AUTISMO E NEURONI MIRROR

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Indice

CAPITOLO 1: Conoscere l'autismo 1.1

Cos'è l'autismo: caratteristiche

1.2

Riconoscimento della malattia: l'assessment

13

1.3

Cause

23

1.4

Deficit nell'interazione sociale

39

1.5

Deficit nella comunicazione

50

1.6

Repertorio comportamentale: movimenti ripetitivi e stereotipati

60

1.7

Deficit delle funzioni esecutive

64

1.8

La cecitĂ mentale

71

1.9

Gli esperimenti di Hobson e Lee

80

1.10 Come evolve l'autismo

3

83

CAPITOLO 2: I neuroni mirror 2.1 La scoperta

87

2.2 Il ruolo funzionale dei neuroni mirror

90

2.3 Il sistema neuronale specchio nell'uomo

94

2.4 Teoria della mente e Teoria della Simulazione a confronto

98

2.5 Immedesimarsi nelle emozioni altrui

104

2.6 Neuroni mirror e linguaggio

108

2.7 Neuroni mirror in soggetti autistici

112

2.8 Dubbi e perplessitĂ

119

1


CAPITOLO 3: Trattamento dell'autismo 3.1 Strategie d'intervento

122

3.1.1 L'intervento precoce di Lovaas 3.1.2 Il programma TEACH 3.1.3 L'intervento seguendo la teoria della mente 3.1.4 La comunicazione facilitata 3.1.5 La riorganizzazione neurologica 3.1.6 Terapia di attivazione emotiva e reciprocità corporea (AERC) 3.1.7 D.I.R. e floortime

122 130 140 145 150 157 161

3.2

Riparare gli specchi rotti

165

3.3

Le farm communities

171

CAPITOLO 4: Integrazione dei soggetti autistici 4.1 Si può parlare oggi di integrazione?

179

4.2 Continuità verticale e continuità orizzontale

183

4.3 Inserimento ed integrazione nell'ambito scolastico

184

4.4 Collegamento casa-scuola

197

4.5 Team di lavoro: strategie operative

199

4.6 Socializzazione nel gruppo classe

206

4.7 Integrazione sociale del soggetto autistico

210

4.8 Organizzazione di ambienti idonei

216

4.9 Forme di supporto alla famiglia

220

4.10 Il ruolo della famiglia

225

CONCLUSIONI

229

BIBLIOGRAFIA

233

2


1.

CONOSCERE L'AUTISMO

1.1 Cos'è l'autismo: caratteristiche L'autismo non è una patologia unica ma un insieme di sindromi aventi natura neurobiologica. Non esiste infatti un solo ed unico deficit di base così come non è possibile identificare una singola causa. Si tratta di un disturbo tra i più gravi in grado di colpire profondamente e precocemente le normali capacità comunicative verbali ed extraverbali di un bambino, la sua capacità di relazionarsi con il mondo esterno ed il suo repertorio comportamentale. E' un disturbo evolutivo globale in quanto riguarda l'intero sviluppo psicologico

e

percettivo

dell'intelligenza,

della

motricità,

dell'attenzione, del linguaggio, della memoria, dell'imitazione. Si manifesta entro i 3 anni d'età e perdura per tutta l'esistenza colpendo un bambino ogni mille: è quindi tutt'altro che raro ed è diffuso in ugual modo in ogni parte del mondo e in ogni classe sociale, anche se risulta più frequente nei maschi che nelle femmine con un rapporto di 4:1. L'autismo non può essere definito un disordine omogeneo poiché solo alcune funzioni risultano compromesse mentre altre permangono intatte o addirittura si sviluppano ad un livello superiore. E poichè tale disturbo impedisce al soggetto di mettere in atto un processo di integrazione e di socializzazione, esso rappresenta un handicap gravissimo che colpisce varie funzioni cerebrali. La sintomatologia insorge secondo modalità diverse: può essere presente già dalla nascita oppure fare il suo esordio nel secondo anno di vita attraverso una regressione improvvisa o un rallentamento dello sviluppo, in alcuni bambini invece può mostrare un andamento altalenante. 3


L'autismo oggi viene diagnosticato secondo i criteri descritti nei due manuali: DSM -IV (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, quarta edizione) redatto dall' American Psychiatric Association (Apa) e ICD-10 ( Classificazione Internazionale dei disagi

e

disturbi

mentali,

decima

edizione)

pubblicato

dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Alla base di questi criteri si trova la seguente triade di deficit conosciuta con il nome di Triade dei Sintomi Autistici: 1. Comportamento sociale: si presenta anomalo e gravemente ritardato. 2. Linguaggio e comunicazione: sia verbale sia non verbale risulta del tutto inadeguata. Troviamo bambini in cui non si svilupperà mai il linguaggio e altri in cui si aggiungono enormi difficoltà di apprendimento. Vi sono anche bambini che possiedono notevoli abilità linguistiche e nonostante ciò mostrano gravi problemi a livello semantico del linguaggio, presentano difficoltà nella comprensione delle espressioni del viso, dei gesti espressivi e delle posture del corpo. Per

questo motivo la comunicazione risulta essere

maggiormente compromessa nell'autismo a differenza del linguaggio. 3. Pensiero e comportamento: entrambi sono caratterizzati da una notevole rigidità e da una limitata immaginazione. La creatività è presente in misura molto ridotta quando non è addirittura assente mentre i comportamenti sono completamente ritualistici. Sia il DSM-IV che l'ICD-10 si rifanno ancora alle prime descrizioni fatte da Kanner. Anche se sono trascorsi più di sessant'anni da quando Leo Kanner, uno psichiatria austriaco, individuò l'autismo partendo dall'osservazione di undici casi di bambini, i suoi studi e le sue teorie sono rimasti dei punti di riferimento per tutte le successive 4


ricerche. Era il 1943 quando Kanner scrisse un articolo su questi bambini che aveva avuto modo di seguire per parecchi anni. Secondo Kanner gli undici bambini mostravano chiaramente un'assenza relazionale che si manifestava con il rifiuto del contatto sociale: questi bambini preferivano stare da soli e non sembravano per niente interessati alle altre persone. Inoltre tutti presentavano un notevole deficit sia nella comunicazione che nel linguaggio: alcuni bambini erano totalmente muti, altri possedevano un linguaggio molto semplice e rudimentale dotato di molte particolarità. Oltre a questi sintomi, i bambini mostravano di possedere un desiderio addirittura ossessivo di ripetitività e di immodificabilità: avevano un grande bisogno

di

ordine,

di

prevedibilità,

di

routine.

Una

modifica della loro routine così come l'interruzione di un loro comportamento ripetitivo scatenava una forte crisi in questi bambini. Kanner ebbe modo così di notare che il comportamento di questi undici bambini non somigliava a nessuna altra sindrome conosciuta da psichiatri. Così li «definì affetti da “disturbo autistico del contatto affettivo”» (Ballerini, Barale, Gallese, Ucelli, 2006, p. 51), proprio per sottolineare la loro incapacità di relazionarsi agli altri, il loro isolamento e il loro desiderio di stare sempre soli. Fu però Eugene Bleuler, uno psichiatra svizzero, a inventare nel 1911 l'aggettivo autistico per indicare la chiusura in se stessi dei soggetti affetti da schizofrenia, un grave disturbo in cui rientrano disturbi del comportamento, dell'umore e del pensiero. Bleuler aveva notato in questi soggetti la mancanza di contatto con il mondo esterno: essi sembravano vivere chiusi in un loro mondo al di fuori della realtà. Kanner invece distinse l'autismo infantile dalla schizofrenia e oltre all'isolamento, ai deficit comunicativo-linguistici e al bisogno di 5


ripetitività osservò nei soggetti autistici

la presenza di isolotti di

capacità. Questa presenza di sprazzi di abilità lo portò a credere che questi soggetti avessero una intelligenza normale o addirittura elevata. Oggi,

purtroppo,

sappiamo

che

quest'ultima

convinzione

è

completamente errata: infatti circa il 70% dei bambini autistici mostra un ritardo mentale medio o grave mentre tutti mostrano difficoltà nella comprensione. Nella descrizione dei bambini autistici, Kanner elencò una serie di tratti caratteristici di tali bambini. Alcune di queste caratteristiche si ritrovano oggi all'interno dei criteri diagnostici internazionali. La più importante è l'incapacità di rapportarsi con le altre persone: si tratta di un disturbo fondamentale dell'autismo che Kanner riteneva fosse presente fin dalla nascita. Attualmente la ricerca non è riuscita a dimostrare che tale disturbo si manifesti dal primo giorno di vita: potrebbe essere che in alcuni bambini autistici si manifesta molto precocemente, in altri si evidenzia fra i 6 e i 12 mesi e in altri ancora compare addirittura verso i 2 anni. Un'altra caratteristica dell'autismo proposta da Kanner è lo sviluppo in ritardo di un linguaggio privo di qualsiasi funzione comunicativa. Ma questo non è sempre vero: basti pensare all'ecolalia che in alcuni casi riesce ad avere una sua funzione comunicativa. Kanner menziona anche la presenza di un'evidente e notevole ripetitività delle azioni che oggi nel Dsm è definita “repertorio di interessi ristretto”. Le altre caratteristiche introdotte da Kanner non rientrano ora nei criteri diagnostici ma vengono spesso associate all'autismo: il panico per i rumori, le difficoltà nella coordinazione motoria, i disturbi dell'alimentazione, il preferire gli oggetti alle persone. Inoltre Kanner

ritenne possibile che una delle cause 6


dell'autismo

fosse da attribuirsi alla freddezza, alla mancanza di

affetto e al troppo intellettualismo dei genitori. Conclusione a cui pervenne dopo aver osservato che i genitori dei suoi pazienti autistici mostravano un livello sia intellettuale che professionale decisamente alto insieme a dei problemi relazionali con i propri figli. Questa visione ha dato vita negli anni a venire a varie teorie come quella sviluppata da Bruno Bettelheim dei genitori frigorifero. Bettelheim nel suo libro intitolato “La fortezza vuota” definì l'autismo come una forma di difesa contro situazioni e contesti percepiti come ostili, in particolare contro la freddezza inconscia dei genitori. Si tratta quindi di una sorta di reazione difensiva, di chiusura per impedire che il mondo esterno possa penetrare nel mondo interiore. La teoria dei genitori frigorifero non ha però ottenuto conferma dalle recenti ricerche che hanno messo in evidenza come i genitori non rappresentino la causa scatenante dell'autismo, anche se gli stessi genitori possiedono indubbiamente un ruolo determinante nello sviluppo di abilità e competenze nei bambini autistici. Quest'ultimi otterranno notevoli progressi se i genitori dimostreranno di avere un ruolo attivo all'interno dell'elaborazione dei programmi educativi. Contemporaneamente a Kanner, Hans Asperger, uno psichiatra viennese, si dedicò allo studio di un disturbo molto simile all'autismo che ora porta il suo nome: la sindrome di Asperger che ha in comune con l'autismo le medesime difficoltà e problematiche comunicative e sociali mentre se ne differenzia per l'assenza o la notevole riduzione del ritardo intellettivo o linguistico. Per questo motivo alcuni studiosi parlano della sindrome di Asperger in termini di autismo “ad alto funzionamento”. Sia l'Autismo che la sindrome di Asperger vengono classificati nel DSM-IV come appartenenti ai disturbi dello spettro 7


autistico (ASD – Autism Spectrum Disorders). I disturbi dello spettro autistico sono composti

da cinque

disturbi caratterizzati da disabilità con gravità diverse, infatti

si

snodano da una forma grave, il Disturbo Autistico, ad una più lieve ossia il Disturbo di Asperger. Se il bambino mostra alcuni dei sintomi caratteristici dell'Autismo o del Disturbo di Asperger senza che però tale sintomatologia soddisfi pienamente i criteri diagnostici di nessuno dei due, si parla di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo Non Altrimenti

Specificato

(PDD-NOS,

Pervasive

Developmental

Disorder Not Otherwise Specified). Gli altri due disturbi sono la sindrome di Rett e il Disturbo Disintegrativo della Fanciullezza: si tratta di disturbi gravissimi e molto rari. La

Sindrome di Rett, a differenza dell'Autismo, colpisce

esclusivamente le femmine. Dopo una fase di sviluppo completamente normale, fra i sei e i diciotto mesi si assiste ad un rallentamento della crescita della testa a cui fa seguito il deterioramento o addirittura la perdita di determinate capacità di manipolazione e di deambulazione già acquisite in precedenza. Inoltre si manifestano delle stereotipie motorie mentre il linguaggio mostra un notevole ritardo sia a livello di comprensione che a quello espressivo. Il Disturbo Disintegrativo della Fanciulezza (CCD-Childhood Disintegrative Disorder) rappresenta una forma rarissima di Disturbo dello spettro autistico che colpisce in maggioranza i maschi. Come nella sindrome di Rett anche qui compare una regressione dopo un periodo di sviluppo normale con l'unica differenza che in questo caso il periodo di normalità si protrae solitamente fino ai tre, massimo quattro anni. Tutti i Disturbi dello Spettro Autistico sono caratterizzati da deficit di diversa gravità nell'area della comunicazione e 8


dell'interazione sociale, nonché nel comportamento che appare ripetitivo e limitato. L'autismo per lungo tempo fu definito “schizofrenia infantile” e questa denominazione compariva nel DSM-I del 1952 e nel DSM-II del 1968. A partire dagli anni 70 inizia a svilupparsi l'attuale nosografia dell'autismo partendo dalla separazione dell'autismo dalla schizofrenia. Anche se questi due disturbi presentano deficit sociali e comunicativi molto simili, oggi vengono considerate due sindromi completamente distinte. L'aspetto più importante che le differenzia riguarda l'età in cui si manifestano: l'autismo prima dei tre anni e la schizofrenia dopo la prima infanzia. Inoltre la sintomatologia è diversa così come l'evoluzione, infatti i sintomi tipici della schizofrenia come le allucinazioni visive ed auditive e i deliri non compaiono nell'autismo, il ritardo mentale risulta essere molto più associato all'autismo che alla schizofrenia mentre in quest'ultima solitamente non compare la ripetitività delle azioni, i movimenti stereotipati e l'ossessione per i particolari. Scompaiono nel DSM due parole che per lungo tempo avevano definito l'autismo: psicosi e infantile. La scomparsa della prima sta a significare la definitiva rottura con la tradizione passata, mentre la scomparsa della seconda mette in evidenza che l'autismo compare molto presto ma, generalmente, perdura per tutta la vita: «l'“autismo infantile” diventa “disturbo autistico”, tipicamente long life» (Ballerini et al., 2006, pp. 71-72). Quindi l'autismo non è solo infantile e soprattutto non si trasforma in qualcos'altro come si poteva leggere in passato: nella maggior parte dei casi i bambini autistici di oggi saranno gli adulti autistici del domani. Alla vecchia mitologia

in cui il bambino autistico viene 9


considerato vittima di genitori che risultano essere inadeguati dal punto di vista affettivo, negli ultimi anni si è sostituita una nuova mitologia: quella dell'autistico-robot, dove il termine robot sta ad indicare la mancanza di emozioni e di affetti. Senza dubbio anche quest'ultima concezione finisce con l'essere deleteria. Infatti chi ha avuto modo di conoscere le persone autistiche non riesce ad accettare questa nuova mitologia anzi la trova completamente irrealistica, anche se è stata ufficializzata all'interno del DSM-III-R, dove è scritto che «l'autismo comporterebbe “assenza di reazioni emotive”» (Ballerini et al., 2006, p. 103). Invece oggi sappiamo che i soggetti autistici sono in grado di esprimere, in tante forme diverse, gli affetti e riescono spesso anche a reagire in modo molto emotivo alle situazioni; nonostante ciò, non mostrano però di possedere la capacità di riconoscere o di parlare dei propri ed altrui stati d'animo: si tratta di uno dei molti paradossi presenti nell'autismo. Chi si occupa di loro sa benissimo che l'autismo è un mondo tutt'altro che privo di emozioni: vi sono gioia, paura, allegria, rabbia, dolore, imbarazzo e felicità. Più che un mondo senza emozioni, «il mondo autistico è il mondo di un'esperienza emozionale che pare continuamente in bilico tra il troppo e il troppo poco, talvolta estrema» (Ballerini et al., 2006, p. 103): i soggetti autistici mostrano infatti degli stati estremi d'ira, di felicità ecc. Pertanto non si possono ritenere neutri a livello affettivo ed emozionale. In effetti, come aveva già messo in rilievo Uta Frith, gli eccessi d'ira insieme alle risatine bastano per provare che gli autistici riescono ad esprimere dei sentimenti, anche se non sono quasi mai adeguati alla situazione in cui sono espressi. Ciò che manca a questi soggetti è la capacità di adattare queste espressioni emozionali al contesto sociale in cui vengono espresse: capacità che solitamente si 10


apprende dopo l'infanzia e che nelle persone autistiche viene appresa molto lentamente e con

estrema difficoltà. Anche l'attaccamento

è presente nei bambini autistici e i vari studi empirici, condotti attualmente, sono serviti a dimostrare che esso funziona in maniera molto simile a quello dei bambini con sviluppo normale. Pertanto si può affermare che i soggetti autistici oltre a possedere attaccamenti ed affetti, possiedono delle loro specifiche esperienze soggettive: essi non fanno altro che tentare di riuscire ad orientarsi all'interno di un mondo relazionale che appare loro altamente caotico. Anche loro mostrano di avere un inconscio, dei sogni, degli interessi, degli schemi interni e come tutti noi anche loro divengono adulti: solo che tutto questo avviene in modi particolari e distintivi. Occorre sfatare vecchie credenze come quella che ritiene i bambini autistici incapaci di stabilire dei legami affettivi con le persone, oppure quella che li vuole completamente isolati nel loro guscio e totalmente al riparo da qualsiasi tipo di stimoli provenienti sia dall'interno che dall'esterno. Inoltre non è assolutamente vero che questi soggetti non sono in grado di instaurare una relazione d'attaccamento con la madre. In realtà i soggetti autistici incontrano fin dalla nascita delle difficoltà nell'ambito comunicativo che gli altri bambini invece non incontrano: si tratta di problemi di precomprensione e successivamente di costruzione e di comprensione dei codici comunicativi. Anche se in questi soggetti sono assenti le strutture deputate allo sviluppo della relazionalità, ciò non significa che essi non sentano il bisogno di affetti e il desiderio di instaurare delle relazioni sociali. Esistono delle debolezze a livello neurobiologico nelle persone autistiche che le lascia in preda al disagio, alla confusione e al disorientamento di fronte al bombardamento di sensazioni e stimolazioni provenienti 11


dall'ambiente interno ed esterno: sono incapaci di attenuarle, di incanalarle, di modularle. Non riescono a mettere ordine tra il caos delle emozioni e degli stimoli che continuamente investe l'essere umano. Pertanto risultano essere fragili e vulnerabili, incapaci di reagire a delle sensazioni o stimolazioni impreviste e di conciliare stimolazioni interne ed esterne. Per far fronte a ciò

le persone

autistiche

si

sviluppano

una

reazione

di

ritiro

e

fissano

sull'immutabilità del contesto nel quale vivono. La realtà rappresenta per loro un insieme caotico e confuso di avvenimenti, di rumori, di persone, di luoghi e di segnali. E' per questo che la routine viene vista come una forma di aiuto per mettere ordine in questa loro vita caotica. Sono spaventati dall'intreccio emotivo in cui vivono quotidianamente: è proprio questo fiume in piena di sensazioni e di stimolazioni, combinate tra loro senza poter essere distinte, che impedisce ogni forma di relazione. Interno ed esterno sono completamente avvolti tra loro formando un intero disorganico ed insensato. Si crea così una sorta di confusione tra dentro e fuori che diventa una costante dell'autismo: infatti i soggetti autistici confondono le sensazioni interne con quelle che giungono dall'esterno. Ciò che si trova all'interno del loro corpo può sembrargli esterno oppure capace di poter passare da uno stato all'altro senza che ci possa essere alcuna attività di controllo da parte di questi stessi soggetti. Ne deriva che le loro relazioni con gli altri risultano compromesse in quanto non sono in grado di distinguere chiaramente gli altri da loro stessi. Ecco allora che ricorrono a delle forme di difesa che oltre a comprendere il ritiro dal mondo esterno prevedono anche

il rifiuto delle esperienze

sensoriali. Inoltre sembrano non pensare e desiderare nulla, appaiono assenti e sordi e paiono non capire il linguaggio degli altri. Possono 12


essere paragonati ad una superficie totalmente piatta su cui le sensazioni e le emozioni degli altri scivolano via senza penetrare all'interno. Oggi sappiamo benissimo che questi soggetti sono invece presenti, sentono e capiscono il linguaggio degli altri. Il loro problema non è quindi il linguaggio, bensì la comunicazione compresa anche quella non verbale. Anche se in alcuni casi, come nella sindrome di Asperger, sviluppano correttamente il linguaggio, l'aspetto comunicativo e sociale di quest'ultimo rimane sempre carente. Marie Dominique Amy, sulla base della sua esperienza di terapeuta, definisce l'autismo come «una patologia del legame» (Amy, 2000, p. 77): legame che non riguarda solo quello che si instaura tra gli esseri umani ma soprattutto quello che viene instaurato tra il mondo ed il vissuto interiore di ogni uomo.

1.2

Riconoscimento della malattia: l'assessment Nel riconoscimento della presenza dell'autismo in un essere

umano solitamente si prendono in esame tre aree funzionali di cruciale importanza. Prima di tutto il comportamento sociale che nell'autismo risulta essere deficitario. Infatti i soggetti autistici dimostrano di avere notevoli difficoltà nell'instaurare delle relazioni interpersonali: con i coetanei non riescono a sviluppare delle relazioni appropriate alla loro età, sono incapaci di condividere spontaneamente con gli altri interessi, piaceri o obiettivi infatti non mostrano né indicano con il dito gli oggetti di interesse, nei rapporti con gli altri si comportano in modo del tutto inadeguato, i loro comportamenti non verbali come la 13


mimica facciale, il contatto oculare, le varie posture del corpo e i gesti appaiono altamente compromessi mentre non mostrano di possedere reciprocità sociale. Per il DSM-IV la diagnosi di autismo prevede almeno la presenza di due sintomi tra quelli sopra elencati nell'ambito del deficit dell'interazione sociale. La seconda area funzionale da prendere in considerazione è quella del linguaggio ossia le abilità comunicative. Tutti i soggetti autistici presentano problemi di linguaggio, alcuni addirittura non sono in grado neppure di sviluppare il linguaggio verbale. Esiste livello

una compromissione

qualitativa

a

della comunicazione che si manifesta con un ritardo del

linguaggio verbale oppure con il mancato sviluppo di quest'ultimo, mancanza a cui il soggetto autistico non cerca assolutamente di porre rimedio mediante l'utilizzo di un linguaggio alternativo come quello mimico o gestuale. Inoltre i soggetti autistici che mostrano di aver sviluppato un linguaggio verbale adeguato sono incapaci di iniziare o sostenere una conversazione e fanno un uso stereotipato e ripetitivo del linguaggio. A ciò si aggiunge la mancanza del gioco di finzione o di imitazione sociale. In questa area relativa al linguaggio, il DSM-IV prevede per la diagnosi la presenza di almeno uno dei sintomi sopra menzionati. La terza area che va considerata per il riconoscimento dell'autismo è l'area del comportamento. Comportamenti, interessi ed attività si manifestano in forma ripetitiva e stereotipata: i soggetti autistici mostrano di avere una dedizione così totale ed assoluta da risultare addirittura anomala ad un numero ristretto di interessi. Inoltre presentano una serie di movimenti corporei e di autostimolazioni insolite e ripetitive come dondolarsi, agitare la testa, battere i piedi per terra, muovere le mani, battere i denti, contrarre i muscoli. Questi soggetti presentano anche una estrema dipendenza passiva dalla 14


routine e un continuo ed eccessivo interesse per le parti di oggetti così come un forte attaccamento a certi oggetti. Anche in quest'ultima area del comportamento, il DSM-IV prevede la presenza di uno dei sintomi sopra descritti. Inoltre prevede anche che prima dei tre anni d'età si manifesti una qualche forma di ritardo in almeno una delle tre aree funzionali. Oltre a queste aree, quando si tenta di riconoscere la presenza dell'autismo in una persona, bisogna anche prendere in considerazione altri tre fattori relativi al comportamento:

• l' intensità ossia il grado in cui una reazione della persona autistica ostacola il suo sviluppo e l'esercizio delle sue abilità. Si tratta di un efficace indicatore che permette di analizzare e stimare la gravità del problema presente nel soggetto. Sicuramente, un comportamento che non permetta al soggetto di poter manifestare le proprie capacità in tutti i contesti è molto più problematico ed importante di un altro che non causi tale compromissione;

• il contesto

cioè le situazioni nelle quali si rivelano i

comportamenti. Tentare di rispondere ad una serie di quesiti, ad esempio se il soggetto mostra comportamenti ripetitivi e stereotipati solo quando è stanco oppure se è in grado di stabilire relazioni sociali adeguate alla sua età solo in casa con i familiari, ma non fuori con i suoi coetanei, è certamente fondamentale per un attento e preciso riconoscimento dell'autismo;

• la durata con cui ci si riferisce al lasso di tempo in cui persiste questo comportamento-problema. Ad esempio il soggetto che mette in atto un comportamento-problema, come la continua 15


agitazione della testa o il dondolio del corpo, solo in seguito ad un evento critico come il divorzio dei genitori e per un periodo di tempo di un mese, sicuramente si valuta in modo completamente diverso rispetto al comportamento-problema che viene sviluppato fin dalla nascita. Riuscire a riconoscere precocemente l'autismo è fondamentale in quanto permette di iniziare ad intervenire sul soggetto prima che le sue condizioni siano già arrivate a compromettere seriamente il suo sviluppo normale. Nonostante ciò, il riconoscimento precoce dell'autismo avviene raramente e tutt'ora è raro che avvenga prima dei due anni d'età: nella maggioranza dei casi si ha il riconoscimento in età più avanzata. I motivi di ciò sono diversi. In primo luogo il comportamento del bambino, prima dei due anni, non si è ancora sufficientemente definito e ciò non consente un riconoscimento definitivo della patologia. In secondo luogo quando all'autismo si aggiunge anche la presenza di un ritardo mentale, è quest'ultimo che cattura tutta l'attenzione. Inoltre può succedere che in certi bambini si verifichi l'autismo insieme alla perdita delle abilità acquisite dopo uno sviluppo abbastanza normale: questa regressione però non avviene prima dei due anni d'età, pertanto risulta chiaramente impossibile un riconoscimento o una diagnosi prima di quest'età. Accanto a tutte queste motivazioni può aggiungersene un'altra: i genitori

spesso

non conoscono a sufficienza le tappe dello sviluppo normale di un bambino e di conseguenza non riescono a rendersi ben conto dei problemi che può manifestare. Gli stessi medici di base hanno delle grosse difficoltà a riconoscere l'autismo proprio per la loro scarsa conoscenza di questa patologia e quindi i genitori si sentono ripetere 16


spesso dal loro medico che si tratta di disturbi passeggeri destinati a scomparire con la crescita. Un riconoscimento precoce permetterebbe di ottenere un miglioramento delle capacità del soggetto autistico sia per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio che per le prestazioni intellettive. L'assessment ossia la valutazione è l'insieme delle attività, delle modalità impiegate per esaminare ed osservare il comportamento di una persona insieme ai fattori che possono condizionarlo per tentare di capire le sue caratteristiche in altre parole com'è la persona, con lo scopo di creare un programma di intervento. Attualmente esistono alcune linee guida per l'assessment dell'autismo che sono condivise a livello internazionale e nazionale. Tali linee guida prevedono: •

l'utilizzo di una prospettiva evolutiva;

un approccio multidimensionale in modo da poter tener conto di

tutte le abilità e di tutti i contesti senza nulla tralasciare; •

l'esame di varie fonti di dati mediante il coinvolgimento dei

genitori. Le modalità dell'assessment comprendono innanzi tutto una équipe multidisciplinare formata da medici, psicologi e terapisti e, in secondo luogo, l'assunzione di una prospettiva che prenda in considerazione

più

strumentazione

ricca

rilevamenti e

molto

realizzati varia.

servendosi

Inoltre

è

di

richiesta

una la

partecipazione dei genitori durante tutto il percorso dell'assessment. Vi sono dei capisaldi dell'assessment riguardanti (Cfr. Asl Imperiese 1, 2009): Rispetto e adattamento: la valutazione si deve compiere rispettando le caratteristiche e le capacità della persona. Infatti, se un bambino si sente a suo agio nell'ambiente in cui viene osservato è 17


maggiormente motivato a ritornarvi e di conseguenza la valutazione risulterà essere molto utile e produttiva. Interattività: durante l'assessment si devono modificare le richieste sulla base delle risposte fornite dal soggetto che si sta valutando. Se si riesce a trovare quali possono essere i modi di richiesta più validi per ottenere un' ottima risposta, allora si sarà in grado di stabilire le modalità d'intervento più efficaci. Utilità e funzionalità: è necessario selezionare solo quelle attività di valutazione che hanno realmente la possibilità di poter migliorare sia la qualità della vita del soggetto che quella della sua famiglia. Sono tre le categorie valutative utilizzate e che vengono così definite: •

sintomatologica:

identifica

i

comportamenti

sintomatici

permettendo così l'identificazione del disturbo. •

Normativa: individua il quoziente intellettivo (QI) o il livello di

sviluppo (ES o QS) confrontando il bambino con tutta la popolazione con sviluppo normale. Inoltre permette di fare dei successivi confronti sullo sviluppo anche a distanza di tempo. •

