primo capitolo David Copperfield

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I • VENGO AL MONDO Se io debba risultare l'eroe della mia vita, o se questo posto debba essere tenuto da un altro, lo mostreranno queste pagine. Per iniziare il racconto della mia vita con l'inizio stesso della mia esistenza, dirò che sono nato (così mi hanno detto e lo credo) un Venerdì, a mezzanotte in punto. Fu notato che cominciammo, l'orologio a suonare e io a vagire, nello stesso istante. In considerazione del giorno e dell'ora della mia nascita, la balia e alcune sagge donne del vicinato che si erano vivamente interessate a me parecchi mesi prima che ci fosse una qualche possibilità che io ne fossi personalmente informato, dichiararono, primo, che ero destinato a una vita infelice; e, secondo, che avrei avuto il dono di vedere spiriti e fantasmi. Essendo queste due prerogative inevitabilmente proprie, a quanto esse credevano, di tutti gli sfortunati bamboli di ambo i sessi nati nelle tarde ore della notte di un venerdì. Non ho bisogno di dir nulla sul primo punto perché niente, meglio della mia storia stessa, può dimostrare se la predizione si sia rivelata esatta o no alla prova dei fatti. Circa il secondo punto della questione devo solo notare che, a meno che non abbia fatto prova di questa mia facoltà durante la mia prima infanzia, non la ho ancora sperimentata. Ma non sono affatto dispiaciuto di non averlo potuto fare; e, se qualcun altro godesse attualmente di questo potere, gli auguro di cuore di poterlo mantenere. Nacqui avvolto nell'amnio, che fu messo in vendita, con un annuncio sul giornale, all'esiguo prezzo di quindici ghinee. Ignoro se gli uomini di mare fossero a corto di denaro in quel tempo o se piuttosto quel che loro mancava fosse la fede e tutta la loro fiducia andasse al salvagente; tutto quel che so è che ci fu una sola offerta e da parte di un procuratore che negoziava in sconti di cambiali, il quale offrì due sterline in contanti e il resto in sherry, ma non accettò di essere garantito, per un prezzo più alto, dal pericolo, di annegare. Così l'avviso fu ritirato in pura perdita - perché, quanto allo sherry, era allora in vendita quello della mia povera cara mamma - e dieci anni dopo l'amnio fu messo in lotteria al nostro paese fra cinquanta persone che vi parteciparono con mezza corona a testa, e il vincitore doveva pagare altri cinque scellini. Io stesso ero presente, e mi ricordo di essermi sentito piuttosto confuso e imbarazzato vedendo disporre in quel modo di una parte di me stesso. L'amnio fu vinto, ricordo, da una vecchia signora con una sporta, che, con molta riluttanza, sborsò la somma richiesta di cinque scellini, tutti in mezzi pence, meno però due pence e mezzo: e ci volle un mucchio di tempo e un grande spreco di aritmetica per sforzarsi, senza alcun successo, di dimostrarglielo. È un fatto che sarà a lungo considerato come notevole, qui da noi che ella non affogò mai, ma morì trionfalmente ne suo letto a novantadue anni. Ho sentito dire che il suo maggior vanto fu, fino all'ultimo, quello di non essere mai stata sull'acqua in vita sua se non attraversando un ponte; e che, fino all'ultimo, nel sorbire il suo tè (al quale era estremamente affezionata) espresse il suo sdegno per l'empietà dei marinai e altri che avevano la presunzione di «vagabondare» per il mondo. Era vano farle notare che alcune comodità, incluso forse il tè, derivavano da questa reprensibile abitudine. Ella ripeteva sempre, e con sempre maggior enfasi e con un'istintiva conoscenza della forza delle sue obiezioni: «Mai vagabondaggi!» Per non vagabondare adesso a mia volta, tornerò alla mia nascita. Nacqui a Blunderstone, nel Suffolk, o «da quelle parti», come dicono in Scozia. Ero figlio postumo. Gli occhi di mio padre si erano chiusi da sei mesi alla luce di questo mondo, quando vi si aprirono i miei. Trovo ancora in qualche modo strana l'idea che egli non mi vide mai; e ancor più strano mi appare il vago ricordo che mantengo delle mie prime infantili associazioni della sua immagine con la bianca lapide nel cimitero, e l'indefinibile compassione che sentivo per lui che giaceva là tutto solo nella notte scura, quando il nostro