posso riportarlo indietro» disse burbero l'autista. «Ho un altro lavoro giù nel Kent e non posso perdere un minuto». «Non fa niente» disse Coral. «Ci porti solo alla stazione. Torneremo a Londra per conto nostro». Su una panchina della stazione, Coral notò il momento esatto in cui la felicità di Fabio al pensiero di sfuggire al collegio si trasformò in angoscia al pensiero di tornare nella prigione che era per lui la casa dei nonni. Coral non aveva avuto seri dubbi ma ora era più che sicura. Doveva usare il cloroformio? O il sonnifero che usava Etta? In un modo o nell'altro, pensò Coral, Fabio era il bambino giusto. Etta e Coral avevano avuto ragione. A zia Mirta non avrebbero dovuto permettere di partecipare ai rapimenti. Non appena arrivata a Londra le prese una tale nostalgia che credette di morire. Le mancava lo sciabordio delle onde contro le rocce, il profumo del
trifoglio e le nuvole che si rincorrevano alte nel cielo limpido. Ma più di tutto le mancava Herbert. Era abituata a sedersi ogni giorno sulla roccia e a suonargli il violoncello, e cominciò a temere che anche lui sentisse la sua mancanza. O che non sentisse la sua mancanza, il che sarebbe stato ancora peggio. Così quando la incaricarono di portare Lambert Sprott allo zoo perché suo padre era a New York per affari e sua madre era a Parigi a comprare vestiti, zia Mirta era in un brutto stato. Le cadevano i capelli, aveva il mal di testa, e la piantina dello zoo pareva incomprensibile. In quanto a Lambert, non era un bambino facile da trattare. Aveva occhi pallidi e diffidenti, la bocca tirata, e si portava dietro un portafoglio carico di soldi, una calcolatrice tascabile e il suo telefonino personale, sicché pareva un dirigente di banca ristretto, solo che i dirigenti di banca hanno imparato a essere cortesi e Lambert no. Nonostante tutto Mirta era decisa a fare del suo meglio, e a godere insieme al bambino della bellezza degli animali che vedevano: le giraffe dalle gambe a x con le loro lunghe lingue nere, i dignitosi orangutan con i ciuffi di peli rossicci sotto le ascelle, l'alligatore del Mississippi che sorrideva fumigando nella sua vasca. «Oh, come sono affascinanti gli animali, vero, Lambert!» gridò, sopraffatta. «Guarda quei bontebok, come tengono la testa. E là in fondo, i cari dik-dik, così piccoli ma così veloci quando corrono». Lambert sbadigliò. «Puzzano» disse. Mirta rimase scioccata. «Be', hanno un loro odore, ma ce l'hai anche tu. Per un bontebok odori di umano». «No, io no». Zia Mirta sospirò, ma era decisa a non cedere. Doveva esserci una scintilla di vita da qualche parte in quel bambino. E c'era: se una cosa costava un mucchio di soldi Lambert si animava subito. Raccontò a Mirta che ti davano ventimila sterline per il corno di un rinoceronte bianco, e che la tigre siberiana ne valeva il doppio perché era così rara. «È così bella» esclamò Mirta. «Guarda i disegni che ha sulla gola». Lambert sbadigliò di nuovo - non gli interessava affatto che un animale fosse bello - e si fermò per chiamare un amico col suo telefonino, ma l'amico era fuori. «Mi piacerebbe andare a far spese» disse. «Ho il mio conto da Harrods». Ma a Mirta non era stato detto di portarlo a far spese e, ignorando il suo piagnisteo, salì su un ponticello di pietra e si fermò di botto. Erano arrivati alle foche. Le femmine erano stese qua e là come vecchie poltrone, tossendo e grugnendo, ma c'era una foca, un giovane maschio, che pareva fissare proprio lei. Lacrime di nostalgia riempirono gli occhi di Mirta; poteva essere il fratello di Herbert che giaceva laggiù! «Oh, Lambert» disse facendo un ultimo tentativo, «guarda la curva che fanno i suoi baffi, e la lucentezza della pelle. Hai mai visto niente di più bello?» «Non valgono una cicca» disse Lambert con voce annoiata. «Non ti danno un centesimo per una foca. Sono troppo comuni». E poi aprì la bocca e sbadigliò di nuovo. Sbadigliò tanto che Mirta vide la sua lingua biancastra, le tonsille, persino quel lembo di pelle in fondo alla gola che impedisce al cibo di scendere dove non deve, e le scattò dentro qualcosa. Non avrebbe rapito quell'odioso bambino com'è vero il mondo. La sola idea di svegliarsi al mattino e di sapere che lui era sull'Isola le faceva rivoltare lo stomaco, e non avrebbe potuto insudiciare la custodia del suo violoncello cacciandoci dentro quel repellente moccioso così come non avrebbe potuto volare. Decise di riportare a casa Lambert e dire alle sue sorelle che come sequestratrice era un disastro, e tornarsene a casa.
Presa questa decisione si sentì meglio, ma aveva davanti ancora un lungo pomeriggio; uno dei più lunghi della sua vita, sembrò a Mirta. Lambert viveva in una grande casa che pullulava di allarmi antifurto, con tappeti in cui si affondava fino alla caviglia, attrezzata con un bar, una piscina e una cucina piena di aggeggi che ronzavano, pulsavano e sussultavano e che lei non sapeva minimamente come usare. Quello che mancava a casa di Lambert erano le persone. Suo padre era occupato ad arricchirsi e sua madre era occupata a spendere i soldi che lui ammucchiava, sicché nessuno dei due passava molto tempo in casa. Mirta doveva aspettare la donna che preparava la cena a Lambert, e consegnarlo a lei. Lambert si sedette davanti a un enorme televisore e si mise a saltare da un canale all'altro con aria annoiata, e Mirta si avviò al bagno per mettersi un po' in ordine. Aveva deciso di versare il cloroformio nel water; le dava fastidio tenerlo ora che aveva rinunciato a fare la sequestratrice, così prese la bottiglietta e l'astuccio con le mollette per i capelli e iniziò a salire le scale. «Che cos'ha lì?» La voce sospettosa di Lambert la fece girare su se stessa. Si era messo il telefonino in tasca e la stava squadrando, stringendo gli occhi. «Sta rubando qualcosa. Cosa c'è in quella bottiglia?» Si sporse in avanti per afferrare la bottiglia. Zia Mirta se la portò dietro la schiena ma Lambert le diede un calcione negli stinchi, le torse il braccio libero e le strappò la bottiglia. Poi tolse il tappo e ci mise il naso sopra. «No!» gridò Mirta. «Mettila giù, Lambert!» Ma era troppo tardi. L'impossibile ragazzino giaceva a terra privo di sensi.
Capitolo tre Minette si svegliò in uno strano letto con i pomoli di ottone e il materasso pieno di gobbe. Era in una stanza grande, con un tappeto logoro e la tappezzeria sbiadita piena di pappagalli e di foglie svolazzanti. Le tende si gonfiavano leggermente davanti alle finestre aperte. Uno stridio acuto veniva dall'esterno. Poi si ricordò di quello che era successo e si spaventò moltissimo. Stava mangiando un panino, seduta di fronte a una strana, arcigna zia che avrebbe dovuto portarla da suo padre; e improvvisamente lo scompartimento aveva cominciato a girare e a girare e la faccia della zia si era prima avvicinata e poi allontanata... e poi nient'altro. Buio. L'avevano drogata e rapita, di questo era sicura. Ricordava come la spaventosa zia l'aveva fissata come se volesse leggerle nell'anima. Minette conosceva bene la paura, ma ora era più terrorizzata di quanto fosse mai stata. Che terribile destino l'attendeva? Le avrebbero mozzato un orecchio per mandarlo ai suoi genitori, o l'avrebbero affamata per farle fare quello che volevano loro? E che cosa volevano? I sequestri si facevano per estorcere soldi alla gente, ma né suo padre né sua madre erano ricchi. Si mosse nel letto e scoprì di non essere legata, ma le finestre dovevano avere le sbarre e la porta doveva essere chiusa a chiave. Spinse da parte le coperte e andò alla finestra. Aveva addosso la sua camicia da notte; la
zia doveva aver rapito anche la sua valigia. La finestra era aperta e quando Minette guardò fuori restò a bocca aperta. Perché vide un panorama incredibile. Sotto di lei si stendeva un prato verde pieno di pecore e punteggiato di pratoline e di eufrasie. Lo stava attraversando una grande oca con le zampe nere, seguita da sei ochette col collo teso. Oltre il prato il terreno degradava fino a una baia di sabbia bianchissima - e poi c'era il mare. Minette guardò, guardò e guardò. Alla luce del mattino il mare pareva uno specchio di cristallo; sentiva le onde che si rovesciavano dolcemente sulla spiaggia. Tre scogli neri facevano la guardia alla baia, e su di essi riuscì a scorgere le teste scure e rotonde delle foche. Uccelli bianchi volteggiavano stridendo, e l'aria odorava di alghe, di conchiglie e di vento. Odorava di mare! «Oh, è stupendo!» mormorò. Ma certamente non l'avrebbero lasciata uscire. I bambini rapiti vengono tenuti in armadi bui, con gli occhi bendati. Da un momento all'altro sarebbe arrivato qualcuno per vedersela con lei. Si guardò intorno nella stanza. Vecchi mobili, tappetini patchwork e, accanto al letto -questo sì che era strano - una lampadina da notte. Aveva supplicato tanto per averne una a casa sua, ma né suo padre né sua madre gliel'avevano mai concessa. Un rumore leggero, come un respiro un po' forte, la fece girare di scatto. Era venuto da dietro un paravento rivestito con figure di animali nell'angolo della stanza. Un feroce cane da guardia? Ma il rumore non era parso affatto feroce. Col cuore che le martellava, andò in punta di piedi fino al paravento e vi sbirciò dietro. Steso su una branda c'era un ragazzo più o meno della sua età. Aveva i capelli molto scuri e le orecchie a sventola, e si stava giusto svegliando. «Chi sei?» chiese, fissandola con gli occhi spalancati. «Sono Minette. E credo mi abbia rapita una zia». Il ragazzo si sedette. «Anche a me». Sbatté gli occhi. «Sì, sono sicuro. Dovevo tornare dai nonni. Mi ha dato un hamburger». «La mia mi ha dato un panino al formaggio e pomodoro». Il bambino si alzò dal letto e si stiracchiò. Anche lui indossava il proprio pigiama. «Dobbiamo tentare di scappare» disse. «Dobbiamo». «Sì. Solo credo che siamo su un'isola. Vieni a vedere». Non sapeva perché, ma aveva avuto subito l'impressione che ci fosse il mare non solo davanti a loro, ma tutt'intorno. «Uau!» Anche Fabio fu colpito dalla vista. «Che posto». Minette era andata alla porta. «Guarda, non è chiusa a chiave!» «Io esco» disse il ragazzo. «Non ci hanno preso i vestiti, pare. Sono sequestratrici da due soldi». «A meno che sia tutta una trappola». Pensò ai film che aveva visto - botole che si aprivano improvvisamente nel pavimento con sotto piraña o squali cannibaleschi. «Pensi che ci abbiano presi per farci mangiare da qualche bestia?» Lui scrollò le spalle. «Avrebbero scelto bambini più grassi. Su, vestiti. Io voglio uscire». Non c'era nessuno nel corridoio; non c'era nessuno sulle scale. Poi, da dietro una porta dall'altra parte del corridoio, sentirono un urlo, seguito da un tonfo, e poi un secondo urlo. Là dentro stavano torturando qualcuno - e dalla voce pareva un bambino. Minette si addossò al muro, bianca in faccia e tremante. «Vieni, presto!» Fabio l'afferrò per un braccio. I bambini corsero fuori sul prato, sopra le dune, lungo la perfetta mezzaluna di sabbia. La
bassa marea rivelava una spiaggia di conchiglie: c'erano orecchie di Venere e cipree e sassi verdi che brillavano come smeraldi. Nessuno li fermò; non si vedeva nessuno. Sarebbe stato un paradiso senza quelle urla raccapriccianti. «Guarda» disse Fabio. Un gruppo di foche si erano avvicinate alla riva e li guardavano, nuotando a semicerchio, sbuffando e grugnendo... Con le loro teste rotonde sembravano delle matrioske. I bambini tacevano guardando le foche e le foche guardavano loro. Poi improvvisamente si girarono e nuotarono verso le acque profonde. Tutte meno una, una foca maschio con delle macchie bianche sulla gola, che si avvicinò alla riva, sempre più, finché fu sul bagnasciuga con le pinne appoggiate sulla sabbia. «È come se volesse dirci qualcosa». «Ha degli occhi incredibili» disse Minette sognante. «Non pare assolutamente una foca. È come se dentro fosse una persona». «Be', le foche sono persone. Tutte le cose vive in realtà sono persone». Ma non era questo che lei aveva voluto dire. Si tolsero le scarpe e camminarono sulla compatta sabbia bagnata tra i segni della marea verso una scogliera piena di nidi di gabbiani tridattili, di pulcinelle di mare, di sterne. La marea si stava ancora ritirando, lasciandosi dietro i suoi tesori: rami lisci come velluto, gusci di granchio color cremisi, ossi di seppia più bianchi della neve. Nessuna imbarcazione in vista. Avrebbero potuto essere soli nell'universo. «Cos'è questo rumore?» chiese Fabio, fermandosi su due piedi. Un suono profondo e lamentoso, una specie di clacson, era venuto dall'interno dell'isola. «Dev'essere una sirena da nebbia» disse Minette. Ma la nebbia non c'era, né un faro per segnalarla. Stettero in ascolto per qualche istante ma il suono non si ripeté, e ripresero a correre sulla spiaggia. Era un'isola meravigliosa, aveva tutto. Alla loro destra c'era una collina verdeggiante; due colline, in realtà, con un avvallamento nel mezzo, i pendii coperti di felci e ginestre. La riva opposta doveva essere più selvaggia, esposta al vento. «Se ci arrampichiamo in cima potremo vedere esattamente dove siamo. Forse ci sono altre isole o una strada. Se vogliamo scappare dobbiamo saperlo» disse Minette. Dovevano fuggire - quell'urlo terribile risuonava ancora nelle loro orecchie - ma Minette non poteva fare a meno di pensare a dove sarebbe stata in quel momento se non fosse stata rapita. Nel soggiorno buio di suo padre sforzandosi di interessarsi a un libro finché lui tornava dall'università. Sembrava che anche Fabio avesse pensieri del genere. «Chissà se i miei nonni pagheranno il riscatto per me. Sono terribilmente spilorci e io non gli piaccio». Minette si domandò se i suoi genitori le volevano abbastanza bene da pagare un sacco di soldi per riaverla, ma quando pensava a loro il suo stomaco cominciava subito a beccheggiare, così disse: «C'è un sentiero che sale sulla collina». Si misero a correre verso un passaggio tra le dune, dimenticando gli esseri che si lasciavano alle spalle, dimenticando perfino quell'urlo straziante. Il vento li spingeva da dietro; pareva di volare. Niente faceva pensare a qualcosa di pericoloso o di oscuro. E poi accadde! Da dietro il monticello di sabbia che le aveva nascoste, emersero improvvisamente le figure spaventose di due donne gigantesche. Erano le zie cattive! Le perfide sequestratrici fissarono i bambini e questi, terrorizzati, le fissarono a loro volta. Ecco la zia alta e ossuta con gli occhi terribili che aveva drogato il panino di Minette, ed ecco la pazza prosperosa con le sue sciarpe svolazzanti, che aveva propinato il sedativo a
un bambino indifeso. I bambini si presero per mano. Minette tremava tanto che non riusciva a reggersi in piedi. Che punizione li aspettava per essere scappati dalla loro stanza? Fu la zia alta e ossuta, Etta, a parlare. «Siete in ritardo per la colazione» disse con la sua voce severa e rimbombante. I bambini continuavano a fissarle. «La colazione» ripeté l'altra. «Sapete cos'è, no? Noi la facciamo alle sette e al cuoco gli vengono i nervi se lo si fa aspettare. Prima andate a lavarvi le mani. Il bagno è in cima alle scale». I bambini corsero via, completamente sbalorditi da questo modo di rapire la gente, ed Etta e Coral li seguirono. Stavano parlando di Mirta, che non aveva smesso di piangere da quando era tornata. «Deve smetterla di rimproverarsi» disse Coral. «Tutti possono sbagliare». «Sì. Però Lambert è proprio un grosso sbaglio!» La colazione era pronta in sala da pranzo, un ampio locale con logore sedie di cuoio, con vista sul prato e sulla baia. Da tutte le stanze della cascina a forma di L si scorgeva almeno uno spicchio di mare. Perfino il bagno, con l'enorme vasca dai piedi a forma di zampa di leone e lo scaldabagno vecchio, guardava sullo sperone di roccia dove le foche si issavano fuori dall'acqua per riposare. «Porridge o cereali?» chiese zia Etta, mentre i bambini entravano. Minette sbatté gli occhi. «Cereali» riuscì a balbettare. «Porridge» disse Fabio. «Per favore» disse Etta seccamente, afferrando il mestolo. «Porridge, per favore». Fabio fu il primo a riprendersi. «È un sequestro molto strano» disse a brutto muso. «E io non voglio mangiare cibi drogati». Zia Etta si chinò, pescò una cucchiaiata di porridge dal piatto del bambino e l'inghiottì. «Soddisfatto?» chiese. Fabio aspettò di vedere se sbadigliava o pareva intontita. Poi si mise a mangiare. Il porridge era squisito. Stavano divorando la loro seconda porzione quando ricominciarono gli urli. Più terribili di prima, seguiti da singhiozzi e gemiti e da un tremulo lamento. Poi la porta si aprì e una donna che non avevano ancora visto entrò di corsa nella stanza. Lunghi capelli tra il grigio e il rossastro le scendevano sulla schiena; aveva un lungo graffio che le sanguinava su una guancia e pareva fuori di sé. I bambini si ritrassero sulla sedia, riassaliti dalla paura. La donna aveva tutta l'aria di una torturatrice. «Ma insomma, Mirta» disse zia Etta, «ho detto ai bambini che non devono venire in ritardo a colazione e guarda tu invece!» Ma nessuno poteva rimanere irritato a lungo con Mirta, nemmeno la sua dispotica sorella. Il graffio sulla guancia continuava a sanguinare, aveva dei segni di denti su un polso, e per quanto si fosse presa una porzione di porridge, non riusciva a mandarlo giù. E quando venne presentata a Minette e a Fabio, le scesero di nuovo le lacrime. «I vostri sono tanto carini» singhiozzò. «Hanno un'aria così intelligente e gentile». «Può darsi» disse Etta. «Non li abbiamo ancora messi alla prova». Si accigliò mentre nuovi botti e tonfi venivano dall'altra parte del corridoio. «Non può restare nell'armadietto delle scope, Mirta. E se ci fracassa l'aspirapolvere? Non avremmo mai più la casa pulita». «Solo per ora» disse Mirta. «Gli avevo dato la mia stanza quando si era svegliato, ma temevo per gli anatroccoli».
Mirta teneva spesso degli anatroccoli orfani di madre al caldo nel suo letto o nel cassetto della biancheria. «Immagino che dovremo dissequestrarlo» disse Coral. «Ma come? Nessuno pagherà un riscatto per Lambert Sprott». «Potremmo offrire noi dei soldi al padre di Lambert se se lo porta via» suggerì Mirta soffiandosi il naso. «Non fare la sciocca, Mirta» disse Etta. «Per prima cosa di soldi non ne abbiamo, e per seconda tutti verrebbero a sapere dell'Isola e avremmo qui i fotografi, e anche i giornalisti». Rabbrividì. Tenere segreta la posizione dell'Isola era la cosa più importante in assoluto. «Potremmo farlo girare su se stesso fino a stordirlo completamente e lasciarlo in una cabina telefonica in qualche posto sulla terraferma» disse Coral. Ma non sembrava convinta neanche lei dall'idea. Mirta riprese a singhiozzare. «Dovevo lasciarlo per terra» singulto. «Non avrei mai dovuto portarlo qui. Ma mi pareva così crudele lasciarlo là solo e svenuto». «Basta. Quel che è fatto è fatto». Ma Mirta era inconsolabile. «E la custodia del violoncello puzza di quell'orribile bambino» mugolò. «Si mette una roba tremenda sui capelli». «Forse si calmerà quando riusciremo a fargli buttar giù un po' di cibo». A giudicare dagli strilli e dai tonfi che provenivano dall'altra parte del corridoio, la cosa sembrava improbabile. Ma Fabio stava diventando impaziente. «E noi? A noi ci dissequestrerete?» Le zie lo guardarono con tanto d'occhi. «Sei matto?» disse Etta. «Con tutta la fatica che abbiamo fatto. In ogni caso, per essere esatti non siete stati rapiti. Siete stati scelti». Minette e Fabio sgranarono gli occhi. «Come?» chiese Minette. «Cosa vuole dire?» indagò Fabio. Zia Coral mise giù la tazza del caffè. «È ora di spiegarvi. Ma prima è meglio che veniate a conoscere papà. Si agita quando gli nascondiamo qualcosa». Il Capitano Harper aveva centotré anni e passava gran parte delle sue giornate a letto a ispezionare l'Isola con il suo telescopio. Era molto sordo e molto irritabile e quello che vedeva dalla finestra non gli piaceva. Quando era giovane c'erano molte più oche che venivano dalla Groenlandia - centinaia, migliaia di oche -e avevano le zampe più gialle e il sedere più piumoso delle oche che arrivavano adesso. Le pecore avevano il pelo più folto quando lui era ragazzo e i fiori nell'erba erano più brillanti e le foche sugli scogli dieci volte più grandi e grosse. «Enormi, erano» diceva il capitano Harper allargando le braccia. «Foche grandi e grosse con il petto ampio e occhi come ruote di carro, e guardatele ora!» Nessuno se la sentiva di dirgli che probabilmente era perché non ci vedeva o non ci sentiva troppo bene che le cose erano cambiate, e quando raccontava la stessa storia per la centesima volta, le sue figlie sorridevano, e poi sgusciavano in punta di piedi fuori dalla stanza, perché gli volevano bene e sapevano che è difficile essere vecchi. «Ecco i bambini, papà» gridò Coral. «Quelli che sono venuti a vivere con noi». Il vegliardo posò il telescopio e li squadrò. «Sono troppo piccoli» disse. «Non serviranno a niente. Ci vogliono quelli con i muscoli. Quando avevo la loro età avevo i muscoli come palloni». Stese un braccio scarno e fletté il bicipite, e gli altri videro un rigonfiamento piccolo come un pisello spuntargli sul braccio. «Eravamo tutti forti a quei tempi. C'era un ragazzo nella mia classe che sollevava la cattedra con una mano. Freddie Boyle si chiamava. Era quello che aveva messo la biscia nei pantaloni del maestro».
Le zie lasciarono che raccontasse la storia della biscia nei calzoni del maestro perché era breve, ma quando partì con quella del fratello di Freddie Boyle, che era passato sopra alla propria dentiera col furgoncino del latte, piano piano pilotarono fuori i bambini. «Non se ne accorgerà» dissero. Quando scesero di nuovo di sotto trovarono Art, il cuoco, che si puliva il porridge dai calzoni. Aveva provato a portare da mangiare a Lambert, e si era beccato la colazione in faccia. «Che peste bubbonica che avete là dentro» disse. «Meglio se lo affoghiamo, dico io. Mica lo vorranno indietro i suoi genitori». Prima di evadere e di essere gettato sull'Isola, Art aveva lavorato nelle cucine della prigione, per questo faceva del porridge così buono. Poiché una volta aveva ucciso un uomo, Art non sopportava la vista del sangue ed erano sempre le zie a dover pulire i pesci prima che finissero in padella o a preparare i polli per la pentola. Un'altra cosa che Art non amava fare erano le attività che richiedevano energia. «Non conosco la mia propria forza» diceva quando c'era una cosa seccante o difficile da fare. «Potrei perdere il controllo e far male a qualcuno». Pareva improbabile - Art era mingherlino e arrivava appena alla spalla di zia Etta; ma comunque aveva rapidamente richiuso la porta su Lambert, che continuava a strillare che voleva il telefonino, e si era ritirato nella sua cucina. Ma zia Etta e zia Coral ora condussero i bambini nel giardino dietro la casa. Era il momento di dare delle spiegazioni. Il giardino era circondato da un muro grigio che lo riparava dal vento; ma sull'Isola nessun muro era così alto da impedire la vista del mare. Zia Mirta era scesa a suonare il violoncello alle foche. Un calabrone ronzava su un cespo di armeria. C'era una grande pace. «Vorrei raccontarvi una storia» disse Etta. «È una storia vera e incomincia con cinque bambine che arrivano su un'isola con il padre vedovo per cercare una nuova vita. «Trovarono un luogo stupendo e deserto, ma abbandonato e in rovina. Tutta la gente che era vissuta lì se n'era andata molto molto tempo prima. Pareva che se ne fosse andato perfino il fantasma del vecchio cimitero». Minette sedeva stringendosi le ginocchia con le braccia, con gli occhi chiusi. Adorava le storie. «Così le bambine e il loro papà ripararono la casa e coltivarono un orto e impararono a pescare e a tagliare la torba e a fare tutte le cose che avevano fatto gli isolani prima di andarsene. Ma naturalmente il mondo fuori stava cambiando. Nel mare si riversava petrolio, e l'acqua delle fogne, e i pescherecci cominciarono a usare paranze che catturavano anche i pesci più piccoli. L'acqua si surriscaldò per via delle centrali nucleari. Avrete imparato tutte queste cose a scuola». Minette annuì, ma Fabio fece solo una smorfia. A Tristemelma non insegnavano assolutamente nulla di utile. «Ben presto le sorelle e il loro padre si trovarono a prendersi cura degli animali che arrivavano a riva. Uccelli marini impiastricciati di catrame... foche stordite... calamari avvelenati... E altri ancora...» Etta si interruppe e guardò Coral che sollevò le sopracciglia con aria ammonitrice. Non ancora, dicevano le sopracciglia di Coral. Ricordati quello che abbiamo deciso. Etta annuì e si rivolse di nuovo ai bambini. «Le sorelle lavoravano dall'alba al tramonto. Una di loro era una scema; si mise a depilarsi le gambe e a sposare ispettori delle tasse, e quindi non serviva a niente... E un'altra partì per paesi stranieri per far smettere alla gente di mangiare gli animali rari. E le altre
invecchiarono e diventarono zie... «E poi un giorno si resero conto che potevano morire tra non molto - che potevano estinguersi - e allora cosa sarebbe successo a tutte quelle creature? Così decisero di trovare delle persone che potessero continuare il loro lavoro. Persone sensate. Giovani. Persone che sapessero lavorare». Ci fu un lungo silenzio. Poi: «Noi?» chiese timidamente Fabio. Entrambe le zie annuirono. «Sì» disse zia Etta. «Voi».
Capitolo quattro Così Fabio e Minette furono messi al lavoro. Era il lavoro più pesante che avessero mai fatto e durava dalla mattina alla sera. La giornata iniziava con cinquanta flessioni sulle braccia sul prato dietro la casa. L'istruttrice era Etta, e si alzava e si abbassava sui gomiti con la gonna rimboccata nei calzoncini blu. Ne aveva trenta paia, un paio per ogni giorno del mese. I bambini ne avevano visti sette appesi alla corda del bucato e lei aveva spiegato che era più semplice avere tutti gli indumenti dello stesso colore e della stessa forma, così uno risparmiava la fatica di pensare a cose senza importanza, tipo «di chi saranno quei calzoncini?» Poi incominciavano le faccende. Le zie allevavano un po' di animali; c'erano sei capre e una mucca, e due dozzine di galline di cui bisognava raccogliere le uova, e la paglia pulita da spargere. C'erano i secchi di pastone da portare agli edredoni la cui madre si era impigliata in una rete da pesca, e due cuccioli di foca che bisognava nutrire con il biberon. I bambini pensavano che fosse divertente allattare le foche, ma non era vero niente. I cuccioli davano testate e squittivano se il latte non scendeva abbastanza in fretta; era come venir spintonati da due carriarmati rotondi. Una pulcinella di mare con una zampa fissata a una stecca viveva dietro la casa, e in una bagnarola di zinco con il coperchio di legno c'era un polipo con gli occhi infiammati. E mentre lavoravano, i bambini venivano osservati - valutati, si potrebbe dire - perché chi provava disgusto per un essere vivente, per quanto strampalato, era di troppo sull'Isola. Minette venne condotta di gran carriera sulla spiaggia da zia Etta, che le indicò un ammasso di melma rosa e violacea. «Sono meduse arenate» disse zia Etta. «Riportale in mare. Meglio che indossi questi». Porse a Minette dei guanti di gomma e la tenne d'occhio mentre trasportava le tremolanti vesciche fino all'acqua. Fabio fu portato a una grande vasca davanti alla stalla, e gli fu detto di tirar fuori un'anguilla che aveva una malattia della pelle. «Tienila stretta dietro alla testa mentre io la strofino» gli ordinò Coral. «Ha la scabbia». Quando furono a letto la sera, i bambini provarono a pensare al modo di scappare. Ora Fabio dormiva in un buco di stanzetta vicino a quella di Minette e con la porta aperta potevano parlare. «Non possiamo rimanere qui a fare gli schiavi» disse Fabio.
«No. Però le zie sono schiave anche loro. Lavorano più di noi». Era vero, ma Fabio disse che questo non cambiava le cose. «Dobbiamo rubare una barca». Però i loro letti erano caldi, avevano una lampadina da notte e il mare sospirava dolcemente sotto le finestre spalancate, così prima che Minette riuscisse a vedere la benché minima tigre sul soffitto, erano già sprofondati nel sonno. E mentre dormivano, le zie discutevano di loro. «Be', finora tutto bene» disse Etta. «Non si sono lagnati, non hanno recalcitrato. Per ora. E non hanno detto 'Puah!' Non sopporto la gente che dice 'Puah!» «E pare che rispettino le regole» disse Coral. Le regole erano state annunciate il primo giorno. «Non dovete avvicinarvi al capannone di decatramazione nella baia» aveva detto Etta. «E nemmeno alla cima della collina». «E nemmeno al lago tra le colline». I bambini avevano mugugnato per questo. «Come nel castello di Barbablù» aveva detto Minette. «Sapete... se uno apre la settima porta, zac, gli tagliano la testa». Ma avevano obbedito, anche Fabio che era stato così difficile da domare a casa dei nonni. Nulla, però, poteva impedire a Fabio di fare delle domande. «Cos'è quello strombazzare che si sente ogni tanto? Sembra una sirena della nebbia». «Se sembra una sirena della nebbia sarà una sirena della nebbia» disse Etta, e il discorso finì lì. E Lambert? Lambert continuava a strillare e a scalciare e a guaire per avere il suo telefonino, e Art (che non conosceva la propria forza) piantava lì il vassoio e correva via ogni volta che gli portava da mangiare. Lo avevano chiuso in una stanza sopra la rimessa per le barche; in passato era lo studio del Capitano e aveva porta e finestre robuste. Durante i pasti discutevano cosa farne. Coral pensava che si poteva metterlo in un canotto con i viveri per alcuni giorni, e Fabio pensava che si dovesse buttarlo nell'olio bollente. Ma non arrivavano mai molto lontano perché ogni volta che si parlava di Lambert zia Mirta scoppiava a piangere per il rimorso di aver rapito un bambino così orrendo e di averlo portato sull'Isola. Poi, il quarto giorno, quando scesero per la colazione, Fabio e Minette videro che tutte le zie li guardavano con compiacimento. Era la stessa espressione dei loro insegnanti dopo una buona interrogazione. «Il vostro lavoro è stato soddisfacente» disse Etta. «E la vostra condotta pure» disse Coral, facendo schizzar fuori la collana dalla zuccheriera. «Così abbiamo deciso che oggi potrete lavorare nel capannone di decatramazione». I bambini pensarono che era uno strano modo di premiarli per esser stati bravi; togliere il catrame dagli uccelli di mare è più o meno il lavoro più antipatico che ci sia. Ma non dissero nulla, e seguirono zia Etta sul sentiero che serpeggiava sulla scogliera per poi scendere alla spiaggetta al di là del promontorio. Il capannone era un edificio di legno addossato alla roccia. Con l'alta marea l'acqua ne lambiva quasi le pareti, ma riuscirono a raggiungerlo saltellando sugli scogli bassi ricoperti di alghe, scavalcando pozze piene di anemoni e gamberetti e granchiolini che scomparivano nella sabbia. I bambini avrebbero voluto fermarsi a esplorare, ma zia Etta li spinse avanti e bussò rumorosamente alla porta.
«Siete presentabili?» chiese. I bambini si guardarono. Come poteva non essere presentabile un uccello? Si sentì come uno strusciare, poi un tonfo nell'acqua, e la porta venne aperta dall'interno. I bambini si erano aspettati pareti di legno grezzo; forse degli scaffali; un pavimento di assi. Ma il capannone assomigliava invece all'interno di un bagno turco. Le pareti erano piastrellate; l'acqua scendeva da un rubinetto in una grande vasca azzurra ornata di conchiglie e in due mastelli posti sotto le alte finestre. Su un tavolino basso c'erano delle spazzole da capelli e degli specchi col manico, e altri specchi erano appesi al muro. Ma fu ciò che videro nelle vasche e sul pavimento bagnato a lasciarli senza parole. Si può leggere fin che si vuole di queste creature, ma vederle è un'altra cosa. Nel capannone c'erano quattro sirene. Portavano dei top fatti a maglia da Mirta, ma avevano la coda libera - nessuna avrebbe mai infilato la coda in uno dei manufatti di Mirta e quando Etta vide che i bambini, per quanto pallidi, non sarebbero entrati in crisi, fece le presentazioni. «Questa è Ursula» disse, conducendoli da una vetusta signora seduta nella vasca più vicina alla porta. Aveva i capelli pieni di frammenti di conchiglie e legnetti; la sacca ovaria di un pescecane le pendeva su un orecchio e le rimaneva un solo lunghissimo dente, che le copriva il labbro inferiore. Ma le sirene che dividevano uno dei mastelli sotto le finestre erano giovani. Erano gemelle ma non si assomigliavano affatto. Reginetta era molto carina con ciocche attorcigliate di capelli d'oro e uno sguardo sbarazzino nei luminosi occhi azzurri; ma Oona aveva i capelli neri con riflessi verdi, e i suoi occhi grigi erano tristi. E, stravaccata a terra, masticando una gomma che tentò di nascondere, c'era la madre, Loreen. Era grassoccia e trasandata, e aveva l'aria di una che ha rinunciato alla vita. La maglia che aveva frettolosamente indossato era sformata, e i fiori nei capelli erano quanto mai defunti. Etta si accigliò per la gomma, che Loreen aveva scroccato ad Art. «Un vizio disgustoso» disse, accennando al pacchetto. «È per i nervi» disse Loreen. «Devo avere qualcosa per i nervi, nello stato in cui sono». Era certamente in un brutto stato. Oltre a un livido su una guancia e a un occhio nero, Loreen era anche terribilmente incatramata. Lo erano tutte, ma Loreen era imbrattata di catrame da capo a coda. «Prendete il ricostituente?» chiese Etta. «Lo stiamo prendendo tutte. Ma non fa effetto. Oona ha ancora male alle orecchie e a Reginetta le prude tutto. Non possiamo ancora tornare a casa» disse Loreen con fermezza. «Ancora per un bel pezzo». Etta ignorò questa affermazione. Il fatto che assolutamente nessuno volesse andarsene anche quando era guarito cominciava a infastidirla. «Non sono molto grandi» lamentò la vecchia, osservando Fabio e Minette. Tutti sapevano dei bambini e come fossero stati scelti e non rapiti. «Però siamo forti» disse Fabio, che si era stufato della storia. Ma c'era un'altra persona da conoscere. In una bacinella sul pavimento galleggiava una creatura pallida e liscia che risultò essere un bebè. Ma non un bebè qualunque. Probabilmente il bebè più grasso del mondo. I polsi si perdevano sotto strati e strati di grasso; il collo era nascosto da una cascata di menti; gli occhietti azzurri annegavano nelle guance gonfie come uvette in un budino, ed era calvo. «Il mio ultimo» disse Loreen. Pareva più stanca che fiera. «Si chiama Walter». I bambini non sapevano cosa dire. Walter assomigliava più a un gigantesco baco che a un
sirenetto, ma non era incatramato! All'arrivo della macchia di greggio sua madre l'aveva tenuto alto sulle braccia. Zia Etta, increspando le labbra, voltò le spalle alla bacinella perché Walter era esattamente il tipo di maschio ultraviziato e coccolato che lei non sopportava. «Bene» disse ai bambini. «È ora di mettersi a lavorare. Il detersivo è in quella bottiglia va diluito in tre parti d'acqua. E quando avete finito sciacquatele col tubo - tutte quante. A Oona tre di queste gocce in ogni orecchio e ricordate, quando avete a che fare coi pesci, strofinate nella direzione delle scaglie o sono guai». La porta si richiuse dietro a lei, e Reginetta, la gemella graziosa e sfacciata, fece una smorfia. «Cosa avete?» disse impertinente. «Il gatto vi ha mangiato la lingua?» «Su, Reginetta» disse con voce stanca sua madre. «Forse non avevano mai visto una sirena». «In effetti no» disse Minette. Prese la spazzola più dura mentre Fabio versava il detersivo. Poi si avvicinarono alla vasca di Reginetta, l'afferrarono per la coda e si misero a strigliare. Le sirene non avevano avuto una vita facile nemmeno prima di essere raggiunte dalla macchia di petrolio. Il marito di Loreen era un violento - i tritoni hanno spesso un cattivo carattere - e il livido sulla guancia era un suo regalo. Poi accadde un brutto incidente a Oona. Fu presa in una rete e issata su un peschereccio, ma la persona che la districò non era un comune pescatore di buon senso; era un nobile smidollato di nome Lord Terence Brasenott per il quale aver catturato una sirena era un'impresa molto divertente. «Ma guarda un po' che spasso» continuava a ripetere. «Che creaturina graziosa. Ti porto con me» diceva, e le dava delle pacche con le sue orribili mani e tentava di baciarla. Oona passò tre giorni nella sua cabina, piangendo da far pietà, e quando riuscì a liberarsi e a tuffarsi nel mare la sua voce se n'era completamente andata. Questo succede a volte quando una persona ha un grosso choc; è brutto per tutti, ma per le sirene, famose per il loro canto, è particolarmente brutto. Ancora adesso, Oona riusciva a emettere solo un sussurro o un gracidio. Non avevano ancora superato questa disavventura che spuntò fuori una sirena francese che si mise a fare gli occhi dolci al marito di Loreen. Le sirene francesi hanno due code e quello stupidone perse la testa e cacciò moglie e figli dalla loro grotta e vi si stabilì con il suo nuovo amore. Cacciò via anche la propria nonna, la vecchia Ursula, e questo fu un calvario per Loreen che dovette portarsela dietro. Sopportare il peso della propria nonna può essere difficile, ma quando si tratta della nonna del marito può sembrare una grossa ingiustizia. Quello che accadde dopo fu colpa di Reginetta. Era carina e anche cocciuta e per quanto tutti l'avessero avvertita di com'erano le navi al giorno d'oggi, insistette a sedersi su uno scoglio e a cantare per il capitano di un mercantile che proveniva dal Medio Oriente. «Nel Medio Oriente c'è l'Arabia» disse, «perciò porteranno oro e gioielli come nelle Mille e una Notte; vedrete». Reginetta aveva una bella voce e si aggiornava sulle canzoni e non perse tempo con le vecchie nenie, e guarda caso il capitano era un fanatico del rock e anche un po' ubriaco e sentendola si eccitò molto e sfasciò la nave sugli scogli. Ma quello che si riversò fuori non furono zecchini d'oro e pietre preziose che avrebbero potuto arricchire le sirene. Quello che uscì... era petrolio. Fiumi di petrolio denso, nero e untuoso appena estratto dai pozzi dell'Arabia Saudita. Investì in pieno tutta la famiglia,
quasi accecandole, appesantendone le membra. Riuscirono a fatica a mettersi in salvo sull'Isola e a trascinarsi sulla spiaggia, e lì le avevano trovate le zie. I bambini vennero a sapere queste cose mentre le strigliavano. Era un lavoro molto stancante. La coda delle ragazze era scivolosa e pesante e Reginetta soffriva il solletico, così quando cominciarono a strofinarla si mise a ridere e a divincolarsi. Al ritorno di zia Etta i bambini erano tutti fradici, sporchi ed esausti ma lei non ci fece caso. Dovettero risciacquare il pavimento, poi avvolgere le code delle sirene in una pellicola di plastica per poterle caricare su una carriola e portarle alla baia prima che si asciugassero. Solo la vecchia Ursula rimase dov'era e ammise che i bambini, benché piccoli, sapevano lavorare. Quando ebbero finito nel capannone delle sirene, i bambini vennero condotti a casa a prendere un succo di frutta e un biscotto, e poi spediti ad aiutare zia Coral che puliva il pollaio. La famiglia di Fabio aveva allevato galline in Sudamerica così lui sapeva come fare, ed ebbe con Coral un'interessante conversazione sul tango, che lei amava ballare al chiaro di luna. «Non è che per caso conosci i passi?» gli chiese. Fabio fece una faccia incerta. «Guardavo mia madre mentre ballava al night club». «Bene» disse zia Coral. «Ho sempre desiderato un partner». Fabio non era altrettanto sicuro di voler ballare il tango con una zia prosperosa che l'aveva ficcato in un baule di alluminio e l'aveva rapito. Ma era troppo gentile per rifiutare, e poi la sera prima aveva notato che c'era appena una falce di luna sicché poteva sperare che al momento buono se ne sarebbe dimenticata. Poi nel pomeriggio successe di nuovo qualcosa di strano perché zia Mirta li condusse allo sperone di roccia a conoscere le foche. Erano sparpagliate al bordo dell'acqua, le femmine sonnecchiavano in attesa che nascessero i piccoli, i maschi lottavano tra loro e si urtavano per mettere alla prova la loro forza. Ma una foca se ne stava tutta sola su uno scoglio. Voltava le spalle ai giochi violenti degli altri maschi e fissava romanticamente il mare. Era la foca che il primo giorno si era avvicinata alla spiaggia; l'avrebbero riconosciuta tra mille. «Herbert, vorrei farti conoscere Fabio e Minette» disse Mirta, proprio come se stesse presentando qualcuno in un salotto. Herbert spalancò gli occhi e li guardò. Aveva uno sguardo straordinario per una foca; i bambini fecero un passo indietro; avevano la sensazione di essere soppesati ed esaminati da un essere di grande intelligenza. «Non può essere una foca come le altre» disse Fabio. Zia Mirta lo guardò con gratitudine. «No, caro, hai assolutamente ragione. Herbert è una foca, ma è una foca tutta speciale. È un selky». «Cos'è un selky?» chiese Fabio. Mirta sospirò. «Non è facile da spiegare» disse, «perché ci si può basare solo su miti e leggende. I fatti non sono molti». «Raccontaci» supplicò Minette. Zia Mirta si sedette su un mucchio di sassi con i bambini accanto. «Sui selky si raccontano tante cose» iniziò. «Che sono le anime dei marinai annegati... che sono creature magiche e che se qualcuno le ferisce con un coltello si trasformano di nuovo in esseri umani». «Con un coltello!» Minette era orripilata. «Come si può fare una cosa simile?» Zia Mirta si strinse nelle spalle. «Io certamente non potrei». Ma arrossì, pensando a tutte le volte che si era chiesta cosa sarebbe successo se fosse riuscita a trovarne il coraggio.