Funzionale: rileva le capacità, i punti forti e gli stili

d'apprendimento caratteristici del bambino, dà informazioni riguardo le attuali e potenziali capacità della persona e dà anche informazioni al

fine

di

realizzare

un

programma

educativo

altamente

individualizzato. Dalla definizione di queste categorie emerge che, per ottenere una quantità maggiore ed una migliore qualità di notizie riguardo l'autismo, occorre, oltre all'aspetto propriamente diagnostico, un approccio idiografico. Si tratta di un approccio che dedica completamente la sua attenzione al singolo soggetto, soffermandosi ad 18


osservare le sue caratteristiche individuali. L'assessment idiografico si basa sul principio che ogni essere umano è unico, pertanto si focalizza sulla singola persona ed il suo scopo è valutare tutta la varietà specifica dei comportamenti individuali, nonché selezionare i trattamenti adeguati e stabilire i modi per poter osservare i risultati terapeutici. Nell'autismo sia l'approccio diagnostico che l'approccio idiografico

risultano

essere

estremamente

importanti

pertanto

l'assessment idiografico non rappresenta un'alternativa alla fase diagnostica bensì si aggiunge

o meglio ancora si affianca a

quest'ultima. Dopo che un soggetto viene riconosciuto autistico, ci sono a disposizione parecchi strumenti individuali che solitamente vengono utilizzati per attuare una valutazione individuale del soggetto, in altre parole si tratta di valutare il livello di sviluppo raggiunto nelle aree definite critiche per l'autismo. L'assessment si focalizza su tutte quelle strategie che un soggetto mette in atto per poter affrontare l'ambiente, il mondo che appare complesso, analizzando le relazioni che il soggetto instaura con l'esterno all'interno delle quali attua un certo tipo di comportamento e definendo

come

la

persona

e

l'ambiente

si

influenzano

reciprocamente. Nell'assessment idiografico è fondamentale tener conto della variabilità individuale, anzi si può affermare che questo fattore rappresenta il suo vero oggetto di studio. A differenza della diagnosi che è un fatto

molto più tecnico, l'assessment necessita

anche dell'aggiunta di informazioni fornite da tutte le persone che si alternano intorno al bambino, innanzitutto i genitori. Questo aspetto è essenziale per poter avere una visione non statica bensì dinamica e a 360° della realtà in cui vive ogni soggetto. Appare evidente che c'è un'inversione di tendenza rispetto al passato quando gli psicologi 19


mettevano sotto accusa il rapporto genitori/bambino autistico, ritenendo i genitori responsabili della patologia del figlio. Diversi sono gli strumenti impiegati durante la valutazione e variano in base al tipo di valutazione che si effettua. Nella valutazione sintomatologica si utilizzano: •

il

DSM - IV che è

l' ultima

revisione

del

Manuale

Diagnostico e Statico dei Disturbi mentali;

la CARS, Childhood Autism Rating Scale, è uno strumento diagnostico di osservazione e consiste in un colloquio che si articola in 15 items e viene usato con bambini da 24 mesi in poi. Questi 15 punti rivelano il livello di deviazione del comportamento del bambino dalla norma e consente di differenziare l'autismo lieve e medio da quello grave. Si tratta di una scala di valutazione molto valida ed efficace per diagnosticare l'autismo. Servono dai 30 ai 45 minuti di tempo per la sua somministrazione (Cfr. Aloisi, 2000, p. 44);

• l'ADOS,

Autism

Diagnostic Observation Schedule, è un

assessment semistrutturato che si fonda sull'osservazione del comportamento mediante l'uso di attività di indagine volte a valutare

l'interazione

sociale,

il

comportamento,

la

comunicazione, il gioco, gli interessi iniziando dai bambini non verbali in età prescolare fino ad arrivare agli adulti verbali. L'applicazione di questo strumento diagnostico richiede dai 30 ai 45 minuti (Cfr. Aloisi, 2000, p. 45). Nella valutazione normativa si usa:

• la Leiter, è una scala di Q.I. non verbale ossia non esige né comunicazione verbale tra l'esaminatore e il soggetto, né che il soggetto legga o scriva qualcosa. Pertanto si presta a essere 20


utilizzato

con

bambini ed adolescenti con problemi di

linguaggio verbale e di comunicazione. Nella valutazione funzionale vengono impiegati: • il PEP, Profilo Psicoeducativo, consente di poter valutare le varie abilità di un bambino avente un'età compresa tra 1 e 6 anni e permette di determinare il suo grado di sviluppo in ben sette aree evolutive tramite l'osservazione diretta. Le aree evolutive osservate sono le seguenti: - imitazione, - percezione, - motricità fine, - motricità globale, - coordinazione oculo-manuale, - area cognitiva, - area cognitivo-verbale (Asl Imperiese 1, 2009, p. 11). Le risposte vengono poi codificate secondo tre livelli di performances: - riuscito per indicare che le abilità sono state acquisite; - emergente per esprimere che le attività sono state eseguite solo in parte oppure con l'aiuto; - non riuscito per indicare che le abilità non sono state acquisite. Questo tipo di valutazione consente di mettere in risalto i punti di forza e di debolezza del bambino nelle diverse aree di sviluppo e di individuare le abilità emergenti. • il PEP-3 ossia il Profilo Psicoeducativo terza edizione, non è altro che l'ultima revisione di uno strumento che da più di 20 anni è considerato il più preciso ed il più valido per valutare bambini che presentano disturbi tipici dell'autismo e problemi comportamentali.

Questo

strumento

può

coadiuvare

la

programmazione educativa quando si tratta di casi di autismo 21


oppure di altri disturbi pervasivi dello sviluppo. Inoltre rende più semplice e facile la valutazione dei bambini piccoli con disturbi diversi dall'autismo;

• l'AAPEP, Adolescent and Adult Psychoeducational Profile, permette di individuare le varie abilità di un adolescente in sei aree evolutive: - abilità professionali, - funzionamento autonomo, - abilità di tempo libero, - comportamento professionale - comunicazione funzionale, - comportamento interpersonale (Asl Imperiese 1, 2009, p. 15). Questo tipo di scala è formata da tre sottoscale che consentono di valutare sia i punti di forza che i punti di debolezza dell'adolescente in tre diversi ambiti: - la Scala di Osservazione Diretta; - la Scala Familiare somministrata per mezzo di colloqui con i genitori dell'adolescente; - la Scala Scolastica/Lavorativa somministrata mediante colloqui con l'insegnante o il supervisore lavorativo. Le risposte si codificano come nel PEP mentre i risultati derivanti dalle tre scale vanno integrati per realizzare successivamente il piano educativo individualizzato (Cfr. Asl Imperiese 1, 2009, p. 15);

• la Vineland è una scala che valuta sia il livello di autonomia personale sia il grado di responsabilità sociale dei singoli soggetti dalla nascita fino all'età adulta. Si può adottare sia con i soggetti normodotati che con i soggetti aventi difficoltà e deficit cognitivi, inoltre consente di programmare interventi individuali educativi

e

riabilitativi.

Non 22

è

necessaria

la

diretta


somministrazione al soggetto preso in considerazione: i 540 item della forma completa e i 261 della forma breve vengono somministrati ad un genitore o ad una persona che si occupa del soggetto

attraverso

un'intervista

semistrutturata.

Durante

l'intervista devono essere presenti solo l'intervistatore e l'intervistato e il tutto deve esaurirsi in un'unica seduta. Questa scala individua i punti di forza e di debolezza del soggetto in determinate aree del comportamento adattivo: ciò consente di mettere a punto un programma fatto su misura del soggetto, di chiarire quali siano le attività da enfatizzare all'interno del programma, di monitorare i progressi e di valutare l'esito finale.

1.3 Cause Inizialmente,

le

cause

dell'autismo

sono

state

limitate

esclusivamente ai processi intrapersonali e interpersonali per poi giungere ad una multicasualità molto generica. Oggi invece si parla di concause di vario tipo: genetiche, biologiche, ambientali, dietetiche, relazionali. Pertanto si può parlare di eziologia complessa e molto eterogenea. Una tra le tante domande che ci si è posti è se il cervello degli individui autistici sia diverso per grandezza complessiva e per grandezza delle sue componenti. In effetti esistono dei dati chiari che evidenziano come nei soggetti autistici il cervello tenda a essere leggermente più grande (Cfr. Surian, 2008, p. 31): ciò mette in evidenza l'associazione esistente tra autismo e dimensione del cervello. In verità già Kanner aveva osservato nei bambini autistici la maggiore dimensione della

testa, ma tale 23

particolarità

venne


completamente ignorata per molto tempo fino a quando furono introdotte le tecniche di neuroimmagine che consentono di poter rilevare la presenza di anomalie nelle strutture cerebrali. Tra queste tecniche, le più utilizzate sono le seguenti: - TAC (Tomografia assiale computerizzata), - PET (Tomografia ad emissione di positroni), - RM (Risonanza magnetica), - RMF (Risonanza magnetica funzionale). Accanto a queste, riveste un ruolo molto importante anche l'uso del microscopio sia ottico che elettronico. Tramite l'uso di queste tecniche si è potuto scoprire l'esistenza di cellule chiamate “neuroni” che svolgono un ruolo fondamentale all'interno del cervello: possiedono delle ramificazioni denominate dendriti ed un'unica ramificazione molto lunga detta assone alla cui estremità vi sono ulteriori ramificazioni. Quest'ultime poi si collegano ad altri dendriti in punti definiti sinapsi: qui l'impulso nervoso si propaga ad un altro neurone tramite un segnale chimico (fig. 1).

Fig. 1. Struttura schematica di un neurone: sono indicati i dendriti, il nucleo cellulare, l'assone e le sinapsi (bouton). Fonte: C. George Boeree, www.torinoscienza.it.

24


Fig. 2: Neurone al microscopio ottico

Fig. 3: Neurone al microscopio elettronico a scansione.

Fonte: wapedia.mobi.

Questo segnale chimico viene regolato dai neurotrasmettitori, i quali sono sostanze che rivestono un ruolo fondamentale nella trasmissione degli impulsi: impulsi che hanno carattere eccitatorio o inibitorio. I neurotrasmettitori più noti sono la dopamina e la serotonina. Ma a cosa si può attribuire questa differenza di dimensioni cerebrali esistente tra il cervello del soggetto autistico e quello di un soggetto normale? La spiegazione non risiede certamente nella differenza dei numeri di neuroni in quanto le differenze di grandezza del cervello non appaiono alla nascita, bensì attorno ai 3-4 anni, per poi attenuarsi all'arrivo dell'adolescenza. Inoltre i neuroni (fig. 2 e 3) si riproducono solamente nel periodo prenatale: ciò ha spinto a pensare che la spiegazione sia da ricercarsi all'interno dei processi di crescita e di selezione dei neuroni. E'

possibile che nel cervello di un

soggetto autistico si trovi una quantità maggiore di dendriti e sinapsi in quanto se ne formano di più rispetto ad un cervello di un soggetto normale. Ma esiste anche un'altra possibilità che riguarda il processo di pruning ossia di potatura dei dendriti e delle sinapsi. Infatti i processi di crescita neurale comprendono oltre 25

alla

formazione


di nuovi collegamenti neurali, la perdita di quei collegamenti che sarebbero inutili o perfino potrebbero danneggiare l'esecuzione di alcune funzioni cerebrali. Quindi il motivo per cui nel cervello dei soggetti autistici ci sarebbe una maggiore presenza di dendriti e sinapsi è da ricercare nel processo di pruning : in questi soggetti tale processo risulta essere del tutto insufficiente. Nonostante tutto, la dimensione del cervello non può essere messa in relazione con la gravità dei sintomi dell'autismo. Attualmente la sfida della

ricerca non consiste più nel

dimostrare l'esistenza, in alcuni soggetti autistici, di anomalie all'interno delle loro strutture neurali, ma nel far luce sulle correlazioni che tali anomalie mostrano di avere sia con le basi genetiche sia con le caratteristiche cognitive e del comportamento (Cfr. Surian, 2008, p. 33). L'utilizzo delle tecniche di neuroimmagine ha consentito di dimostrare che nell'autismo esistono delle anomalie funzionali a carico dei lobi frontali. E sono proprio tali anomalie che danno origine a molti sintomi dell'autismo quali la rigidità del comportamento, la resistenza ai cambiamenti, alcuni problemi nell'ambito dell'interazione sociale e del dialogo. Inoltre si è osservato nei soggetti autistici una diminuzione

del

flusso

del sangue a carico dei lobi temporali:

riduzione che si verifica anche in assenza delle attività cognitive. Parecchie ricerche effettuate su soggetti cerebrolesi hanno evidenziato che i lobi temporali detengono un ruolo fondamentale nell'elaborare le informazioni relative ai vari oggetti ed alle loro singole parti. Pertanto è possibile che l'attenzione esagerata mostrata dai soggetti autistici per i particolari sia da attribuire a queste anomalie corticali. Ma è altrettanto possibile che questa particolare attenzione ai dettagli sia da imputare a delle anomalie presenti in un'altra zona corticale: quella 26


parietale, anch'essa partecipe a questo tipo di processi. Ulteriori studi sempre relativi al flusso sanguigno corticale hanno evidenziato la presenza di un'anomalia questa volta a carico del solco temporale superiore: si tratta di un'area che riveste un ruolo essenziale nella creazione ed elaborazione delle rappresentazioni mentali. E' anche definita area 21 di Brodmann ed è considerata un'area cruciale del “cervello sociale”: si attiva quando si cerca di capire mentalmente un rapporto sociale. Si ritiene che sia la regione cerebrale implicata nell'altruismo: maggiore è l'attività di questa area, più intensa è la propensione a compiere azioni altruistiche. Ciò avviene in quanto la comprensione delle azioni messe in atto dagli altri non è altro che il fondamento del comportamento altruistico. Il solco temporale superiore viene coinvolto sia nella comprensione del comportamento altrui che del nostro. Pertanto un suo possibile malfunzionamento potrebbe comportare l'insorgere di numerose difficoltà a livello cognitivo, sociale e comunicativo. Recentemente Joseph Piven, che è a capo di un team di ricercatori dell'Università del Nord Carolina, ha sostenuto, in uno studio pubblicato sulla rivista “Archives of General Psychiatry”, che le modifiche della dimensione dell'amigdala segnalerebbero il momento della comparsa dell'autismo. L'amigdala fa parte del sistema limbico del cervello, è una piccola struttura avente la forma di mandorla che si trova sopra il tronco celebrale nella profondità del lobo temporale (fig. 4). Il sistema limbico si occupa di elaborare i vari stimoli che giungono sia dall'interno del corpo sia dall'esterno mentre l'amigdala è implicata nelle questioni emozionali, infatti detiene un ruolo importante nella regolazione delle risposte emotive come la paura e nella memorizzazione di tutte le 27


situazioni relative alle emozioni.

Fig. 4: Localizzazione dell'amigdala e dell'ippocampo nel cervello. Fonte: www.maran-ata.it/psicologia

L'amigdala rappresenta una sorta di archivio della memoria emozionale: ogni tipo di passione dipende da essa e si trova in entrambi

gli

emisferi

del

cervello.

E'

noto

il

suo

coinvolgimento nelle relazioni sociali, infatti è collegata all'espressione delle emozioni e proprio per questo motivo viene messa in relazione con l'autismo. Per analizzare questa relazione i ricercatori hanno esaminato mediante la risonanza magnetica 50 bambini autistici e 33 bambini sani dell'età di 2 e 4 anni per valutare la loro struttura cerebrale. E' emerso che non solo i piccoli autistici possiedono un'amigdala di dimensioni più grandi ma che queste dimensioni maggiori sono presenti già a 2 anni. Inoltre, i ricercatori sostengono che in questi soggetti l'amigdala ha un ritmo di crescita accelerato nei primi anni dell'infanzia per poi smettere completamente di crescere.

Quindi

queste

sue

maggiori

dimensioni

sembrerebbero corrispondere con l'incapacità dei bambini 28


autistici di guardare gli occhi delle persone, di sostenere il loro sguardo e di seguire le espressioni del loro volto. Per i ricercatori l'amigdala esercita un ruolo particolare all'interno del processo di analisi dell'espressione facciale. Per tale motivo, le anomalie nello sviluppo dell'amigdala alterano l'attribuzione del significato emozionale ad un'espressione del volto o ad una relazione sociale. Vari studi hanno dimostrato che la sua asportazione determina la cecità affettiva, ossia l'incapacità a cogliere il significato emozionale di ogni situazione. In questo modo l'esistenza perde il suo significato personale. Uno studio condotto sulle scimmie ha dimostrato che l'asportazione dell'amigdala alla nascita provoca una serie di sintomi tipici dell'autismo come l'isolamento sociale, le stereotipie, la mancanza di un contatto oculare. Tali sintomi però non appaiono in quelle scimmie che, dopo aver subito l'asportazione dell'amigdala, non vengono allevate in singole gabbie bensì con altri simili. Ulteriori

ricerche

internazionali

sono

riuscite

a

dimostrare che il cervelletto non controlla solo l'attività motoria, come si era creduto fino a 20 anni fa, ma svolge anche un ruolo molto importante nell'acquisizione delle competenze cognitive ed emozionali. Il cervelletto interviene nella regolazione dell'attenzione e nel coordinamento di tutte le informazioni che arrivano dai vari canali sensoriali. Già nel 1998 gli studiosi hanno dimostrato che le lesioni a carico del cervelletto provocano anche diversi disturbi conosciuti come CCAS ossia

cerebellar cognitive affective syndrome. Ciò

significa che oltre ad una diminuzione delle competenze 29


cognitive, compaiono anche dei disordini a carico del linguaggio espressivo e dei disordini dell'affettività. Quindi nei soggetti con lesioni al cervelletto potrebbero comparire dei deficit che interesserebbero non solo l'attività motoria ma anche le capacità di comunicazione e di socializzazione. I ricercatori, infatti, sono riusciti a dimostrare che il cervelletto eserciterebbe

un

linguaggio

dell'interazione

e

suo

specifico

ruolo

sociale,

nell'ambito nella

del

regolazione

dell'affettività e negli apprendimenti. Tutto ciò ha indotto a supporre

un

funzionamento

atipico

di

questa

struttura

cerebrale nei soggetti autistici. Inoltre la risonanza magnetica ha

messo

in

evidenza

delle

zone

del

cervelletto

che

risulterebbero diverse nei soggetti autistici rispetto ai soggetti normali, mentre le analisi al microscopio avrebbero rilevato la riduzione della quantità di certi tipi di neuroni. Inoltre, nelle persone autistiche, il cervelletto possiede delle dimensioni maggiori proprio come il cervello. Negli ultimi anni sono aumentate le ricerche che si sono dedicate allo studio delle possibili correlazioni esistenti tra l'autismo

e

le

alterazioni

a

livello

dei

sistemi

di

neurotrasmissione, coinvolti nell'esecuzione delle funzioni cognitive, comportamentali ed emozionali. L'analisi di questi sistemi consente di fare chiarezza su parecchi aspetti, tutt'ora oscuri, dell'eziologia di questa patologia e di poter gettare le basi per predisporre una possibile terapia farmacologica. I neurotrasmettitori sono sostanze chimiche che trasmettono e regolano le informazioni fra le cellule del sistema nervoso, ossia i neuroni. Alcuni tipi di neurotrasmettitori si trovano 30


concentrati in determinate zone del cervello, come la dopamina che è localizzata in prevalenza nell'emisfero sinistro. Già da parecchi anni gli studiosi sostengono che l'autismo sarebbe collegato ad una carenza di dopamina. Possibili cause di questa carenza sarebbero l'incapacità delle cellule nervose di produrre dopamina e la presenza di pochi recettori

dopaminergici.

Quindi

la

mancanza

di

un

funzionamento adeguato del sistema dopaminergico potrebbe essere

responsabile

di

alcuni

dei

principali

sintomi

dell'autismo, in quanto la dopamina insieme anche ad altri neurotrasmettitori

controlla

le

funzioni

attentive,

comunicative, emozionali,comportamentali, motorie. Però non tutti ritengono l'ipoattività dopaminergica una delle possibili cause dell'autismo.

Esistono,

infatti,

vari

studi

che

indirizzano la loro attenzione verso gli oppiodi endogeni , sostenendo l'ipotesi che un iperproduzione dei medesimi starebbe alla base di determinati comportamenti tipici nelle persone affette da autismo. Gli oppiodi endogeni sono delle sostanze prodotte dal nostro metabolismo che agiscono su specifici recettori

del

sistema

nervoso

detti

recettori oppioidi e

l'attivazione di quest'ultimi provocherebbe analgesia,

sonno,

depressione. Secondo questi studi, i soggetti autistici mostrerebbero una concentrazione maggiore di oppioidi endogeni all'interno del sistema nervoso centrale. In effetti questi soggetti mostrerebbero una diminuzione della sensibilità al dolore, dell'emotività e soprattutto dell'affettività e manifesterebbero isolamento sociale. Tale ipotesi è stata sostenuta dalla constatazione che sussistono notevoli somiglianze tra i vari sintomi manifestati dai soggetti autistici e i sintomi rilevati 31


negli animali trattati fin da piccoli con forti dosi di sostanze oppiodi. Si è osservato che in questi animali trattati con gli oppiodi compaiono sintomi come la mancanza di sensibilità al dolore, la scarsa ricerca del contatto sociale, la notevole riduzione del repertorio emotivo, la comparsa di stereotipie e di comportamenti ripetitivi. Inoltre queste sostanze sarebbero anche responsabili della comparsa di crisi epilettiche: infatti nei soggetti autistici il numero delle crisi epilettiche è di molto superiore alla media. A ciò si aggiunge anche il fatto che in molti di questi soggetti si rileva una significativa riduzione di endorfina nel sangue. Questa sostanza è un oppioide endogeno prodotto dal cervello che possiede proprietà analgesiche simili a quelle della morfina. La funzione delle endorfine è di inibire la trasmissione del dolore al sistema nervoso centrale, influendo così sul comportamento e sull'emotività del soggetto. Perché ciò avvenga è necessario che queste sostanze si leghino ai recettori oppioidi naturali, rendendoli inattivi. Pertanto la carenza delle endorfine provoca un forte aumento del loro effetto sul sistema nervoso centrale. Ecco perché si ritiene opportuno somministrare gli antagonisti degli oppiacei sia nei soggetti schizofrenici che autistici. L'utilizzo di questi antagonisti indurrebbe soprattutto un miglioramento della sensibilità al dolore

e

dell'attenzione

selettiva.

Anche

il

comportamento

autolesionistico che spesso i soggetti autistici o con ritardo mentale manifestano potrebbe attribuirsi alla insensibilità al dolore provocata da un'elevata concentrazione di oppiacei endogeni. Una seconda ipotesi,

invece,

ritiene

che

sia

l'eccessivo

comportamento

autostimolatorio presente spesso in questi soggetti a scatenare un forte rilascio di oppiacei endogeni. Quindi attraverso la stimolazione dei centri di dolore mediante comportamenti autolesionistici come 32


sbattere la testa contro il muro, mordersi le mani o graffiarsi, questi soggetti riescono ad ottenere una autoproduzione di oppiacei interni. Anche se tale stimolazione inizialmente risulta dolorosa, in seguito però riesce a liberare enormi quantità di endorfine che vanno a concentrarsi soprattutto nel cervello: qui vi rimangono per lungo periodo di tempo in quanto mancano quegli inibitori specifici, di cui sarebbe carente il cervello dei soggetti autistici,

che dovrebbero

eliminarle. Quindi questo autolesionismo diventerebbe la fonte di un intenso piacere fisico. E' per tale motivo che è estremamente difficile eliminare questa tipologia di comportamento che finisce per ostacolare qualsiasi forma di apprendimento e di educazione. Anche in questa ipotesi, l'utilizzo di antagonisti degli oppiacei si è rivelato molto efficace nella riduzione di queste attività autolesionistiche: lentamente svanisce anche

il

senso

di

gratificazione prodotto

da

tali

comportamenti. Inoltre si assiste ad un miglioramento del sonno e dei rapporti interpersonali. Si può quindi affermare che esistono dati a sufficienza per giustificare l'impiego di antagonisti degli oppiacei nei soggetti autistici, oltretutto si tratta di sostanze con scarsi effetti collaterali. Non bisogna però dimenticare che queste alterazioni rappresentano solo una parte di quelle alterazioni neurochimiche responsabili dell'autismo. Comunque tutte le varie ricerche fin'ora eseguite non sono riuscite a dimostrare l'esistenza di una cura farmacologica veramente valida per ogni forma di autismo, anzi hanno evidenziato l'esigenza di altri studi e ricerche in questo campo. Una cosa però è certa: per quanto risultino efficaci i trattamenti farmacologici, la terapia più idonea sarà quella in cui l'impiego dei farmaci e gli interventi psico-pedagogici procedono di pari passo. Attualmente, infatti, sono solo i trattamenti psico-pedagogici ad essere 33


in grado di far nascere nei soggetti autistici quelle capacità che non sono presenti e che non potremmo sicuramente trovare nei farmaci. Sono presenti molte prove che dimostrano come i fattori genetici siano da ritenersi i fattori maggiormente responsabili dell'insorgere di questa patologia. Queste prove sono state ottenute mediante studi approfonditi condotti su gemelli monozigoti e dizigoti, su fratelli non gemelli e genitori. L'autismo si osserva con una frequenza maggiore nei fratelli di bambini affetti da autismo infantile. Uno studio realizzato nel 1977, che vede coinvolte 21 copie di gemelli, 11 monozigoti e 10 eterozigoti, in cui uno aveva la diagnosi di autismo, ha dimostrato la grande importanza dei fattori genetici nell'eziologia di questa patologia. In effetti, in ben 4 coppie di gemelli omozigoti si è potuto diagnosticare l'autismo

con molta certezza

anche nell'altro fratello, mentre si sono riscontrati disturbi intellettivi e del linguaggio nell' 82% dei fratelli all'interno delle coppie monozigote e nel 10% dei fratelli in quelle eterozigote (Cfr. Cottini, 2003, p. 35). Il fatto che i gemelli eterozigoti si sviluppano in placente diverse mentre nella maggior parte dei casi i gemelli monozigoti si trovano nella stessa placenta può creare delle modificazioni di tipo non genetico ma dovute a dei fattori ambientali prenatali. Ad esempio è stato dimostrato che il tipo di placenta risulta essere connesso a caratteristiche sia psicologiche che psicopatologiche (Cfr. Surian, 2008, p. 44). Da alcune ricerche effettuate sui genitori è emerso che certe caratteristiche

di

tipo

psicologico

riscontrate

rinvengono pure nei padri dei bambini autistici forma

molto

lieve. Innanzitutto

vi

è

nell'autismo

si

anche se in una maggiore

propensione verso un tipo di ragionamento più matematico e tecnico, 34


tendente a risolvere problemi meccanici piuttosto che problemi psicologici, e verso un'eccessiva attenzione ai particolari anziché al globale. Queste caratteristiche, però, non sono da considerare come indicatori di qualche patologia, tuttavia ci suggeriscono la possibile esistenza di basi comuni genetiche. Quindi « il ruolo delle componenti genetiche nell'eziopatogenesi autistica è ormai certo e l'autismo è considerato uno dei disturbi dello sviluppo in cui questo ruolo è più forte» (Surian, 2008, p. 44). Nonostante tutto non sono ancora noti i geni autori di tale patologia: si parla di geni al plurale in quanto « è molto improbabile che vi sia un solo gene patogeno» (Surian, 2008, p. 45). Su Nature Genetics sono stati pubblicati i risultati del maggiore studio di genetica sull'autismo fatto fino ad adesso1. Questo studio è avvenuto realizzando una mappatura del DNA di ben 2.000 famiglie nelle quali risultava esservi la presenza di due persone affette da autismo. Si è così potuto individuare un determinato gene che risulterebbe avere un ruolo attivo all'interno di questa patologia ed una specifica area cromosomica che sarebbe anch'essa coinvolta nell'evoluzione dell'autismo. E' sicuramente una scoperta di enorme importanza che apre la strada per la scoperta di nuovi e soprattutto più efficaci trattamenti. Tale studio si è svolto nell'ambito di un progetto denominato “Progetto Genoma Autismo” che è stato promosso nel 2002 dal Consorzio di studio sull'Autismo e coinvolge 120 ricercatori provenienti da 19 Paesi: vi è anche un gruppo di ricercatori italiani, guidato da Elena Maestrini del Dipartimento di biologia evoluzionistica sperimentale dell'Università di Bologna2. E' un grande

lavoro

di

gruppo

ideato

1 Cfr. www.molecularlab.it 2 Ivi.

35

e

portato

avanti

da


un'organizzazione americana no-profit. Questa ricerca sul genoma3 delle famiglie

ha condotto all'individuazione di un gene che

risulterebbe coinvolto nello sviluppo della malattia: si tratta di un gene responsabile della codifica della proteina “neurexina 1” del sistema nervoso, la quale possiede un ruolo ben preciso sia nella trasmissione dell'informazione nervosa sia all'interno dell'apprendimento. Inoltre è stato individuata una zona del cromosoma 11 che sarebbe anch'essa coinvolta nella patologia: qui si troverebbero dei geni ancora poco conosciuti. Oggi i ricercatori mediante un'ulteriore analisi più precisa e dettagliata del DNA tentano di mettere in correlazione i difetti genetici con le manifestazioni cliniche dei soggetti4. I ricercatori si sono avvalsi di una tecnologia molto sofisticata, denominata il “genechip” , per poter individuare le caratteristiche genetiche comuni ai soggetti autistici. In questo modo gli studiosi sono riusciti a mettere a confronto, per la prima volta, il DNA di una intera popolazione riunendo tutti i dati che ogni laboratorio è stato in grado di raccogliere. Analizzando attentamente i dati raccolti si è riusciti a scoprire il gene difettoso e l'area del cromosoma 11 di cui si cerca tutt'ora di determinare i geni ritenuti responsabili della patologia. Tutto questo ha permesso di individuare i meccanismi coinvolti nello sviluppo dell'autismo, con lo scopo di poter trovare dei nuovi trattamenti per i soggetti autistici e le loro famiglie. In un altro recente studio pubblicato sul New England Journal of Medicine e condotto da Simon Fisher insieme ai suoi collaboratori del Wellcome Trust Centre for Human Genetics dell'Università di Oxford, è stato scoperto un gene responsabile di un disturbo specifico del linguaggio: lo Sli (Specific language impaiment). Questo gene è il 3 Il genoma o patrimonio genetico include sia i geni che il DNA non codificante. Il genoma umano contiene le informazioni necessarie per la costituzione di un intero organismo. 4 Cfr. www.molecularlab.it

36


Cntnap2 che recentemente è stato ritenuto coinvolto anche nell'autismo. Questa scoperta parte però dallo studio di un altro gene denominato Foxp2 il cui compito è di facilitare «l'articolazione delle parole da parte della bocca, consentendo il linguaggio negli esseri umani» (Pollard, 2009, p. 50). Quindi il gene Foxp2 avrebbe un ruolo fondamentale nella comunicazione sociale. Inoltre si sono rinvenute varie versioni di Foxp2 anche in diverse specie di animali. Continuando la ricerca su questo gene, gli studiosi si sono accorti che Foxp2 entrava spesso in relazione con Cntnap2 e che quest'ultimo si trovava in relazione molto stretta con il linguaggio. La ricerca ha poi proseguito con lo studio di 184 famiglie in cui risultava presente il disturbo specifico del linguaggio: si è così osservato che Cntnap2 compariva nei bambini che manifestavano dei disturbi linguistici, soprattutto la ripetizione continua di parole prive di significato. Anche se non si conosce ancora il modo in cui questo gene riesce ad ostacolare lo sviluppo del linguaggio, si sa con certezza che genera una proteina denominata neurexina posizionata sulla superficie esterna dei neuroni con il compito di permettere la comunicazione tra i neuroni. Tale proteina si trova in zone cerebrali che poi avranno un ruolo determinante per la produzione del linguaggio. Poiché i bambini affetti da Sli mostrano delle difficoltà motorie, ci si domanda se il Cntnap2 è coinvolto oltre che nel linguaggio anche nella motricità. Oggi i ricercatori stanno tentando di capire il ruolo specifico di questo gene all'interno dell'autismo e se esercita anche un ruolo nelle abilità linguistiche delle persone sane. Il fatto che lo studio sui gemelli abbia rilevato che i gemelli omozigoti hanno fino al 96% di possibilità di avere entrambi delle caratteristiche tipiche dell'autismo indica che sicuramente entrano in 37


gioco anche dei fattori ambientali, visto che manca una concordanza del

100%.

dall'ambiente

Un

fattore

ambientale

intrauterino: basta

può

pensare

essere ad un

rappresentato farmaco,

il

“talidomide”, usato nel periodo degli anni '60 per ridurre i sintomi della gravidanza che invece dimostrò di avere dei gravi effetti sui feti. Infatti i bambini, nati da madri che avevano adottato questo farmaco durante la gravidanza, avevano un'elevata probabilità di sviluppare l'autismo. Solitamente l'utilizzo di farmaci in gravidanza rappresenta un fattore determinante per l'insorgere di questa patologia. «Negli Stati Uniti, un'epidemia di rosolia materna risultò associata ad un aumento nell'incidenza di autismo» (Surian, 2008, p. 46). Fra tutte queste cause esisterebbe un fattore comune: una variazione della quantità di dopamina nel cervello. Perfino lo stress vissuto dalla madre durante la gravidanza fa aumentare la dopamina nel bambino: questo avviene senza che ci sia l'apporto di determinati geni ma mediante sistemi epigenetici ossia che si verificano durante il periodo dello sviluppo del feto. Diversi studi hanno condotto alla scoperta di un ulteriore fattore di rischio: l'ordine di nascita. Quindi fra i primogeniti risulterebbe superiore la presenza di bambini affetti da autismo. Ma «poiché l'ordine di nascita è legato a difficoltà e stress al momento del parto, questo indica un effetto di fattori perinatali5 sull'autismo» (Surian, 2008, p. 47).