piccolo salotto era caldo e luminoso per il fuoco e le candele, e le porte della nostra casa erano - quasi con crudeltà, mi sembrava a volte - saldamente serrate per lui. Il personaggio principale della nostra famiglia era una zia di mio padre, e quindi una prozia per me, della quale dovrò parlare più ampliamente in seguito. Miss Trotwood, o miss Betsey, come la chiamava sempre la mia povera mamma quando vinceva la paura per questo formidabile personaggio fino a riuscire a nominarlo (il che le accadeva di rado), era stata sposata con un uomo più giovane di lei e assai bella, ma non nel senso del detto «è bello chi opera in bel modo». In realtà si sospettava fortemente che avesse spesso bastonato miss Betsey e che una volta avesse perfino, durante una disputa su questioni di denaro, fatto rapidi ma decisi preparativi per buttarla giù da una finestra del secondo piano. Questa evidente incompatibilità di carattere aveva indotto miss Betsey a dargli il benservito e a separarsene legalmente per reciproco consenso. Egli se ne andò in India con il suo capitale, e là, secondo una truce leggenda di famiglia, fu visto cavalcare un elefante in compagnia di un babbuino; anche se io penso che debba essere stato un bramino, o una Begum. A ogni modo nel giro di dieci anni giunse dall'India in patria l'annuncio della sua morte. Nessuno seppe se la zia fosse stata colpita dalla notizia, perché, subito dopo la separazione, lei aveva ripreso il suo nome di ragazza, aveva comprato una villetta in un paese sul mare, piuttosto lontano, e si era stabilita là da sola, con una domestica, ben decisa a vivere da allora in poi appartata in un rigoroso ritiro. Mio padre doveva essere stato un tempo il suo favorito, credo; ma lei era stata mortalmente offesa dal suo matrimonio per il fatto che mia madre era «una bambola di cera». Ella non aveva mai visto mia madre, ma sapeva che non aveva ancora vent'anni. Mio padre e miss Betsey non si incontrarono più. Egli aveva il doppio dell'età di mia madre quando si sposarono, ed era debole di costituzione. Morì un anno dopo: sei mesi prima, come ho già detto, che io nascessi. Questo era lo stato delle cose nel pomeriggio di quel venerdì, mi si passi l'espressione, importante e denso di eventi. Non posso evidentemente affermare di aver capito a quel tempo come le cose veramente stessero, o di avere qualche ricordo, fondato sull'evidenza dei miei sensi, di quel che segue. Mia madre era seduta vicino al fuoco, piuttosto giù di salute e ancor più di spirito, e guardava le fiamme attraverso le lacrime, assai impensierita circa il destino suo e di quel piccolo sconosciuto privo di padre a cui era già stato dato il benvenuto da alcune dozzine di profetici spilli, in un cassetto al piano di sopra, in un mondo che non si sarebbe


affatto preoccupato del suo arrivo. Mia madre, dicevo, era seduta presso il fuoco, in quel chiaro e ventoso pomeriggio di marzo, timida e triste, molto dubbiosa di potere uscir viva dalla prova che le si presentava, quando, alzando gli occhi, nell'asciugarli, verso la finestra di fronte, vide una strana signora venir su per il giardino. Mia madre ebbe un sicuro presentimento, alla seconda occhiata, che si trattasse di miss Betsey. Il sole al tramonto stava dardeggiando sulla strana signora e sulla cinta del giardino; ed ella arrivò alla porta con una fiera rigidità nella persona e una compostezza nell'aspetto che non avrebbero potuto essere di nessuno altro. Quando raggiunse la casa diede un'altra prova della sua identità. Mio padre aveva spesso accennato al fatto che lei raramente si comportava come qualsiasi comune mortale; e ora, invece di suonare il campanello, si avvicinò e guardò per quella stessa finestra, premendo la punta del naso sul vetro a tal punto che la mia povera madre era solita dire di averla vista diventare in un attimo piatta e bianca. Ella ne ebbe una tale scossa che sono sempre stato convinto di dovere alla signorina Betsey l'esser nato di venerdì. Mia madre si era alzata dalla sedia, tutta agitata, e vi si era nascosta dietro, nell'angolo. La signorina Betsey, percorrendo con lo sguardo la stanza, tutt'in giro, lentamente e con aria inquisitoria, incominciò dalla parte