Herbert sarebbe veramente diventato un uomo e se sì, che tipo d'uomo? Uno spaccone come un torero, sempre occupato a roteare la cappa? O uno di quei noiosi che pensano solo ai soldi? Herbert era arrivato all'Isola molti anni prima. Sua madre l'aveva portato perché aveva una tosse che non voleva andar via, e si diceva che l'Isola fosse un posto sicuro anche per le foche con qualche malanno. Le zie lo avevano guarito dalla tosse e poi Mirta gli aveva suonato il violoncello e lui era rimasto. Naturalmente avevano capito che non era una foca comune. Non è che Herbert sapesse proprio parlare, ma capiva il linguaggio umano e certe volte che chiacchierava con la madre nella lingua selky, che è a metà strada tra quella umana e quella delle foche, Mirta riusciva a comprendere non esattamente le parole, ma il senso di quello che dicevano. «Aveva una nonna molto famosa» disse Mirta abbassando la voce. «Almeno, crediamo che fosse sua nonna. Si chiamava la Selky di Rossay, e in tutte le isole girano storie sul suo conto». «Raccontaci» supplicò ancora Minette. Non era mai sazia di storie. Così zia Mirta si allontanò i capelli dagli occhi e incominciò. «La Selky di Rossay visse circa un secolo fa. Una notte emerse dal mare e si spogliò della sua pelle di foca e danzò senza niente addosso alla luce della luna e arrivò un pescatore che si innamorò perdutamente di lei». Mirta si fermò e sospirò assorta. «Sapete com'è» disse, «quando si danza con la luna piena». I bambini annuirono educatamente benché in realtà non lo sapessero. «Così lui nascose la pelle di foca di lei e le portò degli indumenti e la sposò e rimasero insieme e ebbero sette figli e erano perfettamente felici. Però quando i bambini si sedevano, anche in giornate asciutte e con i vestiti completamente asciutti, lasciavano una chiazza umida. Non che... capite... niente a che vedere coi pannolini. Niente di sgradevole - una chiazza umida assolutamente fragrante - ma rivelava che avevano sangue di foca». Herbert ascoltava intensamente. Si avvicinò, si schiarì la gola. «Poi un giorno, mentre rovistava in un baule, trovò la sua vecchia pelle e se la infilò e il mare la chiamò - la chiamò con tanta forza che non poté farci niente - e si rituffò nel mare e dopo un certo tempo sposò un tritone ed ebbero sette figli. Ma visse il resto della sua vita in una confusione terribile, chiamando i figli marini con i nomi dei figli terrestri e i figli terrestri con i nomi dei figli marini e senza mai sapere con precisione a che mondo appartenesse. Almeno, così si racconta». Mirta si fermò e Herbert fece un enorme sospiro e rotolò su un fianco. Se non sapeva più parlare la lingua umana, aveva capito ogni parola e la storia che Mirta aveva raccontato era la sua. La Selky di Rossay era veramente sua nonna. Alla fine era impazzita per l'incertezza di non sapere se fosse meglio essere una donna o una foca, e la madre di Herbert, la più giovane dei suoi figli marini, le era rimasta accanto finché visse, badando che non morisse di inedia anche quando le erano caduti tutti i denti e aveva gli occhi velati. La madre di Herbert era ancora viva; si avvicinava a riva ogni tanto e dava delle musatine al figlio e lo incitava a decidere cosa voleva essere perché sapeva che non importava se uno era uomo o foca purché facesse la sua scelta. Ma Herbert aveva preso da sua nonna. Non sapeva decidersi. Quando Mirta gli suonava il violoncello gli pareva che essere uomo fosse quanto di meglio potesse sperare. Ma quando guardava Art e vedeva quello che avrebbe dovuto fare se fosse stato un uomo - portare pantaloni con le bretelle o cerniere lampo, e scarpe coi lacci e tante altre cose del genere - si
rituffava nell'acqua e si voltava e rivoltava nelle onde pensando: «Il mio mondo è questo; appartengo al mare». Quando i bambini fecero ritorno alla casa, trovarono Art con un grosso cerotto sulla fronte. Aveva tentato di portare a Lambert qualcosa per il pranzo, ma lui gli aveva strappato il piatto di mano e gliel'aveva gettato in faccia. Poi si era buttato a terra martellando il pavimento con i tacchi e urlando che voleva suo padre e il suo telefonino. «L'avrei picchiato» disse Art, «ma non ho osato. Non so valutare la mia forza. Forse l'avrei ridotto in polpette». Fabio non disse nulla ma cominciava a farsi domande sulla grande forza di Art. Intanto Lambert era ancora nella stanza sopra la rimessa per le barche. «Ma non può rimanere là» disse Coral. «Il ragazzo è un demonio. Dobbiamo liberarci di lui». Ma per quanto ne discutessero per il resto della giornata, nessuna delle zie riuscì a trovare il modo di farlo, se non ammazzandolo - cosa che avrebbero fatto molto volentieri, ma che non era il tipo di soluzione ammesso sull'Isola.
Capitolo cinque Il giorno dopo scendendo per la colazione i bambini videro subito che le zie erano preoccupate. I baffi di Etta risaltavano scuri sulla faccia pallida e il naso era così affilato da poterci tagliare il formaggio. «Non vorrei operarla» la sentirono dire, «ma è grave. È completamente uovo-stitica». «Chi è uovo-stitica?» chiese Fabio. Zia Etta lo ignorò. «Ho tentato i massaggi, ho tentato la vaselina, ho tentato i suffumigi» disse alle sorelle. «E l'olio di ricino?» suggerì Coral. «Val la pena provare, immagino». «Possiamo aiutare?» chiese Minette. «No». Etta alzò gli occhi un attimo. «Be', forse potete portare i secchi. Andiamo sulla collina. E gentilmente piegate per bene i tovaglioli quando avete finito. Ieri li avete lasciati orribilmente stropicciati»». Era una bella processione quella che si snodava su per il sentiero. Etta portava un'enorme bottiglia di olio di ricino, Fabio uno sgabello e un fornello a petrolio, Minette aveva due secchi e un rotolo di stracci. Il sentiero era ripido e la mattinata calda ma zia Etta saliva a gran passi. E volle anche far loro una predica mentre camminavano. «Ora desidero sia assolutamente chiaro che non si fanno preferenze su quest'isola. Le creature insolite con cui lavorerete non sono più importanti di quelle comuni. Una pulce d'acqua malata ha bisogno d'aiuto tale quale una sirena. Una passera nera è esattamente altrettanto importante di un selky. Spero che capiate questo, perché se non lo capite il lavoro che fate sarà tutto inutile». I bambini dissero che sì, avevano capito, ma quando furono in cima alla collina furono contenti di essere stati avvertiti.
Le colline in realtà erano due, separate da un avvallamento in cui si annidava un lago color pece. Sulla riva più lontana del lago c'era una grande catasta di fascine, sassi e rami di felce. Pareva una di quelle barriere che costruivano i coloni americani per proteggersi dagli indiani. Ma quello che emergeva dalla cima della barriera non era un colono americano. Era la testa di un uccello assolutamente gigantesco.
La testa era nera ma il becco era di un giallo acceso e ricordò ai bambini una di quelle grandi macchine - scavatrici o schiacciasassi o spalatrici - che si vedono incombere sui cantieri edili. Anche gli occhi erano gialli, enormi, rotondi e folli, e mentre i bambini lo osservavano vennero investiti da quel suono profondo di clacson che avevano sentito il primo giorno. «Che cos'è?» balbettò Fabio. «È una bubri» disse zia Etta, marciando intorno al bordo del lago. «E vi posso dire che non ne sono rimasti molti al mondo. Sono una specie di cugini dei dodo - si pensava fossero estinti ma invece no. Si sono riprodotti su un'altra isola e i marinai non li hanno trovati e così sono aumentati sempre più. Ma poi la gente si è messa a fare esperimenti atomici e altre assurdità e gli ultimi rimasti sono volati via». Li fece girare intorno alla catasta, e videro una corta scala appoggiata al nido. Zia Etta si arrampicò e fece cenno ai bambini di seguirla ma loro esitavano, pensando agli enormi occhi gialli, al becco minaccioso. «Sbrigatevi!» disse Etta e, poiché tergiversavano ancora, si girò, inspirò profondamente, e sbottò. «Devo dirvi che rapirvi è stata per ognuna di noi l'esperienza più sgradevole che abbiamo mai fatta: quella pensione piena di donne blateranti, e la metropolitana di Londra con tutti quei fumi. Se pensate che abbiamo sopportato tutte queste seccature solo per lasciarvi mangiare da un qualche animale, bene, dovete farvi visitare il cervello. E comunque i bubri sono vegetariani, almeno questa specie, purtroppo». Così i bambini salirono dietro a lei sulla scala e saltarono nel nido che aveva il fondo imbottito di muschio e di piume, appiattito dalle zampe dell'uccello.
La bubri non era poi così enorme. Era più piccola di un elefante africano - della misura di uno indiano, piuttosto. Ci voleva un grande coraggio per alzare gli occhi e guardarla, ma quando lo fecero i bambini non ebbero più paura. Poteva farvi male, certo, per esempio pestandovi i piedi, ma era evidente che quell'animale aveva dei grossi problemi per conto suo. Il nido era pronto per le uova ma di uova non c'era traccia. Il petto della bubri era pietosamente spennacchiato sicché capirono che si era strappate le sue piume per fare un rivestimento caldo, ma un rivestimento per chi? Dov'erano le uova e dove i piccoli che ne sarebbero nati? «Devo dirvi che sono molto preoccupata per lei» disse zia Etta. «Essere uovo-stitica è molto grave». «Vuoi dire che le uova sono bloccate dentro di lei? Che non riesce a farle uscire?» chiese Minette. «Esatto. Ed è troppo a disagio per andare a cercarsi qualcosa da mangiare». «Non ha un compagno che le porti il cibo?» chiese Fabio. Zia Etta sbuffò. «Lo aveva ma l'ha perso». «Vuoi dire che è morto?» «Potrebbe anche essere, per quanto ne so. O può essersi perso o averla dimenticata completamente. Sapete come sono gli uomini». Fabio si sentì offeso. «Io sono un uomo, o lo sarò, e non lascerò mai che mia moglie muoia di fame in un nido. Mai». «Perché hai detto che è vegetariana, purtroppo'?» volle sapere Minette. «Perché è più difficile darle da mangiare. Bastava gettarle un quarto di manzo congelato, ma per pescare tutta quella scivolosa lattuga di mare, e quei budelli e quelle tagliatelle marine ci vogliono ore» disse Etta. Scalpitava intorno alla bubri, punzecchiandola con uno stecco, spingendola. «Su alzati, stupido uccello. Sto cercando di aiutarti». Dapprima la bubri non voleva muoversi; stava acquattata e tremante e dalla gola le uscì un unico strido che parve essere il suo modo di dire «Ahi!» Ma Etta era spietata. Picchiò e rimbrottò e pungolò l'uccello finché questo si alzò a fatica e rimase lì barcollante, strombazzando. Allora Etta montò sullo sgabello e spiò nel foro posteriore della bubri: ecco, non c'era dubbio, si scorgeva un luccichio bianco picchiettato di azzurro. «Vengono settantadue omelette con un uovo di bubri» disse Etta dopo che i bambini ebbero dato un'occhiata. Ma naturalmente non le interessavano le settantadue omelette - le omelette comunque non le piacevano - voleva dei pulcini vivi. «Adesso ci sporcheremo un po'» avvisò. Ma i bambini rimasero ad aiutare, immergendo gli stracci nell'olio di ricino caldo e porgendoli a lei, che tamponava e strofinava il foro. «Dobbiamo solo aspettare e si vedrà» disse quando ebbe finito. «Ma se questo non dovesse funzionare...» «Potrebbe... morire?» chiese Minette con voce rotta. «Tutti possiamo morire» disse Etta seccamente. «Compresi voi e io». Ma prima di ricondurre giù i bambini li portò in cima alla seconda collina, che era il punto più alto dell'Isola. La vista era incredibile. A ovest, miglia e miglia di mare ininterrotto con il sole che tracciava un sentiero dorato tra le nuvole, e a est, molto lontane ma con il profilo netto e chiaro, due isole; una collinosa, l'altra bassa e lunga. E su una spianata erbosa che sovrastava la selvaggia riva settentrionale c'erano degli
antichi sepolcri, con le lapidi storte e spezzate coperte di licheni e corrose dalla pioggia. «Dicono che qui ci sia un fantasma» disse Etta. «Ma si fa vedere ogni cent'anni circa». «Che tipo di fantasma?» «Un fantasma buono. Una specie di eremita. Si chiamava Ethelgonda e viveva sull'Isola e si prendeva cura delle creature». «Come te» disse Minette. «Niente affatto come me» disse zia Etta con impeto. «Non credevo che le persone buone diventassero fantasmi» disse Fabio. «Be', uno spirito allora». I bambini passarono il resto della giornata a raccogliere le alghe speciali che mangiava la bubri e a trasportarle con la carriola fino al nido. Ogni volta guardavano ansiosamente se era apparso un uovo, ma non accadeva nulla. Si stavano preparando per andare a letto quando Mirta salì da loro tutta eccitata, coi lunghi capelli svolazzanti. «Scendete un minuto» disse. «È venuta la mamma di Herbert e vuole conoscervi». Li fece correre alle rocce e lì, proprio vero, accovacciata accanto a Herbert c'era una foca più piccola, una femmina con chiazze biancastre sulla gola come suo figlio. La madre di Herbert era vecchia - si capiva la stanchezza da come teneva la testa - ma si trascinò fino a loro e grugnì molto cordialmente, mentre suo figlio contemplava la scena con orgoglio. «Questo è un grande onore, sapete» disse Mirta, saltellando sugli scogli come una ragazzina. «Ormai non esce spesso dall'acqua; si stanca a stare sulla terraferma. Herbert le avrà detto di voi». Poiché è difficile stringere la mano a una foca, i bambini chinarono educatamente la testa, e la madre di Herbert si avvicinò di più e disse qualcosa, parlando a bassa voce e in lingua selky. I bambini pensarono che stesse chiedendo loro di aiutare Herbert a decidere se voleva essere una persona o una foca e, quando furono di ritorno nelle loro stanze, Fabio ebbe un'idea. «Potremmo fargli un taglio con un coltello. Non grande. Solo un graffio: poi diventerebbe umano e sarebbe fatta». «Oh, non potremmo mai!» «Perché no? Mirta avrebbe un amico. Potrebbe studiare il piano e suonerebbero in due». Ma ripensandoci Fabio capì che Minette aveva ragione. Non avrebbe potuto fare nemmeno il più piccolo graffio su quella pelle lucida e liscia. Fu il pomeriggio seguente che i bambini restarono di sale. Avevano portato alla bubri un'ennesima carriolata di alghe e le stavano spalando nel nido, quando l'uccello fece la più rumorosa strombazzata che avessero sentito fino ad allora. Per un attimo pensarono che potesse essere l'uovo, perché il tono del clacson era di benvenuto. Ma non era l'uovo. La bubri stava guardando il lago. I bambini si girarono per seguire il suo sguardo - e rimasero impietriti. In mezzo al lago era comparsa una testa. Ma che testa! Bianca, levigata, enorme... come l'estremità anteriore di un verme gigantesco. Dopo la testa uscì un collo... anch'esso levigato... anch'esso bianco... un collo diviso in anelli di muscoli e che non finiva mai. Si alzava e ondeggiava sopra la superficie dell'acqua, ed emergeva ancora altro collo, e ancora e ancora. Solo che il collo diventava più grosso, non poteva essere tutto collo - la parte più gonfia doveva essere il corpo del verme: un verme delle dimensioni di una dozzina di boa constrictor. La bubri strombazzò un'altra volta e i bambini si strinsero l'uno all'altro, incapaci di muoversi.
La creatura emergeva ancora dall'acqua, ancora si allungava, sempre pallida, luccicante e molto strana. Poi puntò la testa verso di loro e aprì gli occhi che erano solo due fori profondi, neri quanto il corpo era bianco. «Vuuu» fece. «Vuuu», e a ogni «vuu» l'aria si riempiva di un tale fetore di marciume e putredine e... vecchiaia... che i bambini arretrarono inorriditi. E poi prese a strisciare fuori dal lago... strisciava, strisciava, strisciava ma ancora non era uscita tutta dall'acqua - e improvvisamente fu troppo per i bambini. Piantando lì le carriole, schizzarono giù per la collina verso la casa e piombarono nel soggiorno dove le zie stavano prendendo il tè. «Non pretendevo che bussaste» disse zia Etta, deponendo la sua tazza. «Si bussa alla porta delle camere da letto ma non dei soggiorni, se uno abita nella casa. Ma pretendo che entriate tranquillamente come esseri umani, non come teppisti». Ma i bambini erano troppo spaventati per essere rimbrottati. «Abbiamo visto una roba... un verme...» «Lungo come un treno... Be', come un autobus». «Tutto nudo bianco liscio e viscido...» «Faceva 'Vuu' e veniva verso di noi e il suo fiato...» Minette rabbrividì al solo pensiero. «È uscito dal lago e adesso ci insegue e si attorciglierà su di noi e ci stritolerà e...» «Improbabile» disse zia Etta. Passò ai bambini un piatto di rosette e disse loro di sedersi. «A quanto sembra avete difficoltà ad ascoltare» disse. «Ciascuna di noi vi ha già sicuramente detto quanto ci sia pesata l'intera faccenda del vostro rapimento». «Davvero» disse Coral. «Quella mostruosa governante che pareva un cammello». «E quindi non è verosimile aver affrontato tutti quei disagi per darvi in pasto a uno storverme» disse Etta. Al sicuro nel soggiorno, masticando una rosetta con marmellata di fragole, Fabio si sentiva molto più coraggioso. «Cos'è uno storverme?» «Un drago senz'ali. Un drago islandese; molto raro. Una volta ne era pieno il mondo, ma sapete com'è finita. Draghi con le ali e le fauci fiammeggianti nel cielo. Draghi senz'ali e col fiato velenoso nel mare. Quelli senz'ali vennero chiamati vermi. Ne avrete sentito parlare: il Verme di Lambton, il Verme di Laidly, lo Storverme». Ma i bambini non ne sapevano niente. «Se ha il fiato velenoso... Ci ha soffiato addosso con forza» disse Minette. «Ha fatto 'Vuuuu' e ci ha soffiato addosso. Ci ammaleremo, moriremo?» Zia Coral scosse la testa. «È velenoso solo per gli afidi e i parassiti del genere. Lo utilizziamo per irrorare gli alberi da frutto. E probabilmente non ha detto 'Vuu', ma 'Voi?' volendo dire 'e voi chi siete?' Lui parla così; molto lentamente perché viene dall'Islanda e hanno più tempo lassù». Ma Minette era ancora allarmata. «Guardate» disse, indicando fuori della finestra. «Oh, guardate, striscia giù per la collina... Si avvicina... Viene qui!» Zia Mirta le andò accanto. «Verrà a trovare papà» disse. «Sono buoni amici» spiegò Coral ai bambini stupefatti. «Hanno le stesse idee sul mondo. Sapete che nei tempi passati le cose andavano meglio». In piedi sulla porta aperta del soggiorno, stettero coraggiosamente a guardare lo storverme che strisciava nell'ingresso, strisciava su per la prima rampa di scale, sul pianerottolo, su per la seconda rampa... Sentirono il Capitano che gridava dalla sua stanza: «Vieni avanti, caro amico, entra» e la testa dello storverme si infilò nella porta della stanza del Capitano mentre la coda era ancora nell'ingresso e tentava di salire sul tavolo. A Fabio era passata la paura ma gli venne un sospetto. «Non è che dobbiamo fargli
qualcosa, allo storverme?» chiese. Se bisognava strigliare le sirene e dare quattro volte al giorno il biberon alle foche e spingere carriolate di cibo per la bubri su per una ripida collina, c'era da pensare che anche lo storverme portasse altro lavoro. E aveva perfettamente ragione. «Si tratta di vedere che non si ingarbugli» disse zia Etta. «Nell'acqua non ha problemi, ma avrete visto alcuni alberi con i rami bassi tagliati. Sono gli alberi dello storverme e quando è sulla terra dobbiamo aiutarlo ad attorcigliarsi bene intorno al tronco, se no fa i nodi. Come se fosse una fune, o il filo di un walkman». Fabio non disse nulla. Aveva già capito che quando zia Etta diceva «noi» intendeva lui e Minette. Etta spiegò ancora che il verme era una creatura che amava meditare su dilemmi importanti come «Dove se n'è andato lo ieri?» o «Perché Dio non ha fatto le sardine senza le lische?» «Il guaio è che i pensieri non gli arrivano facilmente dalla testa fino alla punta della coda, e questo lo sconvolge» disse Etta. «Vuole farsi operare per accorciarsi, ma dovete fargli capire che noi non lo permetteremo. La chirurgia plastica» disse zia Etta, picchiettandosi energicamente il naso, «è una cosa che non consentiremo mai sull'Isola». «Se il suo fiato vi dà fastidio potete sempre dargli una mentina» disse Coral. «Anche se non ho mai capito perché tutti debbano odorare di dentifricio. E adesso fareste meglio a correre sulla collina a recuperare le carriole».
Capitolo sei «Dobbiamo metterci a pensare seriamente a come scappar via» disse Fabio morto di sonno. «Sì, è necessario» confermò Minette sbadigliando. Lo ripetevano ogni sera - era quasi come dire le preghiere - ma non erano mai andati molto più in là. Non solo avrebbero dovuto rubare la Peggoty dalla rimessa delle barche, ma dovevano anche sapere in che direzione farla navigare. E naturalmente scappar via comporta due fasi. C'è lo scappar via da un posto e c'è lo scappar via verso un posto. «Per te è facile» disse Fabio. «Hai due veri genitori. Io in questo paese non ho che un'orribile scuola e due orribili nonni». «Sì». Ma Minette era combattuta. Se scappava da suo padre, sua madre si sarebbe arrabbiata, e se scappava da sua madre si sarebbe arrabbiato suo padre. «Mi piacerebbe solo aspettare finché la bubri avrà deposto il suo uovo». E alla fine, i bambini si addormentavano sempre prima di riuscire a fare piani precisi. Ma col passare dei giorni c'era una cosa che dava veramente fastidio a Fabio, ed era Lambert. A Fabio non dispiaceva lavorare molto. Però sia lui che Minette avevano le bolle sulle mani per tanto spingere la carriola avanti e indietro dal lago; Minette si era storta un polso tentando di passare il pettine nei capelli intricati della vecchia sirena; e tutti e due erano pieni di lividi per le codate e le musate delle piccole foche durante l'allattamento con il biberon. Mentre Lambert non faceva niente - assolutamente niente - tranne scalciare e strillare e buttare all'aria il cibo. «Perché nessuno gliele suona?» diceva Fabio seccato.
Ma nessuno lo faceva. Zia Mirta non era una picchiatrice e le altre zie dicevano che per educare le bestie l'uso della forza non funziona mai. In quanto ad Art, in passato poteva aver ucciso un uomo, ma tutto si fermava lì. Così ogni giorno Lambert riceveva il vassoio con la sua razione di cibo e ogni giorno scalciava e strillava che voleva suo padre e il suo telefonino, mentre Fabio e Minette si sobbarcavano anche la sua parte di lavoro. Fu alla fine della prima settimana che Fabio scoppiò, e fu a causa dello storverme. I bambini si erano affezionati a lui. Succhiava le mentine che gli davano senza protestare e le domande che faceva erano interessanti, come «Perché non pensiamo con lo stomaco?» oppure «Perché nello specchio ci vediamo rovesciati e non capovolti?» Ma attorcigliarlo intorno a un albero era un lavoro terribile. Non erano solo i pensieri che gli si bloccavano a metà del corpo, ma anche tutti i messaggi che dicevano alla sua metà inferiore quello che stava succedendo, e un giorno che i bambini avevano perso un'ora intera a districarlo da un cespuglio di rovi, Fabio improvvisamente esplose. Art stava giusto dirigendosi verso la rimessa delle barche con il pranzo di Lambert sul vassoio. «Glielo porto io, Art» disse Fabio. Art gli passò il vassoio e Fabio aprì la porta. Lambert lo guardò. Poi fece quello che faceva sempre quando qualcuno entrava nella sua stanza; agguantò la cosa più vicina e gliela scaraventò addosso. Quella volta si trattava di un pezzo di legno pronto per il camino. Fabio lo schivò agilmente. Poi gettò il vassoio addosso a Lambert. Sul vassoio c'era un piatto di zuppa di lenticchie, una fetta di pane e burro, pomodori fritti su una fetta di toast e frullato di banana. Tutti presero in pieno Lambert tranne il pane e burro che finì più lontano. «Yau! Uiii! Yuk!» Lambert saltellava sputacchiando per la stanza, accecato dai pomodori che erano di quelli grandi e sugosi con tanti semini. Fabio gli diede un attimo per pulirsi. Poi disse: «Benissimo. Non riceverai nient'altro da mangiare finché non vieni a lavorare. Minette e io siamo stufi di fare i lavori che spetterebbero a te». «No! Non voglio venire a lavorare!» Lambert voleva pestare un piede per terra ma invece pestò il piatto della zuppa che si spezzò in due e schizzò attraverso la stanza. «Non voglio restare su questa orribile isola e non voglio restare con quelle brutte donne e non voglio fare niente. Voglio mio padre e voglio il mio telefonino e voglio andare a casa». Fabio aspettava. «Non mi interessa cosa vuoi» disse. «Anche Minette e io vogliamo tante cose, ma questo non vuol dire che le avremo. Da ora in poi farai la tua parte e se no ti picchio». Lambert era riuscito a togliersi il pomodoro dagli occhi. «Meglio di no» disse. «Sono più grosso di te». Era vero, ma per Fabio non era un problema. «Sei più grosso ma sei più floscio». Vero che Lambert era vigliacco, ma Fabio era molto piccolo ed esile. Lambert portò i pugni davanti al viso e venne avanti saltellando. Non aveva mai tirato di boxe ma alla tele aveva visto i pugili che facevano così. Fabio invece aveva tirato di boxe. Non che gli piacesse, ma a Tristemelma rientrava nel programma per trasformare i ragazzi in veri gentiluomini inglesi. Scattò col destro e colpì il mento di Lambert. «Auuh! Iih!... Mi hai rotto la mascella. Lo dirò a mio padre. Mio padre è ricco e... uuii...» Lambert era accucciato a terra e si teneva il mento gemendo. «Alzati» disse Fabio. «No».
«Sì. Alzati o te ne pentirai». Lambert si alzò lentamente in piedi. Il bozzo sul mento si fondeva armoniosamente col colore del pomodoro spalmato sul colletto. Poi improvvisamente si gettò su Fabio, graffiandogli le guance con le unghie. Gli fece male, ma per Fabio fu un sollievo. Sapeva giocare sporco. L'aveva fatto nelle strade di Rio dai tre anni in su e se era questo che Lambert voleva, lui era d'accordo. Senza badare al sangue che gli colava sulle guance, agguantò una manata di capelli di Lambert e gli piegò indietro la testa, sbattendola contro il muro. Poi gli diede un potente calcio negli stinchi. «Uauh!» guaì Lambert. «Smettila!» «La smetto appena mi dici che vieni a fare la tua parte di lavoro». «Non voglio. Voglio mio padre. Voglio il mio tele...» Fabio gli strattonò la testa in avanti, poi gliela sbatté di nuovo contro il muro e via altri calci. «Vuoi venire a lavorare o no?» «No». Fabio gli mollò un altro calcio, e improvvisamente Lambert si ripiegò su se stesso e si afflosciò a terra. «Va bene» biascicò. «Lavorerò, ma smettila». Fabio smise subito. «Allora vieni» disse. «Puoi aiutarmi a pulire il pollaio». Le zie videro arrivare i ragazzi. Fabio portava il vassoio con i resti del pranzo di Lambert, compreso il piatto rotto. «Potete trattenerlo sulla mia paghetta» disse, consegnando loro i cocci. «Che paghetta?» chiese zia Etta. «Anche i bambini rapiti hanno diritto alla paghetta» disse Fabio con fermezza. Così Lambert cominciò a lavorare. Lavorava male e lavorava lento. Si lamentava perché il televisore era guasto, e appena poteva sgusciava via a cercare il suo telefonino che, lui ne era sicuro, Mirta aveva nascosto chissà dove. Ma quando interrompeva per troppo tempo, bastava che Fabio lo guardasse e lui riprendeva in mano gli attrezzi. Erano tutti d'accordo che un ragazzo così lagnoso e petulante lo si dovesse tenere alla larga dalle creature speciali - i selky e la bubri e lo storverme - sicché lo facevano lavorare nella casa o con gli animali da cortile. Ma un paio di giorni dopo che Fabio gliele aveva suonate, Lambert scivolò fino alla spiaggia con una bottiglia di limonata che aveva rubato nella dispensa. Dentro alla bottiglia c'era un messaggio che aveva scritto a suo padre dicendogli di venire a salvarlo, e voleva gettare la bottiglia in mare. Ma non arrivò a farlo. Invece lasciò cadere la bottiglia che si fracassò sui sassi, lasciando un pericoloso tappeto di vetri rotti, e corse verso la casa farneticando e strillando a squarciagola. «Ho visto una bestia! Ho visto una bestia orribile!» Tremava tutto dal terrore. Sembrava stesse per venirgli un attacco isterico. «Che tipo di bestia?» chiese Fabio. Lui e Minette sedevano al tavolo della cucina a sbucciare i piselli per la cena. «Una ragazza... tutta strana e deforme. Non aveva le gambe, neanche una!» Singhiozzò ancora e inghiottì saliva e un rivolo di moccio gli gocciolò dal naso. Minette gli porse il suo fazzoletto. «Cosa vuoi dire, Lambert?» chiese. «La parte di sotto era mostruosa. Aveva una coda tutta coperta di scaglie. Attaccata al corpo». Lambert ruttò e girò via la faccia. «L'ho vista. L'ho vista. Non voglio restare qui,
non voglio!» Minette e Fabio si scambiarono sguardi preoccupati. «La parte di sopra com'era?» «Non so... aveva come dei capelli verdi, e quando ho gridato lei ha fatto schioccare la coda... l'ho sentita schioccare...» Rabbrividì. «E poi si è tuffata nell'acqua». «Sembrerebbe Oona» disse Minette sottovoce. «Sì, certo, dev'essere lei. Si è già spaventata abbastanza con quel ridicolo Lord Brasenott. Vado a calmarla. Se fosse stata Reginetta, lo avrebbe cacciato via». Scivolò fuori e Fabio rimase solo col farneticante Lambert. Gli venne un'idea. «Lambert» disse. «Ascolta qui, è importante. Quando eravamo appena arrivati, Minette e io abbiamo visto strane creature di ogni tipo - sirene come quella che hai visto tu e un lungo verme strisciante e un uccello gigante - oh, creature di ogni tipo, ma poi abbiamo capito che non erano vere. Non potevano essere vere perché creature così non esistono. Voglio dire, mica esistono le sirene, no?» Lambert aveva smesso di piangere. Stava ascoltando. «No» disse. «Non esistono». «Ce le immaginiamo, è questo che succede, Lambert. Come avere una visione o un sogno. Perché è Art che mette qualcosa nel cibo. Usa una farina fatta di alghe che ha dentro una droga che ti fa vedere delle cose. Non è per farci del male ma è il solo tipo di farina che si può trovare qui». «Non ci sono veramente?» chiese Lambert risucchiando il moccio nel naso. «Non c'era quell'orribile ragazza e la spaventosa coda che faceva schioccare... neanche quella c'era?» «No, non c'era. E se vedrai altre cose del genere saranno solo un sogno. Hai sentito parlare di droghe che danno le visioni, no? Si chiamano allu...» Ma qui Fabio si fermò, non sapendo bene se allucinogeni fosse la parola giusta. «Ed è meglio non dire niente a nessuno, nemmeno se ti sembra di vedere altre cose. Fai come se niente fosse, e se torni da tuo padre non dirgli niente, penserebbe che sei matto». Funzionò. Lambert fece ancora qualche singulto. Era ancora pieno di chiazze, aveva ancora uno sgradevole singhiozzo, ma si era calmato. E da allora in poi, se Lambert vedeva qualcosa di strano, era sicuro che dipendeva dal cibo. Alle zie non piaceva che Fabio mentisse, ma era sempre meglio che lasciare che Lambert urlasse in giro per l'Isola, urtando la sensibilità delle creature che incontrava. E così i giorni passavano. Minette e Fabio parlavano ancora di scappare, ma si addormentavano sempre prima di stabilire come, e lentamente la bellezza dell'Isola - i vasti cieli, i tramonti fiammeggianti e l'incessante rumore del mare - diventava parte di loro. Ma nel frattempo a Londra si scatenava l'inferno.