5 Perinatale si riferisce al periodo che precede e segue la nascita ed è compreso tra la 29° settimana di gestazione e i primi 28 giorni dopo il parto.

38


1.4 Deficit nell'interazione sociale Facendo riferimento al DMS IV, si può notare che la compromissione qualitativa dell'interazione sociale rientra nella triade di sintomi utilizzati per poter diagnosticare l'autismo. Si ha questo tipo di compromissione quando si verificano due dei sintomi qui riportati (Cfr. Cottini, 2003, p. 103): 1- compromissione molto evidente dei comportamenti non verbali, ossia anomalie nell'utilizzo dello sguardo diretto, delle posture corporee, delle espressioni mimiche e dei gesti che servono per gestire le relazioni sociali; 2- incapacità di instaurare rapporti con i coetanei appropriati all'età; 3- assenza del desiderio di condividere con gli altri gioie, obiettivi, interessi; 4- assenza di reciprocità sociale ed emotiva. L'incapacità di riuscire ad instaurare una relazione sociale rappresenta sicuramente il campanello d'allarme più significativo. Leo Kanner sostiene che il comportamento sociale di un soggetto autistico non è caratterizzato da una sola ma da più anomalie tra cui troviamo (Cfr. Baron-Cohen, Bolton, 2003, pp. 74-75): - l'assenza di attenzione verso gli altri in quanto il soggetto presta attenzione solamente agli oggetti, perdendo l'interesse nei confronti delle persone presenti; - l'assenza di qualsiasi tipo di reazione davanti agli altri, appaiono infatti come chiusi in un guscio nel quale vivono solo con loro stessi; - l'assenza di uno sguardo diretto, infatti questi soggetti non guardano mai negli occhi le persone che rivolgono loro la parola; - il considerare le parti del corpo come degli oggetti estranei, ad 39


esempio se si prova a tendere la propria mano verso un soggetto autistico costui comincerà a giocarvi trattandola come un semplice giocattolo del tutto distinto e separato dal corpo; - il considerare le persone come dei semplici oggetti inanimati; - l'avere attenzione esclusivamente per gli aspetti non relazionali delle persone, ossia il bambino autistico può conoscere bene i nomi di tutti i suoi compagni, il colore dei loro occhi e molti altri particolari senza però essere mai relazionato con nessuno di loro; - l'assenza di un comportamento che sia conforme alle norme sociali; - il non essere consapevoli dei sentimenti altrui. Ma non tutti i soggetti autistici vivono chiusi all'interno di un guscio che rappresenta il loro mondo, alcuni si relazionano con gli altri in modo spontaneo anche se molte volte è solo per mettere in atto azioni ripetitive come toccare i capelli, il viso o ripetere sempre le stesse domande. L'idea

dell'autistico

chiuso nella sua solitudine sociale

riguarda solitamente i bambini autistici di età inferiore ai cinque anni anche perchÊ crescendo aumenta la loro apertura verso gli altri. Questo però non significa che il comportamento del bambino vada a normalizzarsi durante la fase della crescita. I bambini autistici mostrano di essere poco reattivi alle altre persone, infatti assegnano agli altri il compito di intraprendere delle forme di contatto. Possono essere, invece, per niente reattivi quando non manifestano un'attenzione congiunta, ossia, al contrario dei bambini non autistici, non tentano in nessun modo di attirare l'attenzione degli altri su cose che li interessano e non mostrano assolutamente interesse alle persone che provano a catturare la loro attenzione facendo loro vedere cose nuove. Inoltre sono incapaci di sostenere lo sguardo diretto e di comunicare attraverso lo scambio di 40


occhiate da noi molto utilizzato come forma di comunicazione densa di messaggi. Pare, quindi, che non riescano ad utilizzare lo sguardo come forma di linguaggio non-verbale e che non siano neppure in grado di «leggere negli occhi e nel volto le intenzioni altrui» (BaronCohen et al., 2003, p. 78). Se non si riesce a decifrare questi segnali sociali, non si potrà neppure arrivare a comprendere le abilità sociali più complesse, tra cui le dimostrazioni d'affetto e la capacità di adottare il comportamento sociale adeguato ai diversi contesti. Va però sottolineato che la maggior parte di questi comportamenti si

trova

radicato in noi, senza che ci venga insegnato direttamente. Quando una mamma si rabbuia voltando il suo viso verso il suo bambino, quest'ultimo

percepisce

immediatamente

il

significato

di

quell'espressione senza bisogno che la madre dica una parola: si tratta di una forma di apprendimento definito percettivo-intuitivo, che noi sentiamo dall'interno e che, al contrario, i soggetti autistici devono apprendere dall'esterno. E' possibile però che non si possa insegnare questa consapevolezza percettiva in grado di dar vita alla comprensione sociale e che serva invece « una via alternativa alla comprensione» ( Jordan, Powell, 2008, p. 32). Per questo motivo gli insegnanti dovrebbero cercare di spiegare

chiaramente a questi

soggetti le regole sociali relative al comportamento, senza

però

pretendere che ci sia in loro una sorta di presa di coscienza di quanto gli viene impartito. Inoltre spesso le persone che sono a contatto con loro si rendono conto che essi dimostrano una facilità maggiore a seguire e rispettare le regole che ritengono dirette a tutti ossia universali piuttosto che seguire quelle che sembrano più dirette a loro. Probabilmente il motivo di tutto questo è da ricercare nel fatto che le regole universali permettono loro di organizzare meglio questo 41


mondo che percepiscono così altamente caotico. Quindi una delle prime cose che l'insegnante dovrebbe fare quando nella sua classe è presente un bambino autistico, è di far capire agli altri bambini che la parola “tutti”, spesso usata dall'insegnante nel momento in cui si rivolge ai suoi alunni, include anche l'allievo autistico. Infatti tali bambini evidenziano l'incapacità di sentirsi parte di un gruppo, in questo caso della classe, ed è per questo motivo che non recepiscono e non mostrano alcuna risposta alle istruzioni di classe. Pertanto questo atteggiamento non deve essere equivocato come una mancanza di obbedienza o rispetto all'insegnante, si tratta invece di uno stato confusionale in cui si trovano questi soggetti. «Più che antisociali gli autistici potrebbero essere chiamati asociali, dal momento che non sembrano molto consapevoli del mondo sociale intorno a loro» (Jordan et al., 2008, p. 33). Il mondo sociale li destabilizza e disorienta, per questo motivo possono avere comportamenti che spaventano gli altri, facendoli allontanare e spingendoli ad abbandonare ogni tentativo di interagire con loro. Si può affermare che il cammino dello sviluppo sociale dei soggetti autistici è contrassegnato da una totale indifferenza e dall'assenza di consapevolezza in campo sociale: non vedono e non capiscono la relazione umana e pertanto finiscono col trattare l'altro come se fosse un semplice oggetto da manipolare e da giocarci. Per tale motivo mostrano delle anomalie nell'ambito della comunicazione sia verbale che non verbale ed un comportamento fuori dalla norma in risposta ad un contatto fisico. Il bambino autistico può non riuscire ad individuare l'inizio di un atto sociale da parte di un altro, di conseguenza non sarà in grado di attuare uno

scambio sociale adeguato: non è 42

presente la


reciprocità nelle relazioni sociali con gli altri bambini. I bambini che non sono autistici apprendono autonomamente i vari modi per poter entrare a far parte dei giochi con gli altri. Uno di questi modi è osservare ciò che gli altri bambini stanno facendo, imitarli stando in disparte e successivamente raggiungere il gruppo di bambini che sta giocando per entrarvi lentamente. I soggetti autistici però non sono in grado di mescolarsi in questo modo agli altri coetanei: prima di tutto bisogna che imparino ad imitare e contemporaneamente devono imparare «come, quando e a che cosa prestare attenzione» (Jordan et al., 2008, p. 35). Chi trascorre molto del suo tempo con loro potrebbe affermare che questi soggetti sono in grado di imitare perfettamente, solo che la loro imitazione non è altro che l'identica ripetizione: si tratta di un'imitazione parassitaria. Al contrario l'imitazione, che si osserva nelle persone non autistiche e che ha un suo ruolo fondamentale nel corso dello sviluppo della persona, è sempre un atto creativo e mai una semplice copia perfetta. I bambini autistici solitamente non salutano mai di loro iniziativa quando arrivano in classe o se ne vanno. Questo perché anche se vedono fisicamente l'insegnante e quindi si rendono conto della sua presenza, può essere che questa figura non possieda nessun tipo di significato sociale per loro: inizia ad avere un suo significato sociale solo quando questa figura riesce a dare loro ciò che essi vogliono in quel momento. Inoltre

non riescono a condividere la

loro attenzione visiva con gli altri, sono incapaci di sviluppare delle strategie adeguate per attirare l'attenzione degli altri sulle attività che stanno svolgendo e trattano l'altro come se fosse un «robot superdotato» (Jordan et al., 2008, p. 37) in grado di muoversi nel mondo per conto loro. Il bambino autistico infatti si serve dell'adulto 43


per poter arrivare a realizzare i suoi obiettivi, lo utilizza in modo completamente strumentale per soddisfare le sue richieste del momento: può, ad esempio, prenderlo per un braccio senza guardarlo in viso e condurlo verso quell'oggetto che da solo era impossibilitato a prendere. E' quindi totalmente assente la consapevolezza che l'altro possa avere un suo punto di vista, una sua particolare prospettiva che è anche possibile condividere. Per tale motivo il soggetto autistico risulta capace «di prendere nota della prospettiva visiva di un'altra persona, ma non di ciò che pensa o sente» (Jordan et al., 2008, p. 38). Il deficit dell'interazione sociale acquisisce durante lo sviluppo del soggetto ulteriori comportamenti molto più evidenti e tipici come la maggiore tendenza ad isolarsi, il non volere che gli altri prendano parte alle sue attività, il muoversi in mezzo alle altre persone come se queste non fossero presenti, il non ricercare la compagnia dei coetanei. Ci sono però dei bambini autistici che non respingono il contatto fisico, anzi lo ricercano continuamente anche se in modo completamente diverso rispetto ai bambini non autistici: spesso distribuiscono baci o carezze a tutti, comprese le persone mai viste o viste solo per la prima volta. Ed è proprio in base a quest'ultimo aspetto che alcuni studiosi hanno distinto i bambini autistici in tre sottogruppi: 1. i bambini inaccessibili, che sono assolutamente incapaci di instaurare qualsiasi tipo di relazione sociale ed evitano ogni forma di contatto con l'altro; 2. i bambini passivi, che, nonostante preferiscano isolarsi, riescono ad interagire con gli altri se vengono adeguatamente stimolato; 3. i bambini attivi ma bizzarri, che anche se sono in grado di prendere l'iniziativa all'interno dell'interazione sociale, tutto questo avviene in 44


modo inadeguato e molto bizzarro6. E' possibile che questi tre profili siano presenti nel medesimo soggetto non contemporaneamente, bensì in momenti diversi dello sviluppo. I soggetti autistici non possiedono gli strumenti per poter essere completamente autosufficienti nell'ambito sociale. Per questo motivo è molto difficoltoso per loro apprendere nuove abilità per riuscire a vivere in modo appropriato nell'ambito sociale. Per riuscire a coinvolgere il bambino autistico nelle interazioni è necessario possedere una certa sensibilità, ossia essere in grado di capire come questo bambino vede e percepisce il mondo sociale e come si sforzi per cercare di comunicare. E' proprio questa sensibilità che permette all'adulto o anche ai coetanei di creare occasioni particolarmente stimolanti per poter aprire la via ad una semplice interazione sociale. «Le abilità di interazione socio-comunicativa sono associate alla gravità del deficit cognitivo. Lo sviluppo delle competenze di interazione si basa su una complessa azione reciproca delle abilità cognitive, linguistiche e sociali.» (Quill, 2007, p. 214). Pertanto per favorire le interazioni sociali bisogna tener ben presente sia i punti forti che quelli deboli all'interno delle abilità cognitive: deve esistere un collegamento tra aspetti cognitivi, linguistici e sociali. Queste interazioni sociali contribuiscono fortemente a migliorare l'ambito cognitivo, linguistico ed a sviluppare la comprensione sociale. Infatti i soggetti che non sono riusciti ad intraprendere queste forme di interazioni, permangono in uno stato di confusione, chiusi in sé stessi, completamente isolati dal mondo esterno. I bambini autistici mostrano enormi difficoltà a capire cosa si cela dietro al comportamento sociale ed affettivo degli altri, ossia i veri intenti che stanno alla base del comportamento altrui: proprio questa difficoltà impedisce loro di 6 Cfr. , www.autismile.it/autismo/index.php?page=noteautismo.

45


interagire con le altre persone. Questi soggetti non possiedono la capacità sociale di coinvolgere gli altri. «La sfida più importante per un bambino con autismo è di estrarre significati da ciò che gli altri dicono, fanno e sentono» (Quill, 2007, p. 227). Per questo motivo ci si deve rapportare a questi soggetti cercando di capire e di conoscere il loro modo di percepire il mondo. Persone come Temple Grandin e Donna Williams, due donne molto conosciute affette da autismo, ci mettono a conoscenza del fatto che i soggetti autistici cercano di instaurare un contatto con gli altri ma la difficoltà e la complessità insite in ogni tipo di relazione sociale li bloccano totalmente. Donna Williams afferma: « “Le parole non erano un problema, lo erano invece le aspettative delle persone riguardo al mio rispondere a quelle parole, dal momento che questo mi avrebbe richiesto la comprensione di ciò che era stato detto. La mia risposta a ciò che le persone mi dicevano era spesso ritardata dal fatto che la mia mente doveva prendere tempo per chiarire ciò che era stato detto”» (Quill, 2007, p. 231). Anche la Grandin riferisce un'analoga esperienza: « “Alle volte sentivo e capivo, altre volte il discorso raggiungeva il mio cervello come l'insopportabile rumore di un treno merci che avanza. Ho difficoltà a ricordare lunghe file di informazioni verbali...Non riesco a seguire il botta e risposta ritmico della conversazione...Il ricordare ciò che dicono le persone ostacola le mie interazioni sociali”» (Quill, 2007, p. 231). Quindi, quando si interagisce con un soggetto autistico, è necessario modificare il proprio modo di relazionarsi con lui, cercando di avvicinarsi al suo livello di abilità socio-comunicativa. E' necessario che tutti gli elementi che compongono una conversazione vengano resi evidenti, senza lasciare nulla di sottinteso. Occorre accentuare le espressioni facciali, le intonazioni della voce e i gesti 46


affinché il messaggio diventi il più chiaro possibile per il soggetto autistico. A ciò si aggiunge anche l'utilizzo della pausa dopo aver trasmesso l'informazione per dare al soggetto il tempo di poter incamerare il messaggio e preparare una risposta. L'uso delle pause è fondamentale in quanto le continue ripetizioni del messaggio mandano letteralmente in confusione questo soggetto. Nonostante l'uso di uno stile comunicativo molto chiaro e semplice, spesso le persone autistiche non riescono ancora ad interagire con gli altri. In questo caso è utile avvalersi di supporti quali simboli scritti: si tratta di scritte, immagini o pittogrammi. Quando il linguaggio parlato e scritto sono presenti contemporaneamente, cresce la capacità del soggetto di indirizzare la propria attenzione sul messaggio, estrapolandone il significato e organizzando la risposta. I supporti visivi sono infiniti e vanno da un solo simbolo raffigurato sulla carta alla costruzione di uno schema scritto che mostra tutte le sequenze di un'interazione sociale. Questi supporti

contribuiscono a consolidare una realtà

sociale molto precaria e aiutano i soggetti autistici a ottenere più informazioni dal mondo che li circonda. Si tratta di supporti concreti che consentono a questi soggetti di interpretare la realtà, gli eventi, le varie situazioni e stimolano l'interazione sociale. Anche il contatto con i coetanei è estremamente importante per promuovere le interazioni con una precisazione: i coetanei devono imparare ad individuare ed a rispondere alle forme comunicative verbali e non verbali utilizzate dai soggetti autistici. E' molto importane che le persone non autistiche capiscano che questi soggetti tentano di interagire, di comunicare in qualche modo. E' necessario trovare i modi più idonei per favorire le interazioni sociali da parte dei soggetti autistici: per far ciò occorre ideare delle situazioni stimolanti, 47


che inducono questi soggetti ad utilizzare il linguaggio a scopo comunicativo, partendo dai loro interessi. Quindi se il soggetto mostra un certo interesse verso i treni, è utile servirsi dei treni per catturare la sua attenzione. Inoltre si può favorire l'interazione mediante l'elaborazione di alcune situazioni difficoltose per il bambino autistico in quanto deve chiedere degli oggetti ben precisi per poter eseguire un determinato compito. Un altro modo per sviluppare la comunicazione è entrare nella stanza in cui si trova il bambino con in mano uno strano oggetto. A quel punto gli si chiede di dirci immediatamente il nome dell'oggetto: qui «l'osservazione e il tempismo sono estremamente importanti. La chiave per ottenere il massimo con questa tecnica è osservare il bambino da vicino e offrire il suggerimento prima che sopraggiunga la frustrazione» (Quill, 2007, p. 198) . Per lo sviluppo dell'interazione nei soggetti con autismo si è dimostrato molto utile fornirli dei copioni di dialogo. Si tratta di utilizzare dei testi scritti sotto forma di dialogo, abbinati a immagini ed altri supporti non verbali. In questo modo i soggetti hanno a disposizione un linguaggio pronto da impiegare in varie situazioni. E' un approccio olistico che si serve della loro forma di apprendimento meccanico. Inoltre presenta parecchi vantaggi: prima di tutto limita il carico cognitivo, fornisce a questi soggetti una routine completamente organizzata e del tutto prevedibile, utilizza i loro punti di forza nell'ambito della percezione visiva e consente loro, cosa fondamentale, di dar vita a delle interazioni portate a termine con successo. Si potrebbe pensare che queste risposte scritte, preparate nei dialoghi conducano solo alla meccanicità, ma diverse ricerche hanno dimostrato che spesso portano all'espressione spontanea. Nel 2001 alcuni studiosi hanno provato ad insegnare a dei bambini autistici a conversare servendosi di battute 48


scritte che lentamente e gradatamente venivano poi eliminate. Gli studiosi hanno potuto osservare che questi bambini continuavano a servirsi delle battute scritte, nonostante non ci fossero più i copioni e, anzi, riuscivano anche ad inserire delle espressioni spontanee che non erano neppure scritte. La lunghezza di questi dialoghi varia a seconda delle capacità del soggetto, anche se solitamente si inizia con dialoghi brevi, facili da imparare. Successivamente quando il soggetto è in grado di relazionarsi con l'altro positivamente secondo un breve copione si inseriscono ulteriori battute per favorire delle risposte spontanee. Inoltre è importante che questi copioni vengano realizzati intorno alla routine: si parla di «Routine di azione condivisa» (Quill, 2007, p. 200), costruita attorno a situazioni ed attività che succedono normalmente come il momento dei pasti oppure le attività di gioco o sportive. Da parte dei partecipanti a questa conversazione è essenziale che ci sia un'attenzione condivisa verso gli eventi. Questa routine di interazione permette di accrescere sia la lunghezza che il numero delle frasi nella conversazione, inoltre suscita un maggiore interessamento nei confronti della relazione con gli altri. E' importante sottolineare che l'ambiente rappresenta un fattore molto importante per lo sviluppo delle interazioni da parte di questi soggetti: infatti può sia stimolare che frenare le interazioni sociali. Occorre pertanto «creare un contesto comunicativo per facilitare l'uso del linguaggio per scopi di interazione» (Quill, 2007, p. 205). Quindi bisognerebbe realizzare un ambiente adeguato per suscitare in questi soggetti la necessità di comunicare per ottenere determinate cose: tale fenomeno è definito «disequilibrio dinamico» (Quill, 2007, p. 205) ed il suo obiettivo è di favorire una maggiore risposta agli stimoli. Anche il modo di interagire con questi soggetti può favorire o 49


intralciare la comunicazione degli stessi. Infatti quando si è a contatto con loro è necessario modificare il proprio stile comunicativo per adeguarlo ai loro bisogni ed entrare così in sintonia con loro. Lo stile di interazione più consono non è lo stile direttivo bensì quello facilitante. Apportare dei semplici aggiustamenti ai nostri stili comunicativi significa migliorare l'interazione dei soggetti autistici. Fare una pausa, dopo aver comunicato un messaggio lasciando ai soggetti il tempo di elaborare le informazioni fornite, vuol dire che ci si aspetta una risposta e in tal modo si è delineata la possibilità che questa risposta possa manifestarsi. Sono gli adulti e i coetanei non affetti da autismo che hanno il compito di aggiustare il proprio stile comunicativo, in quanto per poter apportare questi aggiustamenti è necessario essere in grado di capire il punto di vista altrui, capacità che al contrario non possiedono i soggetti autistici.

1.5 Deficit nella comunicazione Le

difficoltà

e

le

compromissioni

nell'ambito

della

comunicazione sono così gravi e generalizzate ossia si estendono a tutto il soggetto affetto da autismo, che vengono usate come espressione più importante della patologia. Quasi la metà dei bambini autistici non riesce ad impadronirsi di un linguaggio funzionale, mentre i restanti presentano un linguaggio ecolalico o molto stereotipato. Però, più che il linguaggio, è la comunicazione a risultare particolarmente compromessa: perfino la comunicazione non verbale appare danneggiata e chi è affetto dalla sindrome di Asperger, nonostante presenti una corretta struttura del linguaggio, mostra di 50


avere

evidenti

problemi

nell'ambito

comunicativo

e

sociale.

Inizialmente la comunicazione si mostra trasparente: intenzioni ed opinioni sono evidenti. Invece ai bambini autistici gli scambi comunicativi appaiono opachi, poco chiari e mai trasparenti: questo impedisce di prendere parte al processo di socializzazione. Normalmente lo sviluppo della comunicazione avviene prima della comparsa del linguaggio: tale modello risulta danneggiato in modo irrimediabile nei soggetti autistici ostacolando così l'acquisizione del linguaggio e provocando ai bambini autistici problemi relativi all'educazione. Infatti, la scuola insegna il linguaggio nella convinzione che, nei bambini, esista già una comprensione dei messaggi che riceve: pertanto la scuola non insegna le prime fasi della comunicazione. Questo modo di procedere è completamente errato nell'autismo. Nella comunicazione non c'è solo uno scambio di segnali, vi è anche l'intenzione di scambiarsi delle notizie e il voler modificare il comportamento dell'interlocutore. Infatti i bambini anche prima di imparare a parlare, quando chiedono qualcosa non manifestano solo il loro desiderio riguardo una determinata cosa, ma anche il fatto che aspirano veramente a qualcosa: emettono dei suoni indicando verso ciò che vogliono e, quando si accorgono che l'adulto risponde alla loro richiesta, modificano il loro modo di comunicare. «Nell'autismo l'effetto comunicativo delle proprie espressioni non viene riconosciuto nemmeno in questo stadio iniziale e questo può voler dire che la produzione verbale non cambia per esprimere un intento comunicativo» (Jordan et al., 2008, p. 75). Si è notato che i bambini autistici non riescono a fornire i medesimi segnali di saluto, di richiesta degli altri bambini nemmeno di quelli che presentano dei deficit cognitivi particolarmente gravi. E' una situazione che si protrae 51


per tutto l'arco di vita del soggetto autistico e a tutti i livelli di gravità della patologia. Questi soggetti non sono in grado di afferrare il “cuore” della comunicazione: ciò vuol dire che non è assolutamente vero che non desiderano comunicare, il più delle volte non possiedono la capacità di come fare. I vari tipi di comportamento che mettono in atto compreso anche quelli autolesivi non sono altro che dei modi di comportamento. Mediante la comunicazione si finisce per influire e modificare il comportamento degli altri: fare delle richieste non è altro che un sistema per tentare di ottenere una determinata cosa modificando il comportamento altrui. Al contrario il soggetto autistico non riesce a comprendere il fine della comunicazione e la sua importanza, in particolare non capisce la sua funzione, a che cosa serve. In merito a questo, risulta notevolmente interessante l'affermazione di un soggetto autistico ad alto livello, Sean Barron: « All'epoca non sapevo esprimere i miei sentimenti con le parole. Non pensavo assolutamente che avrei potuto chiedere a mia madre perché fossi così strano oppure dirle che avevo bisogno d'aiuto. Non avevo idea che le parole potessero essere usate in questo modo. Il linguaggio per me era semplicemente un'estensione delle mie ossessioni, uno strumento da usare per i miei comportamenti ripetitivi» (Cottini, 2003, pp. 60-61). Un obiettivo che si può riuscire a raggiungere anche con i soggetti autistici più compromessi è la capacità di esprimere una richiesta anche con l'indicazione di un oggetto, invece la capacità di riferire verbalmente delle emozioni è un traguardo irraggiungibile per quasi tutti i soggetti autistici. Si può quindi sostenere che questi soggetti possiedono solamente la funzione strumentale ossia sono in grado di modificare il comportamento degli altri ma non i loro stati 52


mentali. Varie ricerche hanno messo in evidenza che la percentuale di soggetti autistici non verbali si aggira tra il 20% e il 50% di tutti gli individui autistici, però la caratteristica specifica di questa patologia è che le problematiche inerenti l'acquisizione del linguaggio sono del tutto uguali a quelle relative all'uso ed alla comprensione dei gesti (Cfr. Jordan et al., 2008, p. 76). Infatti recenti studi hanno messo in luce che

chi è in

grado di raggiungere risultati positivi con il

linguaggio dei segni, possiede anche modalità comunicative come

il

ulteriori capacità in diverse

linguaggio verbale oppure la

mimica. Pertanto il linguaggio dei segni non rappresenta una forma di comunicazione alternativa da utilizzare con i soggetti che non possono utilizzare il linguaggio verbale. I gesti come le parole possiedono dei significati simbolici, in quanto non ci sono collegamenti visivi tra il gesto ed il significato. E' per questo che l'acquisizione del linguaggio dei segni comporta un grande impegno cognitivo, risultando così di difficile accesso per le persone autistiche. I soggetti autistici non verbali sono visti come evitanti, incapaci di confrontarsi con gli altri e riescono solamente a manifestare emozioni estreme come piangere, urlare o corrucciarsi. Inoltre mal sopportano i cambiamenti, vogliono mantenere le loro routine e l'ambiente intorno a loro deve rimanere sempre uguale. Questi soggetti spesso

manifestano

atteggiamenti

di

auto-stimolazione

come

dondolare il busto, fare vocalizzi in modo ripetitivo oppure mordersi, graffiarsi. Nonostante questi comportamenti siano stati per lungo tempo ritenuti non comunicativi, studi recenti hanno dimostrato che rappresentano dei tentativi di comunicazione in ambiti diversi. Gli atteggiamenti di auto-stimolazione si osservano maggiormente nel 53


bambino che resta da solo, mentre diminuiscono nel momento in cui si trova occupato in un compito e dopo che ha iniziato a comunicare. Saper comunicare non è solo essere in grado di parlare o di sistemare le parole correttamente: è la capacità di far conoscere a un altro che si desidera qualcosa, è la capacità di narrare un'esperienza o un'azione e di saper cogliere la presenza dell'altro. Ma questa serie di cose può venire riferita sia mediante il linguaggio verbale che il linguaggio non verbale, ossia gesti, uso dei segni o indicazione di un'immagine o di una parola. I soggetti autistici mostrano di avere scarse capacità pragmatiche, ossia non comprendono i due ruoli presenti all'interno della comunicazione: il ruolo di chi invia informazioni (emittente) e quello di chi le riceve (ricevente). Circa l'85% dei bambini autistici che impara il linguaggio verbale sviluppa l'ecolalia, ossia la ripetizione involontaria di parole o frasi pronunciate da altre persone: in questo modo il linguaggio risulta non avere nessun fine. Oltre l'ecolalia compare la prosodia, il perseverare negli argomenti, l'intonazione atipica, l'inversione pronominale e le stereotipie verbali. Per quanto riguarda la comprensione del linguaggio, sono state evidenziate alcune particolari problematiche come l'incapacità di individuare i doppi sensi, le frasi spiritose e le metafore. Solamente nell'autismo i bambini apprendono il linguaggio senza però imparare a servirsene per comunicare con gli altri. Quindi il bambino affetto da autismo non è in grado di comprendere la comunicazione e pertanto non riesce nemmeno a capire lo scopo che può avere il linguaggio. La maggior parte dei bambini autistici dimostra di avere più facilità a capire la lingua scritta che la lingua parlata: probabilmente ciò