opposta, movendo gli occhi come una testa di Saraceno in un orologio della Selva Nera, finché non raggiunsero mia madre. Allora le fece una faccia severa e un gesto, da donna abituata al comando, perché andasse ad aprirle la porta. Mia madre obbedì. «La signora David Copperfield, suppongo,» disse la signorina Betsey; la solennità era dovuta forse agli abiti da lutto di mia madre e al suo stato. «Sì,» rispose lei debolmente. «Signorina Trotwood,» disse la visitatrice. «Penso che abbiate sentito parlare di lei.» Mia madre rispose di avere avuto quel piacere. E fu spiacevolmente consapevole di non aver fatto apparire debitamente quanto quel piacere fosse stato sconvolgente. «Adesso la vedete,» concluse la signorina Betsey. Mia madre chinò la testa e la pregò di entrare. Andarono nel salotto da cui mia madre era uscita, dato che il fuoco non era acceso nella migliore sala da ricevimento dall'altra parte del corridoio: e non era mai stato acceso, per la verità, dal tempo dei funerali di mio padre. Quando si furono entrambe sedute, poiché la signorina Betsey rimaneva in silenzio, mia madre, dopo avere cercato invano di trattenersi, cominciò a piangere. «Oh, suvvia!» disse la signorina Betsey in gran furia, «non si fa così! Andiamo, andiamo!» Mia madre, tuttavia, non poteva trattenersi, e così pianse tutte le sue lacrime. «Toglietevi la cuffia, figliuola,» proseguì la signorina Betsey, «e lasciatevi vedere.» Mia madre aveva troppa paura di lei per non avere la compiacenza di obbedire a questa bizzarra richiesta anche se non ne avesse avuto l'intenzione. Così fece ciò che le era stato detto, e lo fece con mano così nervosa che i suoi capelli (belli e abbondanti) le caddero sul volto. «Ma il cielo mi benedica!» esclamò la signorina Betsey, «sei proprio una bambina!» Mia madre, senza dubbio, aveva un aspetto molto giovanile per la sua età; abbassò la testa come se fosse una sua colpa, poverina, e disse singhiozzando che davvero temeva di non essere che una bimbetta senza marito e che, se fosse sopravvissuta, non sarebbe stata che una bambina con un figlio. Durante la breve pausa che seguì ebbe l'illusione di sentire la signorina Betsey toccare i suoi capelli, e con mano non scortese; ma, guardandola timidamente speranzosa, scorse quella signora seduta con la gonna tirata su, le mani raccolte sopra un ginocchio, i piedi sulla base del camino, intenta a guardare il fuoco con fiero cipiglio. «In nome del cielo,» disse la signorina Betsey improvvisamente, «perché La Cornacchia?» «Intendete dire il nome della casa, signora?» domandò mia madre. «Perché La Cornacchia?» insisté la signorina Betsey. «La Conocchia sarebbe stato molto più adatto, se almeno uno di voi due avesse avuto qualche idea pratica di vita.» «Il nome fu scelto dal signor Copperfield,» rispose mia madre. «Quando comprò la casa gli piaceva pensare che vi fossero intorno delle cornacchie.» Il vento della sera fece un tal scompiglio, proprio in quel momento, fra certi alti olmi in fondo al giardino, che né mia madre né la signorina Betsey poterono trattenersi dal guardare da quella parte. Gli olmi ondeggiavano l'uno verso l'altro come giganti che si sussurrassero dei segreti; dopo pochi secondi di tregua, scossi da una violenta raffica, agitarono qua e là le loro rudi braccia quasi che le loro recenti confidenze fossero troppo maligne per la pace del loro spirito, e alcuni vecchi e laceri nidi di cornacchie sbattuti dalla tempesta, opprimendo con il loro peso i rami più alti, sussultarono come relitti in un mare in burrasca. «Dove sono gli uccelli?» domandò miss Betsey. «Gli... ?» Mia madre stava pensando ad altro. «Le cornacchie... Che cosa ne è successo?» riprese la signorina Betsey. «Non ci sono mai state da quando viviamo qui,» rispose mia madre. «Noi pensavamo... il signor Copperfield pensava... che ci fosse una numerosa colonia di cornacchie; ma i nidi erano molto vecchi e gli uccelli li avevano abbandonati da lungo tempo.» «Sempre lo stesso, David Copperfield!» esclamò la signorina Betsey. «David Copperfield dalla testa ai piedi! Chiamare una casa La Cornacchia quando non ve n'è una sola nei paraggi, e credere nell'esistenza degli uccelli perché ne vede i nidi!»