Capitolo sette Otto giorni dopo che Minette si era mangiata il suo panino al formaggio, pomodoro e sonnifero, la signora Danby, la madre di Minette, telefonò a Edimburgo per chiedere se
Minette poteva fermarsi da suo padre una settimana in più. Le vacanze erano finite ma questo non era un fatto importante per la signora Danby. «Una proposta di lavoro. Una parte in un film a Parigi» aveva detto. Non era strettamente vero. Quello che aveva era un nuovo fidanzato che voleva portarla a Parigi «a fare un po' di baldoria». Il professor Danby, che era stato interrotto mentre preparava un'importante conferenza su L'uso del punto-e-virgola, dapprima non capì cosa stesse dicendo. «Come faccio a tenere Minette di più, se non ce l'ho» disse con la solita voce arida e seccata. Ci fu un silenzio all'altro capo del filo mentre la signora Danby cercava di controllare un lieve rimescolio allo stomaco. «Non scherzare, Philip. Ti ho mandato Minette più di una settimana fa. È da te dal quindici». «Niente affatto. Mi hai lasciato un messaggio telefonico in cui dicevi che la tenevi tu e la portavi al mare. Lo ricordo benissimo». Al professore in realtà aveva fatto comodo perché la conferenza che stava scrivendo faceva parte di una serie importante - L'uso del punto-e-virgola, L'uso della virgola, L'uso del punto-a-capo e così via - e aveva bisogno di portare avanti il suo lavoro senza essere scocciato da una bambina. Ora, però, sentì anche lui come se il suo stomaco non fosse esattamente al suo posto. Ma naturalmente essendo fatti com'erano, i coniugi Danby presero subito ad aggredirsi a vicenda. «Devi essere pazzo, a non farmi sapere che non era arrivata». «Io devo essere pazzo?» sibilò il professore. «Tu devi essere pazza. Qualsiasi madre normale avrebbe telefonato per sapere se sua figlia era arrivata sana e salva». «E qualsiasi padre normale avrebbe telefonato per capire perché non veniva mandata». «Mi accusi di non essere normale?» disse il professore con voce pericolosamente calma. «Una donna che ha spento la sigaretta su un uovo in camicia». «Non era un uovo in camicia, era un uovo all'occhio di bue. E se tu non avessi sempre spento le luci perché eri troppo tirchio per pagare la bolletta avrei visto che non era un portacenere. E poi, un uomo che lascia la vasca piena di lerciume ogni volta che...» «Lerciume!» strillò il professore nel microfono. «Tu accusi me di lasciare lerciume? Se io non potevo nemmeno entrare nella vasca senza pestare strati dei tuoi abominevoli frammenti di unghie». Andarono avanti così per un po' ma poi si ricordarono che la loro unica figlia era scomparsa e si calmarono. «Può essere scappata?» si chiese la signora Danby. «Perché avrebbe dovuto scappare? Ha due case perfettamente a posto». «Sì. Ma pareva un po' giù. E vede tigri sul soffitto. Forse avrei dovuto lasciarle tenere una lampadina da notte». «Se tutti i bambini che vedono tigri sul soffitto dovessero scappare, ne resterebbero pochi nelle case» disse il professore. Ma ovviamente la prima cosa da fare era andare alla polizia. Così il professor Danby si recò al commissariato di Edimburgo e la signora Danby al commissariato di Londra. Poi lei telefonò al suo ex-marito e gli disse che la polizia voleva vederli insieme per mettere esattamente a confronto le loro storie. «Devi venire giù» disse la signora Danby. «E alla svelta. Dicono che non c'è tempo da perdere».
Così il professore prese il treno per Londra e il giorno dopo i genitori di Minette sedevano fianco a fianco in un taxi diretti in questura. Il funzionario che li ricevette era di rango elevato, un commissario capo con il segretario seduto accanto che prendeva nota di tutto. «Dunque, a quanto ho capito non avete saputo più nulla di vostra figlia da quando è scomparsa dieci giorni fa?» chiese. «Nessun messaggio? Nessuna richiesta di riscatto?» I Danby scossero la testa. «Io ho pochi soldi» disse il professore. «Lavoro all'Università e pagano vergognosamente poco. È uno scandalo quanto poco...» «E io vivo del sussidio di disoccupazione» disse la signora Danby, insolitamente sincera. «Anche se ci chiedessero soldi, non servirebbe a niente». L'agente prendeva nota. «Ora, signora Danby, per favore ci dica dove e quando ha visto sua figlia per l'ultima volta». «Erano le due del quindici aprile. Alla stazione di King's Cross, primo binario. L'ho affidata a una zia...» «Aspetti un attimo!» Le sopracciglia del commissario si avvicinarono bruscamente. «Intende dire sua zia... o la zia della bambina...?» «No. Una zia. Una zia di un'agenzia. Minette viaggiava sempre con una zia». L'investigatore parve trovare interessante la cosa. «Mi porti il dossier sul caso Mountjoy» disse al segretario. «Ce l'ha il sergente Harris». Si rivolse nuovamente ai Danby. «Ora ditemi quale agenzia vi ha procurato questa zia. È un punto della massima importanza». La signora Danby aggrottò la fronte. «Be', in genere venivano da un'agenzia che si chiama Zie Utili. Le chiamavo da anni, sono molto affidabili. Ma mi pare…» Si strofinò la fronte. «Non sono sicura… Credo che questa si chiamasse Zie Improbabili. Sì, credo di sì. E sotto c'era scritto 'Mi chiamo Edna'. O forse era Etta». «Se non ti spappolassi il cervello con le sigarette ti saresti forse ricordata» disse il professore sottovoce. Ma in quel momento il segretario tornò con una cartella azzurra. «Sì» disse il commissario aprendola. «Sì. I due casi sono straordinariamente simili». Alzò gli occhi sui Danby. «Un altro bambino è scomparso lo stesso giorno di vostra figlia e anche lui era stato affidato a una zia. Credo che finalmente stiamo trovando qualcosa!» I vecchi Mountjoy erano sempre contenti quando Hubert-Henry rientrava in collegio. Detestavano avere bambini tra i piedi e non avevano mai perdonato del tutto al figlio di aver sposato una ballerina di nightclub, una straniera, e di aver messo al mondo un nipote così inadatto. Poi, una settimana esatta dopo che Hubert-Henry era partito per Tristemelma, arrivò una lettera del rettore che informava il signor Mountjoy che, malgrado Hubert-Henry fosse assente per l'attacco di biri-biri, l'intera rata del trimestre doveva essere comunque pagata. Il cerchio si chiuse, naturalmente. Il signor Mountjoy chiamò il rettore e gli chiese cos'era quell'assurdità del biri-biri e dov'era il ragazzo, che era stato portato a scuola il primo giorno del trimestre? E il rettore disse che no, che non era così, la zia dell'agenzia aveva detto alla governante che Hubert-Henry era malato. Così, dopo aver tuonato al telefono e aver minacciato di denunciare il rettore, i due vecchi Mountjoy si recarono alla polizia. Non erano attaccati a Hubert-Henry, ma lui era pur sempre loro nipote e proprietà loro, e se qualcuno se l'era preso volevano saperne il perché. Perciò la polizia era ormai a conoscenza di due casi in cui un bambino era svanito dopo essere stato affidato a una zia, e fu a quel punto che cominciò a Londra la Grande Caccia
alle Zie. La polizia sapeva di due zie soltanto, perché il padre di Lambert era ancora in America, per cui la scomparsa del ragazzo non era stata ancora denunciata. Ma due zie erano sufficienti per creare subbuglio, e i giornali e la polizia e l'opinione pubblica persero leggermente la testa. «La piaga delle zie minaccia la City» strillavano i titoli, e «Scatenata la furia omicida delle zie criminali!» Una volta messa in allarme la gente, queste donne assassine vennero avvistate dovunque. Una zia venne catturata davanti a un supermercato nell'atto di infilzare un tenero bebè con un gigantesco ferro da calza mentre la madre faceva la spesa all'interno. «Stavo solo tentando di ammazzare una vespa» disse con voce tremula, «mai avrei punto il bambino». Ma venne portata di peso in questura, e solo quando metà dell'insetto venne trovato spiaccicato nella sua borsa da lavoro fu rimessa in libertà. Una zia ancora più diabolica fu vista tirar calci a un ragazzino che giaceva nell'erba. «L'ho visto chiaro come il sole» disse un grassone che portava a spasso il cane e che aveva chiamato la polizia. «Tirava calci come una matta!» «Guardate come piange, povero piccolo» dissero gli altri proprietari di cani che si erano affollati intorno. E il ragazzino, avvinghiato al suo pallone, stava veramente piangendo: chi non piangerebbe, vedendo caricare la propria zia su un furgone della polizia dopo che aveva finito di mostrargli come si fa a piazzare un calcio di rigore nell'angolo superiore destro della rete? Era stata attaccante negli Under Diciotto di Wolverhampton ed era un idolo per lui. In Parlamento si discusse di un coprifuoco per le zie, che le costringesse a coricarsi alle otto di sera; il Corriere dell'Alba scrisse che si doveva mettere il braccialetto elettronico alle zie come ai criminali, e un'anziana signora venne arrestata nel reparto calzature di un grande magazzino per maltrattamenti alla sua pronipotina che si stava provando delle scarpe per una festa. «Sgridava la bambina e le urlava e aveva gli occhi folli» disse la donna che l'aveva denunciata, e la zia sarebbe probabilmente finita in prigione se le commesse non avessero incrociato le braccia marciando sulla questura armate di cartelli che chiedevano di rimetterla in libertà. «Io non avrei solo sgridato la bambina, le avrei torto il collo» disse una commessa dall'aria materna ai cronisti accorsi. «Quella peste aveva intorno trentanove paia di scarpe e le scagliava dappertutto» disse un'altra ragazza del reparto. «Se chiedete a me, quella zia ha avuto la pazienza di una santa a non scoppiare prima». Così la polizia la lasciò andare e poi i giornali dissero che c'era troppa tolleranza e che bisognava fustigare le zie come ai bei tempi. Intanto le facce di Etta e di Coral venivano affisse nei locali della polizia e nelle biblioteche pubbliche e alle fermate degli autobus in tutta la città. I ritratti li aveva disegnati un pittore in base alle descrizioni fatte dalle persone che le avevano viste per ultime, ed erano molto bizzarri. Zia Etta aveva il naso come un piccone, una bolla di capelli che pareva un sacchetto di gelatina in cima alla testa e dei baffi che avrebbe potuto attorcigliare tanto erano lunghi. Zia Coral aveva gli occhi storti e allucinati, sette orecchini a ogni orecchio ed era assolutamente senza collo. «Avete visto queste donne?» c'era scritto sotto i ritratti. Ma naturalmente non le aveva viste nessuno, perché non esistono donne così. E i giorni passavano, e la polizia non aveva ancora una traccia su cui lavorare. L'Agenzia delle Zie
aveva chiuso e pareva che i bambini rubati e le loro rapitrici fossero svaniti dalla faccia della terra.
Capitolo otto Zia Etta si svegliò e immediatamente avvertì una strana sensazione. Era successo qualcosa. E questo qualcosa era importante: forse l'avvenimento più importante che le fosse mai capitato. Scese dal letto e andò alla finestra. Il lungo treccino grigio le pendeva sulla schiena; le gambe pelose e i piedi ossuti le spuntavano dalla camicia da notte di flanella, ma i suoi occhi grigi erano emozionati come quelli di una fanciulla. Eppure non si vedeva niente di eccezionale. Uno stormo di gabbiani roteava sul mare a caccia di pesci; il sole si affacciava tra le due isole a est. «Eppure, qualcosa c'è» pensò zia Etta, e l'eccitazione crebbe in lei. «Ma cosa?» Poi si accorse che l'eccitazione le veniva dai piedi. Viaggiava nelle ossa delle dita, e saliva per le caviglie e in tutto il corpo. Per un istante sentì una gran debolezza. Poteva essere…? Ma no… sarebbe stato un miracolo; non aveva fatto nulla per meritarsi una cosa enorme come quella. Un respiro affannato la fece voltare. Era Coral. Anche lei in camicia da notte, drappeggiata intorno al corpo come a un padiglione, anche lei scalza e ansimante dall'eccitazione. «Oh Etta» boccheggiò, «mi sento così strana». I lunghi capelli, che lei si tingeva di un bizzarro colore dorato, le pendevano sulla schiena; pareva una dea stralunata. «Mi sento come se… ma non può essere, vero? Dopo cent'anni?» «No… non può essere». Ma si afferrarono le mani, perché non era cessata, quella straordinaria, incredibile sensazione. «Dobbiamo svegliare Mirta. Lei ha orecchio». Ma non occorreva svegliare Mirta. Mirta non portava la camicia da notte; usava il pigiama perché usciva spesso prima dell'alba a chiacchierare con le foche e riteneva che il pigiama fosse più decoroso. Era di flanella grigia per risaltare meno nell'ora che precede il mattino, e in un primo momento le sorelle non la videro stesa a terra con la faccia premuta sul tappeto liso. «Mirta, ti senti…» iniziarono le sorelle. Ma prima di rispondere, Mirta sollevò la testa. Non avevano mai visto la sorella con quella faccia. «Potrebbe essere?» chiese Coral. «Dobbiamo salire sulla collina» disse Mirta, con la voce di una che sta sognando. «Dobbiamo guardare a nord». «Ma vestite» disse Etta, tornando in sé. «Non in biancheria da notte. Nemmeno se…» Ma le sue sorelle non le badarono, e Etta stessa ebbe solo il tempo di infilarsi la vestaglia che dalla camera vicina giunsero dei colpi violenti. Era il bastone del Capitano che batteva
contro il muro e voleva dire «Venite subito qui». Le sorelle si guardarono ansiosamente. Forse aveva sentito anche lui, e si era spaventato. Le emozioni troppo forti fanno male ai vecchi. Ma appena videro il Capitano si preoccuparono davvero. Era accasciato sui cuscini, con gli occhi chiusi, e tremava tanto da far ballare tutto il letto. Ma quando gli si avvicinarono, rimasero stupefatte. Il Capitano Harper aveva centotré anni, ma in quel momento pareva un ragazzo. «L'ho udito» mormorò. «L'ho udito e l'ho sentito. Anche se fosse tutto qui, non ci fosse nient'altro, ora posso morire contento». «Noi andiamo sulla collina, papà» disse Etta. «Te lo diremo appena…» La porta si spalancò e Fabio e Minette si precipitarono nella stanza. Erano capitombolati dal letto, sbigottiti e ancora mezzo addormentati, e avevano seguito il suono delle voci. «È successo qualcosa» disse Minette. Aveva la camicia da notte più strampalata che perfino sua madre potesse comperare, cosparsa di elefanti danzanti e di zebre sedute a fare picnic, ma con i neri capelli scompigliati sulle spalle e gli occhi spalancati, pareva stesse ascoltando una musica ultraterrena. «Siamo stati svegliati…» «È una sensazione… però non è solo una sensazione». Fabio scosse la testa, sforzandosi di capire. «È un suono, solo che ci riempie tutti. Non ce lo stiamo inventando». Le tre zie e il vecchio Capitano guardarono i bambini e annuirono. Era un cenno soddisfatto di approvazione, e voleva dire che i bambini andavano bene; erano quelli adatti, senza un'ombra di un Bubù o di una Picci. Lambert, ne erano sicuri, non avrebbe udito né sentito nulla. «Meglio che veniate con noi. Ma mettetevi almeno le scarpe». All'aperto la sensazione era più forte. Minette e Fabio, che si scervellavano per trovare le parole per descriverla, erano smarriti. Tenevano dietro alle zie sul sentiero erboso che portava alla collina. Minette aveva sulle spalle lo scialle di Mirta - nessuno aveva perso tempo a vestirsi decentemente. La «sensazione», qualsiasi cosa fosse, diventava più forte. Arrivava attraverso le suole delle scarpe, ma ora anche da sopra, da tutte le parti. Se avessero avuto il minimo dubbio che significava qualcosa, gli animali glielo avrebbero fatto subito cadere. Nella luce dell'alba, gli uccelli ruotavano intorno allo sperone di roccia con agitazione frenetica. Le foche, che solitamente a quell'ora sonnecchiavano sulla punta, erano tutte nell'acqua e nuotavano verso la spiaggia settentrionale, con Herbert in testa. Come tutti i selky dormiva con un occhio aperto: era stato il primo a capire che stava per accadere qualcosa di terribilmente importante, e aveva immediatamente accantonato le sue preoccupazioni di sempre. Che importanza aveva ora se era una foca o un essere umano? Avanzava nell'acqua come un siluro, e subito dietro a Herbert veniva sua madre. Il cielo stava cambiando. Riluceva di strani colori che non appartenevano né all'alba né al tramonto; colori che i bambini non avevano mai visto e che poi non riuscirono a descrivere. Nel suo grande nido, la bubri strombazzava con tutte le sue forze… strombazzava e si agitava… e sbatteva le ali, cercando di prendere il volo insieme agli altri, ma non ci riusciva, con quelle uova così pesanti bloccate dentro… e contrasse tutti i suoi muscoli, premendo premendo mentre tentava di levarsi in volo… Lo storverme uscì dal lago e serpeggiò sulla terra, seguendo le zie e i bambini. Non era più quella creatura confusa che aveva perso il controllo della sua metà posteriore. Avanzava come un grande serpente, composto, agile e veloce. In basso accanto alla casa le capre cozzavano con le corna contro il recinto, e si aprirono
un varco e galopparono via sulla spiaggia come impazzite. La porta del capannone delle sirene si aprì, e Loreen e le sue figlie strisciarono sulle rocce e si tuffarono in mare. «A nord» gridò Loreen, reggendo Walter nel cavo del braccio, e si diressero tutte verso il litorale selvaggio sotto la collina. «Aspettatemi, aspettatemi» gridava la vecchia Ursula, ma loro se n'erano andate e lei rimase a sbattere furiosamente la coda contro la parete della tinozza. La Sibilla era uscita dalla sua caverna. Ora la lurida vecchia profetessa non parlava del tempo. Si torceva, gemeva, e aveva la faccia blu e i capelli ritti sulla testa. «Sta per accadere» diceva. «Sta per accadere». Ma le zie non rimasero ad aspettare che dicesse che cosa. Arrancavano veloci su per la collina con accanto i bambini, e la sensazione continuava a diventare sempre più forte, pervadendo ogni cellula del loro corpo. Raggiunsero la cima della collina, e ogni dubbio scomparve. Ora arrivava da tutti i lati, come il respiro dell'universo. Sotto di loro il mare ribolliva contro la scogliera; le sirene, scordati i propri affanni, galleggiavano ritte nell'acqua e scrutavano l'orizzonte; le foche si erano disposte a semicerchio, e quelle che non erano semplici foche, quelle che un tempo erano state esseri umani, stavano a testa china. E, a conferma definitiva, da dietro il sepolcro più grande con le sue strane incisioni, sorse uno spirito bianco e misterioso con il viso che emanava raggi di luce, e allargò le braccia. «È Ethelgonda» disse zia Etta con un filo di voce, «Ethelgonda la Buona!» E tutti caddero in ginocchio, perché quel fantasma non si faceva vedere da più di cent'anni. La santa eremita sorrideva. Era di una felicità perfetta; li avvolse nella sua benedizione. «Sì» disse con voce profonda e armoniosa. «Non vi siete sbagliati. Quello che avete sentito è in verità il Grande Murmure». Minette e Fabio, che erano rimasti ammaliati dall'apparizione, sentirono accanto un singhiozzare commosso e girarono la testa. Tutte e tre le zie stavano piangendo. Lacrime scorrevano sulle guance magre di zia Etta, lacrime si aprivano un sentiero nella crema nutritiva per la notte di zia Coral, lacrime cadevano sulle mani di zia Mirta mentre se le portava al viso. «È il Murmure» ripeté zia Etta, con voce rotta. «È il Murmure» confermò zia Coral. E anche Mirta disse: «È il Murmure». «Che cos'è…» cominciò Fabio, ma Minette lo fermò con un'occhiata. Capiva che non era il momento di far domande. «E allora vuol dire...?» balbettò zia Etta, e i bambini la guardarono sbalorditi. Non sapevano che quella fiera donna potesse diventare così timida, umile e incerta. L'eremita annuì. «Sì, mie care» disse con la sua voce melodiosa. «Vuol dire che questo luogo è stato scelto tra tutti. Siete state benedette». Le zie si alzarono lentamente in piedi. Non riuscivano ancora a credere pienamente a quello che avevano sentito, eppure adesso il Murmure era dappertutto, riempiva il cielo, saliva dalla terra. «Dunque viene davvero? Dopo cento anni?» La santa donna annuì. Le zie non chiesero quando sarebbe venuto. Sapevano che non si deve indagare nei misteri, ma accettarli con gratitudine, e avevano ragione. «Non posso dire di più» disse la santa. «Dovete tenervi pronti». Poi svanì e rimasero soli con il loro miracolo.
«Avete sentito cos'ha detto Ethelgonda. Dobbiamo tenerci pronti. Tenersi pronti vuol dire pulire. Tenersi pronti vuol dire far ordine. Vuol dire cucinare, scrostare, riparare. È sempre stato e sarà sempre così» disse zia Etta. Era quasi la vecchia scattante e autoritaria di prima mentre spediva i bambini a spazzare il recinto delle capre e a sciacquare il pavimento della casa delle sirene e a raccogliere le immondizie arenate sulla spiaggia.
Quasi, ma non del tutto. Nessuna delle zie era più la stessa. Etta stendeva ancora ogni mattina i suoi calzoncini blu, ma a volte si lisciava la crocchia di capelli come una fanciulla invitata a una festa. I vestiti di Coral erano sempre più sgargianti; stava dipingendo un grande paesaggio sottomarino sul muro dietro alla casa con tutti i colori dell'arcobaleno, e la musica che Mirta suonava al violoncello aveva maggiore potenza e vitalità. «Se solo Dorothy fosse qui» diceva Etta, che sentiva molto la mancanza della sorella. Sbattere un wok in testa al suo stesso proprietario era nulla in confronto all'emozione di quello che stava per accadere. Il Capitano insistette per cambiare pigiama ogni giorno per non rischiare di esser colto alla sprovvista, e la vecchia Sibilla ballava nella sua grotta con frenetica esaltazione. Pensava ancora che fosse insensato lavarsi la faccia e le mani, ma decidette eroicamente di lavarsi i piedi. Questo le occupò molto tempo (tra le dita le era cresciuta la muffa e la muffa può essere interessante - i colori tra il verde e l'azzurro, le forme bizzarre) ma quando uno ha sentito il Grande Murmure non è più lo stesso. Gli animali, a modo loro, erano altrettanto eccitati, e ora le zie capirono perché era stato così difficile riuscire a farli partire. Dovevano aver intuito che stava per accadere un evento eccezionale, anche se non sapevano esattamente quale. Perfino gli animali che non parlavano mai; perfino le aringhe e le platesse e le passere nere... perfino le arenicole sepolte nella sabbia parevano eccitate. «Come può essere eccitata un'arenicola?» volle sapere Minette, ma quando zia Etta gliene
scavò fuori una, vide che era possibile. In quanto ad Art, lui cuoceva bomboloni, centinaia e centinaia di bomboloni che straripavano dalle teglie e dovevano essere conservati nella dispensa, sigillati negli appositi sacchetti. Ma i bomboloni che cuoceva non erano bomboloni comuni, e nemmeno le omelette che mangiavano a pranzo, merenda e cena erano comuni omelette. Perché una cosa veramente meravigliosa era accaduta lassù sulla collina dopo che Ethelgonda era svanita. Si erano girati per tornare a casa quando un suono dal nido della bubri li inchiodò sul posto. Non era il lamentoso ululato di clacson a cui erano abituati: era un allegro e orgoglioso chiocciare, un suono pieno di gioia e di amore materno. Contrarre i muscoli con tutta la sua forza per seguire gli altri non aveva fatto alzare in volo la bubri, ma un effetto lo aveva avuto. Eccolo lì: un enorme uovo picchiettato di azzurro, inequivocabilmente a forma di uovo! Ma la cosa più commovente accadde il giorno dopo quando salirono di nuovo a congratularsi con l'uccello. Perché l'uovo che aveva deposto quando il Grande Murmure le aveva pervaso il corpo e lei aveva contratto i muscoli con tanta forza, era stato seguito da altri tre. Quattro gigantesche uova chiazzate erano rotolate vicine e stavano al caldo sotto il suo corpo, ma quando la bubri vide le zie e i bambini si fece da parte, esaminò attentamente ogni uovo, e poi ne spinse uno verso di loro con la grande zampa gialla. «Stai attenta, cara» disse Mirta. «Non deve raffreddarsi». Con difficoltà, perché l'uovo pesava più di una palla di cannone, lo fecero rotolare indietro, e la bubri lo spinse di nuovo da parte con la sua enorme zampa. La stessa scena si ripeté tre volte, poi capirono. «È un regalo» disse Minette, allibita. «Vuole darlo a noi». Minette aveva ragione. La bubri voleva condividere. Non si poté far altro che chiamare Art e caricare l'uovo su una carriola, e poiché settantadue omelette sono un numero spaventoso di omelette, ebbe inizio la grande produzione di bomboloni. I bambini facevano fatica a pazientare durante quei giorni di attesa. Sapevano che, quando sarebbe giunta l'ora, avrebbero scoperto cosa significava il Grande Murmure e chi stava arrivando. Ma un giorno che Fabio venne mandato per la terza volta fino alla sponda settentrionale a controllare che il mare non vi avesse depositato nemmeno mezza scatola vuota di sigarette o nemmeno un rocchetto di filo, si impuntò. «Penso che dobbiate dircelo» disse. «A me e a Minette, voglio dire. Sappiamo tenere un segreto». «Ve lo diremo quando i tempi saranno maturi» sentenziò zia Etta, e dovettero accontentarsi di questo. Ma intanto che ne era di Lambert? Le zie avevano ragione. Quando era iniziato il Murmure Lambert aveva continuato a dormire e non aveva sentito nulla. Quando si era finalmente svegliato, si era reso conto che la casa era vuota. Le porte erano aperte; non c'era traccia di Art in cucina. Tutti, anche se Lambert non lo sapeva, erano in cima alla collina. «Voglio fare colazione» disse Lambert di malumore, ma non c'era nessuno ad ascoltarlo. Dopo che si fu vestito, udì effettivamente una specie di ronzio, ma per le sue orecchie quel suono magico poteva provenire da un generatore di corrente o da qualche macchinario in cantina. Invece le porte aperte delle stanze da letto attrassero il suo interesse. Da quando aveva cominciato a lavorare, Lambert poteva tornare a casa per dormire, ma Mirta e gli altri lo
avevano tenuto rigorosamente lontano dalle loro camere. Mirta non aveva dimenticato quanto avesse spaventato gli anatroccoli quando era arrivato. Ora, però, la porta di Mirta era aperta. Il letto era sfatto, e gli anatroccoli erano cresciuti abbastanza da uscire da soli. Lambert sgusciò dentro. I suoi occhi furtivi videro tutti i piccoli tesori di Mirta e sogghignò. Che bel divertimento raccogliere legnetti abbandonati sulla spiaggia o ciottoli venati e sistemarli sugli scaffali come se fossero ninnoli. Non c'era una sola cosa nella stanza che, per quanto potesse vedere, valesse una cicca. Poi si fermò di botto. Appoggiato nell'angolo della stanza c'era la custodia del violoncello di Mirta. Non c'era dentro il violoncello, che era appoggiato a un'altra parete, semicoperto da uno scialle. La custodia doveva essere vuota. Lambert si avvicinò piano piano. Sapeva che lo avevano chiuso là dentro per portarlo via, per quanto non si ricordasse di niente. Aveva sentito Mirta che ne parlava con le sorelle. E perciò le cose che aveva quando era stato rapito potevano essere ancora lì! La faccia di Lambert era rossa dall'eccitazione, le labbra sottili semiaperte. Se solo la custodia non fosse stata chiusa a chiave! E non lo era! Premette il gancio, e si aprì facilmente. L'interno era foderato di velluto blu, scolorito e strappato qua e là per l'usura. Al primo sguardo pareva non contenere altro che una sgualcita sciarpa di seta e un archetto di scorta. Poi, frugando nel fondo dell'astuccio, la mano di Lambert incontrò un oggetto piccolo e scuro che era nascosto dal fazzoletto. Le dita di Lambert si chiusero intorno a esso con un grido. Lo aveva trovato! Aveva trovato il suo telefonino! Ora se ne sarebbe andato! Era salvo. Con il telefonino nascosto sotto la camicia, Lambert tornò nella sua stanza e spinse il cassettone contro la porta. Poi si accucciò come un animale con la sua preda e cominciò a premere i tasti. Tre giorni dopo che Lambert ebbe trovato il suo telefonino, i bambini si svegliarono intorno a mezzanotte e trovarono zia Coral e zia Etta in piedi accanto ai loro letti. Fabio era così insonnolito che credette ci fosse la luna piena e gli toccasse ballare il tango con zia Coral, ma non si trattava di questo. «Mettetevi addosso qualcosa» disse zia Etta. «E lavatevi i denti». «Ce li siamo lavati prima di andare a letto» disse Minette. «Be', lavateveli di nuovo. Nessuno con la muffa sui denti è degno di sentire quello che abbiamo da dirvi». Ancora mezzo addormentati, i due bambini arrancarono su per la collina dietro alle due zie. In cima trovarono zia Mirta seduta accanto a un falò che aveva acceso in mezzo a un anello di sassi, e fu al balenio delle fiamme e al respiro del mare che sciaguattava contro gli scogli che ai bambini venne rivelato quello che bramavano tanto sapere. «Badate, quello che sto per dirvi non avrà molto senso per voi se non conoscete la storia, e io dubito che ne sappiate molto» disse zia Etta. «Quindi incomincerò con una domanda. Che cosa vi dice la parola Kraken?» Fabio rimase in silenzio ma Minette disse timidamente: «È un mostro marino? Uno molto grande?» Etta annuì. «Sì. È un mostro marino, ed è più grande di quanto riusciate a immaginare. Ma non ha niente a che vedere con tutte le fole sciocche che sentite raccontare. Niente a che vedere con le Bolle o i Polipi o i Calamari Giganti che trascinano la gente in fondo al mare. No, il Kraken è... o era... l'Anima del Mare. È la più grande forza del bene che l'oceano
abbia mai conosciuto». Fabio e Minette la guardarono sorpresi. Non era certo così che zia Etta parlava abitualmente. E così lei si mise a raccontare la storia del Kraken. Ci volle un bel po' di tempo, e il falò si era consumato ed era stato rialimentato più volte prima che avesse finito, ma i bambini non si erano mossi. «C'era un tempo in cui tutti al mondo conoscevano il Kraken» cominciò zia Etta. «Sapevano delle sue dimensioni enormi e che quando riposava, e il suo dorso si inarcava fuori dell'acqua, veniva preso per un'isola. Sapevano che quando emergeva all'improvviso, il mare ribolliva e vorticava e che nessuna nave che si trovava nei pressi aveva la minima speranza di evitare il naufragio. «Ma sapevano pure che, nonostante le sue dimensioni, il Kraken era una creatura gentile. Aveva gli occhi pieni di sentimento, e quando apriva la bocca si vedeva che invece dei denti aveva file e file di viticci dello stesso colore tra il verde e il dorato dei capelli delle sirene. Attraverso questa foresta di viticci si riversava il mare, ed era il mare che lo nutriva: le minuscole invisibili creature che compongono il plankton erano tutto il cibo di cui il Kraken aveva bisogno. «Si sapeva che il Kraken proveniva dall'Estremo Nord e che la lingua che parlava meglio era il polare, benché conoscesse anche altre lingue. Ma in genere il Kraken non parlava. Il Kraken cantava. O forse cantare non è la parola più adatta. Quello che faceva il Kraken era canticchiare a bocca chiusa, una musica bassa e lenta che non assomigliava a nessun altro suono al mondo, perché quello che il Kraken canticchiava era la Canzone del Mare. Era un canto rigeneratore. Se volete, era il Respiro dell'Universo. Anche le balene cantano a bocca chiusa e i monaci buddisti che passano la vita sulle montagne cercando di capire Dio... e i bambini piccoli quando sono felici, ma il suono che fanno non è niente in confronto al Murmure del Kraken. «Per molti anni il Kraken nuotò tranquillo per gli oceani del mondo mormorando la sua canzone e fermandosi ogni tanto a riposare. E quando si fermava, le persone un po' ignoranti dicevano: 'Santo cielo, ma non c'è mai stata quell'isola là fuori nella baia', ma le persone sagge e al corrente delle cose che contano, sorridevano e si sentivano onorate e orgogliose. Perché quando arrivava il Kraken, si ricordavano che cosa meravigliosa fosse il mare: così limpido e bello quando era calmo, così possente, esaltante e terribile quando era agitato. Pareva quasi che la grande creatura proteggesse il mare per loro, o che rivelasse loro quanto prezioso fosse quel tesoro. Guardate! pareva volesse dire il Kraken. Ammirate il mare! «A quel tempo il Kraken si era impegnato a fare il giro di tutti gli oceani del mondo ogni anno, e quando appariva la gente cominciava a comportarsi bene. I pescatori pescavano solo la quantità di pesce di cui avevano bisogno, e le persone che solevano gettare i rifiuti nel mare ci ripensavano, vedendo i grandi e meravigliosi occhi del Kraken fissi su di loro. E quando riprendeva il suo viaggio, si lasciava dietro un mare - un mondo, si può dire migliore. «Era come una benedizione, aver visto il Kraken» concluse zia Etta. «Portava fortuna per il resto della vita». «Tu non l'hai mai visto?» chiese Minette. Zia Etta scosse la testa. Aveva il viso triste. «Nessuno di quelli che l'hanno visto vive ancora. Non appare da cento anni o più. Una volta l'hanno ferito orribilmente e si è nascosto». La ferita inferta al Kraken non era al suo corpo. La pelle di un Kraken è spessa un metro e
nessun altro animale può minacciarlo. Del resto, nessun animale lo farebbe: viaggiava scortato da stuoli di squali e di orche che sarebbero morti pur di non fargli del male. Ma gli esseri umani sono diversi. Lo sono sempre stati: intriganti, prepotenti e assetati di potere. Nessuno seppe mai quale baleniera avesse sparato un arpione alla gola del Kraken. Era una nave giapponese o inglese o danese? I balenieri avevano scambiato il Kraken per una balena, o semplicemente erano stati presi dal terrore, vedendosi rizzare davanti una forma scura più grande di quante ne avessero mai viste? Quale che fosse la ragione, fecero partire l'arpione più grosso e colpirono con terribile forza il Kraken nel punto più molle della gola. Probabilmente il Kraken non ci credette subito. Nessuno aveva mai tentato di fargli del male. Poi sentì il dolore e vide le scure nubi del suo sangue che coloravano il mare. Quando capì cos'era successo, cominciò a dibattersi per liberarsi dell'arpione, e la corda si spezzò. Ma il dolore c'era ancora e il Kraken emerse quanto più poté dall'acqua, per rimuovere dal collo quell'orrore uncinato. E così facendo, l'onda provocata dal suo corpo sollevò in alto la baleniera e poi la trascinò in fondo al mare, e gli uomini affogarono dal primo all'ultimo, e fu un bene perché gli animali marini che scortavano il Kraken li avrebbero sbranati. E il Kraken si allontanò verso nord, sempre con l'arpione nella gola. Il dolore si attutì finché un giorno arrivò una vecchia ninfa marina con la sua frotta di bambini e segò via il gancio con delle conchiglie taglienti e ben presto non rimase che una piccola cicatrice. Ma rimase anche una cicatrice nel cuore del Kraken. Aveva viaggiato per il mondo per cantare la Canzone del Mare e per risanare le persone che vivevano lungo le sue rive, e loro l'avevano pugnalato alla gola. Il Kraken aveva duemila anni, che non sono molti per un Kraken, ma ora si sentì stanco. Che gli esseri umani si arrangiassero da soli! Nuotò ancor più verso nord, e più ancora, fin dove la turbolenza del mare e il gran numero di isole gobbute lo rendevano invisibile, voltò le spalle al mondo e si addormentò. E mentre dormiva, la gente dimenticò che quella creatura era veramente esistita, e le storie su di lui divennero sempre più stravaganti finché questo mostro risanatore venne confuso nella mente della gente con le Bolle Giganti e con i dispettosi Triffidi e scemenze del genere. E il mare fu sempre più sporco e sempre più trascurato. Ma naturalmente non tutti dimenticarono. Le creature del mare ricordavano - le foche e i selky, le sirene e le ondine, e la gente che viveva e lavorava sulle isole e sul mare. E le zie ricordavano. «Oh sì, lo abbiamo sempre ricordato» disse infine Etta. «Nostro padre ce ne parlava e nostro nonno ne aveva parlato a nostro padre. Abbiamo sempre saputo, ma non avremmo mai pensato...» Tacque, sopraffatta dall'emozione, e i bambini rimasero a fissare le braci del falò, pensando a quello che avevano sentito. «Perché non ho paura?» si chiese Minette. Una volta l'avrebbe terrorizzata il pensiero di un grande mostro marino che nuotava verso di loro, ma ora sentiva solo meraviglia. E qualcos'altro: il desiderio di aiutare e servire questa creatura che non aveva mai visto. Senti che avrebbe fatto qualsiasi cosa per il Kraken quando fosse arrivato. Il che era sciocco, perché cosa poteva fare una bambina qualsiasi per il mostro più potente del mondo? Ma non si sentiva sciocca. Si sentiva ispirata e temprata come se l'aspettasse una missione straordinaria. Fabio era in uno stato d'animo diverso. Per Fabio la storia che aveva sentito meritava di essere festeggiata. Così fece una cosa piuttosto nobile. Si volse a Coral, seduta accanto a lui
avvolta nel mantello, e disse: «Zia Coral, c'è la luna piena - o quasi. Vorresti ballare un tango?»