è dovuto al fatto che il linguaggio

scritto non presenta cambiamenti d'intonazione della voce e quindi 54


risulta essere molto più statico. Questi bambini inizialmente riescono ad imparare a leggere e a scrivere senza imparare a parlare da subito ma solo in un secondo tempo e molte volte possiedono una buona capacità di lettura anche se non possiedono un'adeguata comprensione. L'ecolalia, che è una delle tante caratteristiche del linguaggio dei soggetti autistici, si divide in immediata e differita. L'ecolalia immediata è la ripetizione di una parola o di più parole appena pronunciate da un altro utilizzando anche la stessa intonazione, mentre l'ecolalia differita è la ripetizione di parole o frasi dopo un certo periodo di tempo che può andare da alcuni minuti a dei giorni fino ad estendersi a settimane e mesi. A lungo si è ritenuto che l'ecolalia fosse solo un comportamento di auto-stimolazione, privo di qualsiasi finalità comunicativa: pertanto si è sempre cercato di sostituirla con altre modalità comunicative più consone. Ultimamente, invece, è stata rivista sotto un'altra ottica meno negativa. Infatti molti studiosi sostengono che a volte nella sua produzione intervengano dei processi linguistici retti da regole e non sia quindi una semplice ripetizione meccanica. Basti solo pensare che per ripetere una parola o una frase occorre saper

indirizzare la propria attenzione su quel preciso

messaggio verbale, riuscendo ad estrapolarlo da tutti i suoni e rumori presenti nell'ambiente. I due tipi di ecolalia si possono diversificare in ecolalia pura se si tratta di ripetizioni di quanto detto dagli altri e in ecolalia mitigata se le ripetizioni contengono delle modificazioni rispetto alla frase originale dell'interlocutore. «La ripetizione telegrafica e le sostituzioni grammaticali appropriate sono forme di “ecolalia mitigata” o di ecolalia prodotta con alcuni cambiamenti, e queste forme vengono interpretate come evidenza di qualche livello di elaborazione linguistica» (Quill, 2007, p. 149). I punti di vista sono 55


tanti: c'è chi considera l'ecolalia un comportamento patologico, chi la vede come una strategia per mantenere una forma di contatto sociale, chi ritiene che abbia delle funzioni comunicative particolari. Entrambe le due forme di ecolalia «fanno parte dell'acquisizione normale del linguaggio» (Jordan et al., 2008, p. 114). Infatti le condizioni che nell'autismo conducono alla comparsa dell'ecolalia immediata sono del tutto simili a quelle osservabili all'interno del normale sviluppo del linguaggio, infatti se il soggetto non riesce a comprendere ciò che si dice non farà altro che ripetere la frase o la parola al posto di rispondere in modo adeguato. Tutto questo capita anche quando il soggetto si trova già concentrato su un'altra cosa e pertanto non riesce ad elaborare quanto viene detto. Inoltre è stato osservato che la sollecitazione a parlare provoca nei bambini autistici la

crescita

dell'ecolalia immediata, al contrario l'attesa di un loro intervento spontaneo comporta una riduzione dell'ecolalia. Da quanto detto emerge che l'ecolalia si dovrebbe ritenere una parte integrante del funzionamento del processo comunicativo del bambino e non invece un comportamento disfunzionale. Esistono anche altre forme di ripetizione verbale come il linguaggio perseverante e le domande incessanti che vengono realizzate in modo più insistente e fortemente stereotipato: solitamente a far scaturire queste forme di ecolalia sono determinate condizioni ambientali. Diversi studi e ricerche effettuati hanno dimostrato che l'ecolalia si presenta maggiormente quando i bambini devono partecipare ad attività sconosciute e particolarmente impegnative, in un cui sussistono delle interazioni molto direttive. Inoltre le ricerche hanno evidenziato come questi bambini si servano dell'ecolalia per una serie di scopi che possono essere sociali, cognitivi ed

anche comunicativi. Le ripetizioni possono essere dirette a 56


un'altra persona per attirare la sua attenzione o per fini strumentali, oppure vengono usate anche per auto-regolarsi. Ci sono forme ecolaliche completamente automatiche, senza nessuna correlazione con persone o oggetti presenti nel contesto. Considerare l'ecolalia come un mezzo comunicativo ha contribuito a modificare i metodi educativi e riabilitativi. Infatti ci si concentra sempre di più sul tentativo di comprendere il messaggio trasmesso mediante il comportamento ripetitivo, per tentare in seguito di trasformare gradatamente il tipo di segnale prodotto. Oltre all'ecolalia, nell'autismo

esiste

un'evidente

difficoltà

nell'uso dei pronomi personali all'interno delle conversazioni.

I

bambini autistici riferendosi a se stessi non utilizzano quasi mai il pronome personale “io”, ma usano il “tu”, a volte anche il pronome in terza persona “lui/lei” e altre volte il loro nome: tutto questo è stato definito da Kanner con l'espressione “inversione pronominale”. Studi realizzati da Rita Jordan hanno dimostrato che questa difficoltà con i pronomi non è dovuta all'assenza di distinzione tra se stessi e gli altri, in quanto questi soggetti sono perfettamente in grado di utilizzare i nomi propri in modo adeguato: la vera difficoltà sta nel riuscire a comprendere che i pronomi non sono strettamente collegati alle persone, ma cambiano in base ai ruoli assunti all'interno della conversazione. Questi bambini non capiscono il bisogno di specificare i ruoli nella conversazione, per tal motivo non riescono ad usare il pronome io fino a quando non si insegna loro a farlo in modo del tutto meccanico ed automatico. Inoltre, poiché hanno grandi problemi a partecipare ai giochi di ruolo, hanno anche poche possibilità di impiegare queste forme pronominali. Per poterli aiutare può essere utile insegnare l'uso del tu in circostanze costruite appositamente, 57


dove due persone adulte parlano tra loro utilizzando i rispettivi pronomi. Il problema dell'inversione pronominale è dovuto al fatto che i soggetti autistici interpretano il mondo in modo percettivo e non considerano le intenzioni di colui che parla, il contesto e tutta la situazione. Un'altra caratteristica tipica del modo di comunicare dei soggetti autistici è la comprensione letterale dei messaggi, che non considera le intenzioni dell'interlocutore: essi sono incapaci di afferrare ciò che le altre persone si propongono di comunicare e gli stati d'animo altrui, in questo modo «si comportano come un computer che obbedisce alla lettera alle istruzioni» (Jordan et al., 2008, p. 108). E' proprio questa interpretazione letterale che crea enormi problemi di comprensione delle istruzioni, fa nascere anche parecchie ambiguità, non permette di capire le formule convenzionali usate spesso quando ci si esprime e le frasi idiomatiche. I soggetti autistici presentano soprattutto un'enorme ed evidente incapacità di cogliere l'ovvio, in quanto quest'ultimo si basa essenzialmente sulla comprensione delle intenzioni. La grande difficoltà che mostrano nell'afferrare quello che gli altri già conoscono riguardo a determinati argomenti, li conduce verso stili di conversazione piuttosto particolari. Alcune persone autistiche giungono a pensare che l'altro, ossia l'interlocutore, non possieda alcuna conoscenza e ciò li spinge a descrizioni molto esplicite e dettagliate che rendono la conversazione estremamente noiosa: a ciò poi si aggiunge la loro incapacità di captare i segnali di impazienza dell'interlocutore come gli sbadigli. Altri, al contrario, pensano che l'altro sappia tutto e pertanto iniziano a parlare in modo poco chiaro o ambiguo, in quanto mancano i riferimenti comuni. E, dato che non comprendono le reazioni di chi hanno di fronte, non 58


cercano nemmeno di “aggiustare” la conversazione rendendola molto più chiara e particolareggiata, anche perché non conoscono un altro modo per comunicare il messaggio. Un'altra particolarità del linguaggio dei soggetti autistici è quella che è stata definita da Kanner “linguaggio metaforico”: si tratta di espressioni bizzarre che sembrano non essere collegate al contesto dell'interazione. Uta Frith invece ha utilizzato la parola “espressioni idionsicratiche”, perché sono espressioni che questi soggetti possono aver collegato ad un preciso contesto all'interno di eventi già trascorsi e vengono impiegate nelle conversazioni senza darsi pensiero della mancata comprensione da parte degli altri. Quindi, questi soggetti non possiedono la capacità di apprezzare ciò che l'altro può aver compreso del messaggio che hanno pronunciato. Un'ulteriore difficoltà riscontrata nei soggetti autistici è la prosodia: essi non sono in grado di servirsi dell'intonazione come mezzo di comunicazione, infatti la loro voce risulta monotona ossia per niente legata al significato di ciò che si desidera trasmettere. Non bisogna però credere che questi soggetti siano incapaci di riprodurre l'intonazione altrui. Lo dimostra il fatto che molti di loro riescono a riprodurre perfettamente, anche se in modo ecolalico, espressioni pronunciate da altri utilizzando la stessa intonazione. Non sono però in grado di servirsi dell'intonazione per fini comunicativi, in quanto l'intonazione ci fornisce

notizie relative

allo

stato d'animo

dell'interlocutore riguardo a quanto sta pronunciando. Quindi, la prosodia sembrerebbe condizionata dalla mancanza di comprensione degli stati d'animo propri e altrui; quest'ultimo aspetto attribuirebbe al linguaggio delle persone autistiche la tipica inespressività.

59


1.6 Repertorio comportamentale: movimenti ripetitivi e stereotipati L'autismo è anche caratterizzato da forme di comportamento, da attività e da interessi ripetitivi e stereotipati. Si rivelano come una certa propensione ad impostare gran parte della vita quotidiana all'insegna della monotonia, della rigidità e dell'immutabilità. In queste attività

si denota una mancanza di immaginazione unita a

comportamenti ossessivi. L'utilizzo degli oggetti è del tutto inappropriato, ritualistico e stereotipato. I bambini autistici hanno con le cose un approccio completamente rigido e invariabile: tutto deve avvenire sempre nello stesso identico modo, un minimo cambiamento può sconvolgerli totalmente. Possono tollerare un totale cambiamento dell'ambiente attorno a loro come uno spostamento in un luogo del tutto nuovo, mentre al contrario si agitano tantissimo entrando in uno stato d'ansia profondo appena si verifica una lieve modifica del luogo o dell'attività che invece si aspettano inalterati. «Questo desiderio di uniformità e di costanza è stato interpretato come un modo per sentirsi sicuri» (Simpson, Zionts, 2006, p. 69). Il bisogno di immutabilità si evidenzia anche nel gioco, nella sistemazione degli oggetti nella loro stanza,

negli

itinerari

da

seguire

quando

escono

oppure

nell'attaccamento troppo esagerato ad oggetti inusuali, dai quali non vogliono separarsi. Riguardo a quest'ultimo aspetto si può notare che anche i bambini non autistici manifestano un attaccamento verso giocattoli o altri oggetti: la differenza sta nel fatto che per questi bambini tali oggetti possiedono un significato puramente simbolico. «Il tipo di oggetti ai quali si affezionano i bambini autistici, l'intensità della loro riluttanza a separarsene e l'età in cui questo comportamento 60


si manifesta differenziano un attaccamento “normale” agli oggetti da uno problematico, tipico dell'autismo» (Simpson et al., 2006, p. 11). Le attività di gioco spesso sono esageratamente stereotipate e carenti di creatività. E' assente il gioco “del far finta di”, il gioco di ruolo e questo sicuramente aggrava le condizioni di questi bambini che non hanno modo di assumere il ruolo di altri e di apprendere tutte le varie abilità sociali. Inoltre la mancanza di partecipazione al gioco non fa altro che favorire l'isolamento sociale, conducendo verso la noia, la quale implica vari tipi di comportamenti autostimolatori, spesso pericolosi per la salute degli stessi soggetti vanno

modificati.

Questi

e

per

comportamenti

tale

motivo

autostimolatori

possono derivare sia dalla noia che da una stimolazione esagerata oppure insufficiente. I bambini autistici sono in grado di cogliere anche la più piccola variazione di tutta la scena percettiva: quando ciò accade si scatena in loro un profondo senso di disagio che si manifesta mediante comportamenti di collera e aggressività auto o eterodiretta. Questi

comportamenti

celerebbero

spesso

delle

difficoltà

di

comunicazione. Esistono «tre bisogni primari che devono essere espressi e che provocano difficoltà se il soggetto non ha modo di soddisfarli: - chiedere di ricevere qualcosa - chiedere di eliminare qualcosa - chiedere di ricevere uno stimolo» (Jordan et al., 2008, p. 159). Se non si riesce a soddisfare tali bisogni a causa dell'assenza di una giusta comunicazione, si crea delusione e insoddisfazione che possono condurre all'aggressività. Infatti il soggetto potrebbe desiderare qualcosa, oppure annoiarsi perché non sta facendo niente o ancora starebbe tentando di attirare l'attenzione altrui. 61


I comportamenti autostimolatori sono comportamenti ripetitivi e stereotipati aventi come unico fine un senso di gratificazione sensoriale. Tre sono i motivi per i quali si deve cercare di eliminare o almeno di diminuire queste autostimolazioni: - prima di tutto rappresentano un grande ostacolo per l'attenzione; - esprimono un enorme rinforzo per il soggetto cosicché i rinforzi più adeguati finiscono col perdere completamente il loro effetto; - sono sicuramente da condannare e pertanto da eliminare. Nell'autostimolazione

il

soggetto

rivolge

la

sua

attenzione

esclusivamente a questa non riuscendo così a tener conto di altre informazioni fondamentali: tutto questo ostacola l'apprendimento fino ad arrivare a impedirlo. Risulta molto difficile convincere il soggetto a ridurre le autostimolazioni in quanto sono molto piacevoli. Esistono vari tipi di autostimolazioni: una prima categoria riguarda i movimenti del corpo che comprendono dondolii del busto, movimenti delle mani, rotazioni su se stessi. Nei movimenti delle mani però rientra un altro fattore: si tratta della stimolazione visiva. Fissare e guardare oggetti che si muovono rappresentano un tipo di stimolazione visiva. Un'altra categoria è relativa all'utilizzo di oggetti con il solo scopo di autoprovocarsi una stimolazione a livello sensoriale: colpire gli oggetti, osservare l'acqua che scorre, sbattere i fogli di carta. La terza categoria di autostimolazioni è formata da ossessioni e rituali come l'allineamento degli oggetti, l'indossare sempre i medesimi abiti, le perseverazioni verbali cioè parlare sempre degli stessi argomenti, la non accettazione dei cambiamenti. Queste ossessioni diventano sempre più persistenti nel tempo rendendo così molto più difficile la loro rimozione. Parecchi di noi, in momenti di noia, mettono in atto vari tipi di comportamenti autostimolatori del tipo sognare ad occhi 62


aperti, picchiettare le dita, giocare con la penna. Bisogna però sottolineare che in questo caso le persone sono in grado di seguitare a mantenere la loro attenzione su ciò che stanno eseguendo. Occorre fare notare che le persone in generale ottengono gratificazioni soprattutto dagli hobbies e dagli svaghi e che riescono a controllare queste autostimolazioni soffocandole nel caso in cui potrebbero scatenare una reazione negativa da parte degli altri. Al contrario i soggetti autistici

non possiedono questa capacità di prestare€

attenzione mentre si autostimolano o è fortemente ridotta. Inoltre tali autostimolazioni in questo tipo di soggetti accadono

di continuo

oppure in situazioni o di stress o di noia. Molteplici sono le funzioni delle

autostimolazioni:

la

prima

è

quella

di

procurare

un'autostimolazione. Non riuscendo a cogliere nessun tipo di stimolo nell'ambiente e nelle persone , il soggetto autistico se lo autoproduce in modo da ottenere una sorta di autogratificazione. Così pure quando si trovano ad avere a disposizione del tempo libero non lo utilizzano per giocare o per instaurare relazioni con gli altri, bensì lo trascorrono autostimolandosi. Una seconda funzione è quella di diminuire il più possibile lo stress e la tensione come quando avviene un cambiamento o c'è un ambiente caotico: in questi casi l'autostimolazione non solo ha lo scopo di tranquillizzare il soggetto stesso ma rappresenta una richiesta d'aiuto affinché gli altri riescano ad eliminare ogni fonte di insoddisfazione. Con il passare del tempo questi comportamenti si fanno più forti e maggiormente resistenti a qualsiasi tentativo di eliminazione o almeno di riduzione. Mentre con i bambini piccoli la soppressione di questi comportamenti appare come un obiettivo raggiungibile, con i più essere

la

grandi

l'obiettivo

riduzione. Comunque entrambi 63

perseguibile possono

risulta

trarre

dei


benefici dalla trasformazione dei comportamenti autostimolatori in comportamenti maggiormente appropriati alla loro età. Per attuare questa trasformazione si possono utilizzare due tipi di strategie: le proattive e le reattive. Il metodo proattivo indica e spiega dei comportamenti alternativi aventi sempre lo scopo di fornire delle gratificazioni personali molto simili alle autostimolazioni. strategia

reattiva

invece

le

diminuisce

La

e diminuendo o

eliminando il senso di gratificazione che danno al soggetto finiscono con il rafforzare altri tipi comportamenti. Sicuramente la strategia migliore è la combinazione di entrambi i metodi. La stereotipia è un vero e proprio problema in quanto non consente e rallenta lo sperimentare e lo sviluppo psicologico. Pertanto ogni tipo di stereotipia è pericolosa, da quella relativa al bambino che guarda con lo sguardo fisso fuori dalla finestra per ore e ore senza parlare a quella che riguarda l'ecolalia. Il comportamento stereotipato affiora spontaneo, è sempre in agguato e deve essere considerato un grande impedimento. I soggetti autistici non mostrano mai stanchezza nel rimanere in stereotipia, quindi non cercano delle alternative a tale stato.

1.7 Deficit delle funzioni esecutive L'autismo risulterebbe correlato ad una compromissione di un determinato schema cognitivo in grado di rendere il soggetto capace di crearsi delle rappresentazioni mentali relative a quelle altrui. Nei paragrafi precedenti, analizzando i problemi legati all'interazione sociale ed alla comunicazione, è emerso che il deficit sociale è alla 64


base di tali problemi ed è in grado di darne una spiegazione esauriente. Tuttavia non ci fornisce una spiegazione altrettanto apprezzabile per poter comprendere quei disturbi definiti nel DSM IV in termini di “interessi ed attività ristretti, ripetitivi e stereotipati”. Invece, questi disturbi sono stati collegati al disturbo delle funzioni esecutive organizzate a livello frontale. Si tratta di processi di controllo, pianificazione e coordinazione del sistema cognitivo e dirigono l'attivazione di determinati schemi. L'utilizzo delle funzioni esecutive è fondamentale in qualsiasi tipo di problem solving, dal più semplice al più complesso. Questo tipo di funzioni si riferiscono ad una serie di abilità che sono ritenute indispensabili per la risoluzione dei problemi: - la capacità di attivare una scrivania mentale su cui sistemare tutte le informazioni relative al compito preso in esame; - la capacità di redigere mentalmente dei piani d'azione; - la capacità di frenare le risposte impulsive; - saper organizzare le varie azioni; - prestare particolare attenzione ai feedback, in modo da poter modificare il piano teorizzato precedentemente; - la capacità di saper spostare l'attenzione su altri aspetti legati alla situazione. «Le funzioni esecutive consistono in una serie di operazioni mediate dai lobi frontali, che consentono il controllo volontario del comportamento cognitivo e motorio» (Cottini, 2003, p. 92). Si è supposto l'esistenza di

un controllo di tipo automatico e di un

controllo volontario. Il primo tipo di controllo si attiva all'interno di situazioni in cui si richiedono delle sequenze d'azione che sono state ormai ben immagazzinate. Quindi si finisce con l'espletare queste azioni in modo

quasi automatico, senza bisogno di 65

prestarvi


particolare attenzione, anzi si riesce addirittura ad eseguire più azioni nelle stesso momento. Il controllo di tipo volontario interviene in situazioni nuove, dove il comportamento «viene organizzato in relazione agli scopi personali e non alle condizioni-stimolo esterne (ad esempio: porre attenzione alla guida per seguire delle indicazioni in una città non conosciuta)» (Cottini, 2003, p. 93). Sono proprio questi processi di controllo volontario a rendere il comportamento flessibile ed a consentire di modificare o fermare delle azioni ormai iniziate. Tre sono gli elementi più importanti delle funzioni esecutive (Cfr. Surian, 2008, p. 66): - la capacità di inibizione; - la memoria di lavoro; - la capacità di creare delle strategie nuove. Nell'autismo è compromessa la memoria di lavoro mentre nei bambini iperattivi si è notato un deficit della capacità di inibizione motoria. Queste funzioni esecutive si attivano nel momento in cui non si vuole che subentrino dei processi automatici a guidare le azioni e quando non si possiedono abitudini che possano produrre le azioni. Dalle osservazioni effettuate su soggetti con danni ai lobi frontali è emerso che questi soggetti mostravano di non

possedere

un

comportamento organizzato e di avere enormi difficoltà a pianificare delle azioni adeguate per conseguire i propri scopi personali, inoltre ripetevano in modo del tutto non pertinente azioni o pensieri già manifestati in precedenza. Quindi si è notato come certi deficit tipici dell'autismo siano simili ai deficit delle funzioni esecutive presenti in soggetti con danni ai lobi frontali. Infatti i soggetti autistici non riescono ad affrontare qualsiasi tipo di cambiamento e persistono nelle loro routine, danno vita a comportamenti ripetitivi e stereotipati, hanno 66


una grande memoria meccanica che però non sono in grado usare in modo funzionale. Per verificare questa similitudine alcuni soggetti autistici sono stati sottoposti a dei test sulla funzione esecutiva: il Wisconsin Card Sorting Task (Wcst), la Torre di Londra e i compiti Go-NoGo. Il Wcst è stato il primo test utilizzato con i soggetti autistici per esaminare le loro funzioni esecutive, valutando sia

il grado di

flessibilità adottata nel scegliere le strategie più appropriate di problem solving sia il grado di perseverazione e di astrazione. Questo test consiste nel presentare ai soggetti 128 carte definite “carta risposta”, su ognuna delle quali vi sono raffigurate da una a quattro figure identiche di un solo colore. Le figure impiegate sono le stelle, le croci, i triangoli e i cerchi, mentre i colori sono il rosso, giallo, blu e verde7 (fig. 5).

Fig. 5: Esempio di strutturazione delle carte Fonte: www.neuropsy.it

Quattro carte sono definite “carte stimolo” o “carte guida” e vengono sistemate davanti al soggetto, al quale viene consegnato un primo gruppo di carte risposta. Il soggetto deve mettere ogni carta che ha 7 www.neuropsy.it

67


ricevuto sotto le carte guida senza venir informato riguardo il criterio da rispettare nella classificazione, criterio che è stato scelto dall'esaminatore prima dell'inizio del test. Il soggetto è solo informato della correttezza o meno della sua scelta. Dopo che ha fornito 10 risposte corrette e consecutive si passa ad un'altra categoria, senza informare il soggetto. Il test termina quando vengono esaurite tutte le carte. «La prestazione è tanto migliore quando più vengono evitati gli errori di perseverazione che consistono nel seguire un certo criterio anche dopo che è stato cambiato» (Surian, 2008, p. 68). I soggetti con disturbi delle funzioni esecutive fanno esclusivamente errori di perseverazione. Il test della Torre di Londra fu inventato dal neuropsicologo Tim Shallice che apportò dei cambiamenti ad un famoso gioco conosciuto come Torre di Hanoi. Questo test serve per valutare sia la capacità di prendere delle decisioni strategiche e metterle in atto sia la capacità di pianificare delle soluzioni appropriate per risolvere un determinato compito. Si tratta di un problema che presenta difficoltà graduali: al soggetto viene chiesto di muovere tre palline di colore diverso che sono infilate su tre pioli per andare a formare un modello dato. Si deve giungere ad una configurazione finale servendosi del minor numero possibile di mosse e spostando una pallina alla volta. L'esecuzione di questo compito richiede l'applicazione di nuove strategie e la pianificazione delle conseguenze che si creano dopo lo spostamento di ogni pallina. I soggetti autistici hanno avuto scarsi risultati in questo test

dimostrando di avere enormi deficit a livello delle funzioni

esecutive. Alcuni studiosi hanno riscontrato dei problemi a livello delle funzioni esecutive anche nei genitori dei bambini autistici, mentre nei genitori di bambini normodotati tali problemi non si sono 68


evidenziati. Nei compiti Go-NoGo i soggetti devono premere un tasto ogni volta che appare la luce rossa mentre non devono farlo quando compare una luce di colore diverso. Questo compito chiama in causa un processo di inibizione molto semplice, mentre nel caso in cui si modifichi il criterio, il processo di inibizione richiesto diventa molto più complesso e quindi più impegnativo, inoltre è necessario attuare uno spostamento dell'attenzione. In questo caso il soggetto viene messo al corrente della modifica effettuata al criterio diversamente da quanto avviene nel Wcst. Sia nel test Wcst che nei compiti Go-NoGo è necessario inibire tutti quei criteri che erano stati rafforzati in precedenza. Nei bambini piccoli, però, le funzioni esecutive si possono misurare mediante «alcuni compiti cognitivi classici della ricerca in psicologia dello sviluppo» (Surian, 2008, p. 69) come i compiti di ricerca di oggetti che sono stati nascosti. Il fatto di andare a cercare un oggetto nel luogo in cui era già stato nascosto parecchie volte, nonostante il soggetto abbia potuto vedere molto chiaramente che prima del test l'oggetto era stato messo in un luogo diverso, mostra una evidente debolezza

delle

funzioni

esecutive, soprattutto viene

alla luce l'incapacità di soffocare una risposta ormai rafforzata. Gli studiosi hanno riscontrato questo tipo di errore, già visibile nei bambini di 7-9 mesi, anche in animali aventi delle lesioni a livello dei lobi frontali. Queste lesioni a livello dei lobi frontali si possono sicuramente considerare «una condizione importante, ma non sufficiente, per lo sviluppo dell'autismo» (Cottini, 2003, p. 96). A conferma di ciò, recentemente alcuni studiosi hanno osservato alcuni bambini autistici in età prescolare mentre eseguivano otto diversi 69


compiti di tipo esecutivo: è emerso che nessun compito presentava differenze rilevanti rispetto ai compiti eseguiti dal gruppo di controllo. Quindi anche se il deficit esecutivo aiuta a comprendere alcune problematiche presenti nei bambini autistici in età scolare, non è però da considerare come il deficit principale e tanto meno specifico: infatti si può osservare in vari tipi di disturbi diversi dall'autismo, come il disturbo di attenzione e iperattività, la schizofrenia e il disturbo della condotta. Inoltre esistono varie tipologie di deficit esecutivo, pertanto può essere utile osservare quali funzioni esecutive risultano compromesse nell'autismo. I soggetti autistici non sono in grado di creare delle nuove soluzioni e questa loro incapacità non è altro che uno dei tre elementi esecutivi. Il loro problema è l'incapacità di inibire le risposte date precedentemente con successo e il non riuscire a cambiare il criterio da rispettare per poter dare la risposta. Quindi il deficit esecutivo specifico dell'autismo sembra essere questa scarsa abilità di sostituire il criterio. Al contrario altri elementi esecutivi risultano non compromessi oppure danneggiati in forma lieve. Un altro elemento esecutivo importante è «la capacità di mantenere e spostare volontariamente l'attenzione» (Surian, 2008, p. 73). Nei soggetti autistici non risulta compromessa o lo è lievemente la capacità di attenzione sostenuta mentre esistono problemi nella capacità di spostare l'attenzione come è stato rilevato dal test Wcst. Invece nei bambini affetti da Disturbo di attenzione e iperattività (Ddai) è l'abilità di attenzione sostenuta che appare maggiormente compromessa.

70


1.8 La cecità mentale Ma cosa si intende con l'espressione “cecità mentale”? Si intende essere «ciechi all'esistenza delle cose mentali» (Baron-Cohen, 1997, p. 19), ove “cose mentali” sta per pensieri, conoscenze, desideri e intenzioni. Indica l'incapacità a sviluppare una piena consapevolezza di ciò che può esserci nella mente di un altro soggetto. L'ipotesi della cecità mentale potrebbe fornire la spiegazione dei problemi sociali e di comunicazione caratteristici dei soggetti autistici. L'essere umano, durante tutto l'arco della sua vita, non fa altro che leggere la mente, e lo fa in modo automatico e inconsapevole. Saper leggere la mente significa avere «la capacità di immaginare o di rappresentarsi stati mentali che noi o altri potremmo avere» (BaronCohen, 1997, p. 20): è un modo del tutto naturale di capire l'ambiente sociale. Leggere la mente ci permette di attribuire un significato alle azioni altrui e soprattutto ci consente di prevedere il comportamento degli altri anche in assenza di segnali comportamentali. Inoltre la lettura della mente ci offre la possibilità di dare significato alla comunicazione.