«Il signor Copperfield è morto,» ribatté mia madre, «e se voi osate parlar male di lui in mia presenza...» La mia povera cara mamma, penso, ebbe una momentanea intenzione di attaccare bravamente mia zia, che avrebbe potuto senza sforzo metterla a posto con una mano sola anche se ella fosse stata preparata a un incontro di tal genere molto più di quanto lo fosse quella sera. Ma tutto si limitò per lei ad alzarsi dalla sedia per poi ricadervi languidamente svenuta. Quando tornò in sé, o quando la signorina Betsey l'ebbe fatta riprendere, comunque fosse la cosa, scorse quest'ultima in piedi davanti alla finestra. Il crepuscolo stava divenendo oscurità; si vedevano appena e non avrebbero potuto farlo senza l'aiuto del fuoco. «Dunque?» chiese la signorina Betsey tornando alla sua sedia come se avesse solo dato uno sguardo distratto al panorama, «a quando l'evento?» «Io sono tutta un tremito,» balbettò mia madre. «Non so perché. Morirò, ne sono sicura.» «No, no, no,» disse la signorina Betsey. «Prendi un po' di tè.» «Oh, povera me, povera me, pensate che mi possa far bene?» singhiozzò disperata mia madre. «Certo,» rispose la signorina Betsey. «Non sono altro che fantasie. Come si chiama la tua ragazza?» «Non so ancora se sarà una, ragazza, signora,» disse mia madre candidamente. «Dio benedica questo pargolo!» esclamò la signorina Betsey citando inconsapevolmente il secondo augurio del puntaspilli nel cassetto al piano di sopra, ma applicandolo a mia madre invece che a me. «Non intendevo questo. Intendevo la tua domestica.» «Peggotty,» rispose mia madre. «Peggotty!» ripeté quasi sdegnata la signorina Betsey. Intendi dire, figliuola, che un essere umano è entrato in una chiesa cristiana per essere chiamato con questo nome?» «È il suo cognome,» rispose debolmente mia madre. «Il signor Copperfield la chiamava così perché il suo nome di battesimo era eguale al mio.» «Qui, Peggotty!» gridò la signorina Betsey aprendo la porta del salotto. «Del tè. La vostra padrona è leggermente indisposta. Non gingillatevi!» Dopo avere emesso potentemente quest'ordine come se fosse stata un'autorità riconosciuta fra quelle pareti fin da quando la casa era sorta, e dopo aver dato un'occhiata fuori per scrutare l'atterrita Peggotty che passava per il corridoio con una candela in mano al suono di quella insolita voce, la signorina Betsey richiuse la porta e tornò a sedersi come prima: con i piedi sulla base del camino, la gonna dell'abito tirata su e le mani puntate su un ginocchio. «Stavi parlando del sesso del bambino,» riprese. «Sono sicura che sarà una bambina. Ho il presentimento che debba essere una bambina. Ora, figliuola, fin dal momento della nascita di questa bambina...» «O forse bambino,» si prese la libertà di interrompere mia madre. «Ti dico che ho il presentimento che debba essere una bambina,» proseguì la signorina Betsey. «Non contraddirmi. Fin dal momento della nascita di questa bambina, figliuola, intendo essere una sua amica. Intendo essere la sua madrina e ti prego di chiamarla Betsey Trotwood Copperfield. Non devono esserci equivoci nella vita di questa Betsey Trotwood. Non bisogna prendere alla leggera i suoi affetti, povera cara. Deve essere bene allevata e bisogna stare molto attenti perché non riponga sciocche confidenze in chi non le merita. E questo sarà mia cura.» Ognuna di queste affermazioni fu sottolineata da un secco cenno di testa da parte della signorina Betsey, come se i suoi vecchi errori personali stessero agitandosi entro di lei; ed ella