Capitolo nove Stanley Sprott, il padre di Lambert, se l'era spassata in America. Aveva acquistato tre fabbriche e un cinema e una casa lì vicino che aveva demolito per costruire un fast-food e aveva anche gettato sul lastrico la famiglia che ci abitava. C'era stato un processo e un certo scompiglio perché nella famiglia c'era un bambino handicappato e una madre malata, ma il signor Sprott aveva vinto. Vinceva sempre perché poteva pagare i migliori avvocati e ora, mentre l'autista lo riportava a casa dall'aeroporto nella sua Mercedes, valutò che il suo salto negli Usa gli sarebbe valso un milione di dollari puliti. Accanto a lui era seduto Des, la sua guardia del corpo, un omone con piccoli occhi e un cervello ancora più piccolo. Des aveva imparato a leggere appena a venticinque anni, e gli piaceva dimostrare di saperlo fare, così quando si fermarono a un semaforo guardò gli avvisi sulla facciata del commissariato di polizia e disse: «Ci sono delle mattoidi di zie che rapiscono i bambini. Offrono mille sterline di mancia a chi dà informazioni». Il signor Sprott pensò che era ridicolo. «Zie!» sbuffò mentre la macchina ripartiva, lasciandosi dietro i ritratti di zia Coral e di zia Etta che sbatacchiavano nella brezza. «Un mazzo di zie che tengono in scacco la polizia!» Il signor Sprott aveva una pessima opinione della polizia, che aveva tentato di interferire in certe sue imprese ed era stata totalmente sconfitta. Arrivato a casa, si fermò un istante nell'ingresso e si guardò intorno. Ebbe l'impressione che qualcuno che avrebbe dovuto essere in casa non c'era. Ma chi? Chi non c'era? Mentre Des andava a spegnere l'allarme e a controllare se c'erano lettere esplosive, il signor Sprott ci rimuginava sopra. Be', intanto non c'era sua moglie. Ma niente di strano. Sua moglie gli aveva mandato un fax da Parigi per dirgli che andava a Roma a comprare degli altri vestiti, e poi gli aveva mandato un fax da Roma per dirgli che andava a Madrid a comprare degli altri vestiti. Quindi non era Josette Sprott che avrebbe dovuto trovarsi lì e non c'era, e non era nemmeno la governante che aveva ogni giorno due ore di libertà il pomeriggio. Allora si trattava di suo figlio, Lambert. «Lambert!» ruggì il signor Sprott, in piedi in mezzo all'ingresso. Nessuna risposta. «Cercalo sull'interfono» ordinò a Des. Ma benché tutte le stanze fossero collegate elettronicamente, Lambert non comparve. Il signor Sprott non si allarmò, ma restò sorpreso. Aveva comunicato a Lambert la data del suo ritorno e il ragazzino, per quanto terribilmente lagnoso, voleva bene a suo padre. Il signor Sprott entrò nel suo studio, fece chiamare una segretaria e si immerse nei suoi affari. Ma quando la governante rientrò verso sera, al signor Sprott tornò in mente suo figlio. «Non ha portato Lambert, signore?» gli chiese la donna. La sua voce tradiva la speranza. Detestava quel ragazzo.
«Come potevo portare Lambert? Non era con me. Non è mai stato con me, è rimasto qui con lei». «Ma no. Ho trovato un messaggio che diceva che andava a raggiungerla in America. L'aveva lasciato la zia, diceva che c'era stata una telefonata». «La zia? Quale zia?» «La zia dell'agenzia. Aveva portato il ragazzo allo zoo e quando sono tornata il ragazzo non c'era più». Gli avvisi sbatacchianti, il cartello con il compenso, lampeggiarono nella mente del signor Sprott. Non gli parevano più così ridicoli. «Mi dispiace, signore, ma...» «Stia zitta». Il signor Sprott era accigliato. «Vado alla polizia. Dica a Merton di portare fuori la macchina». Ma in quel momento, flebile flebile, trillò un telefono al piano di sopra. Era il suo telefono personale, o piuttosto uno dei suoi telefoni. Il signor Sprott comprava telefonini come la gente compra fiammiferi, e ora non riusciva a ricordare quale fosse e dove avesse potuto lasciarlo. Sotto il letto? Sulla cassetta del water? Nel mobile bar? «Trovatelo» ordinò, e la guardia del corpo e la segretaria e la governante corsero in giro per la casa cercando di individuare la provenienza del suono. Fu il signor Sprott a raggiungerlo proprio mentre stava per smettere di suonare. Era sotto un mucchio di mutande monogrammate nel suo cassettone. «Pronto!» gridò. Era un uomo che gridava sempre al telefono. Sentì degli strani rumori; come un singulto, e poi un farfuglio. «Parli più forte, dannazione. Non sento!» «Sono io, papà. Sono Lambert. Sono stato rapito! Devi venire a prendermi!» Altri singulti, altre lacrime. Che frignone quel ragazzo! «Va bene, Lambert. Vengo a prenderti, ma dove sei? Parla chiaro». «Sono su un'isola. Un posto orrendo...» «Che isola? Dov'è?» «È nel mare». Stanley Sprott roteò gli occhi. «Sì, Lambert, le isole sono generalmente nel mare. Ma dove? In quale mare?» «Non so, non me lo dicono, ma fa freddo. Non ci sono alberi di cocco. Ti ho telefonato e ritelefonato ogni giorno». Si interruppe, singhiozzò ancora. «Le batterie si stanno esaurendo». «Lambert, ti prego, pensa. Ci sono altre isole lì intorno?» «Ce n'è un paio da una parte». «Quale parte? Est? Ovest? Nord? Sud?» «Non so. Il sole viene su dietro a loro, credo. È orribile qui, è agghiacciante. Ci sono queste zie; sono matte e mi mettono la droga nel cibo. Devi venire, devi venire! Ne sta arrivando una!» La linea cadde. Il signor Sprott rimase qualche secondo a pensare. Un'isola isolata con due isole a est. E - incredibilmente - una banda di zie. Impartì gli ordini. «Voglio che si appronti l'Uragano. Salirò a bordo al porto di Londra. Fate venire due uomini armati e procurate munizioni in quantità. Sceglieteli con cura, è una missione segreta!» L'Uragano era il suo yacht, una nave-vedetta riconvertita, suo orgoglio e sua gioia. Fu solo a quel punto che andò alla polizia. Non credeva che avrebbero trovato Lambert questo lavoro l'avrebbe sbrigato lui senza dire niente a nessuno - ma poteva forse scoprire se esisteva qualche altro indizio. Quella sera un terzo ritratto fece la sua comparsa sui muri dei commissariati, sotto le
pensiline alle fermate degli autobus e nelle biblioteche pubbliche. Era quello di zia Mirta, da come se la ricordavano la portinaia e l'uomo che portava da mangiare alle foche allo zoo di Londra. Era ancora più stravagante degli altri due ritratti. Zia Mirta pareva sferzata dal vento e aveva la bocca aperta, e di nuovo nessuno si fece avanti per dire che l'aveva vista. Ma la squadra di segugi di Stanley Sprott stava già individuando tutte le isole nel Mare del Nord e nell'Atlantico che avevano due isole a est. E l'Uragano, con un equipaggiamento completo di armi a bordo, era al molo pronto a salpare.
Capitolo dieci Pareva che nuotasse lento e tranquillo, ma l'onda morta che sollevava procedendo nell'acqua raggiungeva rive lontane mille miglia. Sopra di lui, stormi di uccelli gli roteavano intorno, e le creature del mare gli facevano corona nell'acqua. Il cielo era una vampa dorata e i tramonti erano splendenti e tardavano a spegnersi, come se al sole spiacesse abbandonare quella meravigliosa visione, e il mare brillava e scintillava. Nuotando, il Kraken mormorava, ma non continuamente. A volte si interrompeva e girava la testa per parlare con qualcuno che gli nuotava accanto, e quando lo faceva gli uccelli nell'aria tacevano e gli animali marini muovevano piano le pinne per non sciaguattare. Perché la creatura che nuotava al fianco del Kraken era importante, ed essi volevano star certi che capisse quello che il Kraken gli diceva. Strane cose accaddero mentre il Kraken procedeva verso sud dal suo rifugio artico. Passò all'altezza di una piattaforma petrolifera dove gli uomini stavano facendo il turno di notte. Le luci della piattaforma apparivano al Kraken solo come lontani puntini, ma egli si fermò e il suo Murmure divenne più profondo, e sulla piattaforma un uomo che si chiamava Dave O'Hara disse: «Vado a chiudere il tubo di scarico». I suoi compagni misero giù la caraffa di birra e lo guardarono. «Cosa ti piglia? È sempre aperto di notte». Era vero. Il tubo di scarico espelleva la sua porcheria nell'acqua giorno e notte. «Non so» disse Dave, «ma voglio chiuderlo». E lo chiuse... e il Kraken riprese a nuotare. Sull'Isola, Herbert fu il primo a capire. Sua madre era uscita dall'acqua alcuni giorni prima e l'aveva ancora spronato. «Devi deciderti, Herbert» disse nella lingua selky che parlavano quand'erano soli. «Non sei più giovane; e io non sarò qui in eterno. Se vuoi smettere di essere foca e diventare uomo devi farlo subito». Per un poco, Herbert si limitò a guardarla. Poi: «Ascolta!» disse con la sua voce seria e sommessa. Lei ascoltò, e lo sentì, perché i selky sono famosi per l'acutezza dell'udito. Non il Grande Murmure con cui il Kraken lanciava i suoi messaggi a grande distanza, ma il basso sussurro che faceva quando pattugliava l'oceano.
«Questa non è l'ora di essere uomo, madre. Lo saluterò nell'acqua, e con orgoglio, da foca». Fu per merito di Herbert che Mirta capì prima delle altre zie quanto fosse vicino il Kraken. Aveva provato a suonargli uno dei suoi pezzi preferiti, un minuetto di Mozart. Solitamente lui lo ascoltava a occhi chiusi, totalmente ammaliato; Mozart era il suo compositore preferito. Ma quel giorno era irrequieto, guardava ansiosamente il mare, e poi scosse una volta la testa come per scusarsi e si tuffò nelle onde. Ben presto non fu solo Mirta a intuire. Zia Etta notò tre oche delle nevi - uccelli che non aveva mai visto sull'Isola - e Coral tornò, danzando di gioia, da una raccolta di conchiglie. «Il mare sta cambiando colore» disse. «Leggermente, ma sta cambiando». Poi improvvisamente tutti seppero che il momento stava arrivando, e i preparativi dell'ultimo minuto ebbero inizio. Nel suo letto, il vecchio Capitano sedeva con il telescopio incollato agli occhi e si sforzava di essere pessimista. «Certo non sarà come il Kraken dei vecchi tempi. Sarà più piccolo, come sono più piccole le foche e le pecore e le tette delle signore. Forse non sarà più grande di una balena» diceva il Capitano Harper. Ma se qualcuno cercava di togliergli il telescopio diventava assolutamente furioso e, via via che il Kraken si avvicinava, non dormiva quasi più.
In quanto alle zie e ai bambini, durante quelle giornate parevano una squadra di lavoratori uniti e compatti che non pensavano ad altro che a preparare la migliore accoglienza possibile al Kraken. Era impossibile immaginare che Fabio e Minette erano stati drogati e rapiti contro la loro volontà meno di tre settimane prima. Non avevano bisogno di ordini; sapevano quello che si doveva fare con la stessa prontezza delle zie e, come le zie, non si risparmiavano mai. Poi un giorno anche loro riudirono il Murmure. Era il Murmure Feriale del Kraken, il suo Murmure Lavorativo, il Murmure con cui ripuliva e risanava il mare, e si stava avvicinando, avvicinando sempre più... C'era una sola cosa che lasciava perplesse le zie. Molto spesso il Murmure si interrompeva e si sentiva un basso brontolio come se il Kraken parlasse. Non capivano le
parole da quella gran distanza - e in ogni caso nessuna delle zie parlava il polare - ma capivano il tono, e la sensazione che ne avevano era che, chiunque fosse l'essere con cui parlava il Kraken, lo facesse un po' impazzire. Ma chi poteva essere? Il Kraken era sempre stato un solitario. L'avrebbero scoperto ben presto.
Capitolo undici A Londra, la Grande Caccia alle Zie non dava ancora nessun risultato. I ritratti di Etta e Coral e Mirta sbatacchiavano ancora sui muri dei commissariati di polizia, ma le persone che venivano a dire di aver visto l'una o l'altra di loro erano chiaramente toccate. Un uomo riferì che un'ausiliaria che aiutava gli scolari ad attraversare la strada a Kensington aveva i baffi ed era certamente zia Etta, ma non lo era. Un altro uomo disse che aveva visto zia Mirta che suonava davanti a un cinema, ma non era vero. E chiunque pesasse più di cento chili e portasse dei gioielli rischiava di essere acciuffato dalla polizia nel caso si trattasse di Coral. «Non chiamarmi 'zia'» chiedevano ai nipoti le zie terrorizzate in tutte le strade di Londra e, tre settimane dopo la scomparsa dei bambini, la parola non esisteva quasi più. La madre di Minette, mentre i giorni passavano senza nessuna novità, fumava tre pacchetti di sigarette al giorno, non riusciva a dormire senza tracannare una boccia di whisky e lasciava che la sua casa affondasse ancor più nel disordine. Questo era più facile ora che Minette non era più lì a mettere un po' a posto e ad aprire le finestre. Ma lo stesso, la signora Danby sentiva il rimorso di non averle lasciato tenere una lampadina da notte. «E avrei dovuto portarla al mare, voleva sempre andarci» disse al suo ultimo fidanzato. «Puoi portarla quando torna» disse lui, lasciando cadere la lattina vuota di birra oltre il bracciolo della poltrona. «Anche se non ho mai capito cos'è che ci trovano nel mare. Acqua che viene, acqua che va, che senso c'è?» Anche il professor Danby rimpiangeva di aver fatto certe cose e di non averne fatte altre. A ogni visita aveva promesso a Minette di portarla a pattinare sul ghiaccio ma non c'era mai stato il tempo, e lui sotto sotto aveva sempre saputo che Minette per il suo compleanno non voleva affatto un'enciclopedia senza figure. Ma quando si telefonavano per scambiarsi notizie di Minette, i Danby litigavano più che mai. Avevano deciso che era scappata, e naturalmente gettavano la colpa l'uno sull'altra. «Mi meraviglio che abbia resistito tanto in quel porcile dove vivi» diceva il professore. «Ma davvero!» rispondeva la signora Danby. «Considerando che in confronto alla tua casa una tomba sotterranea in una domenica di pioggia sembrerebbe Disneyland, hai una bella faccia tosta!» I Mountjoy non rimpiangevano niente di quello che avevano fatto. Erano sicuri che nella loro casa Fabio avesse avuto tutto quello di cui aveva bisogno, e che mandandolo a Tristemelma e pagando la retta - lo avevano trattato meglio di quanto un bambino povero nato a casa del diavolo avesse il diritto di aspettarsi. Ma si chiedevano se fosse il caso di avvertire la madre di Fabio e gli altri nonni in Sudamerica, che il bambino era scomparso. «Mi vengono i brividi all'idea di una banda di selvaggi che piombano qui agitando le
braccia» disse la signora Mountjoy. «Probabilmente si dipingono la faccia e girano scalzi». Il vecchio Mountjoy fu d'accordo. «Tuttavia, è la madre del ragazzo. Lasciamo passare ancora qualche giorno e poi se non ci sono notizie dovremo farglielo sapere». Sia i Mountjoy che i Danby ce l'avevano con la polizia. «Ve la siete presa con calma» la signora Danby accusò il commissario. Ma si sbagliava di grosso. La scoperta della terza zia e del terzo rapimento aveva fornito alla Polizia un nuovo importante filone. Due giorni dopo che Stanley Sprott era venuto a denunciare la scomparsa del figlio, una «zia Mirta» venne avvistata negli stabilimenti balneari di Putney. Aveva i capelli lunghi e grigi e la bocca aperta, il che era una stupidaggine da fare in piscina, perciò doveva essere senz'altro lei. I poliziotti l'arrestarono a fatica, e un agente fu inviato alla casa del signor Sprott per chiedere alla governante di venire a identificarla, ma gli fu detto che il signor Sprott non c'era. E allora dov'era, volle sapere l'agente. Avrebbe dovuto tenersi a disposizione nel caso ci fossero notizie su Lambert. All'inizio nessuno voleva dirglielo, ma quando l'agente minacciò di tornare con un mandato di perquisizione, la segretaria ammise che era partito sul suo yacht. «Sarà l'Uragano» disse pensieroso l'ispettore quando l'agente tornò in sede. La sapevano lunga sulle attività del signor Sprott e sul suo yacht. «Vedremo cosa sta combinando. Potrebbe aver trovato una pista». «E gli altri genitori? È probabile che i bambini siano tutti insieme. Dobbiamo dirglielo?» «Non ancora. Se li troviamo porteremo i genitori in elicottero. Ma per ora non diciamo niente». La squadra che Stanley Sprott aveva mandato alla sala nautica del British Museum a cercare arcipelaghi sperduti con due isole a est, aveva trovato una vecchia mappa con tre isole che avevano queste caratteristiche. Ora l'Uragano stava avanzando verso la prima, un'isoletta al largo della costa occidentale della Scozia. Sulla carta non erano segnalate case, ma molto probabilmente le zie pazze che avevano nelle grinfie suo figlio lo tenevano prigioniero in una grotta. Mentre camminava su e giù sul ponte, Stanley Sprott pensava al riscatto. Come mai nessuno gli aveva chiesto dei soldi in cambio di Lambert? Non è che avrebbe pagato avrebbe spedito all'inferno i sequestratori prima di sprecare soldi in questo modo - ma era strano. Tutto era strano in questo sequestro. Benché il signor Sprott vestisse una divisa da ufficiale di marina - giacca a doppiopetto e berretto pieno di galloni d'oro - non faceva mai nessun vero lavoro a bordo. Aveva un capitano che guidava la nave, e due membri dell'equipaggio che tempestava di ordini, regolarmente ignorati. In caso contrario, sarebbero già colati a picco molte volte perché il signor Sprott non se ne intendeva affatto di barche. L'Uragano aveva tutte le scemenze di cui i ricchi imbottiscono le loro barche giocattolo: una Jacuzzi con i rubinetti d'oro, un grande letto coperto con una pelle di leopardo e una saletta con un mobile bar per i cocktail. Ma la barca stessa non era una scemenza. Era stata una nave-vedetta del controspionaggio navale ed era dotata di tutti i più sofisticati congegni elettronici. Aveva un altro particolare: una capace stiva con le pareti rinforzate dove il signor Sprott trasportava le cose che dovevano rimanere segrete. Ed era armata. Una mitragliatrice di grosso calibro era piazzata sul ponte di poppa, nel caso venisse aggredita dai pirati nell'Oceano Indiano, diceva il signor Sprott. E per quanto i
suoi passeggeri fossero a volte delle belle ragazze che prendevano il sole e non facevano che ridacchiare e bere cocktail, altre volte i suoi passeggeri erano del tutto diversi. Come i due uomini che ora stavano giocando a tresette sottocoperta. Si chiamavano Boris e Casimir e venivano da un paese dove un ragazzo che non sapeva ancora usare una pistola all'età di sei anni non aveva molte probabilità di diventare adulto. E sempre, sia che l'Uragano fosse in crociera di piacere o in viaggio di affari, Stanley Sprott si portava dietro la sua guardia del corpo, Des. «Eccola» disse il capitano, indicando una sagoma bassa sul mare davanti a loro. «È Dooneray». Era vero che l'isola non aveva case, ma pullulava di capanne, nuove all'aspetto, di legno. E a circolare tra le capanne, giù sulla spiaggia, c'erano delle persone. Un bel mucchio di persone. «Hanno uno strano colore» disse Des, aguzzando gli occhi. Des aveva ragione. Le persone erano... rosa. Di un bel rosa vivace che saltava agli occhi e luccicava un poco. L'Uragano spense i motori. Non esisteva un molo; dovevano gettare l'ancora e scendere a terra sulla lancia. Alcune delle persone rosa li videro e salutarono con le mani. «Io a terra non ci vado» disse il secondo di bordo. «Non ci vado dovessi perdere il posto. La lancia la può guidare qualcun altro». «Io no di certo» disse Des. «Farei qualsiasi cosa per lei, boss, ma non sbarco in mezzo a quella compagnia». «Farete esattamente quello che vi dico» disse Stanley Sprott. Ma non parlò con la sua spocchia abituale. A dire il vero pareva anche lui leggermente a disagio. Il capo dei rosa non avrebbe potuto essere più gentile. Aveva un sorriso cordiale e presentò sua moglie, che si chiamava Mabel, e suo cugino, che si chiamava James. Ma non indossò nessun capo di vestiario. Nessuno di loro volle indossare nulla. «Temo che dobbiate accettarci come siamo. Questa è una colonia di nudisti; crediamo molto fermamente che il Creatore voglia che i nostri corpi restino esposti all'aria e alla luce. In effetti vi saremmo grati se voleste togliervi i vestiti anche voi. È una regola dell'isola che chiunque sbarchi qui rinunci a tenere la pelle imprigionata in stracci malsani». Dietro a lui, sulla lancia, Casimir ridacchiò e il signor Sprott si girò per lanciargli un'occhiataccia. Poi disse: «Stronzate! Ascoltatemi bene: siete tutti sotto tiro». Indicò i due tiratori sulla nave. «E voglio che tutti gli uomini, le donne e i bambini si mettano in fila laggiù. Sto cercando un ragazzo scomparso e frugherò in ogni angolo e in ogni anfratto, perciò non cercate di nascondere niente o vi spedisco tutti all'inferno». «Non ci sogneremmo mai» disse cortesemente il capo. «Ma non possiamo offrirvi un boccone per pranzo?» Il signor Sprott rabbrividì. Su un prato un gruppo di gente senza niente addosso stava arrostendo salsicce su una griglia all'aria aperta. Non aveva mai visto niente di più pericoloso. L'ora che seguì fu terribile. I rosa continuavano a essere gentili e cordiali ma sempre rifiutandosi di indossare qualcosa. Lo lasciarono andare dove voleva, nelle loro capanne per la notte, nella sala da pranzo comunitaria, nella palestra... Benché in realtà sapesse che se Lambert fosse stato prigioniero di zie pazze che erano anche nudiste gliene avrebbe accennato al telefono, il signor Sprott si sentiva obbligato a perlustrare ogni centimetro dell'isola, e costrinse Des a cercare con lui.
Quando se ne andarono, il capo donò loro un mazzo di armèrie di mare e un'ostrica. «Andate in pace, amici» augurò. Mentre stabilivano la rotta per la seconda isola in lista, il signor Sprott non era di buon umore. In realtà smaniava e ruggiva e imprecava e giurava che quei rosa lui li avrebbe fatti arrestare, imprigionare, deportare, il che era una sciocchezza perché i nudisti avevano tutti i diritti di rimanere dov'erano. In quanto ai poliziotti a bordo del peschereccio che stava seguendo l'Uragano, risero così tanto da rischiare di perdere la rotta. Avevano seguito lo sbarco del signor Sprott con il binocolo e si erano detti che era la scena più buffa che avessero mai visto.
Capitolo dodici Minette si svegliò presto e decise immediatamente che doveva lavarsi i capelli. Non se li lavava mai prima di colazione, ma quella particolare mattina doveva proprio farlo. Quando ebbe finito si avvolse la testa in un asciugamano e rientrò per vedere Fabio. Stava lucidandosi le scarpe. Non le scarpe da tennis che usava sempre da quando era sull'Isola, ma quelle eleganti, quelle che indossava quando era stato rapito. Lui non commentò i suoi capelli e lei non commentò le sue scarpe, e scesero a far colazione. Minette si aspettava quasi che zia Etta fosse seccata con lei - per asciugare i capelli lunghi di Minette ci voleva un anno, e se c'era appena un fiato di vento le zie la facevano rimanere in casa fino a operazione finita. Ma zia Etta, seduta come al solito dietro la pentola del porridge, disse solo «Buongiorno», e i bambini le sgranarono gli occhi addosso in modo per lo meno sfacciato. Indossava la sua solita maglietta blu e la sua solita gonna lunga blu, e di sicuro sotto aveva i suoi soliti calzoncini blu. Ma fissato alla maglietta c'era un fiocco. Il fiocco era di velluto rosa a pallini bianchi, e dopo questa stupefacente visione i bambini capirono che la sensazione che avevano avuto alzandosi era giusta. Poi accadde che Mirta entrò, agitata e come trasportata dal vento, e disse: «Herbert se n'è andato». Zia Etta annuì. Se era veramente arrivato il momento, Herbert gli era sicuramente andato incontro in alto mare. Poi comparve Coral, con tutti i suoi gioielli e con una ghirlanda di erbe secche sui capelli. «C'è un naak nel lago» disse. «Un tipo strano. Lo storverme non sarà contento». I naak sono estoni; sono i fantasmi degli annegati e sono spesso taciturni e tetri. Questo, disse Coral, era il fantasma di un insegnante. «Uno di quelli severi con la bacchetta in mano, direi, anche se non è facile capire sott'acqua». L'arrivo del naak dalla lontana Estonia era una conferma. Se il fantasma di un insegnante annegato con la bacchetta in mano si era fatto quasi mille miglia per dare il benvenuto al Kraken, questi doveva essere vicino. Fu una giornata singolare. Tutti erano tremendamente eccitati ma non osavano esprimere
quello che pensavano. Lo storverme volle a ogni costo che lo arrotolassero intorno a un albero vicino alla sponda nord per poter godere di una buona vista ma, proprio quando Fabio l'aveva già sistemato, decise che il Kraken sarebbe arrivato direttamente alla baia vicino alla casa e chiese di essere srotolato di nuovo. «Aspettatemi, aspettatemi» gridava la vecchia Ursula alle altre sirene, e questa volta aspettarono la povera vecchietta e nuotarono fino allo scoglio che avevano scelto, tenendo Walter sollevato in aria, e si sedettero esercitandosi a cantare una canzone che Mirta aveva loro insegnato. Era una canzone lappone per radunare le renne e non particolarmente adatta, ma era la canzone più nordica che Mirta fosse riuscita a trovare. In cucina, i bomboloni glassati che Art aveva fatto con l'uovo della bubri straripavano dalla dispensa, stipavano i bidoni di farina... e non smettevano di uscire dal forno. La faccia della Sibilla da blu divenne viola; i suoi piedi lavati brillavano alla luce. Il Capitano aveva spinto il letto sotto la finestra e non voleva perdere tempo nemmeno per mangiare. Solo Lambert non sentiva niente e non notava niente, e passava le giornate ripiegato sul telefonino tentando di collegarsi con suo padre, nonostante le batterie fossero ormai completamente scariche. Nel tardo pomeriggio la riva era gremita di creature di ogni genere. Come la gente che si dispone lungo il percorso di un corteo nuziale o di un funerale reale, erano arrivate presto per conquistarsi una buona postazione. C'erano le lontre e le meduse, gli anemoni e le stelle marine che sbirciavano dalle loro pozze; c'erano sciami di eglefini, di passere nere e di merluzzetti... Parte degli animali erano disposti lungo la riva nord, parte aspettava nella baia; gli uccelli e i conigli e i topi e le arvicole erano di sentinella sulla collina. I bambini non toccarono quasi la merenda e le zie non insistettero. Anche loro faticavano a mandar giù i bomboloni di Art. Il sole affondò dietro l'orizzonte. Il Murmure, che si era mantenuto costante per tutta la giornata, cambiò ritmo, e sempre più spesso c'era quella strana interruzione colmata da una specie di esasperato brontolio. «Per favore non mandateci a letto» supplicò Minette, e Fabio dichiarò che lui a letto non ci andava e che se provavano a mandarcelo avrebbe fatto l'inferno. Ma quando scese il buio e il vecchio orologio della cucina batté le nove, e le dieci, e le undici, tutti persero la speranza. A mezzanotte i bambini andarono a letto di loro iniziativa; le arenicole, le pulci di mare e le stelle marine si annidarono nuovamente nella sabbia o si intrufolarono sotto i sassi. Sul loro scoglio, le sirene smisero di cantare e la bubri tacque nel suo nido. «Dobbiamo esserci sbagliati» dissero mestamente le zie, e andarono a letto anche loro. Ma quando si svegliarono la mattina dopo, c'era una nuova isola nella baia. L'isola dormiva. Dormiva il sonno dei giusti dopo il lungo viaggio, e intorno a lei e su di lei e sotto di lei dormivano le creature che l'avevano accompagnata. Il Murmure era cessato. Si sentiva solo un lieve sospiro, il tenue alitare del fiato che entrava e usciva. Per gli spettatori sulla riva, questo secondo benvenuto era diverso dal primo. Avevano perso importanza i fiocchi di velluto e le scarpe lucide. Era un benvenuto che veniva dal profondo dell'essere. Fabio e Minette stavano vicini, seminascosti da un vecchio olmo accanto al torrente dove questo finiva nel mare. Non trovavano parole. Non esistevano parole. Le zie, giù sulla
spiaggia, si tenevano per mano come tre bambine. Sul loro scoglio, le sirene non cantavano, e quando Walter incominciò a frignare, Loreen lo zittì seccamente. Poiché il Kraken dormiva, e l'eccitata accoglienza che avevano preparato si era trasformata in una veglia. Nessuno intendeva svegliare il grande animale: né il naak con la sua bacchetta, né la bubri nel suo nido; nessuno. Aspettarono un'ora, due ore... Il sole si fece più caldo. Il mare prendeva i più straordinari colori come se sotto le onde si nascondesse un arcobaleno, e l'aria aveva un delicato profumo di frutta. «È come la nascita del mondo» bisbigliò Minette. E poi il Kraken starnutì! Allora tutto cambiò. Le talpe e i topi e i conigli sulla collina vennero spinti indietro e si raddrizzarono di nuovo; la crocchia di zia Etta sfuggì all'ancoraggio di spilli; la bubri si lasciò sfuggire uno sbigottito stridio... e tutti risero. E il Kraken sollevò la testa dall'acqua e si mise a nuotare molto lentamente, molto attentamente in modo da non inondare la riva, verso la baia. Ora era di fronte alla casa, di fronte alle zie e ai bambini. Minette e Fabio rimasero a bocca aperta per la meraviglia. Poiché, malgrado tutto quello che avevano appreso sul Kraken - la sua bontà, il suo influsso sul mare, i suoi poteri risanatori non erano stati capaci di immaginare niente di molto diverso da una gigantesca balena. Ma gli occhi del Kraken non assomigliavano affatto agli occhi di una balena. Erano grandi, rotondi e dorati: fissarli era come fissare una lampada che non abbaglia o brucia ma riscalda e rincuora. Aveva le narici piccole e profonde, ma una bocca grande e generosa che si incurvava sulla sua faccia come un arco, con gli angoli voltati all'insù. Mentre il Kraken avanzava verso di loro, le sirene si misero a cantare, prima un po' rauche poi con voce più sicura. Herbert nuotava al fianco del Kraken, fiero e solenne. E allora videro che il suo corpo non era nero come si erano immaginati ma screziato di colori tenui - il nocciola del petto di un fringuello, il rosa di una trota, il grigioazzurro di una pietra di luna: la sua pelle aveva tutti questi colori, ora che era esposta alla luce. Ma lui si era fermato. Stava fissando le zie. Cominciò a parlare. Sfortunatamente parlava polare. Pareva il rombo degli iceberg che si scontrano e nessuno capì una parola. Zia Etta si precipitò in casa a prendere un megafono. «Mi dispiace» gridò. «Non capiamo». Ma il Kraken l'aveva già intuito. Ci riprovò. Parlò in norvegese perché la Norvegia è più a sud del polo e pronunciò una sola parola, ma nessuno capì nemmeno quella. «Non puoi provare in inglese?» gridò zia Etta nel megafono. Ci fu una lunga pausa mentre il Kraken ci pensava su. Poi inspirò profondamente e disse: «Bambini?» Aveva uno strano accento ma lo capirono perfettamente e il sollievo fu enorme. «Bambini, e poi?» chiese zia Etta nel megafono. Il Kraken ripeté la parola. «Bambini?» chiese. «Ci sono... qui... bambini?» Le zie parlottarono eccitate tra loro. Voleva dire che il Kraken voleva dei bambini, o che non li voleva? Ma in ogni caso nessuna di loro avrebbe saputo dire una bugia. Andarono all'olmo, tirarono fuori Fabio e Minette e li condussero sulla spiaggia. Non pensarono nemmeno a
Lambert, chiuso nella sua stanza. Lambert non era un bambino; era un adulto nano. Ci fu un silenzio mentre il Kraken osservava Fabio e Minette. Non avevamo capito niente, pensarono i bambini. Ci mangerà, dopo tutto? Poi il Kraken sorrise. Era un sorriso straordinario; la sua grande bocca si incurvò sempre più e gli splendevano di calore gli occhi. E poi si immerse e gli uccelli che si erano posati su di lui volarono via come una nuvola bianca. Non lo si vide per alcuni minuti, e quando riemerse aveva qualcuno sul dorso. Questo qualcuno era molto piccolo in confronto al Kraken; non molto più grande di una Cinquecento o di un delfino, ma era evidente chi fosse. Aveva gli stessi occhi tondi, la stessa bocca larga, la stessa pelle iridata... Ma era preoccupato. «Mi troverò bene, padre?» chiese il figlio del Kraken, come aveva chiesto continuamente durante il viaggio. «Ti troverai benissimo» rispose il Kraken come aveva già fatto mille volte. E poi aggiunse: «Guarda, ci sono dei bambini per giocare e per badare a te». Parlavano in polare ma quello che dicevano fu perfettamente chiaro a tutti. E più chiaro ancora fu lo sguardo che il piccolo Kraken lanciò a Fabio e a Minette che se ne stavano muti sulla spiaggia. E le zie ebbero una rivelazione fulminante. Quando avevano rapito i bambini l'avevano fatto perché avevano bisogno di aiuto, ma anche allora si erano sentite a disagio nel comportarsi come delle criminali. Ora si resero conto che c'era stato un Fine più alto, come spesso accade. Infatti compresero che il Kraken portava all'Isola suo figlio perché lo si accudisse mentre lui girava gli oceani del mondo, e che desiderava che stesse con bambini della sua età, non con delle anziane zie. «Siamo stati veramente benedetti» disse zia Etta. Teneva ancora il megafono alla bocca e la parola «benedetti» si propagò per tutta l'Isola, e fu ripresa da tutte le creature presenti sulle rive. «Benedetti» confermò lo storverme, «Benedetti» disse il naak (ma in estone) e «Benedetti» gridarono le sirene dallo scoglio. Solo Fabio e Minette rimasero in silenzio. Minette ripensava a quanto aveva desiderato servire la grande bestia la prima volta che ne aveva sentito parlare. Fabio invece si chiedeva cosa mangiassero i piccoli Kraken.
Capitolo tredici Il Kraken si fermò parecchi giorni, a riposarsi dal lungo viaggio dal Mare Artico. La maggior parte del tempo galleggiava quieto nella baia, tenendo d'occhio suo figlio, ma la sua sola presenza faceva rifiorire ogni cosa. I bambini correvano a piedi nudi alla spiaggia ogni mattina. «Non è solo che la sabbia è più gialla» diceva Minette. «È più sabbia sabbia. È come dovrebbe essere la sabbia».