Infatti,

durante

una

conversazione

noi

non

concentriamo la nostra attenzione solamente sulle parole pronunciate dall'interlocutore, ma ci focalizziamo su quello che pensiamo sia la sostanza di ciò che l'altro ci voleva dire. Alcuni studiosi l'hanno definita “ricerca di pertinenza”, ossia colui che ascolta presume che il significato di quanto viene espresso sia del tutto pertinente con i propositi di colui che parla (Cfr. Baron-Cohen, 1997, p. 43). Quindi quando si decifra il parlato, si va al di là delle parole per arrivare a formulare delle ipotesi riguardo gli stati mentali dell'altro: tale analisi viene attuata anche nel caso della comunicazione non verbale. 71


Perché la comunicazione possa riuscire è necessario che il parlante attui una valutazione per scoprire cosa l'ascoltatore sa o non sa, e per capire quali informazioni

gli deve ancora dare per far si che

l'ascoltatore sia perfettamente in grado di capire il suo messaggio. Ma se si vuole che la comunicazione riesca, il parlante deve assicurarsi che il significato di quanto dice venga recepito e compreso come vuole lui altrimenti deve riformulare il messaggio. Pertanto il dialogo va ben oltre la semplice produzione del parlato, mostrandosi fortemente collegato all'utilizzo della capacità di saper leggere la mente (Cfr. Baron-Cohen, 1997, p. 45). «Il linguaggio funziona principalmente come una “copia” dei contenuti della mente» (Baron-Cohen, 1997, p. 45) e noi lo usiamo per rendere partecipi gli altri delle nostre idee, dei nostri pensieri e delle nostre esperienze. La capacità di capire la propria mente e quella degli altri compare in modo del tutto spontaneo già nell'infanzia. Il bambino normale di un anno d'età riesce a capire che lui e un altro soggetto sono interessati al medesimo oggetto, inoltre è in grado di comprendere che le azioni delle persone sono indirizzate dai desideri e si dirigono verso degli scopi (Cfr. Baron-Cohen, 1997, p. 74). Prima dei quattro anni, il bambino capisce che tutte le persone possiedono una serie di informazioni in testa, cioè «hanno “stati informativi”» (Baron-Cohen, Howlin, Hadwin, 1999, p. 10). Secondo Simon BaronCohen tutto questo è dovuto allo sviluppo di quattro meccanismi già presenti nel cervello fin dalla nascita. Se uno di questi meccanismi smettesse di funzionare, il deficit che si creerebbe dipenderebbe dal tipo di meccanismo coinvolto. S. Baron-Cohen chiama il primo di questi

meccanismi

innati «rivelatore dell'intenzionalità o ID (Intentionality Detector)» 72


(Baron-Cohen, 1997, p. 47). Si tratta di un sistema percettivo che riesce a decifrare gli stimoli in termini di scopi e desideri: qualsiasi tipo di input percettivo lo può azionare. Questi input colti dall'ID sono degli agenti ossia sono cose che possiedono un movimento autodeterminato come un animale, un essere umano, un piede, una mano. Nel caso in cui ci si rende conto che l'oggetto non è assolutamente un agente, allora si riesamina la propria lettura fatta inizialmente. Avendo questi input un movimento autodeterminato, si possono considerare degli agenti aventi scopi e desideri. Il funzionamento dell'ID avviene mediante i sensi e per S.Baron-Cohen rappresenta il primo meccanismo di cui hanno bisogno i bambini per poter effettuare la lettura della mente. Nei soggetti autistici l'ID sembrerebbe intatto: infatti «usano la parola “voglio” nei loro discorsi spontanei» (Baron-Cohen, 1997, p. 78) e pronunciano frasi come « “Lui sta andando a nuotare” riconoscendo, rispettivamente, desideri e scopi» (Baron-Cohen, 1997, p. 78). Inoltre riescono ad individuare l'animazione e a comprendere che i desideri provocano una serie di emozioni. L'altro meccanismo è quello che S.Baron-Cohen definisce «rivelatore della direzione degli occhi o

EDD

(Eye-Direction

Detector)» (Baron-Cohen, 1997, p. 53). A differenza dell'ID, il funzionamento dell' EDD si realizza esclusivamente attraverso la vista. Secondo la sua ipotesi, l'EDD possiederebbe ben tre funzioni: 1- individuare la presenza «la presenza di occhi o di stimoli simili a occhi» (Baron-Cohen, 1997, p. 54); 2- determinare verso che cosa sono diretti gli occhi; 3- dedurre che se gli occhi si dirigono verso una cosa, di conseguenza l'essere vivente sta vedendo quella determinata cosa. 73


La terza funzione è fondamentale in quanto ci permette di conferire uno stato percettivo ad un altro essere vivente. Quindi l'EDD è in grado di decifrare gli stimoli in base a quello che vede l'agente: individua se vicino sono presenti altri occhi e, se così fosse, cerca di capire cosa stanno guardando quegli occhi (guardano me o qualcosa d'altro). Nei soggetti austici l'EDD non risulterebbe compromesso. Infatti si accorgono quando lo sguardo di una persona in una fotografia è diretto verso di loro e comprendono molto bene che la direzione dello sguardo sta a significare che il soggetto vede qualcosa. Inoltre nei loro discorsi utilizzano il termine vedere e riescono anche ad indovinare cosa sta guardando un altro. Se ci fermassimo solamente a questi due meccanismi «il nostro universo sarebbe, in un certo senso, un universo “autistico”» (Baron-Cohen, 1997, p. 59). Riusciremmo ad avere delle sensazioni, delle immagini di altri soggetti che fanno e vedono delle cose, ma non potremmo assolutamente essere a conoscenza del fatto che ciò che noi e un altro stiamo guardando e vedendo è la medesima cosa. Allora cosa ci potrà dare la consapevolezza che esiste un mondo condiviso? Per poter rispondere a questa domanda S.Baron-Cohen fa intervenire il terzo meccanismo che chiama meccanismo dell'attenzione condivisa o SAM (SharedAttention Mechanism). Il SAM ha la funzione di costruire le rappresentazioni triadiche. Invece i precedenti due meccanismi hanno la funzione di costruire rappresentazioni diadiche e più precisamente: l'ID indica la relazione tra agente ed oggetto mentre l'EDD la relazione tra agente e sé. All'interno della relazione triadica è presente un altro fattore che precisa che sia l'agente sia il sé sono attratti dal medesimo oggetto. Questo tipo di rappresentazione può essere espressa nei seguenti 74


termini: «“Tu e io vediamo che stiamo guardando lo stesso oggetto”» (Baron-Cohen, 1997, p. 60). Il SAM realizza una relazione triadica solo quando gli arrivano notizie in merito a quello che un altro sta guardando. E queste notizie sono state comunicate dall'EDD ossia controllando la direzione

dello sguardo dell'altro. Questo terzo

meccanismo ha il compito di confrontare lo stato percettivo di un agente con lo stato percettivo del sé. Il SAM possiede anche un'altra funzione che è quella di “dialogare” con gli altri due meccanismi, l'ID e l'EDD. Quando l'EDD si collega all'ID mediante il SAM, si decifra la direzione dello sguardo conoscendo così gli stati mentali del desiderio e dello scopo. Tutte le ricerche hanno dimostrato che nei bambini autistici esiste una forte compromissione del SAM. Infatti molto spesso sono privi dei comportamenti più importanti tipici dell'attenzione condivisa come il controllo dello sguardo, il gesto protodichiarativo di indicare e altri gesti dichiarativi come il gesto di mostrare. I soggetti autistici

non sono incapaci di indicare,

il

problema è che si servono del gesto di indicare per chiedere oggetti che non riescono a prendere e non per indirizzare l'attenzione visiva dell'altro. Al contrario, nei soggetti ciechi anche se non è presente l'EDD, il SAM funziona benissimo attraverso il tatto e l'udito. Questi soggetti, utilizzando il tatto, sono in grado di instaurare l'attenzione condivisa: dirigono una persona verso un oggetto prendendola per mano e poi le fanno appoggiare la mano sull'oggetto stesso. Negli autistici sembra, invece, che il SAM sia compromesso in tutte le modalità ossia non funzioni né a livello tattile, né a livello visivo e tanto meno a livello uditivo. Di conseguenza non verrebbe prodotto nessun tipo di output dal SAM per poter azionare il TOMM e quindi si deduce che tutti gli aspetti del TOMM siano fortemente compressi 75


nell'autismo. Il TOMM ossia il meccanismo della teoria della mente (Theory-of-Mind

Mechanism)

è

il

quarto

meccanismo

che

interverrebbe, secondo l'ipotesi di S.Baron-Cohen, nello sviluppo della lettura della mente. Questo meccanismo è necessario in quanto consente di desumere i vari stati mentali. Gli altri tre meccanismi ci permettono di leggere il comportamento secondo gli stati mentali relativi al desiderio ed allo scopo e di comprendere la direzione dello sguardo secondo gli astati mentali percettivi come il vedere. Inoltre ci hanno permesso di comprendere che soggetti diversi riescono a sperimentare questi stati mentali riguardo il medesimo oggetto o situazione. Ma tutto questo non basta ancora: la TOMM ci può dare molto di più. Prima di tutto ci dà la possibilità di rappresentare gli stati mentali epistemici: il far finta, il credere, il sognare, l'immaginare, l'ingannare. Inoltre permette di unire insieme gli stati percettivi volizionali, percettivi ed epistemici. Quindi si può affermare che il TOMM

permette

di

«trasformare

tutte

queste

conoscenze

mentalistiche in una teoria utile» (Baron-Cohen, 1997, p. 66). Le sue rappresentazioni triadiche formano l'input per il TOMM. Esiste una grande differenza tra il TOMM e gli altri tre meccanismi, che consiste nel fatto che in quest'ultimo sistema compare l'intenzionalità che si manifesta nella possibilità di rappresentazioni del tutto false. Per verificare che nei soggetti autistici esiste una seria compromissione del TOMM, è necessario dimostrare che tali soggetti presentano grossi problemi nel capire la credenza. Dennett è riuscito ad accertare che il modo più adatto per indagare se il soggetto autistico è capace di capire la credenza, è analizzare se mostra di essere in grado di comprendere che un' altra persona potrebbe possedere una falsa credenza. In questo modo si può anche verificare se un soggetto è dotato della 76


teoria della mente, perché si può fare una chiara distinzione senza incorrere in nessun tipo di ambiguità tra la credenza vera del bambino e la sua consapevolezza che un altro può avere una credenza falsa. Seguendo questa ipotesi è stato predisposto un test della falsa credenza che è stato utilizzato con bambini normali: il test è servito a dimostrare che bambini di 3-4 d'età sono in grado di superare un test di questo tipo. S.Baron-Cohen insieme a Uta Frith e Alan Leslie hanno modificato questo test per poterlo utilizzare oltre che con bambini normali anche con bambini sia autisti che con la sindrome di Down. Questo test si svolge osservando Sally mentre pone una biglia in un determinato

posto

e

successivamente

guardando

Anne

che,

approfittando dell'uscita di Sally, prende la biglia e la pone in un altro posto. Il soggetto deve essere in grado di capire che Sally non può assolutamente essere a conoscenza dello spostamento della biglia poiché non era presente al momento in cui Anne l'aveva spostata. Pertanto Sally continuerà a credere che la biglia si trovi nel posto originario in cui lei l'aveva collocata. Quando verrà chiesto di esplicitare il luogo dove Sally, al suo rientro in stanza, cercherà la biglia, la maggior parte dei bambini normali e con sindrome di Down risponderà correttamente indicando il luogo in cui originariamente Sally aveva posto l'oggetto. Invece, nel caso dei bambini autistici solo una piccolissima parte rispondeva in modo corretto, tutti gli altri non facevano altro che indicare il posto in cui era posizionata realmente la biglia. Poiché i bambini autistici avevano un'età maggiore rispetti ai bambini degli altri due gruppi, il risultato di tale test conferma che «nell'autismo lo stato mentale della credenza viene compreso in scarsa misura» (Baron-Cohen, 1997, p. 85). Questo risultato è stato ottenuto molte altre volte eseguendo dei test molto simili a questo. Se i 77


bambini autistici presentano una compromissione del funzionamento del TOMM, di conseguenza dovrebbero mostrare problemi anche a livello di comprensione dello stato mentale della finzione. Parecchi studi hanno diretto la loro attenzione verso questo problema e lo hanno affrontato in maniera indiretta, ossia sostenendo che per essere in grado di fingere, bisogna prima comprendere «come il fingere sia differente dal non fingere» (Baron-Cohen, 1997, p. 89). Pertanto occorre osservare il bambino quando gioca per poter verificare se effettivamente riesce a creare dei giochi di finzione. Attualmente esiste una vasta gamma di studi che ha dimostrato in maniera molto chiara che nei bambini autistici il gioco di finzione è molto scarso o addirittura assente. Ma se il meccanismo del TOMM è fortemente danneggiato nell'autismo, ne consegue che la teoria della mente presente in tutti i bambini normali, nei bambini autistici è assente oppure gravemente compromessa. Uno dei principi fondamentali della teoria della mente è che «vedere porta a conoscere» (Baron-Cohen, 1997, p. 90). In merito a tale principio è stato condotto uno studio sull'inganno nell'autismo, da parte di S.Baron-Cohen. Il compito richiesto al bambino esaminato era di nascondere una monetina in una mano. Mediante parecchi tentativi, i soggetti autistici erano in grado di tenere la monetina fuori dal campo visivo dell'altro, mentre erano assolutamente incapaci di nascondere tutti i possibili segnali visivi che potevano far capire e quindi indovinare all'altro soggetto dove si nascondeva l'oggetto. Al contrario i bambini con disabilità mentale e i bambini normali di 3 anni non presentavano queste difficoltà, anzi il gioco per loro diventava sempre più divertente se riuscivano a non dare all'altro alcun indizio su dove si trovava la monetina. 78


Un altro aspetto tipico della teoria della mente nei bambini normali è «la capacità di applicare al mondo delle emozioni la comprensione delle credenze» (Baron-Cohen, 1997, p. 91). Questi bambini riescono a riconoscere non solo emozioni come la felicità e la tristezza, ma anche la sorpresa che è un emozione fondata sulla credenza (Cfr. Baron-Cohen, 1997, p. 91). Vari test hanno dimostrato che anche i soggetti autistici sono capaci di riconoscere emozioni come la felicità e la tristezza, sono però totalmente incapaci di riconoscere la sorpresa. Determinati studi hanno rivelato che i bambini normali di 3-4 anni capiscono che certe situazioni o desideri soddisfatti o meno, possono causare un certo tipo di emozioni. Inoltre si è scoperto che entro i 4-6 anni, i bambini normali riescono a capire che le emozioni possono essere influenzate dalle credenze, ossia se si pensa di stare ottenendo ciò che si desiderava allora si è felici (Cfr. Baron-Cohen, 1997, p. 92). S.Baron-Cohen fece degli esperimenti con i bambini autistici per osservare la loro capacità di capire se l'emozione manifestata da un personaggio di una storia venisse prodotta da un desiderio, da un evento oppure da una credenza. Il risultato è stato che questi bambini capivano benissimo quando un'emozione veniva provocata da un evento ed erano capaci di prevedere l'emozione del personaggio della storia se questa si fondava sulla credenza. La loro grande difficoltà si evidenziava nel momento in cui dovevano prevedere l'emozione del personaggio, quando questa si fondava sulla credenza del personaggio stesso. Poiché il TOMM risulta seriamente danneggiato nell'autismo, i soggetti affetti da tale patologia dovrebbero «avere difficoltà nel distinguere la realtà dall'apparenza» (Baron-Cohen, 1997, p. 92). In un esperimento eseguito da S.Baron-Cohen, in cui si mostrava a dei 79


bambini una pietra simile ad un uovo, i bambini non autistici riuscivano a dire che anche se assomigliava ad un uovo in realtà si trattava di una pietra. I bambini autistici, invece, sostenevano che sembrava un uovo e che in realtà si trattava proprio di un uovo: apparivano completamente comandati dalle percezioni dimenticandosi così

delle

loro conoscenze. Poiché i soggetti autistici sono

incapaci di comprendere la differenza tra apparenza e realtà e non riescono a comprendere che gli altri possono avere dei pensieri diversi dai loro, si può affermare che il loro mondo risulta essere controllato dalle percezioni e impressioni del momento. S.Baron-Cohen sostiene che questi quattro meccanismi sono indipendenti ma connessi tra loro. Inoltre afferma: «I motivi per cui ho ipotizzato quattro moduli distinti derivano dalle prove tratte dalla neuropsicologia (in particolare dalle patologie dell'autismo e della cecità mentale, nelle quali questi quattro meccanismi si separano o si “dissociano” gli uni dagli altri). Spero di dimostrare che non ci può essere un solo grande meccanismo» (Baron-Cohen, 1997, p. 73).

1.9 Gli esperimenti di Hobson e Lee Nei primi anni Novanta alcuni ricercatori dell'Università del Colorado proposero di approfondire i deficit d'imitazione presenti nei soggetti autistici, in quanto «potevano essere la chiave dei deficit sociali dell'autismo»(Iacoboni, 2008, p. 147). La loro fu una notevole intuizione soprattutto perché in quegli anni i deficit d'imitazione non erano ritenuti così importanti da meritare

studi

approfonditi.

Nonostante tutto crebbe sempre di più l'interesse nei confronti di 80


questo tipo di deficit, anche perché era molto visibile nei soggetti autistici. Ma era poi così vero che nell'autismo l'imitazione risultava altamente deficitaria in tutte le sue forme? Non era della stessa opinione Peter Hobson dello University College di Londra. Hobson insieme al suo collega Antony Lee volle verificare un'ipotesi che si rifaceva a degli studi che lui stesso aveva effettuato precedentemente. Secondo questa ipotesi le difficoltà che avrebbero i soggetti autistici ad imitare gli altri,

sarebbero dovute alla loro

incapacità di identificarsi con le altre persone. Pertanto Hobson riteneva che «il deficit principale fosse emotivo» (Iacoboni, 2008, p. 148). Per poter dimostrare la sua ipotesi, diede vita ad un esperimento da realizzare sia con bambini autistici che con bambini aventi uno sviluppo normale per osservare se entrambi i gruppi sarebbero riusciti a notare lo stesso tipo di cose nelle persone. Iniziò l'esperimento mostrando ai due gruppi delle fotografie che ritraevano uomini e donne con in testa un cappello o una cuffia di lana e aventi tutti delle espressioni di felicità oppure di tristezza. A questo punto domandò ai bambini di cercare un aspetto che differenziava tutte le immagini, poi gli ordinò di separare le fotografie in due scatole tenendo conto di questo aspetto da loro scelto. E' ovvio che questo aspetto avrebbe potuto essere il genere oppure il copricapo o ancora l'espressione del viso. All'inizio entrambi i gruppi di bambini si servirono del genere come criterio per poter dividere le fotografie nelle scatole. Le cose iniziarono a cambiare quando Hobson fece una seconda domanda: chiese loro di separare ancora le fotografie, ma questa volta non dovevano tener conto del genere. I bambini non autistici scelsero come criterio di suddivisione delle fotografie le espressioni del viso mentre i bambini autistici scelsero il copricapo. I risultati ottenuti convinsero 81


ancora di più Hobson che il problema principale negli autistici è lo scarso legame emotivo con gli altri soggetti. Secondo Hobson questi soggetti si trovano in una condizione di cecità nei confronti dei sentimenti delle altre persone: «è come se non si commuovessero per ciò che le altre persone provano» (Iacoboni, 2008, p. 148). Hobson e Lee fecero un successivo esperimento per appurare se nell'autismo il deficit di imitazione sia anche da attribuire all'incapacità di instaurare una partecipazione emotiva con gli altri. In questo esperimento ai bambini veniva data la possibilità di imitare non solo il modo utilizzato dalle persone per arrivare ad un obiettivo ma anche lo stile usato ossia se le persone si comportavano gentilmente oppure erano sgarbate. Al test parteciparono sia i bambini autistici che quelli con sviluppo normale. In una prima fase del test, Lee disse ai bambini di guardare quello che stava facendo e iniziò ad eseguire semplicissime azioni come picchiettare con una bacchetta su un portapipe

oppure premere con la mano o

con due

dita un

poliziotto giocattolo in modo che potesse camminare da solo. Successivamente si passò ad un test relativo al linguaggio, utilizzato con la funzione di creare un diversivo. Una volta terminato il test del linguaggio, Lee diede ai bambini gli oggetti che aveva utilizzato precedentemente davanti a loro, dicendo di usarli. Cosa successe? Entrambi i gruppi di bambini si servirono degli oggetti per eseguire le medesime azioni che Lee aveva eseguito prima davanti a loro: picchiettare la bacchetta sul portapipe oppure azionare il poliziotto per farlo camminare. C'era però una differenza:i bambini normali imitavano anche lo stile usato da Lee mentre i bambini autistici no. Secondo Hobson i bambini autistici imitavano le azioni che Lee aveva

82


eseguito davanti a loro mentre gli altri bambini normali imitavano la persona. Ma perché sono così importanti gli esperimenti e gli studi sull'imitazione di Hobson e di Lee? Dai loro esperimenti emerge chiaramente che nei soggetti autistici la capacità maggiormente danneggiata è «l'aspetto sociale, affettivo dell'imitazione, piuttosto che l'aspetto “cognitivo”» (Iacoboni, 2008, p. 149). Quindi nell'autismo la compromissione principale è «il rispecchiamento sociale» .(Iacoboni, 2008, p. 149).

1.10 Come evolve l'autismo «L'autismo è una disabilità che dura per tutta la vita e per la quale non esiste a tutt'oggi alcuna possibilità di guarigione completa» (Simpson et al., 2006, p. 89). I bambini autistici potranno anche andare incontro a dei miglioramenti di vario tipo, ma nonostante questo il loro disturbo li accompagnerà per l'intera loro vita, magari in forma più lieve. Pertanto è possibile che anche le persone autistiche maggiormente dotate continuino a restare chiuse socialmente, ad avere un'intonazione della voce fortemente monotona, priva di qualsiasi forma di espressività. L'evoluzione dell'autismo è molto variabile. Dove esiste un ritardo mentale grave si richiede un supporto per tutto l'arco della vita. Nei soggetti autistici più abili è importante la capacità di linguaggio che si è riusciti ad acquisire, in altre parole minore padronanza di linguaggio si possiede più saranno necessari dei supporti. E' possibile comunque che il linguaggio migliori nella tarda adolescenza. Esistono, 83


anche se rari, casi di soggetti molti abili che sono riusciti a condurre una vita lavorativa e indipendente. Molto più diffusi sono invece i casi di soggetti autistici che svolgono un lavoro in ambienti protetti in cui eseguono delle attività molto interessanti senza avere però un lavoro vero e proprio. « Circa i tre quarti delle persone con autismo cercano comunque posto in residenze protette» (Baron-Cohen et al., 2003, p. 126). L'adolescenza è il periodo della nostra vita in cui si registrano i maggiori cambiamenti sia dal punto di vista fisico che emotivo. Anche nei soggetti autistici accadono questi cambiamenti solo che sono diversi da quelli che avvengono nei soggetto normali. Negli adolescenti affetti da autismo si può verificare un miglioramento dell'interazione sociale e quindi anche della comunicazione: tutto ciò provoca sicuramente un miglioramento della qualità della loro vita. Bisogna però sottolineare che è proprio durante l'adolescenza che alcuni di loro prendono coscienza della loro diversità: capiscono che non possono uscire da soli come i loro coetanei, che non potranno mai avere un futuro indipendente come gli altri. A questo punto può subentrare uno stato depressivo, per cui è assolutamente necessario chiedere un aiuto. Per quanto riguarda le trasformazioni fisiche, si può affermare che non sono sostanzialmente diverse, anche se possiedono una scarsa consapevolezza dell'identità sessuale. Comunque sarebbe opportuno impartire a questi adolescenti autistici un'adeguata educazione sessuale «sia per ridurre il rischio di sfruttamento attivo e passivo, sia per spiegare quando e dove certe attività sono accettabili e quando e dove non lo sono» (Baron-Cohen et al., 2003, p. 126). Infatti certi adolescenti

e adulti autistici vorrebbero avere dei rapporti

sessuali, solo che non riescono a sviluppare relazioni di questo tipo. 84


In una quantità limitata di casi, sono stati segnalati casi in cui si è verificato una evidente regressione totale sia durante che dopo la pubertà. Per fortuna la maggior parte dei soggetti continua a registrare dei progressi anche nell'età adulta. Non bisogna però tralasciare che alcuni regrediscono in maniera talmente grave che il loro Q.I. arriva a scendere fortemente. Tutto questo è possibile che succeda in contemporanea con l'insorgenza dell'epilessia: si tratta di «una vera e propria “tegola” dopo anni di speranze e miglioramenti» (BaronCohen et al., 2003, p. 128). Comunque si è osservato che la maggior parte di questi adolescenti migliora in maniera veramente significativa. Tali miglioramenti non accadono per caso, né l'autismo è una patologia che si supera con il tempo. Questi progressi nascono invece da appositi programmi educativi e da strategie mirate. Un esempio di ciò ci è offerto da Temple Grandin, diagnosticata autistica da bambina, è oggi una professionista che gode di notevole successo. Lei stessa sostiene che il merito dei suoi notevoli miglioramenti appartiene ai suoi insegnanti e terapisti. Permane comunque la preoccupazione dei genitori di questi ragazzi riguardo il loro futuro: cosa faranno quando lasceranno la scuola, senza il sostegno dell'educazione e della riabilitazione? Purtroppo mancano le strutture per adulti con autismo, non esiste il lavoro in ambiente protetto e una formazione professionale adeguata. Ne consegue che tutto quello che è stato acquisito durante gli anni di scolarizzazione finisce con l'andare perso al sopraggiungere dell'età adulta a causa della mancanza di stimoli appropriati. Per quanto riguarda il lavoro c'è ben poco da dire. I lavoro adatti a loro sono pochissimi e per lo più si tratta di lavori in cui devono svolgere delle mansioni altamente ripetitive e del tutto al di sotto delle loro reali potenzialità. Altrimenti possono trovare lavoro 85


nelle residenze sanitarie abbastanza grandi dove svolgono attività di giardinaggio, di agricoltura o di artigianato. Recentemente alcuni di questi centri come quelli che si trovano negli Stati Uniti ha messo in pratica una filosofia molto interessante secondo la quale non esisterebbe nessun limite ai ruoli professionali che una persona autistica potrebbe occupare, l'importante è che le venga assegnato un supporto adeguato. Si tratta di un approccio importantissimo in quanto «sfata il mito secondo cui l'unico lavoro adatto a una persona con autismo è un lavoro ripetitivo e di basso livello» (Baron- Cohen et al., 2003, p. 129). Non si tratta di utopia, infatti oggi alcune persone affette da autismo lavorano in studi legali, altri fanno i meccanici dimostrando competenza tecnica. Certamente questo è dovuto principalmente ai grandi sforzi sostenuti dagli operatori delle comunità che da sempre tranquillizzano i datori di lavori informandoli del fatto che chi è affetto da autismo non è un soggetto pericoloso e i suoi comportamenti ripetitivi sono spesso causati da un cambiamento avvenuto all'interno della routine quotidiana. Se la diversità inizia ad essere accettata da più datori di lavoro, offrendo a queste persone uguali opportunità, allora la loro integrazione nel mondo del lavoro continuerà a diffondersi. Per favorire questa integrazione lavorativa, negli Stati Uniti si rilasciano delle agevolazioni fiscali a tutti quei datori di lavoro che sono disposti ad assumere una persona affetta da autismo. Ovviamente tutte queste opportunità che vengono concesse hanno più probabilità di avere esito positivo con soggetti autistici meno gravi anche se comunque dovrebbero poter esserci possibilità appropriate a qualsiasi livello. Sicuramente si tratta di una grandissima sfida per il futuro.

86


2.

I NEURONI MIRROR

2.1 La scoperta Perché quando si guarda una partita di calcio o un film oppure mentre si legge un libro o si ascolta una canzone, si prova così tanto trasporto e coinvolgimento? La risposta risiede nei neuroni specchio: si tratta di un insieme di neuroni visuo-motori scoperti nei primati e nell'uomo, che si attivano sia mentre si eseguono delle azioni sia mentre si osservano gli altri compiere le medesime azioni. In colui che osserva avviene « un fenomeno di “rispecchiamento neuronale” del comportamento

dell'osservato»8, come se

l'osservatore

stesse

eseguendo le stesse azioni compiute dall'osservato. Molti ricercatori annoverano la scoperta dei neuroni specchio tra le scoperte più importanti delle neuroscienze negli ultimi anni, tanto che lo scienziato Vilayanur Ramachandran ha asserito: «“I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia”»9. I primi esperimenti eseguiti sui macachi hanno condotto all'individuazione dei neuroni specchio all'interno della corteccia premotoria ventrale ossia dell'area F5 e nel lobo parietale inferiore. All'inizio degli anni Novanta un gruppo di ricercatori dell'Istituto di Fisiologia dell' Università di Parma, diretto da Giacomo Rizzolati e composto da Luciano Fadiga, Leonardo Fogassi, Vittorio Gallese e Giuseppe di Pellegrino sono alle prese con i neuroni motori. Sono tutti neuroscienziati, completamente diversi fra loro dal punto di vista delle loro inclinazioni intellettuali, che hanno dato vita ad una stretta 8 www.psicoanalisi.it 9 Ivi.

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collaborazione in cui ognuno di loro ha fornito un apporto unico a tutto il lavoro collettivo. Le ricerche che stavano svolgendo sulla corteccia premotoria della scimmia mostrarono l'esistenza di neuroni che si attivavano mentre si stavano compiendo delle azioni: non si trattava solo di singoli movimenti ma di vere e proprie azioni finalizzate. Eseguirono un esperimento per studiare i neuroni addetti al controllo del movimento della mano mentre afferrava o maneggiava degli oggetti: tale esperimento coinvolgeva l'area F5 ossia la corteccia premotoria ventrale del macaco (Fig. 6).