represse ogni più chiaro riferimento ad essi con forza straordinaria. Così almeno sospettò mia madre guardandola al tenue riflesso del fuoco; ma era troppo spaventata da lei, troppo poco in sé e troppo sottomessa e sconvolta per avere una chiara visione delle cose o saper cosa dire. «E David era buono con te, figliuola?» domandò la signorina Betsey dopo essere stata per un po' in silenzio e aver fatto cessare quei bruschi movimenti della testa. «Stavate bene insieme?» «Eravamo molto felici,» rispose mia madre. «Il signor Copperfield fu anche troppo buono con me.» «E così ti ha viziata, immagino,» ribatté la signorina Betsey. «Per essere lasciata del tutto sola e affidata alle mie forze in questo mondo crudele, temo proprio che lo abbia fatto,» singhiozzò mia madre. «Su, niente lacrime!» ordinò la signorina Betsey. «Ho fatto questa domanda perché non hai avuto le mie esperienze... se mai due persone possono avere le stesse esperienze. Eri un'orfana, non è vero?» «Sì.» «E un'istitutrice?» «Ero istitutrice in una famiglia dove il signor Copperfield venne a far visita. Il signor Copperfield fu molto gentile con me, si interessò di me con gran cura, mi rivolse molte attenzioni e infine mi propose di sposarlo. Io accettai. E così ci sposammo,» rispose mia madre con semplicità. «Oh! Povera bambina!» esclamò assorta la signorina Betsey con lo sguardo fisso sul fuoco. «Sai fare qualche cosa?» «Scusate, signora, non capisco,» balbettò mia madre. «Per esempio del governo della casa.» «Non molto, temo» rispose mia madre. «Non quanto, almeno, avrei desiderato. Ma il signor Copperfield mi stava istruendo...»


«Ne sapeva molto lui stesso!» notò la signorina Betsey fra parentesi. «... e io credo che sarei migliorata, dati il mio desiderio di imparare e la sua pazienza nell'insegnarmi, se la terribile sciagura della sua morte...» mia madre riprese qui a piangere e non poté continuare. «Bene, bene,» disse la signorina Betsey. «Tenevo il libro di casa regolarmente e lo controllavo col signor Copperfield ogni sera,» singhiozzò mia madre in uno scoppio di lacrime e ricadendo poi nel suo dolore. «Bene, bene,» ripeté la signorina Betsey. «Non piangere più.» «E sono sicura che non ebbe mai nulla da ridire su questo, tranne quando il signor Copperfield mi fece notare che i miei tre e i miei cinque erano troppo somiglianti fra loro, e i miei sette e i miei nove troppo riccioluti e svolazzanti,» riprese mia madre in un altro accesso di lacrime, per poi cadere di nuovo affranta. «Finirai con lo star male,» disse la signorina Betsey, «e sai che non sarebbe una buona cosa né per te né per la mia figlioccia. Su, su, non fare così.» Questo argomento ebbe il suo peso per tranquillizzare mia madre sebbene il suo malessere sempre più intenso ne avesse molto di più. Ci fu un intervallo di silenzio, rotto solo per caso da un «Ah!» lanciato dalla signorina Betsey mentre tornava a sedersi posando i piedi sulla base del camino. «David si era assicurato una rendita per sé, con il suo patrimonio, ne sono certa,» disse lei poco dopo. «E per te che cosa è stato fatto?» «Il signor Copperfield,» rispose mia madre con qualche difficoltà, «fu così previdente e buono da assicurarmi il diritto di successione su una parte di essa.» «Quanto?» «Centocinque sterline l'anno.» «Avrebbe potuto fare di peggio,» concluse mia zia. La parola si adattava al momento. Mia madre stava così male che Peggotty, entrando con il tè e le candele e comprendendo con un'occhiata il suo stato - come la signorina Betsey