Era così per ogni cosa finché il Kraken li proteggeva. L'erba era più verde e più folta, gli uccelli erano più bianchi e i disegni che tracciavano nel cielo erano più belli. Lo sentivano tutti sull'Isola, tutti meno Lambert sempre rintanato nella sua stanza. «Ti immagini se non ci avessero rapiti» disse Fabio. «Ti immagini che non avremmo mai saputo che esiste un essere come il Kraken!» Se il Kraken fosse stato diverso - se fosse stato un santo a cui la gente tocca i piedi perché sono santi anche quelli, o un divo del rock a cui i fan tagliano ciocche di capelli - le zie si sarebbero preoccupate perché assolutamente tutti volevano stargli vicino. Art remò via una mattina presto, e lo videro parlare molto seriamente alla testa del Kraken, e quando tornò era cambiato. «Gliel'ho detto» riferì alle zie. «Non l'avevo mai detto a nessuno e nemmeno a voi, ma poi... quando ha aperto quei suoi occhi grandi grandi ho capito che non importava, così adesso ve lo dico. L'ho avuto fisso in testa tutti questi anni ma avevo paura di deludervi». E poi raccontò che non aveva ucciso quell'uomo. Era stato arrestato per un furto in un negozio ma gli sembrava troppo poco interessante e così si era inventato quella frottola perché pensava che le zie lo avrebbero giudicato più virile. «Ma mentre ero lì con lui, ho capito che mi avreste perdonato» disse, e naturalmente lo perdonarono, e gli spiegarono che dire la verità è molto più virile che uccidere la gente, cosa che qualsiasi vigliacco è capace di fare se si è fissato l'idea in testa e se ha gli attrezzi giusti. Lo storverme raggiungeva il Kraken al largo ogni giorno e gli strisciava sul dorso e dalla riva si udiva il loro aspro parlottio mentre chiacchieravano insieme in islandese. Nessuno sapeva cosa gli dicesse il Kraken, ma quando il verme tornava a terra era sempre più calmo e non si lamentava più di essere troppo lungo per le sue idee e di volersi far accorciare da un chirurgo plastico. Anche le sirene erano cambiate. Uscivano dal capannone di decatramazione e nuotavano intorno alla meravigliosa bestia cantando, e per quanto Oona gracchiasse ancora, la sua voce migliorava ogni volta che appoggiava la testa sul fianco del Kraken e il ricordo dello smidollato Lord Brasenott impallidiva sempre più. In quanto alla bubri, fece una cosa incredibile. Strappò col becco il mantello dalle spalle di zia Coral e lo stese sulle uova, e poi svolazzò alla baia e si appollaiò sul dorso del Kraken strombazzando. Strombazzò per un'ora intera ed era difficile credere che lui la capisse, ma invece sì. Gli diceva quanto era triste senza suo marito, e gli chiedeva di stare attento se per caso lo incontrava quando ripartiva, chissà mai avesse perso la strada. «È sempre stato un uccello sbadato» disse. Herbert non usciva quasi dall'acqua; stava sempre vicino al Kraken nella baia. Ora che aveva deciso di vivere la sua vita da foca aveva più forza e più dignità, perché nulla tranquillizza di più che aver preso una decisione. Mirta soffriva di non potergli più suonare il violoncello, ma lo capiva. In quanto alla madre di Herbert, che era ormai molto vecchia e fragile, aveva smesso completamente di incitarlo, perché capiva che se Herbert avesse deciso di diventare un uomo con tanto di pantaloni con la zip, avrebbe potuto solo avvicinarsi al Kraken in barca e parlargli col megafono e non sarebbe stata la stessa cosa. Ma non erano solo le creature speciali, quelle con un tocco di magia, che volevano vedere il Kraken e parlargli. Tutti gli esseri che camminavano o strisciavano o nuotavano volevano stargli vicino. Processioni di lombrichi, scolaresche di sardine e di pesci palla, battaglioni di aragoste e un'infinità di chiocciole di mare andarono a trovarlo. «Si riposerà abbastanza?» si chiedeva zia Etta. Ma quando lo domandò al Kraken, questi portò solo gli stupendi occhi su di lei e disse
(almeno lei pensò che dicesse - il suo inglese era un po' esotico) che non esisteva nessun essere vivente che non gli fosse gradito. C'erano però due persone che non avevano preso la barca per andare a confidare al Kraken i propri problemi. Minette non gli aveva chiesto di far smettere ai suoi genitori di litigare, e Fabio non gli aveva chiesto di disintegrare il rettore di Tristemelma. Un po' perché ormai la loro vita passata pareva ai bambini del tutto irreale, ma principalmente perché non erano mai stati tanto indaffarati. Infatti il Kraken non stava solo riposando. Stava osservando. Ed era suo figlio che stava osservando. O meglio, stava osservando come Fabio e Minette trattavano suo figlio. Era stato difficile per il Kraken decidere cosa fare del suo piccolo. Dapprima aveva pensato di rimandare il viaggio risanatore intorno al mondo fino a quando suo figlio fosse cresciuto un po'. Ma l'infanzia dei Kraken è molto lunga -avrebbe dovuto aspettare più di cento anni che il piccolo crescesse, e quando si rese conto dello stato pietoso del mondo, capì che non poteva rischiare. Poi pensò che forse avrebbe potuto lasciare il piccolo orfano di madre nel Mare Artico insieme ai trichechi e agli orsi polari e ai narvali che gli erano familiari. Ma il progetto era crollato davanti al desiderio del figlio di viaggiare insieme a lui. «Non puoi. È troppo lontano» aveva detto il Kraken. Ci vuole un anno e un giorno per fare il giro degli oceani del mondo, un viaggio assolutamente troppo lungo. Il bebè nuotava lentamente e aveva spesso bisogno di riposarsi sul dorso del padre, e nessuno può dedicarsi veramente a risanare il mondo se deve preoccuparsi di un figlio. Il Kraken sapeva dell'Isola e delle soccorrevoli zie come sapeva di tutto, e alla fine aveva deciso di vedere se era il posto giusto per lasciarci suo figlio. Ma non era persuaso fino in fondo. Le zie sono una bella istituzione ma queste erano zie senza bambini e il piccolo Kraken aveva bisogno di qualcuno della sua età. O meglio di qualcuno un po' più grande ma che ricordasse ancora i dispiaceri e i giochi e le tragedie di quando era piccolo. Ecco perché la prima parola che aveva detto appena arrivato era stata «Bambini?», e perché ora seguiva Fabio e Minette con la massima attenzione con i suoi occhi dorati. Se non si dimostravano adatti a curarsi del suo piccolo, intendeva rinunciare al viaggio e tornarsene a casa. Una volta che si hanno dei figli niente è più importante del loro benessere. Ogni genitore al mondo lo sa. Il piccolo Kraken non assomigliava per niente a suo padre. Era ancora molle e tondeggiante come se il suo corpo non avesse ancora deciso che forma prendere. A volte gli spuntavano delle protuberanze che erano quasi delle braccia e delle gambe, ma come braccia non servivano a granché, e come gambe non poteva di sicuro camminarci sopra. Più tardi gli sarebbero cadute, e lui sarebbe diventato affusolato e adatto al mare, ma per il momento pareva piuttosto un grosso sacco di fagioli, e non si sapeva mai che forma avrebbe deciso di prendere. Eppure si vedeva che era il figlio del potente Kraken. Aveva gli stessi meravigliosi, grandi occhi, la stessa bocca larga che sorrideva facilmente, le stesse narici sensibili che inspiravano i profumi della terra e del mare. Come suo padre, anche lui attirava le creature del mare, e quando si riposava in una pozza d'acqua tra gli scogli, i cirpedi, i buccini e le stelle marine splendevano di felicità e di salute. Ma c'era una cosa che non sapeva fare. «Sa mormorare?» chiese Fabio il primo giorno.
Stavano pranzando. Lambert aveva ingoiato il cibo e si era fiondato nella sua stanza, dove se ne stava stravaccato sul letto con le tende chiuse. Credeva ancora che lo drogassero e che le strane creature che vedeva non ci fossero veramente, ma vedere un'intera isola che non c'è veramente lo faceva impazzire. Zia Etta scosse la testa. «È troppo giovane. Per un Kraken mormorare è come per un ragazzo cambiare voce; succede quando deve succedere. Peccato, perché è così che i Kraken si parlano a distanza». «Non c'è modo di insegnarglielo prima?» chiese Minette. «Suo padre non potrebbe?» Ma zia Etta disse, no, succederà al momento giusto. Non aggiunse che il Kraken era preoccupato, sapendo che il suo bambino non avrebbe avuto la possibilità di chiamarlo quando fosse partito. Ma se non sapeva mormorare, il Kraken incominciava a parlare. Però, per Minette e Fabio il guaio era che lingua parlava. Con suo padre parlava polare, ma via via ci aveva mescolato altre lingue, e ora che stava imparando un po' di inglese cadeva continuamente nel norvegese o nello svedese o addirittura nel finlandese e i bambini non ci capivano un'acca. Ma Fabio stesso aveva dovuto imparare l'inglese non molto tempo prima, e si ricordava che le prime parole che aveva imparato erano i nomi delle cose da mangiare. Dopo fu facile. Perché il piccolo Kraken non si nutriva solo di plancton come suo padre: stava ancora crescendo e aveva bisogno di cibi solidi che masticava con le gengive un po' come un vecchio sdentato. «Questa è salsiccia» diceva Fabio presentandogli un salsicciotto di Art e il Kraken ripeteva «Siccia», o «Ghetti» quando gli mostrava gli spaghetti di cui era molto ghiotto, e naturalmente imparò subito a dire «Ancora!» e «No!» come fanno i piccoli di tutte le specie. Permetteva già ai bambini di giocare con lui nell'acqua, lanciandogli una palla o facendo finta di nascondersi dietro una roccia. Li seguiva anche mentre remavano nella barchetta, ma dopo pochi istanti tornava sempre da suo padre e si stringeva al suo fianco, perché il legame tra i due era molto, molto forte. E per quanto il grande Kraken fosse ogni giorno più sicuro di aver trovato il posto giusto dove lasciare suo figlio, gli si stringeva il cuore al pensiero che la separazione si avvicinava.
Capitolo quattordici L'isola successiva su cui sbarcò Stanley Sprott non era popolata da nudisti. Non era popolata affatto. Se non da pecore. Vi approdarono fendendo cateratte di pioggia. Era la pioggia più bagnata che avessero mai visto, e pareva dovesse cessare presto perché il cielo si era svuotato, ma non cessò. E sull'isola bassa e fradicia c'erano centinaia - anzi, migliaia - di fradicie pecore. «Non c'è dove attraccare» disse il capitano. Ma dopo il secondo giro intorno all'isola trovarono una stretta insenatura, la risalirono scoppiettando, e trovarono una spiaggetta di ciottoli dove tirare in secco la lancia. Nessuno aveva voluto sbarcare in mezzo ai nudisti rosa e nessuno volle sbarcare in mezzo alle pecore bagnate.
«Il ragazzo non è qui» disse Des. «Nessuno resisterebbe in quel letamaio». Ma il signor Sprott immaginava un labirinto di grotte e di gallerie sotterranee dove imperversavano le zie pazze che tenevano prigioniero Lambert. «Possono aver portato le pecore per ingannare la gente» disse, «oppure salgono ogni tanto e ne uccidono una per mangiarla» e ordinò di gettare l'ancora. Lasciando Casimir a far la guardia alla nave, remarono fino all'isola e misero piede a terra. Non era un posto gradevole. Le pecore non scoppiano d'allegria quando diventano adulte, e quelle erano le pecore più tristi e desolate che si possano immaginare. Stavano ammassate insieme, con l'acqua che gli scorreva lungo il naso, e puzzavano di lana bagnata e di lanolina. Alcune avevano la pedaina, e per quanto le cacche di pecora non siano spiaccicose come quelle di mucca, non è bello camminarci sopra con la pioggia. «Dobbiamo girare l'isola a cerchi concentrici; così non ci sfuggirà nessuna apertura. Come cercare una palla in un prato» disse Stanley Sprott. Così arrancarono in tondo, con l'acqua che gli colava nel collo, slittando sull'erba bagnata o su quell'altra cosa bagnata, mentre le pecore si ammassavano insieme, troppo infelici per poter nemmeno alzare la testa, e ogni tanto belavano mestamente, producendo un suono che più che un Bee pareva il lamento di spiriti dannati. Se le zie pazze le avevano portate in quel posto per tenere lontana la gente non era poi stata una cattiva idea.
«Non ci saranno grotte» disse Des. «Non è terreno da grotte». Ma Stanley Sprott gli disse solo di tener la bocca chiusa. Poi, quasi al centro dell'isola, trovarono veramente un'apertura che portava sottoterra. «Scendi» disse il signor Sprott, eccitatissimo. «Fai capire di essere armato. Noi ti copriamo». Così Des entrò nel buco e schizzò fuori quasi subito sconvolto. «Allora? Cosa c'è dentro?» «Altre pecore» disse Des, massaggiandosi il sedere. «Montoni. Sono due e matti come cappellai». Si girò per mostrare al signor Sprott i buchi nei pantaloni. «Fortuna che non sono arrivati alla carne. Puoi prenderti la rabbia, se ti infilza un montone».
Mentre Stanley Sprott cercava suo figlio tra pecore e nudisti, la polizia lo aveva seguito su un peschereccio. Ora, però, furono sorpresi dal maltempo; ondate di nebbia li avvolsero da ovest, e il comandante del peschereccio scoprì che il radar era in tilt. Insistette per dirigersi al porto più vicino e farlo aggiustare, e l'Uragano proseguì la navigazione senza essere pedinato. Rimaneva una sola isola che corrispondeva alla descrizione di Lambert. Era molto lontana ma doveva essere quella giusta; doveva! «Avanti tutta!» abbaiò il signor Sprott al capitano, che si limitò ad alzare un sopracciglio. Viaggiava a dodici nodi da quando avevano perso di vista l'ultima pecora e finché il tempo non si schiariva non avrebbe di sicuro aumentato la velocità. Intanto a Londra i genitori di Minette e i nonni di Fabio avevano deciso di incontrarsi per lamentarsi della polizia e della lentezza con cui si occupava del loro caso. Il commissario li aveva informati che c'era una possibile pista per rintracciare i bambini, e questo barlume di speranza aveva fatto emergere tutti i loro aspetti più antipatici. La riunione avvenne nella fredda casa dei Mountjoy con il gong di bronzo nell'ingresso e i ritratti degli avi defunti alle pareti. Ai Mountjoy non piacque l'aspetto della signora Danby, che come al solito fumava a catena e aveva una camicetta che mostrava più di quanto ritenessero opportuno. Il professor Danby piacque un po' di più perché era solenne e tetro come loro. Ma lo scopo principale della riunione non era di fare amicizia, ma di lamentarsi. «Se chiedete a me, la polizia è troppo intenta a trovare alloggio per i luridi barboni e a coccolare i disoccupati per fare il proprio lavoro seriamente» disse il vecchio Mountjoy. Alla fin fine aveva deciso di non far venire i genitori di Hubert-Henry. Sua moglie aveva avuto gli incubi con gli indiani armati di frecce avvelenate in agguato nel letto, e aveva il cuore debole. Il professor Danby gli diede ragione. «Anche se trovano i rapitori li mettono in prigione e basta. Ai vecchi tempi li avrebbero impiccati, e giustamente». I Mountjoy assentirono. «È assolutamente sconvolgente come trattano questo caso. Scandaloso». Decisero di protestare con il loro deputato al Parlamento, e il professor Danby dichiarò che avrebbe preteso delle indagini a tutto campo. Il signor Mountjoy approvò. «E io scriverò al Ministro della Giustizia. Dio solo sa dove andrà a finire il paese se tre bambini possono svanire nel nulla senza che si muova un dito!» La signora Danby schiacciò la sua sigaretta e se ne accese un'altra. «Pensavo che potremmo far causa alla polizia» disse pensierosa. «Spillargli un po' di soldi. E magari ottenere qualcosa per l'ansia che stiamo vivendo». Il professor Danby stava per rimbeccarla. Rimbeccava sempre sua moglie, ma questa volta no. «È un'idea» ammise. «Con quei soldi potremmo far divertire i bambini» disse la signora Danby. Lei avrebbe comperato a Minette una quantità di vestiti, e se rimaneva qualche spicciolo poteva comperare anche qualcosa per sé. C'era quel delizioso vestito di georgette rosa con la sottogonna nera che aveva visto nella boutique di Adrienne... e il tappeto del soggiorno faceva veramente pena. Anche il professor Danby stava pensando a come avrebbe potuto aiutare Minette con quattro soldi in più; nella stanza dove dormiva quando abitava da lui ci voleva una vera scrivania dove potesse fare i compiti, e se avanzava qualcosa lui aveva bisogno della nuova
Gramatica Scholastica in cento volumi. Ci aveva messo l'occhio sopra da mesi ma il prezzo era proibitivo. Perfino i vecchi Mountjoy pensarono che far causa alla polizia fosse una bella pensata. La retta di Hubert-Henry a Tristemelma era ridicolmente alta; qualsiasi aiuto sarebbe stato bene accetto. Stavano pensando al modo migliore di farlo quando la cameriera entrò con il servizio per il tè su un vassoio d'argento. Era l'unica che si era affezionata a Fabio e ora chiese se c'erano notizie. «No, nessuna notizia» tagliò corto la signora Mountjoy e le disse di portare dell'altra acqua calda. Dove voleva arrivare la servitù, se già ficcava il naso negli affari di famiglia? Mentre a Londra i Danby e i Mountjoy si incontravano per recriminare, una cosa triste e grave accadde nella città di Newcastle sul Tyne. La madre di Bubù e di Picci inciampò in una buca nel marciapiede e si ruppe l'anca. Rompersi l'anca è una brutta faccenda. Arrivò un'ambulanza che la portò di corsa all'ospedale dove le misero un perno nell'articolazione e le dissero che doveva fermarsi lì una settimana e poi muoversi con prudenza per un sacco di tempo. Questo diede dei problemi a suo marito, l'ispettore delle tasse. Fare l'ispettore delle tasse è un lavoro molto gravoso. Si deve andare in ufficio ogni giorno e compilare moduli a non finire e mandare lettere intimidatorie alle persone che cercano di non pagare le tasse, e fare una gran quantità di somme. Il marito di Betty, che si chiamava Ronald, era un ispettore delle tasse molto coscienzioso e capì che non poteva occuparsi di Bubù e di Picci se voleva continuare a lavorare. Ma allora accadde una cosa sorprendente. Stava giusto chiedendosi cosa cavolo fare dei bambini quando una donna alta dall'aspetto battagliero risalì il vialetto di accesso, con una valigia in una mano e una padella per friggere nell'altra. L'ispettore delle tasse non aveva mai usato una padella di quel tipo perché sua moglie odiava le ricette esotiche, ma sapeva che si trattava di un wok e quando ebbe capito questo seppe chi era la signora. Era Dorothy, la sorella di Betty, che era stata in prigione a Hong Kong per aver picchiato in testa il proprietario di un ristorante che serviva bistecche di pangolino nel suo locale. Doveva aver conservato il wok come ricordo, e quando fu più vicina egli vide che era così perché di lato c'era un'ammaccatura fatta probabilmente dalla testa dell'uomo. «Dov'è Betty?» chiese Dorothy, posando a terra la valigia. Betty non le piaceva, con la sua mania di radersi le gambe e di tenere tre tipi di deodorante nel bagno, ma la famiglia è sempre la famiglia e, nel viaggio di ritorno all'Isola, aveva deciso di passare da lei a vedere come stava. Capì subito il suo errore. Far visita a Betty in ospedale era una cosa, ma ricevere la richiesta di occuparsi di Bubù e di Picci era una cosa del tutto diversa. «Non sopporto i bambini, lo sai» disse Dorothy. Avrebbe potuto dire: «Non sopporto i tuoi bambini», ma non lo disse per quel fatto che Betty era della «famiglia». Betty si mise a piangere. Aveva la gamba ingessata e appesa a un marchingegno e la faccia piena di lividi, sicché quando piangeva faceva veramente pena. «Ti prego, Dotty - oh, ti prego. Il povero Ronald lavora tanto, e non può rinunciare al suo impiego». A Dorothy non piaceva che la chiamassero Dotty e non le piaceva Ronald e detestava la casa di Betty dove ogni oggetto era coperto con cuffiette all'uncinetto o tovagliette ricamate o inondato di profumi dolciastri che ti entravano nel naso e non se ne andavano più. Le sedie di Betty avevano le fodere, e le fodere avevano altre fodere per tener pulite le fodere,
come se sedersi fosse un'azione pericolosa, e tutto l'insieme faceva impazzire Dorothy. Inoltre aveva nostalgia dell'Isola e di Mirta e di Coral e in modo particolare di Etta che era la più vicina di età e la sua amica più cara. Ma c'era Betty con un'aria assolutamente disperata, e dopo tutto non era colpa sua se era un'idiota e aveva due bambini ridicoli. La vita è ingiusta e lo è sempre stata. «Mi fermerò una settimana» disse Dorothy. «Finché superi il peggio. Poi basta». Ma dopo un paio di giorni Dorothy ebbe un crollo. Bubù e Picci erano i bambini più cretini che avesse mai visto. Piangevano se lei scambiava i posti dove tenere il pigiama e quello di Bubù finiva nelle gonne della fatina mentre la camicia da notte di Picci veniva chiusa nella pancia di un cucciolo peloso. Piangevano se porgeva l'asciugamano sbagliato e Bubù doveva asciugarsi con Snoopy e Charlie Brown mentre Picci veniva strofinata con Winnie Pooh sui pattini a rotelle. Facevano una tragedia se portava in tavola la scatola dei cereali senza il suo rivestimento coi volant, e si lagnavano se non aveva districato le nappine dei paralumi. «Bene, ora basta» disse Dorothy il quinto giorno. «Vado a casa». Ma quando lo disse a Betty, che era ancora all'ospedale, sua sorella si rimise a piangere. «Come farò?» singhiozzava. «Nessuno dei vicini ha voglia di badare ai miei bambini». Dorothy aprì la bocca per spiegarle perché e la richiuse. Dopo tutto, Betty stava male ed era sua sorella e non avrebbe potuto radersi le gambe per settimane per via del gesso. D'altra parte nulla poteva ormai impedire a Dorothy di tornare all'Isola. «Penso che potrei portarmi dietro i bambini. Solo fino a quando starai meglio». Si pentì subito di averlo detto, ma era troppo tardi. Betty la guardò con gratitudine. Normalmente avrebbe fatto qualsiasi cosa per tener lontani i suoi tesori da quel luogo selvaggio dove gli animali entravano e uscivano dalla casa e niente veniva fatto con grazia, ma ora era la sua unica speranza. «Grazie, Dorothy» disse. «Forse l'aria di mare gli farà bene». E così la settimana dopo Dorothy prese il treno per prendere il vaporetto per prendere il secondo vaporetto per prendere la barca che finalmente l'avrebbe portata a casa. Non aveva la possibilità di avvertire le sorelle di chi si portava appresso, ma non importava. Fossero anche stati terribilmente incatramati, Bubù e Picci non avrebbero avuto una buona accoglienza sull'Isola.
Capitolo quindici Minette era seduta sul letto vicino alla finestra aperta e si sforzava di spazzolarsi i capelli. Zia Etta insisteva che ci volevano cento ripassate ogni sera, ma a un certo punto depose la spazzola e sospirò. «Non avrò mai bambini. Mai. È spaventoso». «Oh, su» disse Fabio, venendo dal bagno. «Non è poi così terribile». Ma era stato veramente terribile. Si erano svegliati presto e avevano immediatamente capito quello che era successo. Ancor prima di arrivare alla finestra avevano avvertito il vuoto e il silenzio. Al pianoterra le tre zie sedevano rigide intorno al tavolo della colazione. Coral pareva più
magra e Mirta aveva indossato la camicetta alla rovescia. «Andate da lui» disse zia Etta appena i bambini ebbero finito. «Vi dispensiamo da tutti gli altri lavori». Fuori rimasero esterrefatti. Eppure il Kraken si era fermato lì poco più di una settimana. Come poteva sembrare così vuota, così sbagliata la baia? E come poteva una bestia tanto grande scivolare via senza farsi sentire? Faceva presto zia Etta a dire: «Andate da lui». Ma lui dov'era? Non era vicino alla spiaggia, nella sua pozza preferita tra gli scogli. Le sirene sorvegliavano l'entrata alla baia, ma i bambini sapevano che lui non avrebbe mai tentato di seguire suo padre. Era piccolo, sì, ma sapeva cosa significava mantenere una promessa. Alla fine lo trovarono, seminascosto sotto una roccia sporgente. Era quasi sommerso ma la testa gli spuntava dall'acqua e aveva gli occhi fissi sul mare aperto. Quando li vide, fece il suono più patetico che avessero mai sentito, un lamento disperato che finiva con una specie di mugolio. Come un cucciolo a cui sia stato ordinato «Stai lì» quando il padrone esce di casa, il piccolo Kraken aspettava... e aveva l'aria di voler aspettare per tutta l'eternità il ritorno di suo padre. «Vieni» disse Fabio sporgendosi dalla roccia. «È ora di far colazione. Andiamo a vedere cosa ti ha preparato Art». Ma il Kraken si limitò a guardarlo e poi due lacrime sgorgarono dai suoi occhi dorati e rotolarono nell'acqua. Non voleva mangiare e non voleva giocare. «Palla no» disse quando gli portarono il pallone da spiaggia, e «Nascondino no». Non volle seguire la loro barca, però quando si allontanarono gemette e tremò ancora più forte. Alla fine entrarono nell'acqua insieme a lui e gli accarezzarono il dorso, ripetendogli mille volte che suo padre sarebbe tornato, che loro gli volevano bene, che era l'ultimo di una grande e possente stirpe di Kraken e doveva farsi forza ed essere coraggioso. Tutti diedero una mano. Le sirene si avvicinarono e cantarono per lui, ma il Kraken chiuse solamente gli occhi sospirando così forte che sussultava tutto. Lo storverme gli parlò all'orecchio. «Andare è venire» disse il verme con la sua voce solenne. Quello che intendeva dire era che la terra è rotonda sicché il grande Kraken aveva già cominciato a tornare appena partito. Ma il pensiero che la terra è rotonda era troppo complicato per il figlio del Kraken, le cui lacrime continuarono a scorrere rendendo le alghe e i pesciolini su cui cadevano più grandi e più colorati. «Pensi che gli farebbe bene se Mirta gli suonasse il violoncello?» chiese Minette, ma non fu così. Nonostante Mirta avesse appena detto addio a Herbert che era partito con il grande Kraken, accorse subito, ma non si sa mai con la musica: ti può rendere felice ma ti può dare anche molta, molta tristezza. I bambini non osavano lasciarlo solo; appena si allontanavano gemeva in modo ancora più straziante. Art portò loro il pranzo alla spiaggia ma lui girò la testa dall'altra parte. «Siccia no» disse quando gli offrirono una sfoglia con la salsiccia, e «Chips no» quando gli porsero le patatine fritte che gli piacevano tanto. Verso la fine della giornata i bambini erano al colmo dell'agitazione. «E se ci deperisce e muore?» disse Minette, vicina alle lacrime. «Non succederà» disse Fabio. Ma i suoi occhi erano più scuri del solito. A volte succedeva che uno si girasse con la faccia contro il muro e morisse; l'aveva visto in Brasile.
Il grande Kraken nuotava da qualche ora quando riprese il suo Murmure Risanatore. Era tutto come nel suo viaggio verso l'Isola. Il cielo era azzurro, l'aria era mite; sopra di lui volava la sua scorta di uccelli, sotto di lui ruotavano i delfini e le foche. Arrivò all'altezza di un peschereccio lontano cento miglia. L'equipaggio aveva issato a bordo tre tonnellate di tonni e stava gettando nuovamente in mare le reti per ingrossare il mucchio di corpi insanguinati che si dibattevano sul ponte, quando il capitano si raddrizzò e si stropicciò la fronte. «Basta» disse improvvisamente. «Ne abbiamo presi abbastanza». I suoi uomini lo guardarono. Era il pescatore più avido della zona; era stato ripetutamente multato per aver superato la quota. «Mi avete sentito» disse, e le reti vennero ritirate e la barca si girò e puntò verso la costa. Ma sebbene il Kraken continuasse a mettere in ordine il mare come aveva fatto prima, aveva il cuore pesante. C'era un terribile vuoto alla sua sinistra dove suo figlio gli aveva nuotato accanto, e di notte aveva una strana sensazione sul dorso senza il piccolo bernoccolo che ci aveva dormito sopra. «Devi promettere di rimanere qui e di fare il bravo» aveva detto a suo figlio, e il piccolo aveva capito, ma meglio non ripensare all'espressione dei suoi occhi. Dopo un giorno e una notte di viaggio, Herbert nuotò fino alla testa del Kraken e gli disse addio. Gli costava molto lasciarlo e ritornare all'Isola, ma sua madre si stava via via indebolendo e lui sentiva il dovere di starle vicino. Dopo la partenza di Herbert il Kraken si sentì ancora più solo. Altre foche viaggiavano con lui, ma erano foche comuni, non selky; non gli leggevano nel pensiero, come Herbert. Su un grande scoglio, dopo aver nuotato un altro giorno, il Kraken vide una creatura che stava cercando. Un enorme uccello nero con il becco giallo e le zampe gialle, arruffato e confuso. Si fermò e guardò direttamente l'infelice uccello e, mentre gli occhi del Kraken penetravano nella sua tristezza, il bubri tornò in sé. Si ricordò di avere una moglie che aspettava le uova e di essere volato via alla ricerca di cibo e di essersi perduto, dimenticandosi chi fosse e dove stesse andando. Ora il bubri vide con improvvisa chiarezza l'Isola e il nido vicino al lago e la sua compagna che aspettava, aspettava. Accipicchia, poteva essere già diventato padre... e sbatté le ali una volta e due volte e alla terza riuscì a sollevarsi e volò via. E il Kraken riprese a nuotare. Arrivati al terzo giorno Fabio e Minette cominciavano a perdere la speranza. Avevano tentato tutto quello che riuscivano a escogitare per rallegrare il piccolo Kraken. Usarono tutto il detersivo liquido di Art per soffiargli le bolle, inventarono giochi subacquei, cantarono per lui e gli raccontarono delle storie, ma niente serviva. L'unica cosa che si poteva dire era che se lo lasciavano anche per un solo minuto stava peggio; si lamentava da spezzare il cuore e bagnava il mare con le sue lacrime. La preoccupazione più grossa era che non mangiava. Non era solo «Siccia no», ma anche «Ghetti no» anche se era stato ghiotto di spaghetti, e «Burghi no» nonostante Art inondasse gli hamburger di succulenta salsa di pomodoro. Controllarono attentamente se si nutrisse delle alghe e delle piante marine vicino alla riva, ma non era così. «Lo vedo diventare ogni giorno più magro» disse Minette, che non era propriamente grassa nemmeno lei. All'ora del tè zia Etta scese alla spiaggia e disse che quando era troppo era troppo. «Dovete salire in casa e fare un bagno caldo e fare merenda nella stanza da pranzo. Avete
l'aria di topi strapazzati dal gatto, tutti e due». «No, ti prego. Non possiamo lasciarlo» disse Minette. «Vogliamo portare qui una tenda e passare la notte sulla spiaggia». «Meglio non far aspettare Art» furono le sole parole di zia Etta. Così i bambini fecero il bagno caldo e si sedettero nella stanza da pranzo. Art aveva preparato tutte le loro pietanze preferite: sardine e striscioline di formaggio e cubetti di ananas sugli stecchini. E la scatola dei dolci era sulla credenza. Il povero Art metteva sempre la scatola dei dolci sulla credenza. La tirava fuori per colazione e per pranzo e per merenda, sperando sempre che qualcuno riuscisse a mangiare un altro bombolone. Perché se con un uovo di bubri si fanno settantadue omelette, è incredibile quanti bomboloni si riescano a fare. I bomboloni di Art erano molto invitanti: c'erano quelli con la glassa rosa e una ciliegina sopra e quelli con la glassa bianca e uno smarty sopra e quelli con la glassa marrone e gocce di cioccolato sopra - ma col passare dei giorni zie e bambini avevano smesso di mangiarli. I bomboloni di bubri saziano molto e semplicemente nessuno riusciva più a mandarne giù uno. Ora, mentre Fabio prendeva in mano la scatola, Minette disse: «No! Assolutamente no. Non ce la faccio!» «Lo so» disse Fabio. «Neanch'io. Ma mi chiedo...» Quando giunsero alla spiaggia i bambini ignorarono il Kraken. Si sedettero al bordo dell'acqua e aprirono la scatola. Fabio tirò fuori un bombolone bianco e Minette uno rosa. Fecero finta di mangiarli, masticando rumorosamente. «Bomboloni» disse Fabio, accarezzandosi lo stomaco. «Bomboloni» disse Minette, sospirando di piacere. Il Kraken si avvicinò e stette a guardare. I bambini continuarono a far finta di mangiare i dolci. Il Kraken si avvicinò di un altro pochino. «Niente bomboloni per te» disse Fabio. «I bomboloni non ti piacciono». Il Kraken fece un'aria offesa. Non era abituato a essere tagliato fuori. Uscì per metà dall'acqua, la testa sulla sabbia. «Bomboni?» disse il Kraken, cimentandosi con la parola. Fabio si strinse nelle spalle. «Be', puoi provarne uno, suppongo, ma non ti piacerà». Scelse un bombolone bianco con una grossa ciliegia sopra e lo tenne alzato. Il Kraken lo studiò... aprì la bocca... la richiuse. Per un momento non accadde nulla. Poi ci fu un bagliore nei suoi occhi dorati. «Bomboni» disse il piccolo Kraken. «Ah, bomboni!» e aprì di nuovo la bocca... Quando si fu mangiato sette bomboloni, Fabio si girò a guardare Minette accucciata sulla sabbia. Si copriva la faccia con le mani ma lui vide le lacrime che le filtravano tra le dita. «Be', davvero» disse irritato. «Meglio che tu non faccia mai figli se sei così pappamolle».
Capitolo sedici «Se adesso tu potessi tornare - se i tuoi genitori venissero a prenderti, cosa faresti?»