Fig. 6: cervello del macaco Fonte: lumiere.ens.fr

L'attivitĂ di ogni singolo neurone veniva registrata mentre la scimmia si dirigeva verso del cibo, in questo modo si potevano monitorare specifici movimenti. Un giorno accade però qualcosa di veramente particolare: durante una pausa tra una registrazione e l'altra, proprio mentre un ricercatore di turno sta portando alla bocca una manciata di noccioline, lo strumento che registra l'attivitĂ dei neuroni del macaco emette un suono molto particolare. Cosa sta succedendo? Davanti all'incredulitĂ

88


del ricercatore, viene registrata l'attività dei neuroni del macaco, che sta, immobile, osservando il ricercatore mentre prende una manciata di noccioline e se le porta alla bocca. In pratica il macaco non si è mosso, «ma i suoi motoneuroni hanno reagito alla vista dell'azione condotta dallo sperimentatore»10. Questo evento così strano si è ripetuto sistematicamente tutte le volte che il ricercatore esegue davanti al macaco un'azione che l'animale ha già avuto modo di sperimentare direttamente. Infatti, poiché in laboratorio si tengono spesso delle noccioline americane utilizzate sia come oggetto con cui le scimmie compivano delle azioni, sia come ricompensa per un compito appena eseguito, capita spesso che durante le pause chi segue gli esperimenti prenda qualche nocciolina dal contenitore preparato per le scimmie. A questo punto si progettano una serie di esperimenti per studiare l'attività dei neuroni della scimmia mentre osserva le azioni compiute dagli altri. In questo modo si scopre che esistono dei neuroni che si attivano sia quando la scimmia compie una determinata azione sia

quando

essa

osserva

la

stessa

azione

compiuta

dallo

sperimentatore. E' proprio per questa capacità di attivarsi riflettendo le azioni degli altri che sono stati chiamati neuroni specchio (mirror neurons). Questi neuroni non si diversificano dagli altri neuroni dell'area F5 per quanto riguarda le proprietà motorie, in quanto anche loro si attivano durante specifici atti motori. La situazione cambia, però, per quanto riguarda le proprietà visive. Infatti i neuroni specchio non reagiscono alla presentazione di cibo o di oggetti, reagiscono, invece, alla vista di determinate azioni, implicanti l'interazione della mano o della bocca con un oggetto, eseguite da un ricercatore o da un'altra scimmia. A questo riguardo è necessario però precisare che 10 www.psicoanalisi.it

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«né i movimenti della mano che si limitano solo a mimare la presa in assenza dell'oggetto né i gesti intransitivi (privi cioè di correlato oggettuale), quali l'alzare le braccia o l'agitare le mani, anche quando sono realizzati con l'intento di

minacciare o di eccitare l'animale,

provochino risposte significative»(Rizzolati, Senigaglia, 2006, p. 80).

2.2 Il ruolo funzionale dei neuroni mirror La funzione principale dei neuroni mirror non è di carattere imitativo come potrebbe sembrare ad un primo esame superficiale. Prima ancora dell'imitazione, essi si trovano alla base del riconoscimento e della comprensione degli atti degli altri. Per comprensione non si intende esclusivamente la consapevolezza da parte del macaco della somiglianza o dell'uguaglianza tra l'azione vista e quella eseguita. Si intende, invece, la capacità immediata di saper riconoscere nelle azioni osservate uno specifico atto, caratterizzato da un particolare tipo di interazione con gli oggetti, di riuscire a differenziare questo tipo di atto da altri. Lo stimolo visivo viene subito codificato partendo dal corrispondente atto motorio, anche in mancanza della realizzazione dell'atto stesso. Nel caso dei neuroni mirror lo stimolo visivo non è costituito da un oggetto, bensì dai movimenti effettuati da un altro soggetto. Allo stesso modo degli oggetti, questi movimenti acquistano significato per chi li osserva in base al vocabolario di azioni posseduto, che

regola l'agire del

soggetto. Nel caso del macaco, tra le sue possibili azioni troviamo l'afferrare il cibo con la mano, il portarlo alla bocca: per questo motivo come il ricercatore dirige la propria mano verso il cibo rappresentando 90


così una possibile presa, l'animale capta subito il significato di quell'azione e capisce che si tratta di uno specifico tipo di atto. In un esperimento condotto sempre con dei macachi, alcuni di loro hanno visto una mano mentre stava afferrando del cibo; successivamente hanno rivisto la stessa scena, solo però parzialmente, in quanto uno schermo era stato posizionato per nascondere alla vista delle scimmie la fase finale, ossia l'afferrare, che è fondamentale per capire l'azione. Gli stessi macachi hanno poi potuto rivedere le medesime azioni, con l'unica differenza che questa volta era assente il cibo. Il risultato è stato che i neuroni mirror si sono attivati sia quando l'azione era totalmente visibile, sia quando era parzialmente nascosta e pertanto doveva essere dedotta: ciò però è accaduto solamente in presenza del cibo. In un altro esperimento gli animali hanno sentito che veniva rotto il guscio

di

una

nocciolina,

ma

erano

impossibilitati ad assistere all'azione. Anche in questo caso i neuroni specchio si sono attivati. Da questi esperimenti si deduce che i macachi coinvolti sono stati in grado di generare una rappresentazione mentale dell'azione, vista o sentita solo parzialmente. In altre parole il comportamento dei neuroni evoca lo stesso atto motorio potenziale sia nel caso in cui la scimmia osserva l'intera azione sia quando ne vede solo una parte: è proprio questo rappresentazione motoria interna che permette all'animale di integrare la parte mancante, sequenza parziale

dei

movimenti

riconoscendo nella

osservati l'intero

significato

dell'azione. Pertanto gli aspetti visivi dell'azione osservata risultano essere importanti solo perché permettono di comprenderla, ma se questa comprensione è possibile anche su altri basi come quelle sonore, allora i neuroni specchio riescono a codificare l'azione 91


compiuta dallo sperimentatore anche in assenza di qualsiasi stimolo visivo. Questo significa che i neuroni mirror non sono attivati da uno determinato tipo di stimolo che può essere visivo, motorio o uditivo, bensì dalla comprensione del comportamento altrui. I neuroni mirror, però, possiedono anche un'altra funzione: forniscono all'osservatore informazioni riguardo non solo l'azione che compie o sta per compiere un altro, ma anche il motivo per cui la sta eseguendo, in altre parole le sue

intenzioni. Questa funzione è stata recentemente

esaminata da Leonardo Fogassi e colleghi, che hanno registrato una serie di neuroni mirror che si attivavano mentre la scimmia afferrava un oggetto, e ne hanno studiato le risposte in un esperimento nel quale si proponevano due situazioni differenti. In una, la scimmia afferrava un pezzo di cibo che le era stato posto di fronte partendo da una posizione stabilita; nell'altra, sempre partendo dalla stessa posizione, afferrava un pezzo di cibo e lo metteva nel contenitore. I risultati ottenuti hanno evidenziato che la maggior parte dei neuroni osservati si attivava in modo completamente diverso a seconda che l'atto motorio successivo all'afferrare l'oggetto fosse il portare alla bocca o il mettere nel contenitore. La cosa, però, ancora più interessante di questo esperimento è che i risultati non sono cambiati quando l'animale è stato messo in condizione di osservare uno sperimentatore mentre eseguiva le stesse identiche azioni. Anche in questo caso i neuroni mirror hanno mostrato un'evidente congruenza tra le risposte motorie e quelle visive. In particolare l'attivazione dei neuroni è risultata maggiore nel momento in cui lo sperimentatore ha afferrato il cibo per portarlo alla bocca rispetto all'afferrare per metterlo nel contenitore. Il risultato di quest'ultimo esperimento ha permesso di dimostrare che i neuroni mirror sono in grado di indicare al macaco 92


l'intenzione dello sperimentatore fin dall'inizio della sua azione, e che «questa intenzione organizza fin dall'inizio tutti gli atti motori che compongono l'azione»(Rizzolati, Vozza, 2008, p. 50). E' fondamentale sottolineare che sia mentre il macaco esegue l'azione sia mentre osserva l'azione effettuata dal ricercatore, i neuroni specchio si attivano quando la mano dell'animale o dello sperimentatore prefigura l'atto di prendere il cibo o l'oggetto. Quindi essi codificano il significato intenzionale dell'azione durante la sua esecuzione fin dal primo movimento compiuto. Quando l'animale muove la mano verso il cibo, sa già chiaramente se lo porterà alla bocca oppure lo metterà nel contenitore. Nella situazione in cui il macaco osservava il ricercatore afferrare il cibo, si trovavano vari indizi che potevano aiutare l'animale a dare un senso all'atto motorio osservato. Tra tali indizi vi era la presenza del contenitore: se era presente, lo sperimentatore vi metteva il cibo, altrimenti lo portava alla bocca. Ma come riesce il macaco a capire cosa farà il ricercatore? Capisce l'intenzione perché simula dentro di sé, anche se in modo del tutto automatico, l'azione compiuta dal ricercatore. Se questi afferra del cibo, sicuramente lo mangerà, se prende un oggetto di plastica sicuramente lo metterà nel contenitore. Quindi sulla base dell'oggetto o del fatto che quell'azione l'animale l'ha già vista fare, si attivano i neuroni mirror di una specifica catena motoria. Pertanto il macaco comprende benissimo cosa lo sperimentatore intende fare.

93


2.3 Il sistema neuronale specchio nell'uomo «La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha suggerito subito l'idea che un sistema di risonanza simile potesse essere presente anche nell'uomo» (Rizzolati et al., 2006, p. 113). La prova più convincente riguardo l'esistenza dei neuroni specchio nell'uomo si deve a degli studi di stimolazione magnetica transcranica (transcranial magnetic stimulation, TMS). Si tratta di una tecnica di stimolazione del sistema nervoso non invasiva. Luciano Fadiga e colleghi hanno stimolato la corteccia motoria sinistra affinché producesse uno stimolo che poi sarebbe stato studiato nel suo viaggio verso i neuroni motori, passando prima per il midollo spinale, per raggiungere infine i muscoli: si tratta dei potenziali motori. Questi potenziali motori sono stati registrati in diversi muscoli della mano e del braccio destri di soggetti a cui era stato chiesto di osservare uno sperimentatore mano oppure faceva gesti

mentre prendeva un oggetto con la

privi

di

riferimento oggettuale. Si è

riscontrato un aumento dei potenziali motori nei muscoli attivati dall'esecuzione dei movimenti osservati. Ma mentre questo aumento durante l'osservazione di atti transitivi ossia diretti verso un oggetto, era in linea con i dati raccolti durante gli studi sul macaco, il loro incremento in occasione dell'osservazione degli atti intransitivi risultava essere stupefacente, perché i neuroni specchio del macaco non si attivano alla vista dei movimenti non finalizzati del braccio. Ma questa non è l'unica differenza tra il sistema specchio dell'uomo e quello della scimmia: è risultato che «i neuroni specchio dell'uomo siano in grado di codificare tanto lo scopo dell'atto motorio, quanto

gli

aspetti

temporali

dei 94

singoli

movimenti che

lo


compongono» (Rizzolati et al., 2006, p. 115). Bisogna, però, precisare che

l'utilizzo

delle

tecniche

elettrofisiologiche

come

l'elettroencefalografia (EEG) o la stimolazione magnetica transcranica (TMS), mentre permettono di rilevare le attivazioni del sistema motorio prodotte nei soggetti umani dall'osservazione di azioni eseguite da altri individui, non permette di localizzare le aree corticali e i circuiti neurali che sono coinvolti e quindi di individuare l'architettura del sistema dei neuroni specchi nell'uomo. Pertanto occorre avvalersi delle metodologie di brain imaging come la tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET) e la risonanza magnetica funzionale per immagini (functional Magnetic Resonance Imaging , fMRI), che permettono di visualizzare in tre dimensioni e con notevole definizione le variazioni del flusso sanguigno nelle varie regioni del cervello, determinate dall'esecuzione e dall'osservazione di particolari atti motori. Sia gli studi di elettrofisiologia sia quelli di brain imaging hanno dimostrato che nell'uomo esistono dei sistemi di “risonanza” simili a quelli scoperti nei macachi. Esistono, però, alcune differenze: - il sistema dei neuroni specchio risulta essere più esteso nell'uomo che nella scimmia, anche se si tratta di una conclusione da prendere con molta cautela a causa delle diverse tecniche usate nella scimmia e nell'uomo; - il sistema dei neuroni specchio dell'uomo possiede delle proprietà che non si riscontrano nella scimmia: 1. codifica atti motori transitivi ed intransitivi; 2. seleziona sia il tipo d'atto sia la sequenza dei movimenti che lo compongono;

3. si attiva anche quando l'azione è solamente mimata, quindi 95


non ha bisogno di una vera e propria interazione con gli oggetti. Al contrario, le analogie esistenti tra il sistema dei neuroni specchio dell'uomo e quello delle scimmie si possono riassumere nei seguenti aspetti: - la vista di atti eseguiti da altri causa nell'osservatore un immediato coinvolgimento delle aree motorie responsabili dell'organizzazione e dell'esecuzione di quegli atti; - questo coinvolgimento permette di comprendere gli atti osservati in termini di azione; - questa comprensione non riguarda solo dei singoli atti, ma delle catene d' atti, e le varie attivazioni del sistema dei neuroni specchio dimostrano che tale sistema è capace di codificare il significato di ogni atto osservato. L'atto dell'osservatore è un atto potenziale, determinato dall'attivazione

dei

neuroni

specchio

capaci

di

codificare

l'informazione sensoriale in termini motori e di rendere, in questo modo, possibile una reciprocità di atti e di intenzioni che sta alla base del riconoscimento immediato da parte dell'uomo del significato dei gesti degli altri. La comprensione delle intenzioni altrui si basa sulla selezione automatica di quelle strategie d'azione che a seconda del nostro patrimonio motorio risultano più adeguate allo scenario osservato. Come vediamo qualcuno eseguire un atto o una serie di atti, i suoi movimenti acquistano subito significato per noi, così come ogni nostra azione acquista un significato immediato per chi la osserva. «Il possesso del sistema dei neuroni specchio e la selettività delle loro risposte determinano così uno spazio d'azione condiviso, all'interno 96


del quale ogni atto e ogni catena d' atti, nostri o altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi, senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata “operazione conoscitiva”» (Rizzolati et al., 2006, p. 127). Nell'uomo i neuroni specchio, oltre ad essere localizzati in aree motorie e premotorie, si trovano anche nell'area di Broca, e nella corteccia parietale inferiore. La loro scoperta ha messo in luce un aspetto fondante della nostra dimensione sociale, della reciprocità che ci mette in condizioni di stabilire relazioni con gli altri. Queste ricerche neuroscientifiche ci forniscono una chiave di lettura biologicamente fondata dell'essere umano, della reciprocità, di come si relaziona agli altri. Inoltre, il funzionamento dei neuroni specchio gioca un ruolo fondamentale anche per la comprensione di come si costituisce l'identità sociale: noi siamo in grado di riconoscere l'altro come simile a noi, dal momento che condividiamo le stesse esperienze, e questo perché abbiamo in comune i medesimi sistemi neurali. Questi neuroni sono importanti per la comprensione delle azioni di altre persone e quindi per l'apprendimento attraverso l'imitazione. Al pari delle scimmie, anche negli uomini i neuroni specchio rispondono al “perché” di un'azione come l'afferrare la tazza per bere o per pulire il tavolo su cui si trova, oltre al “che cosa” immediatamente comprensibile, come l'afferrare la tazza. L'obiettivo di ogni azione è codificato in catene di neuroni che, attivandosi in modo sequenziale, permettono di raggiungere lo scopo di un movimento o di comprendere immediatamente l'intenzione di un'azione compiuta da altri. Ma come si comportano i neuroni specchio dell'uomo quando si trovano ad osservare dei movimenti che non sa eseguire, come il 97


miagolare di un gatto? Dagli esperimenti è risultato che solamente le azioni che fanno parte del repertorio dell'osservatore, come parlare o mordere, vengono riconosciute dal suo sistema motorio e quindi comprese anche come esperienza personale.

2.4 Teoria della mente e Teoria della Simulazione a confronto Si è visto come percepire un'azione in quanto azione, e non solamente come una sequenza di movimenti, quindi comprenderne il significato per noi, equivale a simularla internamente, ossia equivale ad attivare il suo programma motorio anche in assenza della reale esecuzione dell'azione stessa. Questo permette all'osservatore di poter usare le proprie risorse neurali per penetrare il mondo dell'altro dall'interno, utilizzando un meccanismo automatico di simulazione motoria. Si instaura così un legame diretto tra agente ed osservatore, dovuto al fatto che le azioni osservate attivano il patrimonio neurale motorio dell'osservatore. Questo meccanismo non rimane confinato esclusivamente alle azioni corporee

ma

si estende anche

all'esperienza di emozioni o sensazioni. La Teoria della Simulazione pone

solide

basi

per

spiegazione del meccanismo che permette all'uomo di interpretare il comportamento degli altri. Per dimostrare questo userò alcune spiegazioni enunciate dal neurofisiologo italiano Vittorio Gallese, il quale pone delle critiche alla Teoria della Mente (ToM), spiegando il motivo per cui si possa ritenere valida la Teoria della Simulazione. La Teoria della Mente è la capacità di attribuire alle altre persone intenzioni, credenze e desideri, in altre parole stati mentali, 98


mediante

inferenze

dal

comportamento

che

spesso

restano

inconsapevoli. La ToM è l'espressione del cognitivismo classico, per il quale la mente è un sistema funzionale che non elabora direttamente l'informazione che proviene dall'ambiente, ma esegue delle operazioni su oggetti mentali che la rappresentano. Secondo le tesi del cognitivismo classico, le rappresentazioni sono simboliche, e il pensiero deve essere ridotto esclusivamente ad un processo puramente computazionale. Ciò porta ad affermare che il processo di attribuzione degli stati mentali sia concepito solo in termini del tutto simili ad una teoria. Quindi la ToM considera la nostra specie come l'unica portatrice di capacità cognitive: ci sarebbe, quindi, una certa discontinuità cognitiva tra esseri umani e primati non umani. Al contrario, la Teoria della Simulazione ammette

«una

continuità evolutiva tra comportamentismo e mentalismo» (Cappuccio, 2006, p. 312). Ciò fa capire perché la Teoria della Simulazione ha continuamente acquisito consensi tra i neuroscienziati e quei pochi scienziati cognitivi che sono consapevoli della stretta relazione esistente tra meccanismi cerebrali e facoltà cognitive. Secondo Gallese studiare le facoltà cognitive che i primati non umani applicano nell'ambito sociale e i meccanismi nervosi

coinvolti, consente di

comprendere come la mente umana si sia evoluta e il suo funzionamento. «E' ragionevole infatti ipotizzare che questo processo evolutivo abbia proceduto in modo non discontinuo» (Cappuccio, 2006, p. 313). comportamento

Tutte le volte

che ci troviamo di fronte al

altrui, e questo comportamento necessita di una

risposta da parte nostra, reattiva o solo attentiva, noi non ci rendiamo conto di essere coinvolti in un processo d'interpretazione, in quanto 99


solitamente comprendiamo la situazione in maniera automatica ed immediata. Secondo la ToM, quando dobbiamo comprendere il senso del comportamento degli altri, occorre necessariamente tradurre le informazioni sensoriali ad esso relative in una serie di rappresentazioni mentali che, come il linguaggio, possiedono il medesimo formato proposizionale. Questo permetterebbe di attribuire ad altri soggetti intenzioni, desideri e credenze, consentendoci di capire i precedenti mentali del comportamento altrui. Per poter capire meglio questa critica si può utilizzare un esempio che Gallese usa per far comprendere meglio le sue critiche alla ToM. Se mentre sono seduto in un ristorante vedo qualcuno dirigere la mano verso una tazzina di caffè, immediatamente capisco che il mio vicino di tavolo sta per sorseggiare quella bevanda. Il punto critico è: “come ci riesco?”. Secondo l'approccio cognitivista e della ToM, dovrei tradurre i movimenti del mio vicino in una serie di rappresentazioni mentali relative al suo desiderio di bere il caffè, le sue credenze riguardo il fatto che la tazzina che sta per afferrare sia veramente piena di caffè e la sua intenzione di portare la tazza alla bocca per berlo. Ma appare alquanto improbabile che tutto questo avvenga in quanto le nostre metarappresentazioni non bastano a renderci capaci di interpretare le intenzioni che stanno alla base del comportamento altrui. Il cognitivismo classico considera la mente umana come totalmente disincarnata. Per Gallese questa visione del cognitivismo è da rifiutare perché semplicistica e interamente falsa. Noi osserviamo il comportamento degli altri e solitamente riusciamo a capire cosa stanno facendo o cosa stanno per fare. Quindi il comportamento osservato rappresenta il punto di partenza per la 100


nostra comprensione. Occorre, però, chiarire cosa si deve intendere con il termine comprensione: questo è il vero punto critico. E' l'oggetto del comprendere che determina la qualità di questa comprensione e la sua strutturazione. Ma il comportamento altrui non è un dato oggettivo: accettare questo postulato, vorrebbe dire affermare che le intenzioni mentali che guidano il comportamento osservabile degli altri dovrebbe essere interpretato servendosi unicamente degli strumenti cognitivi della mente razionale. Non esiste però una realtà totalmente oggettiva e distinta dal soggetto perché se esistesse non saremmo mai in grado di conoscerla in quanto tale. La realtà è oggettiva perché è formata da una molteplicità di soggetti che la rappresentano. Ad esempio, non ci sono nel mondo i colori oggettivi, ossia colori che esistono indipendentemente dalla nostra facoltà di percepirli., in quanto il colore è il risultato di una serie di fattori. Quindi, il colore non è nel mondo ma nasce dall'interazione tra il mondo e chi lo percepisce. Lo stesso discorso vale per le relazioni interpersonali. «E' impossibile la costituzione di altre persone indipendentemente da noi, e viceversa è impossibile la nostra propria costituzione come persone indipendentemente dagli altri» (Cappuccio, 2006, p. 314). Quando si cerca di capire il comportamento degli altri, il nostro cervello può costruire dei modelli del comportamento altrui proprio come costruisce i modelli del nostro comportamento. Il risultato di questa creazione di modelli ci permette di comprendere e anche di predire le conseguenze del comportamento degli altri, così come ci consente di capire e predire il nostro comportamento. Nella ToM risulta evidente un'altra incomprensione. Infatti, questa teoria non riesce a spiegare le straordinarie capacità di consonanza sociale dimostrate dai bambini che si trovano in età in cui 101


non è ancora sviluppata la capacità di attribuire atteggiamenti intenzionali. Questo non vuol dire che noi non ascriviamo mai intenzioni o desideri, ma solo

che

tali forme

di

mentalismo

occupano una piccolissima parte del nostro spazio mentale sociale in quanto

quest'ultimo

è

multidimensionale.

Queste

dimensioni determinano vari tipi di relazionali che

molteplici

a loro volta

vengono determinate dai vari tipi d'interazione che l'essere umano instaura con il mondo esterno. Tutta questa varietà di relazioni rappresentano i modi infiniti in cui possiamo interagire nel mondo o simulare di farlo. Tutti i tipi d'interazione interpersonale si fondano sullo stesso meccanismo funzionale: la simulazione incarnata su cui si basa la Teoria della Simulazione. La simulazione incarnata è un meccanismo che ci fornisce la possibilità di comprendere direttamente molteplici aspetti dell'agire altrui “dall'interno”. Si tratta di una simulazione legata a come siamo fatti e come funzioniamo nel mondo. La simulazione

incarnata

si

diffonde anche ad altri aspetti

dell'interazione: le emozioni, le sensazioni e la comunicazione linguistica. Gallese sostiene che la simulazione è «la principale strategia epistemica disponibile per organismi viventi come noi, che ricavano la propria conoscenza del mondo in virtù delle interazioni con esso intraprese» (Cappuccio, 2006, p. 316). Non bisogna dimenticare che la rappresentazione della realtà non è una mera copia di ciò che è già dato, bensì un modello interattivo di ciò che non può essere conosciuto in se stesso: ciò vale ancora di più quando l'oggetto rappresentato è un altro essere umano. La Teoria della Simulazione sembra essere così la più convincente e completa per spiegare i modi con cui riusciamo ad 102


interpretare il comportamento degli altri. Questa teoria afferma che per attribuire stati intenzionali a qualcuno, ma anche per spiegarne e prevederne il comportamento, ci mettiamo al suo posto o almeno fingiamo di farlo e, mediante la simulazione, prendiamo coscienza di ciò che faremmo in tali condizioni. Ad esempio per spiegare l'espressione di paura sul volto di un nostro amico, guardiamo nella direzione del suo sguardo per capire il motivo del suo stato. Noi arriviamo a ciò perché, attraverso la simulazione, siamo letteralmente presi da quello stato. Inoltre, la simulazione premette di produrre delle conseguenze simulate che poi diventano previsioni. Il processo di simulazione incarnata si può dire che sia completamente automatico in quanto obbligato e non conscio: non c'è inferenza né introspezione, ma solo una riproduzione automatica e non consapevole degli stati mentali dell'altro. Secondo Gallese, la ToM non offre una spiegazione al fatto che già da bambini, nonostante non sia ancora sviluppata la capacità di attribuire atteggiamenti intenzionali, si comprende il comportamento degli altri e si prevedono le conseguenze. Inoltre la ToM considera questa capacità cognitiva come esclusiva dell'uomo negando così la possibilità che esseri diversi dall'uomo possano avere questa nostra stessa capacità. Al contrario la Teoria della Simulazione risulta essere molto più convincente in quanto rende più credibile l'idea dell'interpretazione tramite un “organismo” che permetta di “mettersi nei panni” degli altri senza cadere nelle difficoltà a cui va incontro la ToM. La Teoria della Simulazione mostra il processo di simulazione come una vera e propria interpretazione dello stato del soggetto osservato, avvalendosi dell'uso di strumenti neuro-sensoriali presenti nell'uomo e non solo. 103


Questa teoria mostra, inoltre, come l'uomo sia legato alla società in quanto presenta una mente incarnata in essa. Infatti, nel processo di simulazione, l'uomo usa l'ambiente come ulteriore strumento utile per la comprensione delle situazioni in cui si trova di volta in volta. La Teoria della Simulazione risulta essere valida perché supportata da prove empiriche che hanno permesso di dare corpo alle critiche sulla ToM.

Inoltre, i sostenitori di quest'ultima teoria sostenevano che

l'esistenza di un meccanismo di interpretazione nell'uomo non derivasse dall'animale o che, l'esistenza di un simile meccanismo non fosse presente in questi. La ToM, però, deve ricredersi anche su questa teoria,

poiché

si

è

dimostrato

che

questo

meccanismo

di

interpretazione è presente nell'animale e che quindi se l'uomo possiede un simile strumento, lo ha ereditato da un suo progenitore. La simulazione incarnata è un processo funzionale che caratterizza la vita mentale perché produce contenuti ricchi di significato. E' anche incarnato non solo in quanto prodotto a livello neuronale, ma soprattutto perché usa modelli preesistenti delle interazioni tra il sistema cervello-corpo e il mondo.

2.5 Immedesimarsi nelle emozioni degli altri L'uomo è un animale sociale, pertanto la sua sopravvivenza dipende anche dalla sua capacità di saper leggere le emozioni degli altri. Infatti, in determinate situazioni le emozioni possono indicare le intenzioni, che possono essere buone o cattive, delle altre persone. Ma come riesce l'uomo a comprendere le emozioni degli altri? Lo stato emotivo di una persona può riuscire a trovare una 104


corrispondenza diretta nell'osservatore, e allora l'osservatore prova la medesima emozione della persona osservata: in questo caso si parla di empatia. Solo recentemente si è dimostrato sperimentalmente che l'osservare un'emozione in un'altra persona causa in chi la osserva l'attivazione della stessa area corticale che risulta attiva quando l'osservatore prova quella emozione. La maggior parte delle nostre interazioni con l'ambiente e dei nostri stessi comportamenti emotivi dipende proprio dalla capacità di percepire e di capire le emozioni altrui. Ci colpisce enormemente vedere una persona impallidire all'improvviso ed iniziare a tremare. Lo stesso vale quando osserviamo una smorfia di disgusto sul volto dell'altro: sicuramente non ci butteremo sul cibo o sulla bevanda che l'hanno provocata. Queste forme di risonanza emotiva offrono molti vantaggi adattivi. Infatti, permettono ad ogni organismo di affrontare in modo efficace eventuali minacce, e consentono l'instaurarsi ed il consolidarsi dei primi rapporti relazionali. In effetti, si sa che dopo solo due o tre giorni, i neonati sembrano riuscire a distinguere un volto contento da uno triste, e che verso il secondo e terzo mese i bambini sviluppano una consonanza affettiva con la madre, tanto che riproducono le sue espressioni facciali o vocalizzazioni che ne riflettono lo stato emotivo. «L'articolazione e differenziazione progressiva del risveglio emotivo indotto dalla percezione delle espressioni altrui permetterebbe loro di realizzare nei mesi successivi alcuni comportamenti sociali elementari quali, per esempio, l'offrire aiuto o conforto a chi appare in difficoltà» (Rizzolati et al., 2006, p. 169). Proviamo a considerare un'emozione primaria: il disgusto, che è un'emozione molto forte e utile per la sopravvivenza degli esseri 105


umani in quanto indica che qualcosa che viene annusato o assaggiato è cattivo e pertanto potenzialmente pericoloso. Per verificare quali aree cerebrali si attivano durante l'osservazione di una reazione di disgusto in un'altra persona, dei volontari sono stati sottoposti ad un esperimento di risonanza magnetica funzionale. In questo esperimento i volontari hanno prima annusato delle sostanze aventi un odore nauseante, successivamente hanno osservato alcuni filmati nei quali si vedevano le facce di persone disgustate dalle medesime sostanze. Il risultato è stato che i due tipi di esperienza causavano nei soggetti l'attivazione della stessa area della corteccia, denominata insula anteriore. Esiste, quindi, un meccanismo che ci consente di capire le emozioni degli altri rivivendole in noi stessi; è un meccanismo molto simile a quello che controlla la comprensione di azioni e intenzioni: si tratta sempre di un meccanismo specchio. Recentemente si è scoperto che l'insula (fig. 7) è l'area corticale primaria non solo per l'olfatto e il gusto ma anche per la ricezione dei segnali relativi agli stati interni corpo (Cfr. Rizzolati et al., 2006).