avrebbe potuto capire assai prima se ci fosse stata luce abbastanza - la condusse in tutta fretta al piano di sopra, nella sua stanza. E immediatamente spedì Ham Peggotty, suo nipote, che era stato per alcuni giorni tenuto in casa, di nascosto a mia madre, con il ruolo di speciale messaggero in caso di emergenza, a chiamare la levatrice e il dottore. Questi poteri alleati rimasero notevolmente meravigliati, quando arrivarono a pochi minuti di distanza l'uno dal l'altro, nel trovare una sconosciuta di aspetto imponente seduta davanti al fuoco, con il cappellino allacciato al braccio sinistro, intenta a tapparsi le orecchie con della bambagia. Dato che Peggotty non ne sapeva niente, e mia madre niente ne diceva, ella rimase nel salotto come un vero e proprio mistero. E il fatto che avesse una provvista di bambagia nelle tasche e che si mettesse quel materiale nelle orecchie in quel modo, non toglieva nulla alla solennità della sua presenza. Il dottore andò di sopra e ridiscese poco dopo. Quindi, essendosi convinto, a quanto penso, che, con molta probabilità, quella signora sconosciuta e lui avrebbero dovuto star seduti lì, a faccia a faccia, per alcune ore, si dispose a essere amabile e gentile. Era il più mite e benigno ometto della terra. Si muoveva un po' di fianco, fuori e dentro la stanza, per occupare minor spazio, silenzioso come lo Spettro nell'Amleto e assai più lentamente. Teneva la testa leggermente inclinata da un lato, in parte per minimizzare modestamente la propria persona e in parte per propiziarsi non meno modestamente gli altri. Dire che non avrebbe rivolto una parola brusca a un cane è dir poco: non lo avrebbe fatto nemmeno con un cane arrabbiato. Avrebbe potuto solo offrirgliene una gentilmente, o mezza, o solo un frammento di parola: perché parlava lentamente come camminava. Ma non avrebbe potuto essere rude con lui né sbarazzarsene in fretta per nessuna ragione al mondo. Il signor Chillip, guardando timidamente mia zia con la sua testa inclinata e facendole un piccolo inchino, disse, alludendo al cotone e toccandosi l'orecchio sinistro: «Qualche irritazione locale, signora?» «Cosa?» chiese mia zia togliendosi, come un tappo, la bambagia da un orecchio. Il signor Chillip fu così colpito da quella rudezza - come disse in seguito a mia madre - che per poco non perse tutta la sua presenza di spirito. Ma ripeté dolcemente: «Qualche irritazione locale, signora?» «Che sciocchezza!» ribatté mia zia ritappandosi di colpo l'orecchio. Dopo di che il signor Chillip non poté fare altro che sedersi e guardarla timidamente mentre lei si sedeva a sua volta fissando il fuoco, finché non fu chiamato ancora di sopra. Dopo quasi un quarto d'ora di assenza tornò. «Ebbene?» chiese mia zia, togliendosi il cotone dall'orecchio più vicino a lui. «Ebbene, signora,» rispose il signor Chillip, «le cose... le cose procedono piuttosto lentamente.» «Ba-a-ah!» esclamò la zia scuotendo la testa nel pronunciare quella interiezione piena di disprezzo. E si turò di nuovo l'orecchio. In realtà - come il signor Chillip disse a mia madre - egli era piuttosto colpito: da un punto di vista strettamente professionale, era piuttosto colpito. Si sedette, tuttavia, e la guardò per quasi due ore mentre lei stava lì seduta a fissare il fuoco, finché non fu chiamato nuovamente di sopra. Dopo un'altra assenza, tornò. «Ebbene?» chiese la zia togliendosi il cotone ancora da quel lato. «Ebbene, signora,» rispose il signor Chillip, «le cose... le cose procedono piuttosto lentamente.»