chiese Fabio il giorno seguente. Minette sentì il familiare crampo allo stomaco. Ma perché quel crampo? Era perché si chiedeva se i suoi genitori le volevano bene e si volevano bene, o era per qualcos'altro? Era per l'idea di andar via dall'Isola? «Come potremmo lasciarlo?» disse. «Dovremmo fermarci finché torna suo padre. Manca solo un anno e un giorno - meno ormai. Dovremmo fermarci fino allora, ti pare?» Fabio annuì. «Penso di sì. Ma se ci trovano...» Giocavano a palla con il piccolo Kraken in una pozza tra gli scogli, sorvegliandolo bene Perché Walter nuotava nei paraggi e certe volte il Kraken si confondeva e prendeva la testa calva e rotonda del sirenetto per un pallone da spiaggia. «Io dai miei nonni non ci torno» continuò Fabio. «Quelli di Londra, voglio dire. Mai e poi mai. Se devo lasciare l'Isola tornerò in Sudamerica. Non so come, ma ci andrò». Minette annuì. Pareva piccolo, seduto su un masso con le braccia intorno alle ginocchia, ma lei gli credette. I due bambini erano cambiati da quando erano arrivati sull'Isola: più robusti, abbronzati, coi capelli folti e lucidi. «Non è tutto stupendo?» disse Minette, girando lo sguardo sulla baia. «Certo lo era anche prima che arrivasse, ma adesso...» Era vero. Stava iniziando l'estate; l'erba era tempestata di trifoglio e di margherite; il sorbo che dava ombra alla casa si era coperto di nuove foglie verdi, ma c'era qualcosa di più. Pareva che l'influsso benefico del grande Kraken durasse ancora e fosse destinato a durare, anche se lui se n'era andato. Lo sentivano tutti, e quelli che partivano erano sempre più rari! Il naak non tornò in Estonia; le sirene, nonostante non avessero più traccia di catrame, rimasero dov'erano, e la Sibilla continuò a lavarsi i piedi. Dopo la partenza del Kraken, il Capitano aveva chiamato le figlie. «Adesso posso morire contento» disse, «perché l'ho visto. Potete prendere le misure per la bara». Ma quando le zie, che erano uscite per piangere, ritornarono con un metro da sarta, lo trovarono che stava prendendo il tè insieme allo storverme. «Se la mia testa è al primo piano e la coda al pianoterra, dove sono io?» stava chiedendo lo storverme, ed era chiaro che il vegliardo aveva cambiato idea sul morire. Ma giù allo sperone di roccia, la madre di Herbert stava veramente giungendo al termine della sua vita. Aveva scelto l'Isola come suo Ultimo Luogo di Riposo, e questo era un onore perché i selky sono esigenti sul posto in cui morire. «Sono pronta ad andarmene, Herbert» disse. «Sono pronta ad affidarmi alle onde». E Herbert disse: «Il momento verrà, madre. Non anticiparlo». Ma sapeva che ormai mancava poco, e che quando il grande Kraken fosse tornato a riprendersi il figlio, lui sarebbe stato libero di partire con lui. Fu durante quelle giornate serene che vennero svegliati da un rumore nuovo per gli abitanti dell'Isola: un orgoglioso e gioioso gracchiare che fece accorrere zie e bambini al nido sulla collina. Ed eccoli là! Tre pulcini della grandezza di un bull terrier, con le piume ancora umide di uovo, coi becchi gialli già aperti, che pigolavano e si agitavano chiedendo il cibo. «Altre carriolate» fu tutto il commento di zia Etta poiché, con il bubri maschio ancora assente, la madre non ce l'avrebbe mai fatta a nutrire i pulcini da sola. Le zie però erano orgogliose quanto la madre stessa. Era da molti secoli che i bubri non si riproducevano in un luogo abitato dagli umani. Perfino Lambert era improvvisamente diventato quasi bravo e questo era il fatto più
straordinario. Eseguiva i suoi lavori senza brontolare, mangiava il suo cibo, a volte sorrideva addirittura. «È stato toccato anche lui dallo spirito del grande Kraken» disse Mirta, ma Fabio non la pensava così. «Se quel mostro fa il bravo ci dev'essere un motivo» disse. E aveva perfettamente ragione. La batteria del cellulare di Lambert aveva avuto un improvviso sprazzo di vita e lui aveva digitato il numero di suo padre. L'Uragano si stava dirigendo verso l'Isola, e a Stanley Sprott capitò di sentir suonare il telefono giù in cabina, e rispose. Sprott sapeva che era inutile fare a suo figlio domande sensate, tipo «A che latitudine e longitudine sei?» o «Ci sono scogli sommersi all'entrata della baia?», ma una domanda gliela fece. «Quelle donne che ti tengono prigioniero, sono nudiste?» «Eh?» fece Lambert, che non sapeva cosa fossero i nudisti. «Sono vestite?» volle sapere il signor Sprott. Lambert ci pensò su. «Sì» disse. «Sono vestite». «E pecore? Ci sono molte pecore?» Lambert disse che gli pareva di no. «Solo un po' sulla collina». Poi la batteria ricominciò a fare i capricci e lui disse freneticamente: «Ma tu stai venendo, no? Stai venendo a prendermi?» «Sì, Lambert, sto venendo» disse il signor Sprott. Fu dopo aver parlato con suo padre che Lambert cambiò. Tra poco sarebbe arrivato l'Uragano e suo padre avrebbe fatto fuori tutti: le spaventose zie, gli orribili bambini e gli schifosi mostri che non c'erano veramente. Quando Lambert sorrideva era perché stava immaginando la scena: tutti quelli che odiava morti stecchiti in un lago di sangue. «Mi sento male» disse Bubù, sporgendosi dalla ringhiera del piroscafo. «Anch'io mi sento male» disse Picci. «Più male di te». Zia Dorothy li guardò con disgusto. Avrebbe voluto spingerli in mare e andarsene all'Isola da sola. Era giusto far del bene picchiando i proprietari di ristoranti o i tipi che prendono in trappola gli animali rari per venderne la pelliccia, ma fare del bene prendendosi in carico gli orribili bambini di una sorella era un'idiozia. Il piroscafo ondeggiava appena, ma prima Bubù e poi la Picci vomitarono, e subito dopo cominciarono a preoccuparsi se si erano sporcati i vestiti. «Etta mi ammazzerà quando li vede» pensò Dorothy. Ma con tutta la voglia che aveva di gettarli a mare capiva che non era possibile, e così li portò giù in cabina e tamponò il colletto di velluto della giacca di Picci e il ridicolo blazer di Bubù, e raccomandò loro di rimanere distesi fino allo sbarco. Ma lo sbarco non fu che l'inizio. Poi dovettero prendere il traghetto per un'isola più piccola e lì dovettero attendere che quel dato pescatore di fiducia che non avrebbe mai fatto pettegolezzi o spifferato i segreti dell'Isola, li portasse a destinazione di notte. Le zie non si servivano mai di nessun altro, e chissà come si sarebbero sentiti male quegli scimuniti di bambini in una barca aperta e di notte. L'Uragano giunse silenzioso a mezzogiorno. Gettò l'ancora a sud dell'Isola, nascosto da un gruppo di alberi inclinati dal vento, e il signor Sprott portò Des e uno degli uomini armati a fare una ricognizione con la lancia. Ma anche se la nave fosse entrata nella baia nessuno l'avrebbe vista. Fabio e Minette
avevano portato il Kraken sulla sponda settentrionale a fare un picnic e le zie erano andate a trovare la Sibilla, come facevano ogni settimana per controllare che mangiasse abbastanza. Nemmeno il Capitano stava guardando nel telescopio ma sonnecchiava tranquillo nel suo letto. Il signor Sprott aveva avuto in mente di avvicinarsi a suon di cannonate ma poi ci aveva ripensato. Dopotutto, prima bisognava mettere in salvo Lambert. Quando la lancia superò lo sperone roccioso, con la sua corona di foche sonnacchiose, vide un bambino tutto solo al bordo dell'acqua. «È Lambert!» esclamò Des. Ed era lui! Qualsiasi piano avesse avuto in mente il signor Sprott venne accantonato quando suo figlio sguazzò fino a lui e gli si buttò piangendo fra le braccia. «Portami via, presto. Portami sull'Uragano. Oh ti prego, papà, fai presto». Il signor Sprott si liberò dall'abbraccio frenetico di Lambert e guardò il figlio. Aveva un bell'aspetto. In effetti, mai l'aveva visto così bene; ma questo non c'entrava. Il ragazzo era evidentemente terrorizzato. «È un posto orribile. Ti danno del cibo avvelenato e poi vedi strane cose» singhiozzò Lambert. «Che tipo di cose, Lambert?» «Cose bruttissime, schifose... bestie che strisciano, e mostri con la coda... solo che non ci sono veramente». Des fece un urlo improvviso. La guardia del corpo sapeva che gridare mentre tentavano di addentrarsi in un posto senza esser visti era una follia, eppure si alzò in piedi e indicò con gli occhi sbarrati uno scoglio che sporgeva dal mare «Mio Dio» gridò. «Guardi, capo! Perbacco, è una sirena!» «Noo!» gridò Lambert. «Non c'è veramente. È per via di quello che avete mangiato. Nessuna di loro c'è veramente, quell'altra non c'è e quella vecchia non c'è e il lungo verme bianco non c'è. È tutto per via di quello che Art ha messo nel...» «Buono, Lambert» disse suo padre. Poi a Des: «Prendila». Des non se lo fece ripetere due volte. Si sganciò la fondina e si tuffò nell'acqua. La sirena era Reginetta, e trovava tutta la faccenda molto divertente. Attese che quel goffo individuo l'avesse quasi raggiunta, poi fece la sua risata argentina e svanì sotto le onde. «Non c'è, non c'è» continuava a strillare Lambert. «È per quello che avete mangiato, per la farina di alghe di Art». «Non fare lo sciocco, Lambert» disse suo padre. «Non ho mangiato nessuna farina di alghe e l'ho vista chiaramente. A meno che fosse un trucco. Dev'essere stato un trucco, ma se è così è un ottimo trucco». Des stava ancora annaspando nell'acqua gelata. A un tratto si tuffò sott'acqua, allungò le mani per afferrare qualcosa, ma fece cilecca. Quando risalì sulla barca, però, stringeva nella mano due cose. Una scaglia d'argento e un capello d'oro. Il signor Sprott li esaminò. Poi si rivolse al figlio. «Senti, Lambert» disse. «Adesso raccontaci che cos'altro hai visto sull'Isola». «Non ho visto... non c'è...» «D'accordo, ragazzo. Raccontaci che cosa non hai visto, allora. Raccontaci bene». Quando Lambert ebbe finito di cianciare di vecchie sirene senza denti e di lunghi vermi bianchi che succhiavano le mentine e di uccelli grandi come elefanti - che, dal primo all'ultimo, non c'erano veramente - la faccia del signor Sprott aveva un'espressione di astuta avidità. Probabilmente erano tutte sciocchezze, ma se non lo erano, i soldi che si potevano
fare! E quegli alberi con i rami segati - quelli che Lambert chiamava gli alberi dello storverme - li vedeva con i suoi occhi. «Continua, cos'altro?» spronò, dando una rude gomitata nelle costole al figlio. Ma Lambert aveva detto tutto quello che poteva. La vista di quell'isola nella baia, che la sera non c'era e che la mattina dopo non c'era veramente, lo aveva spaventato a tal punto che non riuscì a parlarne, e nemmeno della piccola isola che si era staccata dalla grande ed era in giro da qualche parte. «Ti prego, papà, portami a casa» piagnucolò. «Guarda, eccole; vengono a prendermi!» Stanley Sprott alzò gli occhi. Le tre paurose donne i cui ritratti erano appesi ai muri di ogni commissariato di Londra stavano venendo verso di loro. Zia Mirta era in testa, il che non era sua abitudine. Aveva in mano un pacco marrone ed era molto nervosa, ma in un certo senso Lambert era suo, come Fabio era di zia Coral e Minette apparteneva a Etta, e riteneva di doverlo riconsegnare lei stessa. «Buongiorno» disse facendosi coraggio. «Vedo che è venuto a prendere Lambert. Sarà contento di tornare a casa. Temo che non si sia mai veramente ambientato». Il signor Sprott la guardò sbalordito. Incredibile la faccia tosta di quella donna. «Ho lavato e stirato la sua biancheria e i suoi pigiami. Non ho potuto portar via molti vestiti nella custodia del violoncello ma troverà tutto qui dentro». Mirta aveva fatto il massimo che era in grado fare e si tirò indietro, lasciando il passo alle sorelle, che chiesero al signor Sprott se gradiva fermarsi a pranzo. Mentre parlava, Etta girava gli occhi cautamente sulla baia. Aveva raccomandato a tutti di non farsi vedere appena la lancia aveva doppiato la punta, ma non si poteva mai essere sicuri, pensò, senza sapere che era già troppo tardi. «No, non fermiamoci» supplicò Lambert. «Non mangiare niente in quella casa, o crederai di vedere vermi e bestiacce». «Stai buono, Lambert» disse suo padre, e rispose alle zie che accettava con piacere. Fu un pranzo strano. Le zie avevano ricevuto un'ottima educazione e per quanto pensassero che il signor Sprott era proprio odioso come c'era da aspettarsi dal padre di Lambert, furono molto cortesi, gli passavano il sale e il pepe e gli riempivano il piatto. «Non vuol provare un croccantino al brandy?» chiese zia Coral. «Sono freschi di questa mattina». Il signor Sprott ne prese uno e decise che era l'ora di venire al sodo. «Ora, care signore» disse col suo sorriso untuoso. «Ho una proposta da farvi». Si chinò in avanti, intrecciando le dita sulla tovaglia. «La vecchiaia si avvicina e ho bisogno di un posto dove finire i miei giorni, quindi voglio che mi vendiate quest'isola». Mirta boccheggiò, e zia Etta lo guardò stupefatta. «Vendere l'Isola?» disse Coral. «Vendere l'Isola?» disse Mirta. «Venderla!» tuonò zia Etta. «Presumo che appartenga a voi, vero? E al Capitano Harper?» Le sorelle si guardarono. Non avevano mai pensato che l'Isola appartenesse a loro. L'Isola era lì e loro se ne occupavano. Ma a quel punto si ricordarono che in effetti il loro padre l'aveva acquistata da una vecchia coppia che non ce la faceva più a stare dietro ai lavori. «Immagino di sì» disse dopo un po' zia Etta «Ma non se ne parla nemmeno di venderla». «Non se ne parla assolutamente» disse Coral. «Oh no, non potremmo mai farlo» disse coraggiosamente Mirta. Il signor Sprott si appoggiò allo schienale della sedia e sorrise. Pareva proprio che non
capissero di essere completamente in sua balìa. «Sono pronto a offrire diecimila sterline» disse. «Ed è generoso per una miserabile isoletta... Voglio dire per una semplice isola incontaminata con una sola casa». Avrebbe recuperato tutti i suoi soldi in un mese, chiedendo duecento sterline per una gita in elicottero all'Isola dei Mostri. La graziosa sirena valeva lei sola una fortuna; l'avrebbe messa in un acquario facendo pagare un supplemento per sentirla cantare e vederla pettinarsi i capelli. In quanto a quel verme orripilante, vedeva già i visitatori che si aggrappavano l'uno all'altro urlando. L'avrebbe dovuto chiudere in una gabbia con la corrente elettrica. Sarebbe stato un misto di zoo, fiera dei divertimenti e Disneyland. «Molto bene, care signore. Dodicimila sterline e questa è assolutamente la mia ultima parola!» Ma Etta ne aveva avuto abbastanza di questo gioco sgradevole. «Temo che non venderemmo l'Isola nemmeno per cento milioni di sterline» disse. «La consideriamo un nostro Sacro Dovere. E ora se volesse portarsi via Lambert, dirò ad Art che può sparecchiare la tavola». «Eh no!» La voce del signor Sprott era cambiata. Era diventato il pericoloso prepotente che era sempre stato. «Penso che abbiate dimenticato una cosa, care le mie signore. Avete sequestrato tre bambini. Li avete condotti via con la forza. Mio figlio e altri due. La pena per i sequestri di persona è l'ergastolo, e potrebbe anche essere l'impiccagione. Stanno pensando di ripristinare la pena di morte, ho sentito. Così credo davvero che fareste meglio a vendermi l'Isola. O preferite che vi consegni alla polizia?» Ci fu un improvviso subbuglio alla porta. «Non può! Non può consegnarle alla polizia perché non ci hanno sequestrati». Minette aveva fatto di corsa tutta la strada dalla riva nord. Aveva i capelli arruffati, i vestiti in disordine, ma stranamente non era affatto spaventata. «Io ho chiesto se potevo venire. Ho chiesto a zia Etta se esisteva un terzo posto e lei mi ha portata qui». Fabio, che l'aveva seguita nella stanza, capì subito. «E neanch'io sono stato rapito! Zia Coral mi ha salvato da un'orribile scuola dove ti legano ai pilastri e tentano di incendiarti i vestiti. Se qualcuno dice che mi hanno rapito, io lo picchio!» «E nemmeno Lambert è stato veramente rapito». Minette, che non mentiva mai, sembrava impazzita. «Ha rubato il cloroformio a zia Mirta ed è svenuto per i vapori e zia Mirta se l'è portato via perché in casa non c'era nessuno che si curasse di lui». I due bambini lo sfidavano come due tigrotti inferociti. Tutte sciocchezze quelle che dicevano, il signor Sprott lo sapeva bene. La polizia gli avrebbe fatto sputar fuori la verità in quattro e quattr'otto, ma lui aveva cambiato idea. Gli era parso che valesse la pena tentare di concludere tutto nel modo più semplice: comperare l'isola e poi farne quello che voleva quando tutti se ne fossero andati. Ma c'erano altri sistemi. «Molto bene, a quanto pare mi sono sbagliato. Andiamo, Lambert, ti porto a casa». Prese il pacco di carta marrone con i pigiami di Lambert, strinse cortesemente la mano alle zie e uscì con suo figlio. «Oh sì, c'erano altri sistemi per metter le mani su quegli strani animali», pensò Stanley Sprott. «Tra non molto quelle rimpiangeranno di non avermi venduto l'isola, perché quello che succederà non sarà per niente piacevole!»
Capitolo diciassette Nel frattempo, a Londra, i genitori di Minette avevano trovato un altro sistema per far soldi, migliore di quello di far causa alla polizia. La prima a pensarci fu la signora Danby, e il professore lo seppe soltanto quando vide un giornale che la donna del tè aveva portato nella Sala Professori dell'università. In prima pagina c'era una fotografia di Minette da piccola in braccio alla mamma. «Madre affranta piange la figlia perduta», diceva il titolo, e sotto la foto c'erano delle cose tristissime dette dalla madre di Minette, tipo che nella sua giornata non passava un secondo senza che lei sentisse il dolore dell'assenza della figlia come una ferita nel fianco. Era un angioletto, aveva detto la signora Danby al cronista, e aveva aggiunto che accanto al letto di Minette bruciava giorno e notte una candela, che sarebbe rimasta accesa fino a quando la bambina le fosse stata restituita sana e salva. Appena vide il giornale, il professor Danby chiamò la moglie. «Quanto ti hanno pagato per questo?» volle sapere. «Ventimila sterline» disse la madre di Minette, «e non è troppo con tutto quello che ho passato». «Non so come puoi abbassarti a parlare con un fogliaccio vomitevole come Lo Strillo della Sera» disse il professore, e le sbatté il telefono in faccia. Ma fu furibondo per tutta la giornata. Ventimila sterline! Come se lui soffrisse meno per la figlia perduta. Non accendeva candele accanto al suo letto per paura di un incendio, ma la governante, che voleva bene a Minette, aveva portato un mazzo di fiori e li aveva messi nella sua stanza. Naturalmente Lo Strillo della Sera era fuori questione - neanche morto avrebbe voluto la sua foto su un giornalaccio del genere - ma se La Gazzetta del Mattino fosse stata interessata lui avrebbe potuto dire due parole sul suo dolore e la sua perdita. Da qualche parte c'era una foto presa dalla governante davanti all'università, in cui si vedeva Minette accanto a lui, vestito di toga e tòcco. Era riuscita piuttosto bene e rivelava chiaramente in quale ambiente vivesse. I nonni di Fabio erano troppo snob per farsi intervistare da un giornale, ma comparvero in TV in un talk show della notte, dove blaterarono sulla mancanza di disciplina nella vita moderna e sulla fiacchezza della polizia che non aveva ancora restituito loro il nipote. E mentre i genitori di Minette erano intenti ad arricchirsi e i nonni di Fabio a recriminare, un elicottero si preparava a decollare dalla pista della Polizia Metropolitana fuori Londra. Era un piccolo apparecchio che aveva come equipaggio solo un poliziotto e una poliziotta, e i loro ordini erano chiari. «Ricordate, se avete la possibilità di atterrare, vogliamo solo i due bambini. Le zie possono aspettare. E non scontratevi con Sprott. Per ora recuperiamo il bambino e la bambina, nessun altro». Appena aprirono la porta del capannone delle sirene, Fabio e Minette si resero conto che era successo qualcosa di grave. Loreen era accasciata sul pavimento e piangeva masticando manciate di gomme. Nella sua tinozza nell'angolo, Oona era pallida e abbattuta. La vecchia Ursula scuoteva la testa borbottando. «È colpa mia» gemeva Loreen. «Sono stata una mamma balorda e me lo merito». «Cosa c'è?» chiesero i bambini. «Cosa è successo?»
Loreen fece un singulto e tentò di parlare, ma vuoi per la gomma vuoi per il suo tormento nessuno riuscì a capire quello che stava dicendo, e fu la vecchia Ursula a dire: «Reginetta è scappata. È andata con quel gorilla che è venuto ieri e ha tentato di catturarla». «Che gorilla?» «È venuto nella barca col papà di Lambert e Reginetta è uscita a cantargli. Non pensavamo che le piacesse ma l'ha seguito». Un flebile gracidio venne da Oona quando si sforzò di parlare. «Non... le piaceva. Ha detto... che aveva dei bicipiti grotteschi». Ma le altre sirene non badarono a Oona, che voleva far capire che Reginetta non se n'era andata di sua spontanea volontà. I gemelli si difendono sempre a vicenda, e quello che le era capitato con Lord Brasenott aveva convinto Oona che tutti gli uomini erano cattivi, il che era sciocco. «L'ho viziata» gemette Loreen. «Le davo sempre le conchiglie migliori e le perle più belle da mettersi nei capelli». «Smettila con questa lagna» disse Ursula. «Non è colpa tua se Reginetta è un po' leggera». «Non è...» incominciò Oona, ma Loreen non fece che ficcarsi un'altra gomma in bocca e continuò a lamentarsi. «Sono stata una mamma balorda, è tutta colpa mia» ripeté, e prese Walter dalla bacinella del bucato e gli diede uno scappellotto sulla coda anche se non aveva fatto altro che frignare e guaire come al solito. «Dobbiamo dirlo alle zie» disse Fabio. «Oddio, davvero?» gridò Loreen. Ma la vecchia Ursula disse che sì, era meglio confessarlo. «Portate qualche carriola e verremo alla casa» disse. Così i bambini tornarono con tre carriole e con Art, perché le sirene si graffiavano la coda a trascinarsi sulla terra, e nessuno diede ascolto a Oona che continuava a gracchiare che a sua sorella non piaceva il gorilla. Le zie rimasero sconvolte. Non tanto per la leggerezza di Reginetta, ma perché voleva dire che il signor Sprott ora sapeva che c'erano delle sirene sull'Isola, e forse anche altre creature. «Mi chiedo se lo sapeva prima di venire qui a pranzo» ragionò Coral. «Credete che fosse per questo che voleva comperare l'Isola?» «Tornerà mica con dei fotografi?» balbettò Mirta. Fabio e Minette si guardarono. Erano vissuti abbastanza a lungo nel mondo esterno per sapere che il signor Sprott sarebbe potuto tornare con qualcosa di molto più pericoloso di un fotografo. Passò un giorno, e un'altra mezza nottata, e poi sentirono il rumore che avevano temuto: il rumore di una barca che entrava nella baia. Allora il signor Sprott era già di ritorno! In un attimo le zie furono giù dal letto. Etta corse a prendere l'archibugio del Capitano, Coral agguantò la fionda di Art, Mirta brandì la spazzola col manico lungo che le serviva per strofinarsi la schiena. Fuori, la notte era buia e senza luna, ma riuscirono a intravvedere la barca che accostava al molo. Il motore si spense... il carico fu portato a terra... e immediatamente la barca fece marcia indietro e si allontanò. Le zie, con le armi in pugno, scrutavano nell'oscurità. Poi improvvisamente Etta ruppe il silenzio con un gran grido e corse verso il molo. E lì, alta tra le sue valigie, c'era una donna con un lungo impermeabile, che teneva in mano una cosa che pareva una padella per
friggere. «Dorothy! Oh che gioia, che bello vederti!» Abbracciò la sorella, senza riuscire a trattenere le lacrime di felicità e di sollievo.
Fu solo allora, mentre si avvicinavano le altre zie, che Etta notò due piccole figure seminascoste dai bagagli. «Santo cielo, Dorothy, chi hai lì?» chiese, accendendo la torcia. «Fai bene a chiedermelo» disse Dorothy, e spinse avanti Bubù e Picci nel fascio di luce. Ospitare i bambini di Betty sarebbe stato brutto in qualsiasi momento. Ma ora, con Reginetta che se n'era andata e tutti così nervosi, fu un incubo. Erano dei bambini spaventosi. Non spaventosi come Lambert, ma spaventosi comunque. Non era colpa loro; erano stati educati a comportarsi da cretini. Bubù (che si sarebbe chiamato Alfred) portava il cravattino e continuava a chiedere ad Art del lucido da scarpe. «Dev'essere testa di moro, non marrone» diceva al povero Art, che si arrabattava tra il mangime per i pulcini bubri, le pappine per il Capitano e i pasti per tante persone in più. Picci (che in realtà si chiamava Griselda) attaccò subito a piangere perché Dorothy si era scordata di mettere in valigia il fazzoletto con la fatina dei fiori che teneva sotto il cuscino, e tutti e due i bambini erano terrorizzati dai germi. Per fortuna erano talmente impegnati a discutere di chi fosse una busta del pigiama e di chi l'altra che non si accorsero nemmeno della presenza degli strani animali o del pericolo che li minacciava. Continuarono a spolverare le sedie prima di sedersi e a guardarsi allo specchio e a lamentarsi perché nessuno aveva stirato le loro mutande, esattamente come se fossero ancora a Newcastle sul Tyne. Se Fabio non fosse stato tanto occupato con il Kraken avrebbe sicuramente perso la pazienza, ma data la situazione non li vedeva quasi. Ma la presenza di Dorothy compensava tutto. Dorothy sapeva che nel mondo esisteva il male. Aveva incontrato altra gente come Stanley Sprott e aveva visto delle cose terribili: cosiddetti «mostri» (che erano probabilmente delle sirene) tenuti in salamoia nei barattoli, o animali deformi messi in
gabbia ed esposti alla curiosità della gente, ma non aveva paura. Fu Dorothy a caricare l'archibugio del Capitano con i chiodi, a tendere fili di ferro dietro la casa per far inciampare gli intrusi e a insegnare come si fa manganello. Ma quando alla fine del primo giorno Etta condusse sua sorella a vedere il Kraken, quella donna dura e combattiva si trasformò completamente. «Oh, Etta» sospirò, ammirando la piccola creatura addormentata, «Felice me, che la vita mi ha riservato questa gioia!» Reginetta era seduta nel bagno del signor Sprott sull'Uragano, immersa fino alla cintura in acqua profumata. La vasca era una Jacuzzi, con l'acqua che usciva gorgogliando da tutte le parti. I rubinetti erano d'oro come pure gli accessori per la doccia, e tutt'intorno sui ripiani c'erano bottigliette di cristallo piene di cose meravigliose: sali colorati e lacche iridescenti per i capelli e creme per rassodare il corpo e altre creme per ammorbidirlo una volta che era sodo e altre creme per renderlo non solo morbido e sodo ma anche roseo. Le creme erano della signora Sprott, ma lei non c'era e quindi Reginetta aveva il bagno tutto per sé. Era esattamente il tipo di bagno che aveva sognato ascoltando storie di sirene che avevano sposato un principe ed erano andate a vivere in un palazzo, ma mentre si schizzava altra acqua sulla coda, le lacrime continuavano a sgorgarle dagli occhi ed era scossa da terribili singhiozzi. Mai nella sua vita era stata tanto infelice e spaventata. Perché Oona aveva ragione. Reginetta non se n'era andata per amore del gorilla. Reginetta era stata crudelmente catturata dai bravacci del signor Sprott e quel bagno lussuoso era per lei una prigione come se fosse stata la cella sporca e fredda di un carcere. Era uscita a fare una nuotata al chiaro di luna, e arrivata al limite della baia era incappata in una rete tesa sott'acqua tra due scogli. All'inizio aveva pensato che la rete fosse stata posata dai pescatori, ma mentre tentava di liberarsi le si era stretta intorno sempre più e lei era stata trascinata via dalla lancia e caricata a bordo dell'Uragano come un animale morto. «Ahimè, perché non l'ho ascoltata?» gridò la povera Reginetta. «Mia madre mi diceva di stare alla larga dagli uomini». Ora avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere Loreen che biascicava la sua gomma o la vecchia Ursula col suo sorriso sdentato; perfino Walter le mancava. Ma la persona che rimpiangeva di più era Oona. Ora capiva come si era sentita Oona sullo yacht di Lord Brasenott; non c'era da meravigliarsi che la povera ragazza avesse perso la voce. La finestrella tonda del bagno aveva una tendina, ma Des e i due omacci che facevano la guardia alla nave l'avevano scostata e si affacciavano ogni momento a sbirciare. «Ah, cosa ne sarà di me!» piangeva la povera Reginetta, e si sentiva così triste da desiderare la morte. E mentre Reginetta piangeva nel bagno, Lambert frignava nella cabina di suo padre. «Non voglio una sirena per matrigna» guaiva. «Non voglio nessuna sirena per matrigna ma non voglio assolutamente per matrigna una sirena che non c'è veramente». «Non fare lo sciocco, Lambert» disse il signor Sprott. «Non si sposa una sirena, e poi tua madre è ancora viva». Ma dicendolo sospirò profondamente perché Reginetta era molto più graziosa della signora Sprott con i suoi capelli viola e le unghie come artigli e gli occhi avidi. La signora Sprott era una specie di scarabeo stercorario, solo che invece di raccogliere palline di letame morbido collezionava vestiti e scarpe e gioielli e pellicce e li ammassava in casa prima di uscire di nuovo a cercarne degli altri. «Rideranno di me a scuola se avrò una sirena per matrigna e poi non mi piacciono i pesci. Nemmeno un pesce a metà mi piace... nemmeno un pesce che non c'è veramente» mugolò
Lambert. «Oh stai un po' zitto, Lambert» disse il signor Sprott. «Nessuno ha intenzione di sposarla. La metteremo in mostra in una vasca e ci farà guadagnare una fortuna. Ma prima ci dovrà dire dove si trovano gli altri mostri. Li catturerò tutti e poi...» Ma non terminò la frase. Non ci si poteva fidare del silenzio di Lambert. Non gli avrebbe detto niente prima che gli strani esseri fossero stati issati a bordo e legati per bene e già in viaggio in mezzo all'Atlantico. Aveva deciso di aprire la sua fiera dei divertimenti su un'isola al largo della Florida che apparteneva a un amico. O meglio a un socio in affari. La gente come Stanley Sprott non ha amici. Ma prima doveva interrogare a fondo Reginetta per vedere quanto dello sproloquio di suo figlio fosse vero. Trovò Des che occhieggiava la sirena attraverso l'oblò del bagno, mentre Casimir e Boris brontolavano che toccava a loro. «L'ho trovata io» stava dicendo Des. «Mi spetta il turno più lungo. È mia in realtà e il vecchio dovrebbe...» Si girò e vide il signor Sprott in piedi dietro a lui. «Se qualcuno di voi tocca la sirena con un dito finisce dritto in mare» disse, e ordinò a Des di sbarrare la finestrella. Poi aprì la porta e avvicinò uno sgabello alla vasca. «Ora cara» disse, «ho un paio di domande da farti. Sulla tua famiglia. Non sei sola, vero? Hai la mamma e il papà?» «Il papà non ce l'ho» disse Reginetta, stringendosi nel corpetto di zia Mirta. «Ma la mamma... e fratellini e sorelline?» «Solo uno e una e la mia bisnonna». Reginetta era troppo spaventata per rendersi conto di essere caduta in una trappola. «E naturalmente ci sono le altre... creature insolite sull'Isola. Lambert mi ha parlato di un verme. Bianco, vero?» Reginetta annuì. «È molto intelligente» disse. «E chi c'è ancora sull'Isola?» Finalmente la sirena capì dove il discorso andasse a parare. «Nessuno» balbettò. «Solo le zie». «Oh, non credo» disse il signor Sprott. «Forse se tolgo il tappo della vasca ti aiuterà a pensare». «No! Oh no, la prego!» Lasciare una sirena all'asciutto è la cosa peggiore che si può fare. Ma il signor Sprott aveva già tolto il tappo; l'acqua stava colando via. Poi afferrò l'asciugacapelli. «No!» gridò lei di nuovo, tentando di proteggere la coda dal terrificante calore. Il signor Sprott lo spense. «Ti è venuto in mente qualcos'altro?» «C'è un grosso uccello... una bubri». Certo non gli interessava la bubri? Cosa se ne sarebbe fatto? «E dove si trova? Ha un nido?» «No... Non so... Sulla collina. Oh la prego, faccia scendere di nuovo l'acqua». Ma il signor Sprott non riaprì l'acqua, riaccese l'asciugacapelli e diresse lo spaventoso flusso caldo qua e là sulla coda finché la freschezza delle scaglie argentate divenne opaca e smorta... La coda di Reginetta era stata il suo orgoglio e la sua gioia e ora pareva fosse rimasta per una settimana sul bancone di un pescivendolo. Resistette quanto poté. Poi disse pietosamente: «C'è qualche selky. Sono solo delle foche in realtà. Non hanno niente di speciale». Ma il signor Sprott non si lasciava gabbare così facilmente. «Che tipo di foche?» Aveva posato l'asciugacapelli. Invece aveva preso un paio di forbici e teneva una ciocca dei suoi capelli dorati, pronto a tagliarla. «Vai avanti, rispondi. Non
farmi aspettare. Non mi piace che mi si faccia aspettare». «Non so» mormorò la povera Reginetta. «Sono solo delle storie. La gente dice che possono trasformarsi in umani se qualcuno lascia cadere sette lacrime nell'acqua o se vengono feriti da una lama». Gli occhi del signor Sprott scintillarono. Vedeva già la pista del circo... una foca su un piedestallo... un forcone aguzzo che le punge la schiena e oplà, salta giù una donna. Una trasformazione, ben meglio di una pantomima. «Avanti, cosa c'è ancora? Cosa?» Ma per quanto lui la minacciasse ancora con l'asciugacapelli, Reginetta mantenne il silenzio sul piccolo Kraken. Perché sapeva che la fine del Kraken significava la fine del mare come lo conosceva lei - e quindi la fine del suo mondo -e il signor Sprott non osò danneggiarla ancora o non sarebbe valsa la pena di metterla in mostra. «Ne riparliamo domani» disse, aprendo l'acqua. «Non credere che abbia chiuso con te». Ma mentre gridava i suoi ordini - sgomberare la stiva, rinforzare le reti, approntare argani e lanciarpioni per stordire le bestie prima di issar le a bordo - non sapeva che il tesoro più prezioso dell'Isola gli era ancora sconosciuto.
Capitolo diciotto Il Grande Kraken era giunto ai caldi mari del Sud. I pesci che lo accompagnavano avevano colori più brillanti, con code a ventaglio e pinne piumose, e dalle isole uccelli sgargianti con creste cremisi e arancione venivano a dargli il benvenuto e gli si appollaiavano sul dorso. L'acqua era limpida e calma e i coralli sul fondo prendevano tutti i colori dell'arcobaleno. Mentre nuotava il grande Kraken cantava il suo Murmure Risanatore, e le tartarughe che si erano trascinate fuori dall'acqua per deporre le uova nella sabbia vennero lasciate in pace, e i ricconi che erano venuti per sterminare le testuggini ritirarono i loro arpioni quando l'onda provocata dal passaggio del Kraken raggiunse le loro barche. Però il Kraken non era felice. I delfini e le foche che gli nuotavano accanto lo sentivano e non sapevano cosa pensare. Sorrideva meno; i suoi occhi dorati erano come appannati. Ma perché? Non lo sapeva - sentiva solo questo malessere. Gli mancava suo figlio, naturalmente, ma non c'era posto più sicuro dell'Isola delle Zie dove lasciarlo. «Devo tirarmi su» pensò il Kraken. «Non appartengo a me stesso; appartengo al mare». Scacciò quei vaghi pensieri inquieti e continuò a nuotare. Due giorni dopo l'arrivo di Bubù e di Picci sull'Isola, la vecchia Ursula scomparve. Si era allontanata dalla riva per dire addio alla madre di Herbert e non era più ritornata. Le altre sirene erano isteriche. «Avrei dovuto essere più gentile con lei» si disperava Loreen. «Non avrei dovuto dirle che le puzzava la coda. Vero che puzzava ma non avrei dovuto dirglielo». E Oona piangeva perché più di una volta aveva lasciato che l'anziana creatura si dibattesse nel mastello invece di aiutarla. In quanto alle zie, seppero una volta per tutte quanto fosse grande il pericolo che le
minacciava. Anche le bisnonne si innamorano ma quando succede in genere non fanno pazzie. La vecchia Ursula non poteva essere fuggita, doveva essere stata catturata, e questo significava che anche Reginetta era stata presa con la forza. E in effetti, quando esplorarono la baia, trovarono una rete tesa tra due scogli. «Dobbiamo tenere un Consiglio di Guerra» disse Etta, e fece fare a tutti trenta flessioni sulle braccia per far salire il sangue al cervello e pensare meglio. Ma nonostante il sangue al cervello, sapevano che cacciar via Sprott e i suoi uomini sarebbe stato quasi impossibile, e che la loro unica speranza stava nel nascondere gli animali. «Lo storverme deve rimanere sul fondo del lago - niente venir su a chiacchierare» disse Coral. «E Herbert e sua madre devono avvicinarsi alla casa» disse Mirta. «Potrebbero stare nello stagno dell'orto». Art si offrì di presidiare il capannone delle sirene con l'archibugio del Capitano segretamente sperava ancora di aver l'occasione di ammazzare qualcuno dopotutto - e decisero che la Sibilla doveva essere portata in casa; era troppo svanita per rimanere da sola. Ma era più facile decidere cosa avrebbero dovuto fare le creature che persuaderle a farlo. Lo storverme fece notare che in fin dei conti lui era un drago senza ali e doveva dare una mano a proteggere l'Isola invece di gingillarsi sul fondo di un lago, e Herbert non voleva far spostare sua madre perché lei desiderava morire vicino al mare e non in mezzo ai cavolini di Bruxelles. Ma ovviamente il loro cruccio più grosso era il Kraken, e fu allora che le zie rimpiansero dal profondo del cuore di aver rapito Fabio e Minette. Sapevano benissimo dove nascondere il piccolo animale: in una grande caverna subacquea sulla riva settentrionale con una sola angusta apertura sulla spiaggia. Era un posto bellissimo, con un laghetto di acqua limpida e profonda circondato da rocce che digradavano dolcemente, e in fondo alla caverna c'era un foro che forniva luce sufficiente per vedere. Il foro sboccava nei pressi del sepolcro di Ethelgonda e il naak aveva promesso di far la guardia lassù. Ma non sarebbe stato facile costringere il Kraken in una grotta, abituato com'era alla libertà del mare. Avrebbe avuto bisogno di persone che stessero con lui tutto il tempo. E persone, per il Kraken, voleva dire Fabio e Minette. «Non si discute nemmeno che voi passiate la notte con lui» disse Etta con fermezza. «Faremo a turno io e le mie sorelle». «Invece no. Ci porteremo una coperta e cibo a sufficienza, ma resteremo noi. È lavoro nostro» disse Minette. «Non è lavoro vostro esporvi a un pericolo così grosso». Ma a Fabio e a Minette stava succedendo qualcosa di strano. Forse perché vivevano sull'Isola tra creature che non avevano bisogno di molte parole, sapevano leggere nei pensieri l'uno dell'altra. «Se non volevate che facessimo il nostro lavoro non dovevate rapirci» dichiarò Minette. E Fabio disse a denti stretti: «Niente ci impedirà di rimanere con il Kraken. Niente». Al cadere della notte, tutti erano ai propri posti: Art a guardia delle sirene, Coral rannicchiata vicino al nido della bubri, che avevano protetto con filo spinato; la Sibilla che vagolava intorno alla casa borbottando di fattori rinfrescanti del vento e lasciava bruciare il semolino del Capitano. E il Kraken nascosto nel suo posto segreto sotto la scogliera.
I bambini avevano acceso delle candele sistemandole sulle cornici di roccia, e i guizzi delle fiammelle ravvivavano i colori dei sassi. «È come la grotta di cristallo del mago Merlino» disse Minette con aria sognante, e aveva ragione. Poiché il Kraken era figlio di suo padre, creature di ogni tipo arrivavano per stargli vicino nell'acqua: granchi rossi e squadre di pesci ago e famiglie di topi di mare... Ma se lo scenario era bellissimo, far stare tranquillo e contento il Kraken era un'impresa difficile. Per fortuna stava imparando velocemente l'inglese, e potevano cantargli le canzoncine e raccontargli le storie. «Ancora Biancaneve» ordinava, oppure «Ancora Il Gatto con gli Stivali». Ma le storie che preferiva erano quelle che inventavano su suo padre, sul grande Kraken e sulle sue avventure mentre attraversava gli oceani del mondo. Dove le pareti della roccia si avvicinavano all'acqua c'era un terrazzino quasi piatto e fu lì che i bambini si accamparono. Avevano portato i sacchi a pelo e una montagna di viveri e naturalmente la scatola dei bomboloni di bubri. Se il Kraken diventava irrequieto e si avvicinava troppo all'apertura della grotta, bastava battere un cucchiaio di legno sulla scatola e lui nuotava indietro in gran fretta, con la bocca aperta a ricevere il suo premio. Con tutto ciò le zie si preoccupavano per loro e a volte, alle ore piccole, Etta e Dorothy interrompevano le loro ronde e scendevano ancora una volta nella grotta, decise a spedire a casa i bambini e a farli dormire nei loro letti. Il Kraken dormiva, con la testa appena fuori dall'acqua. E ai suoi due lati, rannicchiati sullo scalino in modo da toccarlo quasi con un braccio, dormivano Fabio e Minette. E le zie si allontanavano senza dir nulla, perché era evidente che quei tre vivevano stretti da un'amicizia che per ora nessuno poteva spezzare. Quella notte non ci fu un attacco degli uomini di Sprott, ma poco prima dell'alba accadde qualcosa. Giù sulla punta, la madre di Herbert abbandonò dolcemente la vita. I suoi occhi si offuscarono; sospirò profondamente, i suoi baffi ebbero un tremito... Poi pronunciò una volta il nome del figlio, non in lingua selky ma in nitido linguaggio umano sicché anche Mirta capì. «Herbert» disse la madre di Herbert. Non aggiunse nient'altro, ma dal modo in cui lo disse capirono che Herbert era stato un buon figlio e lo ringraziava. Poi si trascinò lentamente fino al bordo dello scoglio, alzò una volta la testa verso il cielo, e si consegnò al mare. Fu una bella morte - esattamente la morte che la vecchia foca aveva scelto - ma naturalmente per Herbert fu un momento di grande tristezza, e quando fu finito Mirta non lo lasciò nemmeno per andare a mangiare. Le sue sorelle erano preoccupate. Mirta era sempre stata troppo sensibile. Quando era piccola aveva tentato di riportare in vita una scatola di sardine facendo galleggiare quei pesciolini decapitati in una bacinella, e non avrebbe dovuto rimanere là fuori in una notte che poteva essere pericolosa. Ma Mirta a suo modo era ostinata. «Non posso lasciare Herbert solo con il suo dolore» disse. Si avvolse le gambe in una vecchia coperta grigia e si stese accanto al suo amico. C'era stato un tempo in cui Reginetta avrebbe detestato dover dividere una vasca da bagno con la vecchia Ursula, ma ora fu pateticamente contenta della sua compagnia. La vecchia sirena era dura come il cuoio e non le importava un fico secco delle minacce del
signor Sprott. «A me non può far niente. Io sono vecchia e me ne infischio» diceva. Il signor Sprott la odiava. Lei gli sputava addosso e lo insultava e cercò di morderlo con il suo unico dente, e quando Des si avvicinava un po' gli strillava: «Non osare metter gli occhi sulla mia bis-nipotina, brutto rospaccio!» «Non può esibire quel vecchio mostro» disse Des. «Nessuno darà un soldo per vederla!» Sprott alzava le spalle. «La posso sempre vendere a un istituto di ricerca come cavia da laboratorio» disse. «Non sanno com'è congiunta al corpo la coda di una sirena». Vedere Ursula così arrabbiata e impavida fece bene a Reginetta. Ma naturalmente tutte e due sapevano il pericolo che stavano correndo. E infatti, più tardi quella stessa sera, entrarono Boris e Casimir e bendarono sgarbatamente gli occhi alle sirene. Poi vennero avvolte in ruvida tela di sacco, si sentirono sollevare con dei ganci, e poi calare, sempre dondolando spaventosamente, in un luogo freddo e profondo. Quando poterono vedere di nuovo, si trovarono sedute in un rozzo serbatoio arrugginito pieno d'acqua. Il serbatoio era nell'angolo di un grande spazio buio e vuoto, puzzolente e soffocante. Non c'erano finestre né lampade, e si sentiva solo lo sbattere delle onde contro i fianchi della nave. Erano nella stiva dell'Uragano che Sprott aveva fatto approntare, come una nave negriera dei tempi antichi, per i suoi prigionieri. «Non preoccupatevi, resterete sole per poco» sghignazzò Des. «Vedrete quanti vostri amichetti verranno a farvi compagnia». Poi si arrampicò sulla scala di ferro, la ritirò dietro a sé e chiuse la botola, lasciandole sole nella maleodorante oscurità. C'erano cinque uomini nella lancia: Stanley Sprott in persona, Boris e Casimir, e la guardia del corpo, Des. Lambert era stato lasciato con il capitano - il povero ragazzo stava decisamente perdendo la testa - ma Sprott aveva obbligato il secondo di bordo a venire con lui. La lancia trainava due grandi zattere gonfiabili cariche di attrezzature, con cui accalappiare le creature e stordirle prima di trascinarle sull'Uragano. Tutti gli uomini avevano pistole e coltelli e fischietti per chiedere aiuto, e i loro ordini erano chiari. «Allora ricordate, se dovete sparare, sparate alle zie, non agli animali. Non si cavano soldi con le zie. Ma se potete farne a meno, non sparate. Ci vuole silenzio e rapidità». La lancia scivolò sulla sabbia. Gli uomini saltarono giù. Boris e Casimir presero a salire la collina; dovevano catturare la bubri e lo storverme. Sprott e il secondo si avviarono al capannone delle sirene: a Sprott solleticava l'idea di portarsi in spalla le recalcitranti sirene. E Des doveva catturare i selky. Des aveva mugugnato. «Cosa vuol farsene di un paio di vecchie foche?» aveva chiesto al signor Sprott. Sprott non aveva raccontato a nessuno quello che gli aveva detto Reginetta sui selky; probabilmente erano solo sciocchezze. «Pare che sappiano cantare» aveva detto soltanto. Così Des era seccato mentre zompava da uno scoglio all'altro verso le foche addormentate. Metti che sappiano cantare: non sarebbe poi una gran cosa - tanti animali fanno dei suoni con la gola - e come diavolo faceva a distinguere i selky dalle altre foche? «Ce n'è due che stanno separate dal resto» aveva detto Lambert. E poi aveva ripreso a frignare e a dire che non c'erano veramente.