Fig. 7: Posizionamento dell'insula all'interno del cervello www.mrc-cbu.cam.ac.uk/research/emotion/san/faces.html

106


La cosa veramente interessante è che l'insula è un centro d'integrazione

viscero-motoria,

in

quanto

se

viene

stimolata

elettricamente produce una serie di movimenti corporei che, a differenza di quelli causati dalla stimolazione delle aree motorie, sono seguiti da varie risposte viscerali come l'aumento del battito cardiaco o i conati di vomito. L'insula nell'uomo è molto più grande che nella scimmia, anche se possiede un'organizzazione architettonica molto simile a quella della scimmia. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che l'ampiezza delle attivazioni della corteccia insulare è in funzione di quanto disgusto mostra il volto osservato. «Le informazioni provenienti dalle aree visive che descrivono i volti o i corpi che esprimono un'emozione arrivano direttamente all'insula, dove attivano un meccanismo specchio

autonomo

e

specifico,

in

grado

di

codificarle

immediatamente nei corrispondenti formati emotivi» (Rizzolati et al., 2006, pp. 179-180). L'insula è il centro di tale meccanismo specchio perché non rappresenta solo l'area corticale in cui sono rappresentati gli stati interni del corpo, ma è un centro di integrazione visceromotoria. L'insula non è indispensabile al nostro cervello in quanto riuscirebbe ugualmente a discriminare le emozioni degli altri, con la differenza che queste si ridurrebbero ad una percezione soltanto cognitiva, fredda priva del colore emotivo. Anche se coinvolgono aree corticali diverse, le nostre percezioni degli atti e delle reazioni emotive delle altre persone sono accomunate da un meccanismo specchio che permette al nostro cervello di riconoscere subito ciò che vediamo, sentiamo o immaginiamo fare da altri, in quanto coinvolge le medesime strutture neurali che sono

107


responsabili sia delle nostre azioni sia delle nostre emozioni. «Quali che siano le aree corticali interessate (centri motori o viscero-motori) e il tipo di risonanza indotta, il meccanismo dei neuroni specchio incarna sul piano neurale quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri» (Rizzolati et al., 2006, p. 183).

2.6 Neuroni mirror e linguaggio Oggi sappiamo che l'area di Broca, che è una

delle

aree

deputate al linguaggio, possiede delle proprietà motorie non riconducibili solamente a delle funzioni verbali e ha un'organizzazione simile a quella dell'area omologa presente nella scimmia (F5), attivandosi durante l'esecuzione di movimenti orofacciali, orolaringei; inoltre, proprio come F5, essa è coinvolta in un sistema dei neuroni specchio, che sia nell'uomo che nella scimmia, ha la funzione primaria di collegare il riconoscimento alla produzione dell'azione (Cfr. Rizzolati et al., 2006). Tutto questo sembra suggerire di ricercare le origini del linguaggio nell'evoluzione di un sistema di comunicazione gestuale. E, visto che i motivi che hanno portato a sostenere l'omologia tra

le aree F5 e di Broca (Fig. 8) sono di

tipo

anatomico, e pertanto indipendenti dalla scoperta dei neuroni specchio, in entrambe queste aree il fatto che un tale meccanismo le accomuni , indicherebbe che lo sviluppo del sistema dei neuroni specchio abbia avuto un ruolo fondamentale nella comparsa e

108


successiva evoluzione della capacità umana di comunicare prima a gesti e poi a parole.

Fig. 8: Area di Broca e area di Wernicke

www.ecologiasociale.org/img/speechcenters.jpg

E' dall'uso della mano più che della bocca, che probabilmente «è dipeso lo sviluppo della capacità di articolare i gesti in maniera tale da dare vita a un primo sistema comunicativo aperto in grado di esprimere nuovi significati sfruttando le possibili combinazioni dei singoli movimenti» (Rizzolati et al., 2006, p. 154). Da alcuni esperimenti fatti è risultato che i circuiti responsabili dei movimenti della mano si attivano quando si parla o si legge. Quindi, i circuiti neurali dei gesti sembrano essere collegati a quelli del linguaggio. Inoltre, gli esperimenti hanno dimostrato come i gesti delle mani e della bocca siano regolati da circuiti comuni, i quali danno vita a corrispondenze nelle dimensioni e nella velocità dei movimenti: ad un gesto ampio della mano corrisponde una grande 109


apertura della bocca. «Un'ulteriore indicazione del fatto che esiste una stretta relazione fra gestualità e linguaggio viene da un'osservazione effettuata su alcune persone colpite da afasia parziale» (Rizzolati et al., 2008, p. 95). Si è riscontrato che indicare con un gesto della mano destra uno schermo su cui compaiono degli oggetti può facilitare gli afasaci a pronunciarne il nome, mentre il ricorso a gesti manuali può aiutare persone con lesioni cerebrali a recuperare l'uso della parola. Attraverso un esperimento, è stata misurata l'attivazione delle aree che controllano i muscoli delle labbra e della mano mentre alcuni volontari ascoltavano la lettura di un testo o l'osservazione dei relativi movimenti delle labbra della persona che parlava. Il risultato è stato che sia l'ascolto del parlato sia l'osservazione dei movimenti hanno attivato quelle aree che controllano i muscoli delle labbra e della mano. «Ciò dimostra l'esistenza di neuroni specchio propri dell'uomo che si attivano per specifici suoni del linguaggio parlato prodotti dalla bocca e dalla laringe. Questi neuroni sono stati chiamati neuroni specchio-eco» (Rizzolati et al., 2008, p. 98). Alvin Liberman, un linguista americano, ha studiato per lungo tempo la struttura dei fonemi, ossia dei suoni che formano le parole. Liberman ha osservato che gli esseri umani, quando ascoltano il linguaggio parlato, sono molto bravi a riconoscere i singoli fonemi, nonostante tutte le varianti acustiche con cui si presentano alle nostre orecchie. Da questa e da altre osservazioni è arrivato alla conclusione che il linguaggio umano non è dato dalla somma e dalla combinazione di toni. I suoni del linguaggio umano possiedono la capacità straordinaria di evocare in coloro che ascoltano la stessa sequenza motoria di quella utilizzata da colui che parla per produrre lo stesso 110


fonema. «La scoperta dei neuroni specchio-eco ha dato una prova sperimentale alla teoria Liberman. A livello neuronale questa particolarità dei suoni verbali risiede nella capacità che tali suoni hanno di attivare i neuroni specchio-eco e di evocare quindi i movimenti che la nostra bocca o la nostra laringe dovrebbe eseguire per riprodurre quei fonemi» (Rizzolati et al., 2008, p. 99). Secondo le prove sperimentali che sono state realizzate negli ultimi anni, i gesti sembrano essere un antecedente del linguaggio umano. Si ritiene addirittura che nel passaggio allo Homo sapiens avvenuto 250.000 anni fa ci sia stata un'evoluzione del sistema dei neuroni specchio, evoluzione che rispondeva allo sviluppo motorio e all'accrescimento delle capacità di comunicare tramite gesti che si facevano più articolati e che venivano anche abbinati a delle vocalizzazioni. Pertanto, il fatto che la principale area del linguaggio del cervello umano sia fondamentale per l'imitazione e contenga i neuroni specchio produce una visione completamente nuova del linguaggio e della cognizione in generale. I neuroni specchio ci aiutano a capire ciò che leggiamo attraverso una simulazione interna dell'azione che è menzionata all'interno della frase: mentre leggiamo i neuroni specchio simulano le azioni che sono descritte nel romanzo, e lo fa come se le stessimo compiendo noi stessi (Cfr. Iacoboni, 2008). Affinchè una comunicazione vada a buon fine occorrono due condizioni fondamentali: la parità e la comprensione diretta dell'azione. Due persone si trovano in condizione di parità quando quello che è importante per il mittente lo è anche per il destinatario, e capiscono direttamente le rispettive azioni quando non sono costretti a stabilire prima un accordo su dei simboli arbitrari. Entrambe queste condizioni risultano essere soddisfatte dai meccanismi specchio. 111


Infatti, consentono di comprendere il senso di azioni eseguite dagli altri in modo immediato, senza il bisogno di un ragionamento razionale, e sono uno strumento di parità in quanto rappresentano la base neurale comune. Sicuramente sono necessarie ulteriori prove sperimentali per poter analizzare nella sua interezza tutta la storia evolutiva della comunicazione umana.

2.7 Neuroni mirror in soggetti autistici Uno dei principali motivi che hanno spinto Giacomo Rizzolati e i suoi colleghi di Parma a dar inizio ai loro esperimenti con i macachi, è stata la speranza di poter fare nuove scoperte che avrebbero permesso di poter ripristinare le funzioni motorie compromesse in seguito a danni cerebrali. Non si aspettavano sicuramente di scoprire i neuroni specchio, ma poiché le varie sperimentazioni hanno mostrato che i neuroni specchio esplicano un preciso ruolo nell'apprendimento e nel comportamento sociale, si prospettava uno dei sogni più grandi: riuscire a saperne di più su alcuni disordini sociali come l'autismo, e su nuovi trattamenti efficaci da poter applicare a questi pazienti. Simon Baron-Cohen, Uta Frith, e Alan Leslie sono giunti alla conclusione che «una delle maggiori anomalie degli individui autistici è l'incapacità di costruire una “teoria della mente degli altri”» (Rizzolati et al., 2008, p. 71). Oggi grazie alla scoperta dei meccanismi specchio alcuni ricercatori si sono chiesti se certe anomalie dell'interazione sociale, così come l'incapacità di costruire una teoria della mente, siano causate nei soggetti autistici da un 112


malfunzionamento dei neuroni specchio. E così si è iniziato a pensare al modo di verificare quest'ipotesi. La funzione del TOMM ossia del meccanismo della mente, illustrato nel capitolo precedente, è di desumere gli stati mentali del soggetto dall'osservazione di tutti i suoi aspetti. I soggetti autistici, non possiedono la capacità di attribuire stati mentali ad altri . In effetti, questo procedimento di rappresentazione mentale inizia dall'osservazione di azioni altrui ed è supportato dall'attivazione di una popolazione di neuroni: come considerato in precedenza, sono proprio i neuroni specchio ad essere responsabili della rappresentazione interna di azioni osservate, al fine di poterle comprendere e quindi riprodurle mediante la loro imitazione. Di conseguenza proprio queste tipologie neuronali sono la base per fare funzionare correttamente il TOMM. A Montreal

un

gruppo

di

ricerca, attualmente,

sta

utilizzando l'elettroencefalografia (EEG) per studiare il sistema dei neuroni specchio nei bambini grandi, in quanto se i neuroni specchio sono molto importanti nel primo sviluppo infantile, si può benissimo immaginare quanto debbano esserlo per i più grandi. Infatti poiché il sistema dei neuroni specchio è così importante per il comportamento sociale, come non potrebbe essere determinante nella fase dell'adolescenza. L'utilizzo di questa tecnologia si fonda su un fenomeno chiamato ritmo mu, che è «l'espressione dell'attività elettrica oscillatoria che può essere registrata sulle regioni motorie del cervello» (Iacoboni, 2008, p. 141). Il ritmo mu risulta soppresso quando, ad esempio, si muove una mano. Tale correlazione inversa tra ritmo mu e attività motoria si è rivelata utilissima ai neuroscienziati, in quanto la sua soppressione indica attività motoria nel cervello. Quando ci limitiamo ad osservare solamente i movimenti degli altri, 113


potremmo pensare che il ritmo mu non venga soppresso perché non ci stiamo muovendo. Ma oggi grazie

alla conoscenza dei neuroni

specchio, non ci sorprende scoprire che anche la sola osservazione di altre persone che eseguono delle azioni sopprime il ritmo mu nel cervello. Questo stesso fenomeno venne scoperto anni prima da Riitta Hari e Giacomo Rizzolatti, utilizzando la magnetoencefalografia (MEG), una tecnica di neuroimagin. La MEG utilizza circa trecento sensori per captare ogni campo magnetico che si forma in modo spontaneo sulla superficie del cervello attraverso l'attività elettrica che si svolge al suo interno. Tali campi magnetici sono generati dall'attività dei neuroni situati sulle parti protuberanti della superficie del cervello. In seguito a questo esperimento altri ricercatori hanno continuato a mettere a punto lo studio sulla soppressione del ritmo mu in bambini normali, non affetti da autismo, tra i quattro e gli undici anni di età, ai quali si chiedeva sia di afferrare un oggetto che di osservare un altro fare la stessa cosa. Usando la EEG è risultato che il ritmo mu figurava soppresso sia durante l'esecuzione dell'azione di afferramento che durante la pura osservazione della medesima: ciò dimostra il buon funzionamento dei neuroni specchio anche in bambini più grandi. Quindi, la registrazione del blocco del ritmo mu durante l'osservazione delle azioni degli altri è un modo semplicissimo e per niente invasivo per testare la funzionalità dei neuroni specchio: se il ritmo mu si blocca vuol dire che i neuroni specchio funzionano, se al contrario non si blocca allora i neuroni specchio non funzionano. Successivamente, si è paragonato l'elettroencefalogramma di dieci bambini autistici con quello di dieci bambini sani. L'attività elettrica è stata registrata in due fasi: nella prima, i bambini hanno compiuto alcuni movimenti con le mani mentre nella seconda hanno 114


visionato un filmato in cui i medesimi movimenti venivano eseguiti da un'altra

persona.

Per

quanto

riguarda

la

prima

fase,

gli

elettroencefalogrammi dei due gruppi di bambini non risultavano particolarmente diversi: infatti, durante i movimenti volontari il ritmo mu risultava soppresso sia nei bambini malati che in quelli sani, perciò i neuroni specchio si attivavano normalmente. Invece nella seconda fase, il ritmo mu risultava bloccato solo nei bambini sani e non in quelli autistici. Questi risultati hanno dimostrato che nei soggetti autistici è presente un deficit del sistema dei neuroni specchio, mentre il sistema di comando motorio risulta essere totalmente funzionante. Queste scoperte offrono nuove possibilità di diagnosi e nuove forme di terapia riguardo l'autismo, soprattutto per i sintomi legati al cattivo funzionamento dei neuroni specchio. Quindi, la diagnosi di autismo potrebbe avvenire nei bambini in tempi molto più precoci. Questo permetterebbe di poter iniziare le terapie prima della comparsa dei sintomi principali: un fatto importantissimo, dal momento che le terapie perdono la loro efficacia se si continua a ritardare il loro inizio. Questi studi però non si sono spinti ad indagare se ed eventualmente in che misura il sistema dei neuroni specchio sia correlato alla competenza sociale e all'empatia. Per poter studiare questo aspetto si è deciso di esaminare la fase più difficile dello sviluppo umano: l'adolescenza. Sono stati reclutati un gruppo di preadolescenti e si è deciso di seguirli fino all'età di quindici anni. In questo modo si è potuto osservare come, in bambini di dieci anni con uno sviluppo normale, l'attività del sistema dei neuroni specchio si pone in relazione con le loro competenze sociali. Analizzando i risultati ottenuti si è potuto constatare quanto siano fondamentali i neuroni specchio per il comportamento sociale. «E' come se l'attività 115


dei neuroni specchio sia una sorta di bioindicatore delle competenze sociali umane – un bioindicatore peraltro molto sensibile, dato che l'empatia emotiva, la capacità di entrare in risonanza con le emozioni altrui, è principalmente un'esperienza intima» (Iacoboni, 2008, p. 145). Durante questi esperimenti si è anche esaminato le connessioni funzionali esistenti tra il sistema dei neuroni specchio e i centri cerebrali emozionali: connessioni che permettono di comprendere gli stati emotivi degli altri, favorendo così l'empatia. Il risultato che ne è conseguito è stato la rilevazione di una forte correlazione tra empatia emotiva ed attività cerebrale mentre i bambini stavano solamente osservando le emozioni di altri soggetti. Imitare le espressioni delle altre

persone

è

considerato

dell'interazione. Infatti se dispiacere e gli altri

un

aspetto

molto

si lasciasse trasparire

importante un profondo

rispondessero con un'espressione impietrita,

molto probabilmente ci si sentirebbe incompresi. La reciproca imitazione è un aspetto chiave dell'interazione sociale. I risultati ottenuti con questi bambini hanno mostrato fino a che punto il sistema dei neuroni specchio sia importante durante la fase iniziale della nostra vita, la formazione delle nostre abilità empatiche e delle nostre competenze sociali. La dimensione sociale possiede un ruolo decisivo nelle interazioni che caratterizzano il nostro rapporto con il mondo. Il comportamento sociale

non è una caratteristica

esclusiva dei primati: si trova diffuso in specie diverse ed anche lontane da noi dal punto di vista evolutivo. All'interno di specie animali diverse, le interazioni sociali hanno, comunque, ruoli diversi e sono anche molto probabilmente sostenute da meccanismi diversi (Cfr. Ballerini et al., 2006, p. 225). I neuroni specchio sono cellule cerebrali specializzate nel 116


comprendere la nostra condizione esistenziale ed il nostro essere in relazione con gli altri: sono cellule del cervello che attribuiscono alla nostra esperienza, fatta soprattutto di interazioni con altre persone, un significato profondo. «Dimostrano che non siamo strutturati come esseri

soli, bensì

abbiamo una

base

biologica,

modellata

attraverso l'evoluzione, che ci conduce a una profonda connessione reciproca con i

nostri

simili» (Iacoboni, 2008, p. 229). Sono

soprattutto i neuroni specchio a vincolarci agli altri. Loro sono la prova del nostro modo di interagire con gli altri e di capirli: dimostrano che l'evoluzione ha predisposto l'essere umano all'empatia. Questa interdipendenza fra noi e l'altro soggetto, resa possibile dalla presenza dei neuroni specchio, configura tutte le nostre relazioni. Ed è proprio in queste relazioni sociali che il nostro incontro con l'altro si trasforma in un valore esistenziale condiviso in grado di unire a fondo gli uomini. Riitta Hari recentemente ha eseguito uno studio in pazienti affetti dalla sindrome di Asperger, una forma più lieve di autismo, relativo al modo in cui l'attività cerebrale differisce dalla norma. Ai pazienti veniva chiesto di imitare una serie di semplicissimi movimenti della bocca e del volto, come la protrusione delle labbra, l'apertura della bocca, la contrazione delle guance: si tratta di movimenti che non esprimono nessun tipo di stato emotivo. Per eseguire questo esperimento, Riitta Hari si è servita della MEG per rilevare anche i più leggeri campi magnetici che l'attività elettrica delle cellule nervose crea attorno alla testa, con la possibilità di poter captare eventi cerebrali della durata di pochi millisecondi. Si tratta di un intervallo brevissimo, che permette di esaminare il progredire dell'attivazione in aree diverse del cervello. Hari e i suoi 117


colleghi sono riusciti a rilevare i tempi di attivazione del sistema dei neuroni specchio, riscontrando che durante l'imitazione i pazienti autistici attivavano le stesse aree cerebrali dei soggetti sani, «ma con un'attivazione ritardata nelle aree dei neuroni specchio del lobo frontale» (Iacoboni, 2008, p. 151). Quindi, la comunicazione neurale fra i neuroni specchio risultava troppo lenta: in questi soggetti l'insieme delle connessioni non funzionava nel modo corretto, creando così dei problemi nel comportamento sociale. Sia questi che altri esperimenti condotti negli ultimi anni da diversi ricercatori ed avvalendosi di tecniche diverse, regolarmente pubblicati su riviste scientifiche, concordano nell'ipotizzare l'esistenza di un deficit dei neuroni specchio nei soggetti autistici. Peter Hobson aveva affermato che le persone autistiche hanno evidenti problemi ad imitare in quanto hanno forti difficoltà ad immedesimarsi negli altri: pertanto il deficit principale delle persone autistiche è proprio l'impossibilità del rispecchiamento, il quale permette alle persone di avvicinarsi l'una all'altra dando loro il modo di potersi mettere in relazione reciproca sul piano emozionale. Esiste, però, ancora un aspetto che i tanti studi recenti non hanno affrontato: «la portata funzionale di un deficit dei neuroni specchio» (Iacoboni, 2008, p. 152). Infatti non era stato ancora verificato da nessuno se la riduzione dell'attività dei neuroni specchio fosse o non fosse correlata alla severità clinica dei singoli soggetti autistici. E'

stata

Mirella

Dapretto,

neuroscienziata

americana

dell'università di Los Angeles, a decidere per prima di indagare su questi aspetti rimasti inesplorati ispirandosi ad un suo esperimento di neuroimaging11 su bambini aventi uno sviluppo normale mentre 11 Si tratta dell'uso di tecnologie di neuroimmagine in grado di misurare il metabolismo

cerebrale, per analizzare e studiare la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e

118


osservavano e imitavano espressioni emozionali facciali. I bambini autistici, mentre osservavano e imitavano le varie espressioni facciali, riportavano nelle aree dei neuroni specchio un'attività molto inferiore rispetto ai bambini sani. Inoltre Mirella rilevò una evidente correlazione tra l'attività presente nelle aree dei neuroni specchio e la gravità della malattia: maggiore era la compromissione nei soggetti, più scarsa risultava essere l'attività in queste specifiche aree cerebrali. Questo studio ha dimostrato che un deficit dei neuroni specchio è veramente un fattore chiave per i disordini sociali delle persone affette da autismo. E come accade sempre con un esperimento scientifico efficace, questa ricerca ha dato vita a nuove domande: per quale motivo in alcuni bambini i neuroni specchio presentano delle disfunzioni e come si può fare per rimediarvi?

2.8 Dubbi e perplessità Il deficit dei neuroni specchio non fornisce però le risposte e le spiegazioni a tutte le manifestazioni dell'autismo. Esistono sintomi, quali l'ipersensibilità ad alcuni suoni, l'evitare il contatto visivo o i movimenti ripetitivi del corpo, per i quali è molto probabile che subentrino dei mal funzionamenti di altri meccanismi cerebrali. Nei primi anni Novanta è stata elaborata una teoria chiamata salience landscape e che in italiano viene tradotta con “mappa delle emozioni”. specifiche funzioni cerebrali. E' uno strumento di primaria importanza nelle neuroscienze e in neuropsicologia.

119


Quando noi osserviamo il mondo che ci circonda, i nostri sensi vengono investiti da un enorme quantità di informazioni, come suoni, odori, rumori. Tutte queste informazioni vengono inviate tramite le varie aree sensoriali all'amigdala, che si trova in ogni emisfero alla base del cervello. L’amigdala è

specializzata

nelle questioni

emozionali e funziona come un archivio della memoria emozionale: pertanto è depositaria del significato stesso degli eventi. La vita senza essa è un’esistenza spogliata di significato personale. Tutte le passioni dipendono da essa. Infatti le lacrime, un segnale emozionale esclusivo degli esseri umani, sono stimolate da essa. Asportandola negli animali, questi perdono ogni impulso a cooperare o a competere e non provano più rabbia o paura.

Nel momento in cui riceve tutte quelle

informazioni provenienti dai sensi, l'amigdala inizia a paragonarle con le esperienze già accumulate nell'archivio cerebrale, per poi stabilire se, ad esempio, la paura è una relazione appropriata alla vista di un animale feroce, o se il piacere lo è alla carezza di una persona amata. Sono

tutti

meccanismi

automatici

di

cui

non

possediamo

consapevolezza. L'amigdala ci comanda di reagire immediatamente ad una situazione presente, secondo delle modalità che sono state fissate molto tempo prima: si tratta di pensieri, emozioni e reazioni apprese e fissate in risposta ad eventi abbastanza simili. Nel tempo l'amigdala organizza tutti gli stimoli sensoriali ricevuti e le relative reazioni emotive suscitate in una sorta di «carta geografica in tre dimensioni, nella quale l'altezza dei rilievi è direttamente proporzionale all'intensità della reazione emotiva prodotta da ciascuna esperienza» (Rizzolati et al., 2008, p. 75). L'insieme di questi rilievi forma la mappa delle emozioni, alla quale si ricorre come misura di riferimento tutte le volte che si manifesta una nuova situazione sensoriale. 120


Può essere che nei soggetti autistici ci sia una distorsione della mappa emotiva, provocata da connessioni nervose alterate fra le aree sensoriali e l'amigdala o fra queste e altri parti del sistema nervoso. Ci sarebbe, quindi, un archivio di disinformazioni che renderebbe l'amigdala incapace di prendere decisioni adeguate mentre il corpo produrrebbe reazioni per niente regolate allo stimolo. Queste reazioni anomali provocherebbero una vera e propria tempesta emotiva: per tale motivo

i bambini autistici

avrebbero

imparato a evitare il contatto visivo o l'incontro con tipi di sensazioni a loro completamente estranee. Ed è ancora la distorsione della mappa delle emozioni che potrebbe fornirci il motivo per cui i bambini autistici spesso manifestano tanto interesse per piccole cose prive di significato, mentre non si esaltano per ciò che solitamente interessa i loro coetanei normali. Molto probabilmente, in futuro, ulteriori ricerche su questa controversa teoria, oltre che agli studi sui neuroni specchio, ci potranno guidare verso un insieme piÚ unificato delle cause dell'autismo, permettendoci di elaborare nuovi metodi di diagnosi e di mettere in pratica nuove terapie piÚ efficienti delle esistenti.

121


3.

TRATTAMENTO DELL'AUTISMO

3.1 Strategie d'intervento 3.1.1 L'intervento precoce di Lovaas E' a Lovaas che si deve l'elaborazione di una strategia di intervento da utilizzare con i bambini autistici: è un tipo di intervento che si basa sui principi dell'analisi applicata del comportamento (Applied Behavior Analysis) e che ha fornito dei risultati molto importanti. Per la teoria comportamentista, l'autismo è una patologia neurologica che si concretizza in specifici comportamenti soggetti a cambiamenti provocati dalle interazioni con l'ambiente. «L'obiettivo dell'intervento

condotto

secondo

i

principi

della

psicologia

behaviorista, comunque, è quello di portare il bambino alla capacità di apprendere autonomamente dall'interazione con il suo ambiente» (Cottini, 2008, p. 17). Quello proposto da Lovaas è un intervento precoce di tipo comportamentale, detto anche “Young Autistic Project”, che si basa su alcuni principi organizzativi e tecnico-metodologico. Il primo di questi principi sostiene che il luogo dove eseguire l'intervento non è più la clinica ma la casa, la scuola e tutti gli ambienti in cui il soggetto trascorre la maggior parte del suo tempo. E' necessario aiutare il bambino autistico a vivere in un mondo reale piuttosto che in uno artificiale

come

un'istituzione. C'è quindi un cambiamento di

prospettiva: il responsabile dell'intervento non è più lo psicologo o il medico come avveniva in passato, bensì l'insegnante e i genitori che

122


devono però essere formati adeguatamente. Il secondo principio che fonda il trattamento di Lovaas riguarda l'intervento e più precisamente l'età in cui dovrebbe essere iniziato e la modalità con cui dovrebbe essere condotto. L'età ottimale è prima dei 5 anni: infatti i risultati migliori sono stati ottenuti con bambini che hanno iniziato il trattamento intorno ai 2 o 3 anni. Inoltre l'intervento precoce deve essere condotto in modo intensivo, ossia con interventi quotidiani e prolungati in modo da prevedere almeno 30 ore di lavoro settimanali. E' importante anche mantenerlo nel tempo: infatti dopo due anni, si iniziano a vedere delle modifiche molto profonde. Un altro principio verte sulla valutazione dei diversi comportamenti dei bambini: è fondamentale condurre una valutazione all'insegna dell'attenzione e della scrupolosità più assoluta in modo da essere poi in grado di determinare le condotte da potenziare e quelle da ridurre ed eliminare mediante l'intervento precoce. Un

successivo

principio

si

focalizza

sul

procedere

dell'intervento, che ha come obiettivo il proporre delle abilità essenziali per poter condurre una vita il più possibile autonoma. Obiettivo che, a parere di Lovaas, può essere raggiunto mediante l'insegnamento di unità di comportamento inizialmente piccole e successivamente molto più ampie, il tutto condotto attraverso un continuo controllo. Inoltre, è fondamentale adattare le proposte alle esigenze del bambino dando la giusta importanza ai feedback che invia. L'ultimo principio si concentra su uno dei problemi più importanti che solitamente si incontra quando si lavora con i bambini autistici: si tratta della mancanza di generalizzazione delle capacità acquisite. Si è osservato che spesso i progressi che sono stati ottenuti 123


mediante programmi specifici, finiscono con il restare vincolati sia ai luoghi dove si è svolto tutto il percorso di intervento sia alle persone che hanno condotto tale percorso. Questo dato di fatto ha portato alla luce la necessità di un intervento da implementare in tutti gli ambienti di vita del bambino e dell'utilizzo di tecniche particolari in grado di semplificare e facilitare il processo di transfert di quanto appreso. La progettazione di un programma di intervento personalizzato per un soggetto autistico deve assolutamente iniziare con una accurata valutazione sia delle sue capacità che delle sue carenze nei vari ambiti cognitivi e comportamentali. Per poter modificare il comportamento di questi soggetti ci si avvale di tre tipi diversi di analisi: 1- una valutazione qualitativa delle abilità e delle difficoltà, che prevede l'uso di check-list: si tratta di elenchi di abilità e di determinati comportamenti, che consentono di poter verificare la loro presenza o assenza. Le check-list possono essere: - globali quando valutano tutti le aree di abilità del soggetto, senza però spingersi fino in profondità: è il primo strumento di cui servirsi; - a focalizzazione crescente quando sono più specifiche e considerano solamente quelle aree che si sono mostrate carenti con il tipo di checklist precedente; 2- una valutazione quantitativa dei problemi comportamentali, quando si valutano anche frequenza, durata e intensità. La frequenza indica quante volte un certo tipo di comportamento si manifesta in una determinata situazione. Si utilizzano delle schede sulle quali riportare tutte le volte che si manifesta il comportamento. La durata indica il periodo di tempo in cui il comportamento che si sta osservando si manifesta. 3- una valutazione funzionale, il cui obiettivo è capire i motivi che 124


stanno alla base dei comportamenti problema. Tale valutazione mette in luce i rapporti esistenti fra il comportamento osservato e l'ambiente. L'intervento precoce di tipo comportamentale ha l'obiettivo di far acquisire ai soggetti autistici competenze come la capacità di imitazione, di comunicazione, di relazione e il raggiungimento dell'autonomia. Per raggiungere questo obiettivo si avvale delle seguenti strategie: 1- tecnica dell'aiuto (prompting) e attenuazione dell'aiuto (fading). Consiste nell'introduzione di uno o più stimoli per aiutare il soggetto a fornirci una determinata risposta. Questi stimoli rappresentano delle facilitazioni (prompt) e introducono veramente un elemento nuovo all'interno della situazione. I prompt possono essere: • suggerimenti

verbali:

sono

aiuti

solitamente

usati

per

semplificare la comprensione del compito; • indicazioni gestuali: sono gesti specifici utilizzati per stimolare determinati comportamenti o per ridurne altri;