«Ia-a-ah!» esclamò mia zia rivolgendosi a lui con un tal ringhio che il signor Chillip non poté assolutamente tollerarlo. Era stato calcolato proprio per disorientarlo, come disse più tardi. Così preferì andare a sedersi sulle scale, al buio e in piena corrente, finché non fu chiamato di nuovo. Ham Peggotty, che andava alla scuola pubblica e che era un vero drago in catechismo, tanto da potere essere ritenuto una fonte attendibile, raccontò, il giorno dopo, che, stando per fare capolino nel salotto un'ora dopo questi avvenimenti, fu immediatamente scorto dalla signorina Betsey, vagante su e giù in stato di grande eccitazione, e afferrato prima che potesse fuggire. Si udivano adesso ogni tanto, al piano di sopra, rumori di passi e voci che il cotone non riusciva a smorzare, così almeno lui arguì dal fatto che la sua cattura da parte della signora era dovuta alla necessità di sfogare su qualcuno la sua sovrabbondante eccitazione quando i suoni diventavano troppo forti. Infatti la signorina Betsey, andando su e giù e tenendolo costantemente per la collottola (come se avesse preso troppo laudano), in quei momenti lo scrollava, gli arruffava i capelli, gli spiegazzava la biancheria, gli tappava le orecchie come se le confondesse con le proprie, lo malmenava e maltrattava in ogni modo. Questo fu in parte confermato da sua zia, che lo vide a mezzanotte e mezza, subito dopo il suo rilascio, e che disse che era rosso come lo ero io allora. Il mite signor Chillip non avrebbe potuto portare rancore in una simile circostanza, se pur mai lo poteva. Egli si insinuò nel salotto appena gli fu possibile e disse a mia zia nel modo più dolce: «Bene, signora, sono felice di congratularmi con voi.» «Per che cosa?» chiese aspra mia zia. Il signor Chillip fu di nuovo sconcertato dall'estrema durezza di quei modi; così fece un piccolo inchino e le rivolse un piccolo sorriso per addolcirla. «Dio lo benedica, che cosa sta facendo?» esclamò la zia con impazienza. «Non è capace di parlare?» «State tranquilla, mia cara signora,» disse il signor Chillip con il suo accento più cortese. «Non vi è più alcun motivo di preoccupazione, signora. State calma.» È sempre stato considerato quasi un miracolo che mia zia non lo avesse scrollato per tirargli fuori a forza quello che aveva da dire. Si limitò a scrollare la propria testa rivolta a lui, ma in un modo che lo fece tremare. «Bene, signora,» riprese il signor Chillip appena ne ebbe il coraggio. «Sono felice di congratularmi con voi. Tutto è finito, adesso, e finito bene.» Durante i cinque minuti, o quasi, che il signor Chillip impiegò per spiccicare queste parole, mia zia lo guardò con attenzione. «Come sta lei?» chiese incrociando le braccia con il cappellino ancora legato a una di esse. «Bene, signora, starà presto bene, spero,» rispose il signor Chillip. «Bene come può stare una giovane madre in queste tristi circostanze domestiche. Non ho nulla da obiettare sul fatto che ora la visitiate, signora. Può farle bene.» «E lei? Come sta lei?» insisté la zia rudemente. Il signor Chillip inclinò ancora un poco più la testa da una parte e guardò mia zia come un grazioso uccello. «La bambina,» gridò mia zia. «Come sta la bambina?» «Signora,» rispose il signor Chillip, «credevo lo sapeste. È un bambino.» Mia zia non disse una parola, ma prese il cappellino per i nastri, come una fionda, diede con esso un colpo in testa al signor Chillip, se lo mise sul capo di traverso, uscì fuori e non si fece più vedere. Svanì come un fata arrabbiata, o come uno di quegli esseri soprannaturali che, secondo la voce popolare, io ero destinato a vedere; e non tornò più. No, io giaccio nella mia culla e mia madre nel suo letto; ma Betsey Trotwood Copperfield era per sempre nella terra dei sogni e delle ombre, la tremenda regione dalla quale io ero da poco venuto. E la luce della finestra della nostra stanza brillava sulla meta terrestre di tutti i viaggiatori di questo genere e sopra il tumulo che copriva le ceneri e la polvere di colui senza il quale non sarei mai esistito. (Charles Dickens, David Copperfield)


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