Ma, avvicinandosi, Des vide che Lambert aveva ragione. Due foche erano davvero staccate dalle altre. Un grande maschio e un animale più piccolo; probabilmente una femmina. Avrebbe affrontato prima il più piccolo e se fosse finita male poteva sempre scuoiarli. Le pelli di foca si vendono bene. Des strisciò più vicino. La foca grossa aprì gli occhi e, anche al pallido chiarore della luna, Des vide che erano un po' diversi da quelli di una foca comune. Ma lui voleva catturare quella piccola. Dormiva, ma ora si mosse... Era davvero sorprendente quanto assomigliasse a un essere umano. Il corpo era solo una chiazza grigia e non riusciva a scorgere le pinne, ma quando sbadigliò e aprì gli occhi Des fece fatica a ricordarsi che si trattava di una foca. Des si riscosse. Tutte fantasie. Meglio prenderla nella rete e trascinarla via. Non avrebbe dato problemi; non era ancora adulta, probabilmente non occorreva nemmeno stordirla. Strisciò per gli ultimi metri, si alzò in piedi, e lanciò la rete. E la selky urlò. Non aveva mai sentito un urlo simile uscire dalla gola di un animale. Era un urlo assolutamente umano, e l'impulso di Des fu di mollare la rete e correre verso la barca. Ma si trattenne. Imprecò e cercò di stringere la rete mentre la foca si dibatteva e scalciava. E poi agli urli seguirono delle parole! Vere parole umane. «Lasciami» strillava la selky con la sua voce acuta. «Lasciami subito andare, mascalzone. Aiuto! Aiuto!» Sulla collina, presso il nido della bubri, Coral saltò in piedi, volteggiò sopra il filo spinato -con tutti i suoi cento chili di stazza - e corse verso la punta. Etta, che sorvegliava con Art il capannone delle sirene, agguantò l'archibugio e fece lo stesso. Correre a salvare Mirta era per loro naturale come respirare. Ma c'era qualcun altro che veniva in aiuto di Mirta. Mentre Des si raddrizzava per stringere la rete, qualcosa gli piombò addosso: un'enorme muraglia bagnata di muscoli grigi... un panzer di ciccia compatta che lo mandò a gambe all'aria. Tentò di rialzarsi ma la foca maschio gettò indietro la testa e ruggì e poi spalancò la bocca e Des vide i suoi denti minacciosi, sentì il suo fiato caldo. La bestia stava per saltargli alla gola... in un attimo sarebbe stato spacciato. Soffocando, arrancando, Des cercava di afferrare il suo coltello ma ogni volta che stava per raggiungerlo, la foca tornava alla carica. Sopraffatto, buttato a terra, si coprì la faccia, ma quegli orribili denti si chiudevano già sulla sua carne... Poi, quando pensava già che fosse giunto il suo ultimo momento, trovò il coltello, e colpì. La foca balzò indietro e restò quasi indenne... quasi ma non del tutto. Era una scalfittura, niente di più... ma mio dio, cosa stava succedendo adesso? Non erano denti quelli che lo stringevano alla gola, erano mani, erano dita... Con un urlo raccapricciante, Des riuscì a mettersi in piedi, e poi corse via, corse, corse, pazzo di orrore... corse con la bava alla bocca, lontano da lì fino all'altro capo dell'Isola, per fuggire da quello che aveva visto. Corse finché inciampò in un cespuglio di ginestra, cadde e precipitò giù verso una lontana pozza di acqua scura.
Capitolo diciannove Lo storverme aveva sempre temuto che i pensieri gli si bloccassero a metà del corpo. Ora non lo temeva più. La tremenda tristezza che l'opprimeva mentre giaceva raggomitolato nella stiva dell'Uragano non si era bloccata da nessuna parte. Gli era scesa in ogni singolo segmento fino all'estremità della coda. Era un unico lungo tubo d'infelicità, disperazione e vergogna. Era successo tutto in un attimo. Aveva sentito la bubri gracchiare terrorizzata ed era salito alla superficie del lago per vedere di aiutarla, e un uomo gli aveva sparato qualcosa alla gola -aveva sentito come un ago incandescente - e poi non si ricordava più nulla finché si era svegliato in una specie di fossa dei serpenti in quell'orribile posto. «Ho tradito i miei amici» pensò, «e ho tradito me stesso». E si sentì così triste che desiderò di morire. Dalla vasca arrugginita nell'angolo dov'erano ammassate le sirene, si sentiva singhiozzare. Oona singhiozzava perché degli uomini continuavano a venir giù a spiare uomini più brutti ancora di Lord Brasenott - e lei aveva una paura terribile. Ma il pianto più rumoroso e disperato veniva da Loreen. «Il mio piccolo!» singhiozzava. «Il mio caro tesoro, dove sarà?» Quando Sprott aveva sopraffatto Art e sfondato la porta del capannone delle sirene, Walter dormiva nel suo catino e Loreen non aveva avuto il tempo di afferrarlo prima di esser caricata in spalla al signor Sprott e portata sulla barca. «Qualcuno lo troverà?» chiedeva Loreen inghiottendo le lacrime. E la vecchia Ursula diceva che certamente sì, ma il guaio era che nessuno sapeva cosa stava succedendo sull'Isola e chi vi era rimasto. Forse la vista più straziante in quel posto orrendo era quella dei piccoli bubri, rinchiusi in una gabbia di ferro, con i becchi gialli contusi e sporchi di sangue... e stesa sul dorso, con le grandi zampe gialle ritte in aria come uno smisurato pollo pronto per la cottura, la loro mamma. Calare il gigantesco uccello starnazzante nella botola era stato così difficile che le avevano fatto una seconda iniezione e ora i pulcini le si arrampicavano addosso, pigolando smarriti, senza capire perché la loro mamma stesse così immobile. Ma il trofeo più prezioso di Sprott non era nella stiva. Il Kraken giaceva sul ponte, legato così strettamente che non poteva nemmeno girare la testa, e ogni pochi minuti Sprott saliva a guardarlo e si fregava le mani gongolando. Non aveva idea di cosa fosse l'essere che aveva catturato, sapeva solo che l'avrebbe fatto diventare molto, ma molto ricco. Perché sapeva parlare, quell'essere che avevano preso quando Des era caduto nella grotta. Aveva detto «Padre» una volta, quando lo avevano inchiodato al ponte, ma poi aveva chiuso gli occhi e non aveva parlato più. «Sbrigatevi là sotto» gridò Sprott all'equipaggio che stava riparando il motore di dritta. Sarebbero già partiti da un pezzo se quel motore non avesse fatto i capricci. Avrebbero già dovuto essere in mezzo all'Atlantico. Aveva dato ordine che quella cosa sul ponte venisse innaffiata ogni dieci minuti, ma la bestia non mangiava. Nessuna delle creature mangiava... avevano bisogno di gabbie più comode. Per un attimo si chiese se il ragazzino - quello che aveva tentato di fermarli nella grotta fosse morto. Probabilmente no, il cranio dei bambini è più duro di quanto si pensi. In ogni
caso non vedeva l'ora di andarsene. «Credevo di aver detto di sbrigarvi» urlò di nuovo Sprott. Ma l'Uragano stava ancora immobile sul mare grigio, e sul ponte il piccolo Kraken, col cuore spezzato, si preparava alla morte. Minette era seduta sul pavimento della sua stanza, con le mani intorno alle ginocchia, e aspettava che Fabio si svegliasse. Era lì da diverse ore e non si era voluta muovere nonostante le insistenze delle zie. «Non puoi aiutarlo» disse Etta. «Tornerà in sé quando sarà pronto». Ma non parlò con la sua consueta voce ruvida, e Minette non le diede retta. Tutte le zie erano come spettri da quando avevano portato via il Kraken. Così Minette vegliava e aspettava accanto al suo amico. Fuori, nel bagno, sentiva le voci stridule e sciocche dei figli di Betty. «C'è una cosa schifosa nel lavandino. Puzza di pesce. Non possiamo lavarci i denti» frignava Bubù. «Si è mangiato il mio dentifricio Paperino. Non mi piace stare qui. Voglio andare a casa!» «Anch'io voglio andare a casa, subito!» Minette sospirò. Non si sarebbe mai abituata a quei due odiosi bambini. Quello che c'era nel lavandino era il sirenetto, Walter. Gli mancava la mamma, e ciucciava tutto quello che riusciva ad agguantare. Fabio giaceva immobile nel letto; la fascia intorno alla testa spiccava bianca nella stanza oscurata. E se non avesse mai ripreso conoscenza? Ma non poteva essere. Respirava. Aveva avuto un trauma cranico, tutto qua. Minette chiuse gli occhi, ricordando. Erano nella grotta, e stavano raccontando una storia al Kraken... perché la smettesse di avvicinarsi troppo all'entrata. Poi improvvisamente qualcosa era precipitato giù dal foro nella roccia sopra le loro teste ed era piombato nell'acqua. Un uomo che non avevano mai visto prima, che annaspava e ansimava per riprender fiato. All'inizio non si erano spaventati, almeno finché non si era arrampicato fuori e si era messo a fissare il Kraken... e fissava, fissava... Poi aveva frugato nei suoi abiti fradici, e da un sacchetto impermeabile aveva tratto un fischietto e ci aveva soffiato dentro forte tre volte. Allora capirono. Fabio attaccò l'uomo, tentando di strappargli il fischietto, ma era troppo tardi. Altri uomini vennero dal mare e la grotta si riempì di urla e dei fasci di luce delle torce e del bagliore delle armi... Minette si lasciò scivolare nell'acqua accanto alla testa del Kraken e cercò di calmarlo, ma la rete calò su tutti e due... Lui dapprima pensò che fosse un gioco -la crudeltà era una cosa che non riusciva a capire - e lei quasi sperò che la prendessero insieme a lui per poterlo consolare. Ma l'avevano tirata fuori rudemente e gettata di nuovo nell'acqua. E mentre si arrabattava a uscire aveva visto Fabio inerte sul gradino di roccia... e il sangue che gli colava dalla testa... Fuori in corridoio la Picci stava mugugnando un'altra volta. «Mi hanno dato le caramelle sbagliate. Ho le caramelle azzurre e sono una bambina. Le bambine devono avere le caramelle rosa». Ci volle ancora un'ora prima che Fabio si muovesse, ma poi fu subito sveglio. «L'hanno preso? Non c'è più?» «Sì». Fabio si portò una mano alla testa. «Me le hanno date?»
«Ti sbattevano la testa contro la roccia». La voce di Minette si incrinò pensando al coraggio di Fabio e alla crudeltà degli uomini. «E gli altri? Lo storverme... le sirene?» «Hanno preso tutti meno Walter». Fabio era riuscito a sedersi. «L'Uragano è ancora lì?» «Sì. Non sappiamo perché, ma è ancora lì». «Allora dobbiamo salirci. Dobbiamo salvarlo. Dobbiamo salvare tutti». Minette lo guardò sbalordita. «Sei pazzo. E come? Abbiamo solo la Peggoty, e le zie non ci perderanno di vista. Siamo come prigionieri perché si sentono in colpa per quello che ti è successo e per aver lasciato sole le creature per aiutare Mirta. Non hai idea del disastro che c'è giù. E Dorothy ha spaccato il naso con il wok a uno degli omacci; l'hanno trascinato fino alla barca ma c'è sangue dappertutto». Fabio ripeté ostinato. «Dobbiamo andare. Dobbiamo arrivare da lui». «Anche se ci riusciamo, cosa potremmo...» cominciò Minette e si interruppe. Sotto sotto la pensava come Fabio. Dovevano provarci. Fabio aveva spinto indietro le coperte. La camera roteò, poi si fermò. Stava tastando il pavimento con i piedi quando l'ineffabile Bubù entrò. «È mio l'orsacchiotto che hai lì. L'ho messo a dormire nel tuo letto quando eri nella grotta e ora lo rivoglio perché andiamo a giocare a mamma e papà in giardino e lui è il mio bambino». Fabio gli lanciò l'animaletto di peluche attraverso la stanza. «Fuori!» urlò. E poi: «Dev'esserci qualcuno che ci può aiutare». Minette lo guardò. Aveva ricevuto un terribile colpo in testa - avrebbe sopportato ancora un'altra stranezza? Sciocchezze. Fabio sopportava qualsiasi cosa. «Qualcuno c'è» disse Minette. Herbert sedeva immobile sulla punta e guardava il mare che fino al giorno prima era stato la sua casa. Indossava un paio di pantaloni di Art, calzini a righe e un maglione del Capitano. Gli indumenti gli pizzicavano la pelle, e gli pizzicava anche l'anima. Le lacrime di Mirta, la disperazione delle zie gli rombavano in testa. C'era stata tanta pace nel mare. Ma quel che era fatto era fatto. Adesso era un uomo, non una foca, ed era da uomo che doveva aiutare il figlio del Kraken. La Peggoty era nella rimessa delle barche. Era solo una vecchia barca da pesca, che non misurava nemmeno un decimo dell'Uragano, ma se lui riusciva ad affiancarsi alla nave e ad agganciare un rampino al ponte, poteva arrampicarsi sulla corda e salire a bordo. Certi selky, quando cambiavano forma, avevano dei problemi alle braccia e alle gambe, ma le sue erano forti. Stava controllando i remi della Peggoty quando Fabio e Minette si affacciarono alla soglia della rimessa. Fabio si era messo un berretto di lana sulle bende. «Vogliamo venire con te» disse Minette. Fabio non parlò. Si era immaginato che incontrare uno che ventiquattr'ore prima era una foca lo avrebbe sconvolto, ma ora la sola cosa importante era salire sull'Uragano. Herbert era stato una bella foca e ora era un bell'uomo, ma soprattutto aveva l'aria di una persona fidata e seria, e forte. A volte chi ascolta il violoncello è un po' svagato, ma Herbert no. «Avete chiesto alle zie?» chiese Herbert arrotolando una cima. I bambini non risposero. Poi: «Dobbiamo andare. Il Kraken era lavoro nostro. Dobbiamo aiutarlo, e anche gli altri. Dobbiamo provarci». Herbert si raddrizzò e li guardò. Ora era un uomo ma non era un uomo come gli altri.
Aveva il senso dell'unità di tutta la natura... pensava che i bambini facessero parte dell'universo e non fossero creature a parte. Sapeva che se il piccolo Kraken moriva il mare non sarebbe mai più stato lo stesso, e si ricordava che il grande Kraken aveva fiducia in questi due bambini più che in qualsiasi altra persona. Tuttavia, conoscendo il pericolo, esitava. Ma pareva che le cose dovessero sfuggir loro di mano. Perché non ebbe il tempo di parlare che tutti e tre sentirono l'inconfondibile ronzio di un elicottero che volava in direzione dell'Isola. Il rumore si fece più forte, l'elicottero girò una volta sull'Isola... poi iniziò a scendere sul tratto d'erba pianeggiante dietro alla casa. Gli occhi di Minette si riempirono di lacrime e Fabio inspirò l'aria con un sibilo. Proprio ora che avevano l'occasione di raggiungere il Kraken, li avevano trovati e li avrebbero portati via. Freneticamente si guardarono intorno per cercare un nascondiglio. Ma era troppo tardi. Un poliziotto stava già saltando giù dall'apparecchio e correva verso la casa; una poliziotta lo seguì. L'avventura era finita.
Capitolo venti La stazione di King's Cross non era mai stata così bella da quando vi era arrivata la Regina per il suo giubileo d'argento. In tutta la stazione c'erano striscioni che dicevano «Bentornati!» e al primo binario, dove sarebbe arrivato il treno che riportava a casa i bambini sequestrati, c'era una folla di scolari che agitavano degli stendardi. Sugli stendardi c'erano frasi del tipo «Ora siete al sicuro» e «Le vostre pene sono finite», e gli scolari avevano imparato una canzone di benvenuto da cantare appena i bambini rapiti fossero scesi dal treno. Una fabbrica di cioccolato aveva mandato un gigantesco pacco di dolci, e la loro commessa più graziosa, vestita da tavoletta di cioccolato, era in attesa di consegnarglielo. Un famoso negozio di abbigliamento aveva confezionato pacchi di magliette, e un fabbricante di biciclette aveva portato due mountain bike da regalare ai bambini che erano stati così crudelmente rapiti dalla banda delle zie. Tutti erano a conoscenza del miracolo che aveva permesso all'elicottero della polizia di piombar giù e pigliar su, in una singola audace incursione, il bambino e la bambina scomparsi. La signora Danby, la madre di Minette, era al posto d'onore, in piedi sulla passerella rossa che era stata stesa perché ci camminassero sopra i bambini una volta scesi dalla loro carrozza di prima classe. Indossava uno smagliante vestito nuovo che si era comperata con i soldi dello Strillo della Sera: un abito rosa shocking e un cappello a pignattino con la veletta. Correndo incontro a Minette per abbracciarla, avrebbe sollevato la veletta in modo che la gente vedesse le sue lacrime. Il professor Danby era in piedi accanto a lei con aria solenne. Ogni volta che sua moglie faceva un passo avanti per avvicinarsi al punto dove si sarebbe fermato il treno, lui faceva altrettanto. Non aveva intenzione di farsi rubare la scena da quell'esibizionista che era stato tanto folle da sposare! Ai vecchi Mountjoy erano state fornite delle sedie speciali perché potessero aspettare
comodamente il nipote. Erano naturalmente molto contenti che Fabio fosse stato ritrovato, ma non potevano fare a meno di chiedersi se tutto il lavoro per trasformarlo in un gentleman inglese non fosse andato sprecato. I bambini erano stati scovati su un'isola selvaggia in mezzo all'Atlantico, il che non prometteva nulla di buono. Forse sarebbero scesi dal treno con la paglia nei capelli e il fango sulle scarpe, se mai portavano le scarpe. E naturalmente, oltre che di scolari e parenti e della moglie del sindaco con la catena d'oro, il marciapiede era pieno di fotografi e di giornalisti e di squadre televisive con tutto il loro armamentario. La scena dei poveri bambinetti rapiti che scendevano dal treno e correvano a gettarsi nelle braccia dei loro cari sarebbe stata trasmessa non solo in tutta l'Inghilterra, ma in tutto il mondo. Già ora i commentatori descrivevano i preliminari, blaterando eccitati nei loro microfoni. «Mancano appena cinque minuti, e poi il treno che porta in salvo quegli sventurati ragazzetti impauriti si fermerà a non più di venti metri dal punto in cui mi trovo» diceva la giornalista dell'ITV. «La signora Danby non riesce a trattenere l'emozione ed è corsa avanti per avvicinarsi di più alla sua figlioletta perduta...» Era vero, la signora Danby era davvero corsa avanti, ma perché suo marito stava facendo un altro dei suoi scherzetti, e cercava di farsi riprendere anche lui dalle telecamere, e questo non lo poteva tollerare. «E i nonni del bambinetto selvaggio che aveva trovato rifugio e affetto nella loro casa che coppia commovente questa, nell'autunno della loro vita, in gioiosa attesa del grande momento...» proseguì la commentatrice. Su a Edimburgo, la governante del professor Danby stava incollata alla televisione. I genitori avrebbero litigato su chi dei due doveva tenersi la bambina per primo, e lei sperava che toccasse al professore perché aveva messo dei fiori nella stanza di Minette e lucidato la sua nuova scrivania. Il fidanzato della mamma di Minette era anche lui davanti alla televisione, stravaccato come al solito sul divano con una lattina di birra in mano. Anche lui sperava che Minette sarebbe andata prima da suo padre. Non aveva niente contro la bambina, ma l'appartamento era piccolo e lui era di nuovo a spasso e aveva bisogno di un posto dove ingannare il tempo durante il giorno. E nell'ospedale di Newcastle sul Tyne, Betty sedeva nella saletta della TV e guardava, circondata da altri pazienti e dagli infermieri che avevano qualche minuto da perdere. Aveva bisogno di quel diversivo perché l'anca stava guarendo con grande lentezza; avrebbe dovuto uscire dall'ospedale una settimana prima e invece era ancora lì. «Mancano solo tre minuti» disse scioccamente uno dei commentatori guardando l'orologio della stazione. Da quando in qua i treni che arrivano dal Nord sono puntuali, anche quelli pieni di poliziotti che portano in salvo bambini sequestrati? Il cronista descrisse per l'ennesima volta il cappellino della signora Danby e informò gli spettatori che l'anziana signora Mountjoy era terribilmente emozionata. Gli scolari con i loro stendardi strusciavano i piedi e si schiarivano la gola, pronti per la canzone di benvenuto. L'orologio della stazione fece un altro scatto avanti. E poi finalmente si vide arrivare il treno, che uscì da una curva ed entrò in stazione. Si levò un grande applauso. La moglie del sindaco raddrizzò la sua catena d'oro, la folla che si era ammassata oltre le transenne agitò le braccia, le telecamere ronzarono... Il treno rallentò... si fermò. Lo sportello si aprì. Una poliziotta scese, poi un'altra... poi si girarono e tesero la mano ai due bambini.
La bambina fu la prima a uscire. Venne calata di peso dalla vettura e rimase per un momento a guardarsi intorno, lisciandosi il colletto di velluto del cappotto e rassettandosi i ricci. Poi venne calato il maschietto, che si raddrizzò il berretto e si spolverò il blazer. «Dov'è la mia mamma?» chiese la bambina con voce scontenta e lagnosa. «Voglio la mia mamma. Avete detto che ci portavate da lei». «Anch'io voglio la mamma» guaì il bambino. «Voglio subito la mia mamma». La signora Danby spalancò la bocca. Il professore spalancò gli occhi. «È uno scherzo?» ringhiò il signor Mountjoy. E nel soggiorno dell'ospedale di Newcastle sul Tyne, la povera Betty emise un unico strillo acuto e si afflosciò svenuta sulla sedia.
Capitolo ventuno Herbert fu magnifico. Malgrado l'oscurità e il mare mosso, pilotò fermamente la Peggoty verso l'unica luce che brillava sull'Uragano. Le sue mani manovravano la barra senza incertezze, pareva capire la vecchia barca come capiva il mare. Fabio e Minette sedevano vicini a poppa, senza osare dire una parola. Quando l'elicottero era decollato e si erano resi conto del mirabile errore che era stato fatto, non avevano perso tempo. Mentre Herbert riempiva taniche di nafta al molo, erano sgattaiolati a bordo e si erano accucciati nella piccola cabina piena di corde e di ami e di attrezzi da pesca e si erano tirati sulla testa una tela cerata. Con un po' di fortuna, quando li avessero scoperti sarebbero stati troppo lontani per tornare indietro. Ma non fu Herbert a scoprirli, furono zia Etta e zia Coral. Ai bambini non era venuto in mente che le zie sarebbero state della partita. Dorothy era rimasta a terra perché si era stirata il polso colpendo Casimir con il wok, e Herbert aveva proibito a Mirta di venire. «Hai avuto uno choc, Mirta, e devi riposarti» le aveva detto, e non ci fu bisogno di aggiungere altro. Ma nemmeno Herbert riuscì a fermare Etta e Coral. Non avevano mai visto le zie tanto arrabbiate. «Torniamo subito indietro!» ordinò Etta. «Questi bambini non devono correre altri pericoli! Lo proibisco!» e Coral aveva tentato di impossessarsi del timone e far cambiar rotta alla barca. Ma Herbert non aveva ceduto. Aveva percepito il cambiamento del mare e sapeva cosa sarebbe successo nell'oceano se il figlio del Kraken fosse perito. Persino i bambini perdevano importanza di fronte a questo. Scivolarono silenziosi lungo la fiancata dell'Uragano. Nessuna luce accesa nelle cabine; nessuno si aspettava un attacco. Con incredibile forza Herbert lanciò la corda a nodi e sentirono il rampino far presa sulle assi di legno. In pochi secondi Herbert si arrampicò sulla corda e fu sul ponte. Dietro a lui salirono le zie e i bambini. Coral con la sua mole fu un po' più lenta ma ce la fece. Rimasero in silenzio, tendendo le orecchie. Herbert aveva in mano il coltello. Se riuscivano a liberare il Kraken e a spingerlo fuoribordo, poteva salvarsi a nuoto. L'avevano quasi raggiunto quando accadde.
La porta in basso si aprì, un fascio di luce lampeggiò sul ponte, ed ecco comparire Lambert, in pigiama, sbattendo gli occhi. Il povero ragazzo stava impazzendo del tutto. Da quando l'Uragano si era riempito di bestiacce che non c'erano veramente, Lambert era ossessionato da incubi spaventosi. Aveva appena sognato che la vecchia Ursula era entrata nella sua scuola, strisciando sulla coda, e aveva detto di essere sua nonna, e tutti i bambini lo avevano preso in giro e gli avevano gettato addosso secchiate di pesci. Ora era sul ponte, troppo spaventato per svegliare suo padre, e vide un ammasso di figure che avanzavano verso il telone dove stava la bestia che non c'era veramente. Lanciò un urlo di terrore e mentre Herbert si voltava con in mano il coltello, le sirene si misero a suonare e i riflettori a rastrellare il ponte. Dieci minuti dopo, i soccorritori avevano raggiunto i prigionieri nel lezzo e nell'oscurità della stiva. A dire il vero non si poteva incolpare la polizia. Quando l'elicottero era atterrato sull'Isola, due bambini erano corsi dritti nelle braccia della poliziotta supplicandola di portarli a casa. «Portateci via» avevano balbettato. «È orribile qui. Portateci a casa dalla nostra mamma». Era evidente che i due cucciolotti erano stati trattati in modo abominevole. Gli era stato impedito di lavarsi i denti e avevano ricevuto caramelle con un gusto orribile - caramelle drogate, la poliziotta ne era sicura. Si erano lamentati piagnucolando tutto il tempo, ed era chiaro che le zie erano proprio cattive e pericolose come tutti si erano immaginati. Ma naturalmente per risolvere il pasticcio ci volle un po' di tempo. L'ispettore delle tasse dovette venire da Newcastle sul Tyne a riprendersi i bambini, e nessuno sapeva se le tavolette di cioccolato e le magliette si dovesse darle a loro o se bisognasse tenerle fino all'arrivo degli altri bambini. E rimaneva ancora il problema di catturare le perfide sequestratrici e i bambini che tenevano prigionieri. Ma non si poteva farlo subito per la densa nebbia che era calata e copriva la costa occidentale impedendo agli elicotteri di decollare e alle navi di muoversi. I prigionieri erano nella stiva dell'Uragano da diverse ore quando sentirono il motore sussultare e prender vita. Tra poco sarebbero partiti, e allora... Nessuno espresse in parole cosa sarebbe accaduto una volta inoltrati nell'Atlantico, ma tutti lo sapevano bene. Mai e poi mai Sprott li avrebbe lasciati in vita, a raccontare al mondo quello che aveva fatto. In un angolo, Minette parlava a bassa voce con Fabio. «Se potessi raggiungere il Kraken... solo per qualche minuto?» Fabio scrollò le spalle. «A cosa servirebbe? Non abbiamo niente per tagliare le corde e liberarlo». «Ho un'idea. Non è detto che funzioni, ma non abbiamo niente da perdere». «Che idea?» Minette si guardò intorno. Le zie stavano sonnecchiando, con la schiena appoggiata alla parete; il verme era arrotolato su se stesso come un floscio tubo di gomma... Si accostò di più a Fabio e gli bisbigliò nell'orecchio. Fabio parve dubbioso. «Ti ricordi quello che ha detto zia Etta, che non può farlo finché non è pronto». «Sì, lo so, ma una volta o due mentre stava imparando una canzone, mi è sembrato... E comunque è meglio di niente». «D'accordo» disse Fabio. «Lasciami pensare».
Rimase seduto per un po' con la testa tra le mani. Poi andò a parlare con Herbert che annuì e si avvicinò alla vasca delle sirene. «Non posso» sentirono che diceva la povera Reginetta. «Non ne ho il coraggio». Ma Herbert fu fermo: «Devi averlo» disse con la sua voce sensata. Un'ora dopo Des scese la scaletta con un po' di pane e un secchio d'acqua da bere, e allora Reginetta lo chiamò. «Des» trillò. «Puoi venire qui un istante?» Des mise giù il secchio e passò cautamente accanto a Herbert. Non era mai sicuro se quello fosse o non fosse l'uomo che aveva tentato di strangolarlo sullo sperone di roccia era troppo buio per vederne la faccia - ma Herbert gli faceva venire la pelle d'oca. «C'è un punto che mi dà un tale fastidio qui sulla schiena» proseguì Reginetta. «Vuoi venire a guardare, per favore?» Des si chinò su di lei e Reginetta scosse i capelli facendoglieli cadere sulla faccia. «No, non lì» gorgheggiò. «Mostragli tu, Oona». Fu solo pensando al Kraken che Oona trovò il coraggio di avvicinarsi all'uomo con il suo orribile fiato ardente, ma lo trovò, e anche lei scosse i suoi lunghi, folti capelli sicché Des si trovò completamente coperto dai boccoli delle sirene. «Dove?» continuava a ripetere. «Dove ti fa male?» Solo Boris sorvegliava il boccaporto, perché Casimir era fuori uso da quando Dorothy gli aveva rotto il naso. Fabio salì la scaletta. «Aiuto» urlò. «Molestano le sirene. Mandate giù qualcuno!» Sprott lo sentì e si infuriò. Aveva proibito agli uomini di avvicinarsi alle gemelle. «Cosa succede là sotto?» tuonò e, mentre Boris si voltava, Fabio gli sgattaiolò dietro di corsa, mentre nella stiva le sirene si mettevano a strillare. L'inseguimento non durò a lungo; Boris acciuffò Fabio e quasi lo gettò nella stiva. Ma Minette si era tenuta dietro a Fabio, e riuscì a scivolar via non vista nella confusione e nella nebbia, e ad arrivare dove giaceva il Kraken prigioniero. Il Kraken giaceva legato e troppo immobile. Respirava ancora ma appena appena; aveva gli occhi chiusi. Minette avanzò in punta di piedi e appoggiò la guancia sulla sua testa, e le sue lacrime caddero sulla faccia del Kraken. Ma lei non era scappata da sottocoperta per piangere. Aveva solo pochi minuti per fare quello che si era proposta. «Non devi rassegnarti così» gli disse nell'orecchio. «Non è giusto. Sei una creatura importante e coraggiosa. Devi reagire». Il Kraken tentò di girare la testa ma le corde gli segavano il collo. Lei vide lo sguardo dei suoi occhi dorati ed ebbe un tuffo al cuore. Ma non doveva dimostrargli che le faceva pena; non era questo il modo. «Devi ricordare chi sei» disse severamente. Il piccolo Kraken tirò su col naso e rimase zitto. «Devi pensare a tuo padre» aggiunse Minette. «Padre» disse il Kraken. Parve un po' più forte dopo aver detto questo, e Minette vide che stava pensando alla potente creatura che gli aveva dato la vita. «Così va bene» approvò Minette. «Cosa fa tuo padre?» Il piccolo Kraken sospirò. Era un suono straziante, come se tutto il dolore del mondo gli uscisse dalla gola. «Avanti. Pensa» lo spronò Minette.
Il Kraken sospirò nuovamente. Pensare e basta non era il suo forte. Poi: «Sorride» disse. «Sì. Sorride. Ha un bellissimo sorriso». Minette vide la curva della bocca della grande bestia mentre entrava nella baia. «E cos'altro fa?» Ci fu un'altra pausa. Poi: «Nuota» disse il piccolo Kraken. «Giusto: nuota». Minette annuì energicamente, incoraggiante. «E cosa fa quando nuota?» Nessuna risposta. «Cosa fa quando nuota per gli oceani del mondo e tutto diventa più bello e più buono? Pensa». Il piccolo Kraken pensò. Lei vedeva che si sforzava, ma le corde cominciavano a segargli la carne. Era troppo giovane per pensare superando il dolore. «Non so» mugolò. Ma Minette non gli permise di lasciarsi andare. «Sì, lo sai. Quando nuota fa qualcos'altro. Che cosa?» Un altro sospiro. Poi: «Mormora» disse il piccolo Kraken. «Proprio così». Gli strofinò la testa per fargli coraggio. «Mormora, vero? È questo che fanno i Kraken, mormorano». Lui tentò di girare la testa. Aveva ancora gli occhi sbigottiti. «È questo che fanno i Kraken, mormorano» ripeté Minette. «Non è così?» «Sì». La sua voce era flebile, ma la stava seguendo. «E tu sei un Kraken» insistette Minette. «Vero? Un Kraken, è questo che sei». Pareva che la povera esausta creatura non sarebbe più riuscita a parlare, ma inspirò stancamente e ci riprovò. «Sono un Kraken» ripeté obbediente. «Un Kraken, è questo che sono». Al momento pensò che avrebbe funzionato. C'era stato un lampo d'orgoglio negli occhi del piccolo Kraken mentre diceva quelle parole; ma poi tacque e voltò la faccia - e poi venne Boris e la spinse rudemente giù per la scaletta. Ora sedeva accanto a Fabio, la testa fra le mani, e sapeva che era finita. Aveva fatto il possibile e aveva fallito. Nel buio, le facce pallide dei prigionieri tradivano una disperazione al di là delle lacrime. Le due zie sedevano con gli occhi chiusi, schiacciate dal peso delle proprie responsabilità. Affrontare la morte non era tanto terribile, ma ciò che avevano fatto a Fabio e a Minette era di una gravità intollerabile. Solo Herbert stava ancora eretto, attento al rumore dell'acqua contro i fianchi della nave. Un'altra ora passò... e un'altra ancora. Avevano spento il motore dell'Uragano in attesa che si sollevasse la nebbia, ma ora sentirono che si accendeva di nuovo. Incerto all'inizio, più fiacco di prima, fluttuante... fino a stabilizzarsi in un pulsare ritmato. Solo che il rumore del motore non era stato esattamente così... Fabio, che stava sonnecchiando, si raddrizzò di colpo e diede una gomitata a Minette. Poi, lentamente, gli sventurati prigionieri si guardarono, interrogandosi con un barlume di speranza. Al Sud, il Grande Kraken aveva raggiunto la barriera corallina. L'acqua turchese, le strisce di corallo, erano di una bellezza impressionante. C'era poco da fare in quel paradiso. La gente che vi abitava rispettava il mare e le sue creature, e usciva per porgere omaggio al grande Kraken, in piedi e a testa china. Non
rimaneva a bocca aperta o con gli occhi sbarrati; le storie del Kraken che risanava il mare venivano raccontate di generazione in generazione. «Non sorride» disse il vecchio capo, la cui bisnonna aveva visto il Kraken l'ultima volta che era venuto, e gli aveva descritto la bocca del risanatore che si curvava come un arco colmando di gioia chi lo guardava. «È turbato» disse la moglie del capo, che era una donna magica. «Com'è strano il suo Murmure» disse un bambino. «Ci sono due murmuri, vero? Un Murmure grande e un Murmure piccolo». «Dev'essere un'eco». Ma il Kraken aveva smesso di nuotare. Stava fermo nell'acqua, e riposava. Teneva la testa inclinata. Come gli isolani, ascoltava, ascoltava... Cosa stava succedendo? C'era un'interferenza nel suo Murmure. Un disturbo. Non era mai accaduto. A volte il Murmure aveva provocato un'eco mentre lui nuotava in un fiordo tra i monti, e a volte gli facevano coro le balene, ma questo era diverso. Quello che sentiva era il suo stesso Murmure, ma più lieve. Tacque, e tutte le creature dell'acqua vennero a galla per capire cosa stesse succedendo. Ma il silenzio non era totale. Il piccolo Murmure, il Murmure di sottofondo, c'era ancora. Era incerto, ma si stava rafforzando. Un grande brivido percorse il Kraken, facendo frullar via gli uccelli che si riposavano sul suo dorso. Si costrinse di nuovo a rimanere assolutamente immobile, ma c'era ancora, quel Murmure più fievole che non era il suo Murmure... eppure del tutto uguale. Poi la gente sulla barriera corallina assistette a una scena straordinaria. Il grande Kraken si sollevò sulle onde, e non mormorava più. Ruggiva. Poi si girò.
Capitolo ventidue «Non voglio guardare! Non voglio!» strillò Lambert. Si avvinghiò alla porta della cabina ma suo padre lo sbatté fuori con tanta violenza che cadde in avanti sul ponte. «Si che guarderai, fifone pappamolla. Li vedrai cadere in mare e ne avrai gusto. È ora che impari che non si ha niente per nulla». Tirando e spingendo, mollandogli calci negli stinchi, Sprott portò Lambert alla balaustra. Si sentiva trattato ingiustamente. Se le zie gli avessero venduto l'isola come voleva lui, adesso non avrebbe dovuto annegarle, e nemmeno i bambini. Era colpa loro in realtà. Non poteva certo attuare i suoi piani miliardari se c'era gente che andava in giro a spifferare il trucco. Avrebbe detto di aver trovato gli animali spersi in mare e di averli tratti in salvo. «Bene, vai a prenderli» ordinò a Des. E poi, furibondo: «Credevo di averti detto di fargli smettere questo maledetto lamento!» Des guardò il Kraken, ancora inchiodato sul ponte. «Ci ho provato, boss. L'ho preso a pugni e calci, ma lei mi aveva detto di non farlo fuori». Le persone cattive non sopportano il Murmure. Lo percepiscono come una minaccia a tutto quello che conta per loro, e il Kraken ormai mormorava da diverse ore. Boris intanto aveva aperto il boccaporto.
«Fuori!» disse. «Su! Solo le persone». Uno alla volta, uscirono. Fabio, Minette, le zie... Herbert. Sul ponte faceva freddo ma l'aria era meravigliosamente pura dopo il lezzo soffocante della stiva. Sopra di loro volavano i gabbiani; pareva tutto così normale. Tranne lo sguardo negli occhi di Sprott. «Non voglio vederli annegare, non voglio» strillò Lambert, divincolandosi nella stretta di suo padre. I bambini si strinsero l'uno all'altra. Allora sarebbe accaduto, e presto anche. Boris e Des avevano portato i pesi da fissare alle caviglie delle vittime, che comunque a nuoto non avrebbero potuto salvarsi. L'Uragano si era allontanato costantemente dall'Isola. Le zie si erano messe dietro ai bambini; Etta dietro a Minette, Coral dietro a Fabio come se per qualche miracolo potessero ancora proteggerli. Fabio e Minette si erano presi per mano. Dentro si sentivano tutti di pietra. Non devo fare scenate, pregava Fabio. Non voglio essere come Lambert. «Cominciamo dalla grassona» ordinò Sprott. «Portatela alla balaustra e legatele i pesi». Des si avvicinò a zia Coral. «Muoviti» disse, pungolandola con la canna della pistola, e a veder questo, Fabio perse la testa. «Come ti permetti!» gridò, e assalì la guardia del corpo con una gragnuola di pugni. Sprott trovò la cosa molto divertente. «Va bene, puoi andare tu per primo se sei così su di giri» disse, e i due bravacci torsero le braccia dietro alla schiena a Fabio e lo trascinarono verso il bordo del ponte. Stavano tentando di fissare i pesi alle sue gambe recalcitranti quando il capitano mise la testa fuori dalla cabina di pilotaggio. «Meglio sbrigarsi» disse. «Non mi piace il cielo». E in effetti non c'era niente di bello da vedere. Non il mare, non il cielo, non la superficie dell'acqua, non le nuvole. Stava per arrivare un maltempo terribile. Le onde si fecero scure, l'acqua ribollì; il sole scomparve dietro una nuvola a forma di fungo. I gabbiani volarono via stridendo. E sul ponte dell'Uragano, qualcuno si mise a urlare. «Aggrappati a me» aveva gridato Fabio a Minette, ma furono subito separati dalle montagne di onde gelate. Minette credeva di essere una brava nuotatrice, ma qui non si trattava di nuotare - veniva scaraventata in alto, poi risucchiata giù, frullata... E il freddo era inimmaginabile. Intorno a lei c'erano assi rotte e relitti dell'Uragano. La nave si era spaccata in due quando il Kraken ci aveva cozzato contro. Minette vide il tetto della gabbia frantumata dei bubri che ballonzolava più in là; due pulcini stavano aggrappati al punto più alto, ma dov'era il terzo? Un'onda si ruppe sopra di lei e la mandò sotto di nuovo; il peso dell'acqua la spingeva sempre più giù; i polmoni le scoppiavano. Muoio, pensò, per quel poco che riusciva a pensare. Poi con un'ultima spinta delle gambe risalì in superficie. E allora vide vicinissimo a lei qualcuno nuotare con la stessa destrezza ed energia che se fosse in un laghetto invece che nel mare in tempesta. «Aspettami, arrivo» le gridò Herbert, e lei gli tese le braccia, ma poi un'altra onda la ghermì e lei andò sotto un'altra volta ancora e fu sicura che fosse la fine. Poi si sentì tirare su
per i capelli... e si trovò aggrappata alla schiena di Herbert e poté di nuovo respirare. «Tieniti stretta, ma senza strozzarmi» gridò Herbert, fendendo le onde con la stessa calma di quando era ancora una foca. «Fabio?» riuscì a chiedere Minette. Ma Herbert non aveva visto Fabio. Passarono accanto allo storverme e videro qualcosa di voluminoso avvolto nelle spire della sua coda. Gli antenati del verme erano venuti dal mare e Herbert non perse tempo a soccorrerlo. Nessuno meglio di lui avrebbe portato in salvo zia Coral. Un materasso fluttuò accanto a loro, poi il tavolo della cambusa con il terzo pulcino bubri abbarbicato sopra con le sue zampine gialle. «Stai ferma, zia Etta» giunse la voce argentina di Reginetta sopra il rombare delle onde. «Non divincolarti». Le due gemelle tenevano a galla zia Etta che sputacchiava e scalciava coi piedi. Tenersi attaccata al dorso di Herbert assorbiva tutte le forze di Minette, ma lei cercava ancora disperatamente Fabio. «Ti prego, Herbert, dobbiamo trovarlo». Dopo che Fabio e Minette erano stati strappati l'uno dall'altra, Fabio aveva scorto la scialuppa di salvataggio gettata in mare quando l'Uragano era affondato. Riuscì a raggiungerla, ad aggrapparsi al bordo. Ma sulla barca c'erano Stanley Sprott e il suo equipaggio. Sprott guardò oltre il bordo e vide il ragazzo che si dibatteva. «Fatelo fuori» ordinò. E mentre la piccola mano si tendeva, Boris la colpì con un remo e spinse il bambino nuovamente nell'acqua. A quel punto non c'era più speranza per Fabio. Stava andando sotto per l'ultima volta quando Herbert lo trovò. «Aggrappati alla mia spalla» ordinò. «E non parlare». Herbert era un nuotatore eccezionale, ma sapeva che nuotare per tutto il lungo tratto fino all'Isola sostenendo due bambini poteva essere superiore alle sue forze. Nemmeno una foca si azzarderebbe a nuotare con due cuccioli sul dorso. Tutti erano in difficoltà. La zattera su cui si bilanciavano i due piccoli bubri stava affondando, e sopra di loro mamma bubri gracchiava angosciata, non sapendo quale dei due afferrare col becco. Il verme aveva i crampi ai muscoli della coda per lo sforzo di sostenere zia Coral appesantita dall'acqua... Herbert misurò la lunga distanza dall'Isola e strinse i denti. «Forza tutti quanti, seguitemi» gridò. Si poteva solo nuotare alla disperata. Il Kraken aveva trovato suo figlio. Non gli importava nient'altro. Si allontanò dal luogo del naufragio con il piccolo sul dorso. La rabbia gli scorreva ancora nel corpo. Ora non era il Risanatore del Mare. Era il padre al cui figlio avevano fatto del male. Che tutti stessero in guardia perché lui e suo figlio stavano arrivando! Ma dopo la prima gioia di sentirsi in salvo, il piccolo Kraken si tese in avanti fino a sfiorare con la bocca l'orecchio del padre, e parlò concitato in polare. Stava spiegando quello che era successo e come la gente dell'Isola avesse tentato di proteggerlo. E poi pronunciò la parola che il grande Kraken aveva detto la prima volta che era entrato nella baia. «Bambini!» disse il piccolo Kraken. E ancora, guardando verso il luogo del naufragio: «Bambini!»
Ma non era una vera domanda. Era un ordine. Il piccolo Kraken stava crescendo. E il grande Kraken sospirò perché più di ogni altra cosa desiderava allontanarsi dalle urla e dai relitti e ritrovarsi nella quiete del mare. Ma si girò, e nuotò verso i relitti e le creature che lottavano per tenersi a galla a vicenda. Poi Minette e Fabio sentirono qualcosa sotto di loro... la forte, vivente isola di muscoli che era il dorso del Kraken, e lo sentirono emergere, emergere finché tutti si trovarono riuniti al sicuro sopra di lui - le zie e gli animali, i bubri con la loro gabbia... e loro stessi, che si lasciarono scivolare giù dalle spalle stanche di Herbert per trovare terreno solido sotto i piedi.
Fu un viaggio incredibile e magico quello che intrapresero, dopo il panico e il terrore che avevano vissuto, navigando sicuri e tranquilli fino a giungere in vista dell'Isola, passato ogni pericolo e paura. Ma il Kraken non aveva salvato tutti. Stanley Sprott giaceva scomposto sul fondo della scassata scialuppa. Boris, in stato di semi-incoscienza, stava aggrappato al bordo. Des si sporgeva dal fianco della barca, cercando di vomitare; aveva bevuto acqua di mare. Lambert era raggomitolato come un bebè tra il capitano e il secondo. Casimir era annegato mentre tentava di raggiungere la scialuppa dopo lo speronamento dell'Uragano. Andavano alla deriva da un pezzo. Il mare era ancora strano; ora color pece, ora del colore del sangue. Nessun battello di soccorso salpava in quell'oceano pauroso. Nella scialuppa non c'erano più né acqua né viveri. Le labbra degli uomini erano spaccate, le lingue rigonfie incollate al palato. Intontiti com'erano, cercavano di trovare un senso a ciò che era accaduto. Solo che non ci riuscivano. Nessuno riusciva a trovare un senso. «Un'isola?» borbottò Sprott. La vedeva ancora, incredibilmente grande, che si muoveva verso di loro con la velocità di una cometa.
Ma com'era possibile? Come poteva muoversi un'isola? «Non c'era» disse improvvisamente Lambert. Indebolito dalla fame e dalla sete, erano le sole parole che era ancora in grado di dire. Nella testa di Sprott si accavallavano le immagini. Una sirena che teneva sollevata... una zia. Ma c'erano veramente state delle sirene? E un uccello grande come un elefante che sbatteva le ali sopra i relitti... No, era ridicolo. Era impossibile. Si palpò il bernoccolo sulla fronte. Doveva avere una commozione cerebrale. «Non c'era... veramente...» mormorò Lambert. Non avrebbe resistito a lungo se qualcuno non veniva presto a soccorrerli. Sto impazzendo, pensò Sprott. Dovrò stare attento. Dovremo stare tutti attenti o ci chiuderanno in una gabbia di matti se riusciremo a salvarci. Quel che è successo è che è arrivata una burrasca e l'Uragano è colato a picco. Tutto il resto è fantasia. «Non... c'era...» disse flebile Lambert. Sprott guardò il figlio. Lo aveva sempre disprezzato ma ora se ne pentiva. Lambert aveva ragione. Aveva continuato a dire che quelle... bestie... non c'erano veramente, e in effetti non c'erano. Come avrebbero potuto esserci? «Proprio così, Lambert» disse Stanley Sprott, poi si abbandonò all'indietro e chiuse gli occhi. Se venivano a salvarli non avrebbe detto niente. Non aveva nessuna intenzione di farsi rinchiudere con i matti, questo è certo... Gli ultimi giorni sull'Isola furono stranamente felici. I bambini sapevano che presto li avrebbero portati via, ma riuscirono a godere di ogni istante così come veniva, e le traversie trascorse parevano aver giovato a tutti. Lo storverme non si lamentava più di essere troppo lungo per i suoi pensieri. «Se fossi stato più corto non avrei potuto tenere a galla zia Coral» disse, e smise di parlare di chirurgia plastica una volta per tutte. In quanto a Loreen, quando Mirta tirò fuori Walter dal catino e lo piazzò in braccio a sua madre, emise un gridolino di gioia. «Gli sono cresciuti i capelli!» gridò. «Gli è cresciuto un capello» precisò Reginetta che si dava delle arie perché aveva salvato zia Etta. Ma la cosa più emozionante accadde alla bubri. Quando arrivò dondolando al suo nido con i suoi mogi piccolini, trovò che vi si era insediato qualcuno. La bubri si fermò, sibilò... allungò il collo. Chi osava occupare il suo nido? Strombazzando, chiocciando e protestando, sbatté le ali e si preparò all'attacco. Poi improvvisamente si fermò. Si accovacciò davanti all'intruso, batté il becco contro quello dell'altro... roteò gli occhi colmi d'amore e di gioia. «Santo cielo» disse Fabio. «È suo marito. È tornato». Proprio così. Non aveva un'aria molto intelligente, ma fu un gran sollievo per tutti sapere che a occuparsi dei piccoli bubri sarebbero stati in due. Herbert naturalmente era un eroe, ma non si era montato la testa. Cominciò subito a mettere a posto la casa delle zie e a etichettare i barattoli delle conserve di Art e a insegnargli come si tagliano le teste ai pesci. Ma era Mirta la sua amica speciale, e lui fece tutto il possibile per aiutarla. Le diceva quando aveva la gonna alla rovescia e la correggeva se suonava una musica troppo veloce al violoncello, e insistette per darle lezioni di nuoto due volte al giorno. «Oh, Herbert, l'acqua è così fredda!» protestava Mirta.
Ma Herbert diceva che era pericoloso vivere così vicino al mare senza saper nuotare, e ogni mattina e ogni sera Mirta doveva prendere il suo salvagente e mettersi la tuta di gomma e i calzoncini da ginnastica blu di zia Etta e entrare in acqua. Ma la cosa più importante, quella che occupava costantemente i pensieri di tutti, era cosa avrebbe fatto il Kraken. Dopo averli portati a riva sani e salvi, il grande Kraken si era allontanato fino all'imboccatura della baia. Se ne stava quasi sempre sommerso e nascosto alla vista, e suo figlio era con lui. «Sta pensando» disse zia Etta, e aveva ragione. Stava pensando a cosa fare. Doveva interrompere il suo giro risanatore intorno al mondo e tornare al Mare Artico? O doveva trovare un altro posto dove lasciare suo figlio? Senza che nessuno glielo dicesse, sapeva che sull'Isola le cose sarebbero cambiate. Poi un giorno comparve Ethelgonda, luminosa sulla sua tomba, e tutti capirono che sarebbe stato un giorno importante. Ed ecco che a mezzogiorno il grande Kraken entrò lentamente nella baia con il figlio sul dorso. Fu un momento d'ansia. Nessuno avrebbe potuto criticarlo se avesse voltato ancora le spalle all'umanità lasciando che il mare andasse in rovina, e tutti quelli che attendevano sulla sponda trattenevano il fiato. Poi cominciò a parlare. Parlava in polare ed era suo figlio a tradurre. «Benché la gente si meriti che io la lasci nella sporcizia e nella cattiveria, ho deciso di riprendere il viaggio per gli oceani del mondo. Ma il viaggio non durerà un anno e un giorno. Durerà due anni e due giorni... o addirittura tre anni e tre giorni, in modo che mio figlio, che mi è stato restituito, possa accompagnarmi e nuotare al mio fianco». Quando ebbe finito scoppiò un grande applauso e Fabio e Minette si abbracciarono perché era qualcosa di molto simile a un lieto fine. Quella sera quando ci fu quiete il piccolo Kraken venne tutto solo a dire addio ai bambini che si erano occupati di lui. Rimaneva un unico bombolone nella scatola della bubri, ma quando Fabio lo porse al Kraken questi non spalancò subito la bocca. Disse: «Dividiamo!» Così i bambini spezzarono il bombolone in tre parti e ognuno ne mangiò un pezzo. Era un bombolone molto schiacciato e tristanzuolo, con la glassa crepata e uno smarty appiccicato di traverso... ma i bambini se lo sarebbero ricordato come il dolce più paradisiaco del mondo. La mattina dopo il Kraken e suo figlio se n'erano andati. E poche ore dopo si sentì sull'Isola il rumore che stavano aspettando: il rumore di un elicottero. Anzi, non di uno, di tre... a scaricare un intero battaglione di poliziotti con pistole, manette e giubbotti antiproiettile, venuti a riportare indietro i bambini e ad arrestare le zie. Poi si girò.
Capitolo ventitré Zia Etta e zia Coral erano in prigione da diverse settimane quando ebbe inizio il loro processo per sequestro di persona. Ai bambini erano state vietate le visite, sicché la prima volta che le videro fu sul banco degli imputati dell'Old Bailey, ammanettate alla poliziotta
che le aveva accompagnate su dalle celle. Vederle in quello stato fu per Fabio e Minette come ricevere un pugno nello stomaco, e Minette fece un sospiro di compassione che venne udito dalla gente nell'aula. «Povera animuccia, guarda com'è spaventata» bisbigliavano, ed era vero. Minette era molto spaventata e Fabio pure, spaventati per le zie e per quello che sarebbe loro accaduto; molto spaventati davvero. Etta era sempre stata magra ma ora era solo ossa, e la ciccia di Coral se n'era andata e la pelle le pendeva a pieghe. Non si erano ridotte così per il cibo della prigione o per la compagnia delle altre detenute, ma per il fatto di svegliarsi giorno dopo giorno tra le grigie mura che le rinchiudevano. Per la perdita della loro libertà. L'aula giudiziaria era molto buia e molto vecchia. Il giudice dominava dall'alto tutti gli altri come un dio, e più in basso c'erano uomini in toga e parrucca: uno con la faccia da furetto che era il pubblico ministero e doveva dimostrare che le zie erano colpevoli, e un altro con la faccia tonda come un pudding di Natale che era l'avvocato difensore e doveva dimostrare che le zie erano innocenti. La giuria - tre donne e nove uomini - sedeva alla destra del giudice. Una di loro, una donna dall'ampio seno e dai capelli rossi, continuava a sventolarsi con un foglio di carta. I genitori di Minette erano sui banchi di fronte al giudice, più lontani possibile l'uno dall'altra, e i vecchi Mountjoy sedevano nell'ultima fila. Erano solo zia Etta e zia Coral a venir processate. Zia Mirta aveva potuto tornare all'Isola perché Sprott, ricoverato in una clinica negli Stati Uniti, era troppo confuso per accusare chicchessia di aver sequestrato suo figlio. Era stato un sollievo per Etta e Coral. Pensavano che in prigione Mirta sarebbe probabilmente morta. Il caso aveva suscitato grande scalpore. «Zie assassine consegnate alla giustizia», urlavano i titoli dei giornali, e i bizzarri ritratti di zia Etta e di zia Coral già esposti nei commissariati vennero pubblicati nuovamente, convincendo tutti della loro perversità. «L'imputata si alzi» intimò il cancelliere del tribunale, e i bambini trattennero il fiato perché l'imputata era Etta. Venne letta l'accusa. «Si dichiara colpevole o innocente?» le chiesero. «Innocente» disse Etta, a testa alta. Poi vennero chiamati i testimoni. La prima era la mamma di Minette, che a passettini veloci andò al palco dei testimoni rassettandosi i capelli. Le dispiaceva che non trasmettessero il processo in televisione perché aveva il cappello assolutamente giusto serio e scuro ma molto seducente - e poiché aveva fatto l'attrice giurò di dire tutta la verità, nient'altro che la verità in tono molto drammatico. «È quella la signora che ha incontrato alla stazione di King's Cross?» chiese il pubblico ministero che assomigliava a un furetto, indicando Etta. «Sì». «E ha pensato che fosse la persona adatta a cui affidare sua figlia?» «Sì, perché veniva da un'agenzia. Ma ho pensato che aveva una faccia sinistra». «Ci può dire cosa intende per sinistra?» Poi venne chiamato il padre di Minette, che descrisse il falso messaggio ricevuto, che diceva che Minette non sarebbe partita per Edimburgo. Poi fu la volta di Minette. Si era discusso molto se Fabio e Minette fossero abbastanza grandi per testimoniare, ma alla fine si era deciso di sì. Quindi anche Minette giurò di dire tutta la verità e nient'altro che la verità, poi venne portato uno sgabello in modo che la sua testa spuntasse da sopra il banco dei testimoni, e l'uomo furetto esordì. «Dunque, Minette, ci vuoi dire cosa è successo mentre viaggiavi con questa persona verso
Edimburgo?» disse. «Senza fretta» aggiunse, staccando le parole come se Minette avesse tre anni. «Parlavamo di tante cose» disse Minette. «Che tipo di cose?» «Delle foche... e se esistono i fantasmi oppure no... e poi le ho chiesto se c'era un terzo posto». «Puoi spiegarci meglio?» Minette inclinò la testa, pensando. «Per tutta la vita ero andata avanti e indietro tra i miei genitori... e quando arrivavo dicevano cose orribili l'uno dell'altra così ero... stufa. E triste. E ho chiesto a zia Etta se non c'era un terzo posto. Un posto che non fosse qui o là - e lei mi ha detto che c'era, c'era sempre un terzo posto per tutti. Solo che dovevo aver coraggio e volerlo». «E poi cos'è successo?» «Mi sono addormentata. E quando mi sono svegliata, ero là, nel terzo posto». «Capisco. Ti sei svegliata in un posto del tutto sconosciuto. E hai avuto paura?»
Minette sorrise di un sorriso lento, dolcissimo, che illuminò la buia aula giudiziaria come un faro. «No. Non per molto. Vede, avevo una lampadina da notte. A Londra avevo paura e anche a Edimburgo per via del buio e delle crepe nel soffitto. Vedevo delle tigri... e i miei genitori dicevano che ero sciocca. Invece là quando mi sono svegliata la prima cosa che ho visto è stata quella lampada». Il furetto con la parrucca non apprezzò questa risposta. Il suo compito era dimostrare quanto fossero cattive le zie, e quella bambina non collaborava. «Mi stai dicendo che ti sei svegliata in un posto completamente sconosciuto dopo esser stata rapita e che non hai avuto paura?» Minette alzò il mento. «Non sono stata rapita» disse con voce nitida. «Sono stata scelta». Quella sera i giornali riportarono le sue parole. «'Non sono stata rapita, sono stata scelta' dice la piccola vittima del sequestro.» E tutti pubblicarono la foto di Minette. La mattina successiva era il turno di Coral, e toccò a Fabio presentarsi al palco dei testimoni e salire sullo sgabello. Fu ancora il pubblico ministero furetto a interrogarlo per primo. «Dunque, ragazzo mio, vuoi dirci cosa è successo durante il viaggio verso Tristemelma?»
«Ho vomitato» disse Fabio. «Hai vomitato perché avevi paura?» «Sì». «Avevi paura di quella signora?» chiese il furetto, indicando zia Coral. «No. Avevo paura di tornare a scuola. Era un posto orribile. Mi ficcavano la testa nel water e mi tiravano calci e mi appendevano per le caviglie fuori dalle finestre dell'ultimo piano perché venivo dal Brasile e non ero come loro». Nella galleria del pubblico corse un mormorio di simpatia, e la signora con i capelli arancione smise di sventolarsi ed emise un chioccolio. «Non occorre che ci descrivi la tua scuola» fece il furetto, ma il giudice si sporse in avanti e disse che Fabio doveva raccontare la storia a modo suo. «Così zia Coral andò a parlare alla governante e poi tornò e disse che non potevo restare nella scuola perché erano in quarantena e io ero felicissimo. Ma poi mi è venuto in mente che dovevo tornare dai nonni che era quasi lo stesso. Mi facevano stare in ginocchio sui piselli secchi e mi ripetevano sempre com'era volgare mia madre. Ma poi ho visto che zia Coral capiva quello che provavo perché era una persona un po' magica e potevo fidarmi di lei». «E poi ti ha drogato e ti ha rapito» aggiunse il pubblico ministero. Minette a questo punto aveva sorriso, ma Fabio non sorrise. Fulminò il furetto con lo sguardo, ma le parole che disse furono le stesse. «Non mi ha rapito» disse. «Mi ha scelto». Il giorno dopo i resoconti del processo cominciarono a cambiare di tono, e accaddero cose strane. I bambini abbastanza grandi da sapere qualcosa della faccenda chiedevano ai genitori storie diverse prima di dormire: storie di zie magiche che venivano a prendere i bambini per portarli su isole dove non occorreva andare a scuola. Naturalmente che le zie fossero colpevoli lo sapevano tutti. Sarebbero finite in prigione, probabilmente per il resto della loro vita, ma non c'era più tanta frenesia, e la gente che stazionava fuori del tribunale con scritte tipo: «La forca è troppo poco per loro», smise di gridare e se ne andò a casa. Il terzo giorno del processo era anche l'ultimo, e il furetto riprese a interrogarli. «Cosa facevate esattamente sull'isola?» volle sapere. «Lavoravamo» dissero i bambini. «Aiutavamo a tener puliti gli animali e a mungere le capre e a allattare le foche neonate». «Precisamente. E lavoravate tutto il tempo? Dall'alba al tramonto». «Sì». «E non vi stancavate?» «Certo che ci stancavamo». Fabio lo guardò accigliato. «Cosa c'è di male a stancarsi? Lavorare così era bello. Dovrebbero farlo tutti invece di rompersi la testa a scuola a risolvere problemi di matematica che non hanno niente a che fare con la vita reale e a scrivere stupidi temi su persone morte». Quando il furetto vide che non poteva mettere i bambini con le spalle al muro, si accanì sulle zie, e allora fu chiaro che non c'era nessuna speranza. Si erano veramente prese i bambini all'insaputa dei genitori, e non tentarono di negarlo. Né Etta né Coral erano brave a dire bugie. E si giunse al momento finale, alle conclusioni, quando il giudice deve spiegare esattamente ai giurati i termini del caso giudiziario. Tutti tacevano nell'aula, tutti sapevano che il verdetto le avrebbe dichiarate colpevoli, ma persino le persone che se l'erano augurate fin dall'inizio cominciarono ad avere dei dubbi.
Poi Etta fece un cenno al pudding di Natale che avrebbe dovuto difenderle e gli bisbigliò qualcosa, e lui andò dal giudice e bisbigliò, e il giudice annuì. Nessuno sapeva cosa si erano detti ma da lì a qualche minuto entrò un commesso con due grossi dizionari. «Vostro Onore» disse il pudding. «Chiedo di poter leggere a voce alta le due definizioni più aggiornate della parola 'sequestrare'. La prima viene dal London Dictionary e dice: Sequestrare: trattenere una persona contro la sua volontà». Si rivolse a Minette. «Ti chiedo di salire ancora sul palco». Minette eseguì. «Puoi dire di essere stata trattenuta contro la tua volontà?» «No» dichiarò Minette. La domanda venne ripetuta a Fabio. «No» urlò il bambino. Il pudding aprì il secondo libro. «La definizione di 'sequestrare' riportata qui dice: Trattenere una persona per ottenere un riscatto. Pretendere denaro in cambio del rilascio della vittima». Guardò ai banchi dove sedevano i genitori di Minette e i nonni di Fabio. Poi li chiamò fuori uno per volta, e a ciascuno chiese: «Vi è mai stato chiesto un solo penny da una di queste signore?» E, indispettiti, irritati, dovettero ammettere di no. «In questo caso, Vostro Onore, la mia opinione è che non sia stato compiuto nessun sequestro». La giuria discusse per sei ore, e per tutto quel tempo Fabio e Minette si rifiutarono recisamente di uscire dal tribunale. «Rimaniamo finché leggono il verdetto» disse Fabio, e niente di quanto dicessero i poliziotti o gli assistenti sociali o chiunque altro riuscì a smuoverli da lì. Così si sedettero su delle sedie dure in un ufficio dietro l'aula e attesero. Erano così stanchi che facevano fatica a non cadere a terra. Era come vegliare un malato o un moribondo; si doveva fare. Era passata la mezzanotte quando la giuria rientrò e tutti sfilarono di nuovo nell'aula. «Avete raggiunto un verdetto?» chiese il giudice, sporgendosi dal suo banco. «Sì, signore» rispose il presidente della giuria con voce solenne. «E ritenete che le imputate siano colpevoli o innocenti?» Non c'era mai stato un simile silenzio. Nell'aula non si sentiva un respiro, non un fruscio... Il presidente alzò la testa. «Innocenti». Stranamente non fu Minette ma Fabio che scoppiò in lacrime.
Capitolo ventiquattro L'Isola non era mai stata tanto bella. Il mare danzava e scintillava, il sole riluceva attraverso le verdi creste delle onde; e sulla collina le ginestre in fiore formavano una massa dorata.
Ai bambini era stato permesso di andarci per una settimana per i saluti. Minette sarebbe tornata dai suoi genitori, ma la mamma di Fabio era venuta per riportarselo in Brasile. Aveva letto del processo e della scuola di Fabio, e non pensava più che suo figlio dovesse trasformarsi in un gentiluomo inglese. Poteva essere un addio veramente triste, ma non lo fu, perché il giorno dell'arrivo dei bambini le zie li chiamarono nella stanza da pranzo e mostrarono loro un documento dall'aria importante, tutto coperto di sigilli rossi. «È il nostro testamento» dissero. I bambini provarono a leggerlo ma non ci capirono niente, e alla fine Etta disse: «Quel che dice è che abbiamo lasciato l'Isola a voi. A voi due congiuntamente. Quando moriremo l'Isola sarà vostra». Erano in piedi intorno a loro, tutte e quattro le zie - Etta e Coral e Mirta e Dorothy - e annuivano compiaciute. «Sappiamo che la considererete un Sacro Dovere» dissero. I bambini dapprima non riuscivano a crederci. Era troppo enorme da accettare: il pensiero che l'Isola sarebbe un giorno appartenuta a loro, e che potessero viverci e averne cura, e stare insieme. Gli anni d'attesa perdevano d'importanza. Ora Minette temeva meno l'umore dei suoi genitori, che comunque si sforzavano di comportarsi meglio. Il tempo sarebbe passato velocemente, lei e Fabio sarebbero tornati prestissimo per cominciare la loro vera vita. «Ce la farete finché torniamo?» chiese Fabio, e le zie risposero di sì, perché Dorothy aveva deciso di fermarsi. Pensava che era ora di appendere il wok a un chiodo e voleva allevare dei piraña in una vasca sicché, se altri Sprott si fossero avvicinati all'Isola, li avrebbe cacciati via. In quanto a Herbert, continuava a rendersi utile come aveva sempre fatto dal naufragio dell'Uragano. Lustrò i portatovaglioli e rassettò i cassetti delle posate di Art e ordinò delle pianelle per la Sibilla da un catalogo. Ma soprattutto continuò ad aiutare Mirta. Le insegnò a raccogliere i capelli in una retina, riunì con lo scotch i suoi fogli da musica sparsi e regolarmente ogni mattina e ogni sera controllava che indossasse i calzoncini di Etta e il salvagente e le dava lezione di nuoto nel mare. Eppure, Fabio e Minette, che non lo vedevano da prima del processo, intuirono che Herbert era cambiato. Lavorava troppo, come se temesse quello che poteva accadere se non si teneva occupato, e a volte lo sorprendevano a guardare fuori dalla finestra con uno sguardo strano nei grandi occhi bruni. «Ha nostalgia» sussurrò Mirta ai bambini. «Gli manca il mare». I bambini restarono sconvolti. Herbert, dopo tutto, aveva salvato loro la vita. «Non c'è niente che si possa fare?» chiese Fabio. Zia Mirta sospirò. «Potrebbe ritrasformarsi in foca» disse lentamente. «Un modo c'è». «Mica il coltello?» chiese Minette inorridita. «No. Potrebbe anche funzionare ma...» Scosse la testa. «Le sirene dicono che se uno sparge sette lacrime su un selky mentre sorge la luna... Sette lacrime umane...» «Ma tu riusciresti a sopportarlo?» chiese Minette. «Voglio dire, è tuo amico». Mirta si guardò gli stivali di gomma. «Riuscirei... a sopportarlo» disse, mordendosi il labbro, «se è la cosa giusta da fare. Si sopporta sempre quello che è giusto». Così andarono dalle altre zie e tennero consiglio e poi andarono a cercare Herbert che stava lavando i vetri del soggiorno.
«Herbert, vogliamo che tu ci dica la verità» disse zia Etta. «Eri più felice da foca? Vuoi tornare come prima?» Herbert si voltò di scatto, con lo strofinaccio in mano. Non c'era bisogno di una risposta. Bastava guardare i suoi occhi. «È arrivato alla Roccia dei Farnes» disse Herbert con voce sognante. «Ma nuota piano. Potrei raggiungerlo». Allora si resero conto che per tutto quel tempo i pensieri di Herbert erano rimasti fissi sul grande Kraken e che bramava nuotare insieme a lui e scortarlo nel suo lavoro di purificare il mare. Ma quando gli riferirono quello che avevano detto le sirene, e cioè che avrebbe potuto ridiventare foca se qualcuno faceva cadere su di lui sette lacrime umane, Herbert scosse la testa. «Mirta è rimasta al mio fianco quando mia madre è morta; suonava con me con il bello e il brutto tempo. Non posso lasciarla adesso». Allora Mirta si fece avanti e non era più la donna vaga e svitata con i capelli che le ricadevano sul viso. Era un'eroina. «Se è giusto che tu segua il grande Kraken, devi farlo, Herbert» disse, e malgrado avesse un singhiozzo in gola tenne la testa alta. Decisero di compiere la trasformazione nella grotta dei cristalli e ovviamente tutti vollero venire. Il Capitano non poteva lasciare il letto ma lo storverme promise di raccontargli tutto, e le sirene insistettero per assistere, e anche il naak e persino i bubri, per quanto non fosse sicuro che sapessero esattamente cosa stava succedendo. Dovettero attendere che la luna si affacciasse dalla sua coltre di nuvole, ma quando Herbert gettò via la veste da camera e restò con i soli boxer di Art, tutti sospirarono perché la scena era di una tale dignità e bellezza, come una cerimonia nella Grecia antica. Toccava a Mirta il compito di piangere, e poiché le lacrime dovevano cadere direttamente sulla testa di Herbert, egli si inginocchiò davanti a lei... e lei cominciò. Ricordò tutti i bei momenti, la musica sulla Punta delle Foche, le serate silenziose accanto al suo amico ad ammirare il tramonto... Una lacrima cadde sulla testa di Herbert... poi due... poi tre... quattro... cinque... sei... Ne mancava una sola. Ma proprio quando ognuno era aggrappato a un altro in attesa del grande momento, le lacrime cessarono. Era estremamente imbarazzante. Mirta tirò su col naso. Sbatté gli occhi, arrossì. Aveva versato sei lacrime; e non riusciva a versare la settima. Perché la verità era (anche se non lo disse mai a nessuno) che in quel momento le era improvvisamente venuto in mente che non avrebbe mai più dovuto entrare nell'acqua fredda del mare con la tuta di gomma e i calzoncini blu di sua sorella. Le dispiaceva ancora terribilmente perdere Herbert ma il sollievo le aveva bloccato i canali lacrimali come se fossero stati otturati col cemento. Fu un momento terribile, ma Minette venne in suo aiuto. Le bastò pensare di dover dire addio all'uomo che le aveva salvato la vita, e via. Prese il posto di Mirta, e nel momento in cui la settima lacrima cadde sulla testa di Herbert ci fu un lampo frastagliato di luce accecante. E quando ci videro nuovamente capirono che quello che avevano fatto era giusto. Sulla cornice di roccia c'era un paio di boxer sgualciti, ma dalla caverna guizzava verso il mare aperto una massa affusolata di muscoli che fendeva le onde come un siluro.
La mattina dopo fu l'ultima sull'Isola per i bambini, che si alzarono presto e passeggiarono lungo la spiaggia come avevano fatto il primo giorno, quando si erano svegliati e avevano scoperto di essere stati rapiti. «Tornerai, vero?» chiese Minette. «Non resterai in Brasile per diventare Primo Ministro?» Avrebbe voluto farlo giurare, fare una specie di cerimonia, ma poi vide la sua faccia mentre girava gli occhi sull'Isola e capì che l'amava quanto lei, e fu sicura che sarebbero tornati tutti e due. E il dolore della separazione divenne un dolore di tipo diverso - un dolore di felicità - e poi si voltarono e si incamminarono verso la casa dove li stavano aspettando le zie.
GL'ISTRICI Periodico mensile: marzo 2001 Direttore responsabile: Luigi Spagnol Registrazione del Tribunale di Milano n. 599 del 5.10.1996
Finito di stampare nel mese di febbraio 2001 per conto della Adriano Salani Editori s.r.l. dalle Nuove Grafiche Artabano Gravellona Toce (VB) Printed in Italy