• guida fisica: ci si avvale di un contatto fisico per guidare il soggetto nell'esecuzione di determinati compiti. Questi prompt fisici sono molto utili nell'apprendimento dell'autonomia. E' fondamentale che i prompt siano utilizzati solo nella fase iniziale dell'intervento precoce, poi devono essere assolutamente ridotti ed infine eliminati. In tal modo si impedisce ai soggetti di diventare totalmente dipendenti da questi aiuti. Nel momento in cui il soggetto ha consolidato un determinato comportamento, occorre che questo dipenda solo dagli stimoli naturali ossia presenti nell'ambiente. Per questo motivo si introduce un'altra strategia, detta fading, che serve per ridurre gli aiuti forniti. 2- Il modellamento (modeling): « consiste 125

nella

promozione

di


esperienze di apprendimento attraverso del comportamento di

un

soggetto che funge da modello» (Cottini, 2008, p. 31). 3- Il modellamento (shaping): consiste nel rinforzo di

quei

comportamenti presenti nel soggetto che più si avvicinano a quelli desiderati. E' una delle tecniche più utili, che permette di insegnare anche vari tipi di abilità. 4- Il concatenamento (chaining): si tratta di una strategia usata per insegnare abilità particolarmente complesse, formate da più sequenze di comportamenti come le abilità di autonomia. Consiste nel rappresentare le varie fasi che compongono un'abilità complessa, per poi insegnare al soggetto a compierle nella giusta successione temporale: un esempio può essere dato dalla capacità di vestirsi e di svestirsi. Caratteristica del concatenamento è l'uso del rinforzo gradino per gradino: come il comportamento previsto nella prima fase viene appreso, si procede a rinforzare il gradino successivo solamente quando il comportamento previsto è stato eseguito insieme a quello precedente; una volta concatenate le due fasi, si procede con la terza che sarà rinforzata solo quando il comportamento previsto in tale fase verrà espresso in sequenza agli altri precedenti e così via. 5- Tecniche di rinforzo: sono tipiche dell'approccio comportamentista. Per Skinner il rinforzo, fatto seguire a un determinato comportamento, aumenta la probabilità che tale comportamento si ripresenti in futuro. Esistono dei programmi di rinforzamento, il più semplice è quello definito di “ tipo continuo in cui il rinforzo viene rilasciato ogni volta che si verifica il comportamento richiesto. Invece, quando il rinforzo è rilasciato solamente in alcune occasioni si parla di programma di “rinforzamento intermittente”, che si articola in quattro iter: 126


- programma a rapporto fisso, in cui il rinforzo viene rilasciato dopo un certo numero di risposte; - programma a rapporto variabile, dove varia il numero dei comportamenti fra ogni risposta rinforzata. Questo numero dei comportamenti può aumentare nel tempo in modo che la risposta sia sempre meno dipendente dal rinforzo; - programma ad intervallo fisso, in cui il rinforzo si rilascia solo dopo un certo periodo di tempo trascorso dal precedente rinforzo; - programma ad intervallo variabile, dove il rinforzo si elargisce dopo aver ricevuto delle risposte che vengono prodotte in intervalli di tempo sempre diversi. Questi intervalli possono essere accresciuti progressivamente fino a quando risultano talmente lontani l'uno dall'altro che i soggetti sono in grado di mantenere il loro comportamento senza aver più bisogno di nessun tipo di rinforzo. Per utilizzare correttamente i rinforzatori è necessario che siano rilasciati subito dopo che è stato eseguito il comportamento desiderato. Inoltre è importante che non rimangano delle risposte positive prive di rinforzi, soprattutto all'inizio dell'intervento. E' necessario provvedere, dopo non molto tempo, alla sostituzione graduale dei rinforzatori di tipo materiale con quelli più naturali come

la

lode

o

l'approvazione.

E'

però

controproducente

avvalersi continuamente dello schema di rinforzo in quanto, nel momento in cui non venisse più somministrato il rinforzo, il comportamento, ormai totalmente dipendente dal rinforzatore, si estinguerebbe. Per far in modo che l'apprendimento stimolato rientri nelle capacità del soggetto, occorre utilizzare schemi di rinforzo intermittente che appaiono sicuramente più. 127


Perché l'apprendimento possa definirsi realmente tale occorre «un mantenimento nel tempo delle abilità acquisite e la loro generalizzazione in contesti differenti da quelli in cui è avvenuto il training» (Cottini, 2008, p. 37). Per realizzare questa generalizzazione si possono utilizzare varie strategie. Una strategia può essere quella di estendere il training anche alle situazioni dove non si è verificata la generalizzazione. Quindi, se un soggetto autistico fornisce una risposta corretta solo in una situazione del tutto uguale a quella in cui è stato effettuato il training, allora bisognerà insegnare al soggetto a produrre risposte corrette anche in situazioni simili. Si tratta di una procedura che richiede molto tempo, ma che risulta essere adatta a soggetti con grave ritardo mentale. Un'altra strategia è insegnare avvalendosi di stimoli e rinforzi simili a quelli presenti nell'ambiente. I coetanei dei bambini sono stimoli comuni sia al processo d'insegnamento che a quello di generalizzazione. Fino a ora ho parlato di strategie utilizzate per facilitare l'apprendimento, ma esistono anche diverse strategie di intervento per controllare e ridurre i comportamenti problematici, soprattutto quelli aggressivi e autolesionistici, incluse anche alcune stereotipie. Quest'ultimo tipo di strategie si divide in strategie non punitive, punitive e la token economy. Fanno parte del primo tipo il rinforzamento differenziale e l'estinzione. La prima strategia consiste nel ridurre i comportamenti problematici senza l'uso di punizioni ma utilizzando il rinforzo di comportamenti inconciliabili con quello non adeguato. Poiché esistono dei

comportamenti

completamente

incompatibili

tra

loro,

il

comportamento problematico può essere ridotto rinforzando quello incompatibile. Quindi un bambino non riuscirà a picchiare il 128


compagno di banco se le sue mani saranno impegnate in un'attività più positiva. La seconda strategia è l'estinzione: un comportamento si estingue se non viene mai seguito da alcun rinforzatore. Alcuni comportamenti aggressivi spesso vengono rinforzati, soprattutto nell'ambito scolastico, dall'attenzione che l'insegnante mostra nei confronti del bambino che li compie. In questo caso, la strategia di estinzione propone di ignorare totalmente il bambino che mette in atto tali comportamenti, adottando un atteggiamento molto calmo. Le strategie punitive sono da usare solamente nel caso in cui quelle non punitive si sono dimostrate inefficaci. Le principali strategie punitive sono il time out e la restrizione fisica. Il time out è la sospensione di ogni agente rinforzante. Al bambino che mostra un comportamento problematico viene tolto ogni tipo di rinforzatore e spesso viene isolato in una stanza fino a quando il comportamento pericoloso termina. La restrizione fisica consiste nell'inibizione motoria del soggetto per non consentirgli di ledere agli altri e anche a sé stesso. La token economy è una strategia sofisticata, complessa e difficile da condurre. Si basa sull'uso dei token (gettoni) che sono i rinforzatori perché si possono scambiare per ottenere diversi privilegi. I token si ottengono quando si producono i comportamenti richiesti, ma contemporaneamente si possono anche perdere qualora si producano comportamenti non adeguati. Perché questa strategia risulti efficace bisogna rispettare una serie di principi: 1. determinare quali attività sono da premiare con i token;

2. stilare un elenco di ricompense, ossia una graduatoria di cose o di privilegi molto desiderati dal bambino, che per ottenerli deve 129


mettere da parte un certo numero di gettoni; 3. stabilire il costo di ogni ricompensa: le ricompense più desiderate devono essere anche le più costose; 4. stabilire la quantità di token da consegnare al bambino per i suoi

comportamenti positivi: i comportamenti deboli dovranno essere stimolati dando una quantità maggiore di token; 5. decidere come deve avvenire lo scambio dei token con le

ricompense; 6. registrare il comportamento del bambino in modo esatto. Questa

strategia

si

fonda

sul

principio

secondo

cui

ogni

comportamento non adeguato ha un suo costo e il soggetto ne è il diretto responsabile.

3.1.2 Il programma TEACCH L'approccio TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children) si deve a un lavoro iniziato più di trent'anni fa da Schopler e dai suoi collaboratori dell'università della Carolina del Nord. Questo programma è stato sperimentato per cinque anni e in seguito agli ottimi risultati ottenuti, a partire dagli anni settanta è stato finanziato dallo stato. Esso non è un metodo, ma un «insieme coordinato di servizi combinati e resi da persone esperte (pedagogisti, psicologi, terapisti del linguaggio, psichiatri, nutrizionisti ecc.), in relazione ai bisogni individuali e alle caratteristiche singolari del soggetto autistico» (Crispiani, 2002, p. 81). Quindi, Schopler insieme ai suoi collaboratori ha elaborato un sistema che si può definire più a connotazione terapica ed educativa piuttosto che psicologica o psicoterapica. Questo programma si è ben

130


presto diffuso dagli Stati Uniti a tutta l'Europa, grazie soprattutto alla traduzione dei lavori di Schopler. Il programma TEACCH comprende molte attività educative da eseguire non solo con bambini autistici ma anche con bambini affetti da altre patologie simili all'autismo. In tutto le attività sono 269, organizzate in dieci sezioni secondo il grado di difficoltà ed estese a tutte le aree funzionali dei soggetti. Inoltre si attua in più posti, in diversi momenti della giornata e per periodi lunghi di tempo: per questo motivo è necessaria la cooperazione di più educatori e terapisti. Pertanto si può affermare che questo tipo di approccio è plurispecialistico. Il

programma

TEACCH

non

resta

fermo

all'analisi

eziopatogenetica dell'autismo, ma si concentra soprattutto sulla metodologia di intervento educativo. Il suo obiettivo è di facilitare l'inserimento del soggetto autistico nel suo ambiente di vita e per far questo crea un progetto educativo personalizzato considerando sia il grado di sviluppo raggiunto dal soggetto sia le caratteristiche dell'ambiente. Cerca, quindi, di far raggiungere al soggetto autistico il più alto livello possibile di autonomia tanto nella vita personale quanto in quella lavorativa e sociale, avvalendosi di particolari strategie educative. L'approccio TEACCH opera per: • • • • • • •

scoprire delle strategie terapeutiche; migliorare le condizioni di vita dei soggetti autistici; scovare i comportamenti disadattivi; sviluppare le relazioni sociali; sviluppare le attitudini al lavoro; favorire le attitudini al tempo libero; motivare il bambino a seguire il trattamento e il suo programma (Cfr. Crispiani, 2002, p. 82). 131


Si fonda su criteri che, nei primi anni sessanta, erano stati considerati innovativi. Infatti i genitori non vengono più ritenuti responsabili della comparsa dell'autismo, ma sono addirittura coinvolti nel trattamento accanto a tecnici ed educatori. Questa stretta collaborazione tra genitori e professionisti si realizza partecipando a particolari percorsi di parent training, terminati i quali i genitori possono collaborare per individuare le priorità educative da introdurre nel programma di intervento. Un altro aspetto molto positivo del TEACCH è la collaborazione tra i vari specialisti: si parla infatti di formazione integrata. Ogni singolo professionista non deve più occuparsi solamente dell'area che gli compete: ciò rende l'équipe in grado di avere una visione globale del bambino e di lavorare in collaborazione con i genitori. L'intervento vuole essere globale e pertanto sarà sia orizzontale, ossia relativo a tutti gli ambienti, che verticale, cioè per tutta l'esistenza del soggetto autistico. Il programma TEACCH è la sintesi di 30 anni di ricerca e si basa sull'assunto: «l'autismo è una forma di disturbo globale dello sviluppo dalle connotazioni fortemente individuali» (Crispiani, 2002, p. 83). Ne consegue che tutto lo sviluppo risulta essere disturbato e che in ogni soggetto il disturbo si manifesta con caratteristiche diverse. Pertanto bisogna creare dei programmi personalizzati in base ai bisogni specifici di ogni soggetto. Quindi, il TEACCH diventa un progetto educativo su misura, proprio perché non si limita a un determinato deficit e neppure a una procedura o scelta terapica esclusiva. Questo tipo di approccio viene definito “presa in carico globale” e infatti come prima cosa Schopler e collaboratori vogliono costruire un programma globale che tenda a cogliere il problema nella sua interezza. E per far questo devono coordinare i vari programmi a 132


casa e a scuola, variando anche le stesse azioni educative. Si può così affermare che metodi e tecniche non hanno valore assoluto ed è assolutamente necessario controllare periodicamente lo sviluppo del bambino al fine di poter elaborare un programma altamente individualizzato, ossia fatto su misura per il bambino e la sua famiglia. I deficit di ogni bambino si mostrano nella loro unicità e singolarità, per questo motivo è necessaria una comprensione molto più specifica di ogni soggetto: comprensione che si riesce ad ottenere solamente interagendo direttamente e continuamente con ogni singolo soggetto. Questo trattamento individualizzato necessita di un sistema di valutazione non tanto dei deficit quanto piuttosto delle abilità dei soggetti. Per la valutazione diagnostica si utilizzano soprattutto i test d'intelligenza, come le scale di Wechsler, insieme alla CARS. Ma la valutazione diagnostica da sola non basta, serve anche la valutazione funzionale, in quanto nei soggetti autistici lo sviluppo non è mai lineare e uniforme. Nella valutazione funzionale lo strumento più importante è il PEP (Psycho Educational Profile) per i bambini e l'AAPEP (Adolescent and Adult Psycho Educational Profile) per adolescenti ed adulti. Il PEP è un elenco di abilità e di comportamenti in grado di consentire l'identificazione di forme d'apprendimento anomale nelle seguenti aree: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

imitazione; percezione; attività fini-motorie; attività grosso-motorie; integrazione oculo-manuale; prestazioni cognitive; prestazioni cognitive di tipo verbale (Cottini, 2008, p. 62).

133


Oltre il PEP, si prevede anche l'uso di una scala di comportamento, che

permette

di

individuare

i

comportamenti insoliti tipici

dell'autismo sondando quattro ambiti ben definiti: • • • •

relazioni ed affettività; gioco ed interesse nei confronti del materiale; modalità sensoriali; linguaggio (Cottini, 2008, p. 63) Durante le valutazioni vengono proposte delle attività ludiche

che l'esaminatore svolge con il bambino, registrando anche le risposte del soggetto. Terminate le valutazioni, si riportano i risultati delle varie attività nelle sette scale di sviluppo e nelle quattro di comportamento, mettendo in rilievo i punti di forza, quelli di debolezza e anche le potenzialità del soggetto. Secondo Schopler un insegnamento veramente efficace deve focalizzarsi sui punti effettivamente forti del bambino per poi poter potenziare i suoi punti deboli. Si osserva il bambino sia in situazioni strutturate che durante le interazioni con il suo ambiente di vita, ossia la famiglia e la scuola, per rilevare quali capacità possiede, quali deve migliorare o addirittura acquisire. Il PEP oltre a valutare abilità e deficit, esamina anche il livello definito da Schopler “emergente”. Si tratta di un livello formato da più risposte che evidenziano come un bambino possieda l'idea sul modo di eseguire un compito, ma non abbia l'abilità per portarlo a termine con successo. Questo livello emergente non è altro che la zona di sviluppo prossimale già individuata da Vygotskij e da lui definita come la distanza tra il livello di sviluppo attuale e il livello di sviluppo potenziale, che può essere raggiunto con l'aiuto di persone adulte o dei propri pari. Operare in questo modo consente di fare molta attenzione al reale livello di sviluppo del soggetto per poter comprendere quali

134


percorsi è in grado di affrontare da solo e quali, invece, deve affrontare con la guida dell'insegnante. Il PEP risulta essere lo strumento più adatto a valutare i soggetti autistici per le caratteristiche che possiede. Prima di tutto i compiti che vi sono elencati non devono obbligatoriamente essere presentati in un ordine già prefissato: in questo modo si lascia l'esaminatore completamente libero di adattare la procedura alle esigenze del soggetto. Inoltre le competenze linguistiche richieste ai bambini sono veramente minime e nella valutazione vengono incluse anche delle esperienze di apprendimento di compiti per osservare le loro reali possibilità

di

comprensione

nonché

i

tempi

impiegati

per

l'acquisizione di abilità molto semplici. Il totale delle attività superate relativo a ogni area esaminata va riportato nel profilo della scala di sviluppo: in questo modo balza subito agli occhi di chi osserva il livello di sviluppo raggiunto dai soggetti autistici in confronto al campione dei soggetti normodotati. Sono riportati anche i punteggi emergenti che rappresentano «il potenziale di apprendimento di nuove abilità da parte del bambino e indicano i punti di partenza più appropriati per la definizione degli obiettivi della programmazione educativa» (Cottini, 2008, p. 64). Un aspetto principale del programma TEACCH riguarda l'adattamento dell'ambiente e delle attività ai bisogni del bambino. Infatti, si sa che al bambino autistico serve un ambiente completamente strutturato per trovare sicurezza e non andare in ansia, quindi ha bisogno di punti di riferimento visibili, concreti e soprattutto prevedibili. L'ambiente strutturato, però, non deve essere rigido, ma deve essere il più flessibile possibile in modo che possa venire

135


modificato in ogni momento per poter adeguarsi ai livelli di sviluppo del singolo soggetto. Il fine dell'insegnamento strutturato è di trasformare le loro azioni ripetitive da mera passività ad attività pienamente consapevole. I principali elementi di questo tipo di insegnamento sono i seguenti: 1. 2. 3. 4.

l'organizzazione dell'ambiente; gli schemi visivi; i sistemi di lavoro; l'organizzazione dei compiti e del materiale (Cottini, 2002, p. 70). Per quanto riguarda l'organizzazione dell'ambiente è necessario

delimitare gli spazi in modo che il bambino possa individuarli con estrema facilità. Questo gli consente di capire quale tipo di attività viene svolta in ogni spazio, arrivando così a comprendere come deve comportarsi quando si trova in un determinato ambiente. In classe, ad esempio, dovrà esserci uno spazio dedicato allo studio individuale, un altro per le attività di gruppo, un altro ancora per il tempo libero, tutti opportunamente delimitati da contrassegni per essere più facilmente individuabili. E' importante che nelle zone adibite allo studio non ci siano troppi stimoli che lo possano distrarre dai suoi compiti. L'ambiente così strutturato permette al bambino autistico di imparare molto presto a orientarsi da solo, raggiungendo un elevato grado di autonomia che andrà a migliorare il suo livello di autostima. Gli schemi visivi anticipano le attività che si faranno: possono essere immagini, oggetti oppure scritte che mostrano visivamente al bambino le attività che dovrà eseguire. Sono molto importanti perché i soggetti autistici presentano enormi difficoltà nella memorizzazione di indicazioni verbali mentre uno dei loro maggiori punti di forza è la memoria visiva. Questi schemi visivi servono anche per fornire la 136


nozione di tempo che, per un soggetto autistico, risulta molto difficile da comprendere in quanto si tratta di un concetto astratto. Quindi è utile organizzare il tempo di ogni giornata in modo da tenere informato il bambino su quello che avviene, su quello che è avvenuto e che avverrà: diminuisce così l'incertezza mentre la situazione diventa decisamente più prevedibile rendendo il bambino più padrone del contesto. Gli schemi visivi riescono a fornire vari tipi di aiuto. Prima di tutto riducono i problemi relativi ai disturbi della memoria e quelli legati al concetto di tempo; favoriscono l'indipendenza del soggetto, in quanto non ha più l'urgenza di essere continuamente informato su ciò che poi accadrà, e accrescono anche l'automotivazione. Questi schemi variano in base al livello di sviluppo raggiunto dal bambino: pertanto si useranno oggetti nel caso di bambini non verbali con notevoli deficit, mentre con altri si potranno utilizzare forme più simboliche come disegni, fotografie, numeri, parole. Quando un'attività viene terminata, il simbolo che la rappresenta viene messo dal bambino nel “contenitore delle cose fatte”, così da scandire visivamente le sequenze dei compiti. I sistemi di lavoro danno informazioni sul compito da svolgere quando si è in una determinata area di lavoro. Ogni compito si trova contenuto in una scatola posizionata su uno scaffale a sinistra, sulla quale è riportato il simbolo del compito che può essere un colore, un numero oppure un oggetto. Sul tavolo di ogni bambino si trovano gli stessi simboli presenti sulle scatole per indicare il numero di attività da svolgere: tre simboli indicano tre scatole e quindi tre attività da compiere. Naturalmente il compito deve essere comprensibile senza l'aggiunta di altre spiegazioni. Una volta completato il compito, il bambino deve riporre la scatola sullo scaffale a destra, in modo che 137


risulti evidente visivamente la quantità di lavoro svolto e quella ancora da svolgere. Si utilizza la direzionalità sinistra-destra per richiamare il nostro modo di apprendere, infatti è secondo questa modalità che si acquisiscono le abilità strumentali ossia lettura e scrittura. L'ultimo

componente

dell'insegnamento

strutturato

è

l'organizzazione dei compiti e del materiale che ha l'obiettivo di rendere il soggetto autistico il più autonomo possibile nell'esecuzione dei compiti. Per raggiungere questo obiettivo fornisce dei chiarimenti riguardo le richieste dei compiti e la loro esecuzione: se in un esercizio viene richiesto di classificare gli oggetti in base al colore, la guida è rappresentata da una scheda sulla quale sono riportati degli spazi colorati in cui inserire gli oggetti. Nel TEACCH si utilizzano alcune tecniche che avevano già trovato applicazione

nell'approccio comportamentale precoce di

Lovaas: – manipolazione, si intende la guida fisica che viene fornita al bambino affinché possa riuscire più facilmente a terminare un compito. A ciò si deve sempre accompagnare una graduale riduzione dell'aiuto fornito; – assistenza diretta; – dimostrazione dei compiti da eseguire al soggetto; – routine,consiste nel far ripetere parecchie volte alcune procedure fino a quando non sono state consolidate; – indizi, piste, suggerimenti o segnalazioni, che riguardano compiti da svolgere. Il suggerimento può essere un movimento della testa o l'indicazione di un oggetto; – pantomina (mimare), si tratta dell'esecuzione di alcuni movimenti che rientrano nel compito da eseguire senza l'utilizzo dei materiali corrispondenti; – istruzioni verbali. All'interno dell'approccio TEACCH è stato realizzato un programma per valutare e per impartire ai soggetti autistici delle 138


abilità comunicative. Questo lavoro per migliorare le capacità comunicative di tali soggetti non dovrebbe essere delegato esclusivamente agli specialisti del linguaggio ma dovrebbe essere svolto principalmente dagli insegnanti e soprattutto dai genitori. Valutare le capacità comunicative del bambino serve per identificare quelle già presenti e per stabilire quali nuove abilità siano più significative. Si inizia analizzando il “campione di comunicazione”, che è la registrazione della comunicazione spontanea del soggetto in condizioni assolutamente normali, ossia a casa, a scuola o nelle attività ludiche. Da questa analisi si ottengono informazioni relative alle abilità possedute dai soggetti. E' opportuno osservare il bambino per un minimo di due ore e in contesti diversi, per ricavare informazioni sui luoghi e sulle persone con cui preferisce comunicare. Dopo aver valutato il campione di comunicazione spontanea, si possono fissare gli obiettivi a lungo, medio e breve termine. Stabiliti gli obiettivi comunicativi si passa alle strategie di insegnamento da utilizzare per raggiungerli che possono essere di tre tipi: –

sedute strutturate, dove i soggetti sono sollecitati mediante

continui stimoli che richiedono le medesime risposte. L'aspetto negativo di questa tecnica riguarda la difficoltà a generalizzare quanto viene appreso e la necessità di un rapporto uno a uno di insegnamento; –

insegnamento di tipo incidentale, che verte su eventi che

avvengono in modo naturale durante l'arco della giornata. In questo contesto risulta già più semplice insegnare delle abilità comunicative che possono essere generalizzate; –

costruzione di contesti: si tratta di agire nell'ambiente in modo

da realizzare i presupposti per l'insegnamento di una specifica abilità comunicativa. 139


La scelta di una di queste strategie educative dipende esclusivamente dagli obiettivi stabiliti e dalle capacità dei soggetti: gravi deficit di tipo cognitivo richiedono situazioni completamente strutturate e prevedibili.

3.1.3 L'intervento seguendo la teoria della mente Howlin, Baron-Cohen e Hadwin (1999) hanno elaborato un programma d'intervento seguendo i principi della teoria della mente, in cui viene proposto l'insegnamento degli stati mentali in tre aree (Cfr. Cottini, 2008, p. 90): • le emozioni; • il sistema delle credenze e delle false credenze; • il gioco simbolico e soprattutto il gioco di finzione. Primo obiettivo di questo tipo di programma è aiutare i soggetti autistici a riconoscere e distinguere le varie emozioni sia su di sé che su gli altri. Le strategie d'intervento si organizzano in cinque livelli: 1- riconoscimento delle espressioni del viso nelle fotografie: consiste nel far visionare ai bambini delle fotografie in cui i soggetti mostrano delle espressioni di felicità, di tristezza, di paura, di rabbia e poi si chiede loro di riconoscere quale tipo di emozione viene espressa. Inizialmente i bambini vengono aiutati mostrando loro la fotografia e l'emozione corrispondente in modo che il bambino debba scegliere tra le foto che possiede quella in cui compare un'emozione identica; 2- riconoscimento delle emozioni in disegni schematici: al posto delle fotografie si mostrano dei disegni; 140


3- identificazione delle emozioni causate da situazioni: consiste nell'insegnare al soggetto autistico a riconoscere le emozioni causate da determinate emozioni. Si utilizzano delle immagini raffiguranti delle situazioni di vita quotidiana, a cui seguono particolari emozioni. Si mostra l'immagine descrivendo ciò che vi è rappresentato, successivamente viene chiesto cosa prova la persona presente nell'illustrazione suggerendo sempre le quattro alternative, ossia felicità, tristezza, rabbia e paura. Nel caso in cui il bambino dia la risposta giusta, si procede con l'approfondimento della comprensione, in caso contrario si fornisce immediatamente la risposta giusta spiegando la causa che ha determinato il sorgere di quella specifica emozione nel personaggio dell'immagine; 4- identificazione delle emozioni causate dal desiderio: si fa individuare al bambino le emozioni prodotte dall'appagamento o meno di un desiderio. Il bambino deve prevedere l'emozione che proverà la persona rappresentata nell'illustrazione, in seguito alla realizzazione o non realizzazione del suo desiderio. Si mostra un'immagine in cui c'è raffigurata una persona in una determinata situazione e si spiega cosa vuole questo personaggio, successivamente si mostra la seconda immagine descrivendo quello che succede realmente nella realtà. Infine si domanda al bambino quale tipo di emozione prova il personaggio, suggerendogli due alternative: felicità e tristezza. Se la risposta fornita è corretta, si gratifica il bambino e gli si chiede di spiegare il motivo per cui il personaggio prova quella specifica emozione. Qualora la risposta fosse sbagliata, occorre fornirgli subito la risposta giusta, spiegando anche perché il personaggio si trova in quel determinato stato emotivo; 5- identificazione

delle emozioni causate da opinioni: consiste 141


nell'individuazione di stati emotivi contrapposti come felicità o tristezza, che il personaggio di una determinata situazione può provare in conseguenza al fatto di pensare che il suo desiderio si sia avverato oppure no. Al bambino si presentano tre immagini in successione: nella prima è raffigurata la situazione reale, nella seconda viene messo in rilievo ciò che desidera o crede il personaggio e nella terza compare la conclusione del racconto. Il bambino deve prevedere

come si

sentirà il personaggio, ossia sarà felice o triste. Il secondo obiettivo è di aiutare i soggetti autistici in uno dei loro maggiori deficit, ritenuto tale dall'approccio della teoria della mente: si tratta di non essere in grado di attribuire alle altre persone degli stati mentali e di non essere capaci neppure a interpretarli. Il programma si articola in cinque obiettivi: 1- prospettiva visiva semplice, ossia capacità di comprendere ciò che vedono le altre persone: consiste nel dimostrare come le persone riescano a vedere cose diverse in base alla loro posizione. Si utilizzano cartoncini con disegni diversi sui due lati, poi si chiede al bambino di dire cosa vede o non vede la persona che si trova di fronte a lui. Anche in questo caso, le risposte giuste vanno subito gratificate, mentre quelle errate bisogna correggerle immediatamente; 2- prospettiva visiva complessa, ossia la capacità di capire il modo in cui la realtà percepita si mostra agli altri: in questo caso non si forniscono dei cartoncini con disegni diversi, ma una sola immagine che viene fatta guardare da prospettive diverse: in questo modo il bambino vedrà la figura dritta mentre l'altra persona la vedrà al rovescio o viceversa; 3- capacità di capire il principio “vedere porta a sapere”: perché il 142


bambino autistico possa arrivare a comprendere le credenze e le false credenze deve essere in grado di comprendere a fondo che per conoscere qualcosa è necessario averla prima osservata attentamente oppure

sentita

o

anche

toccata,

bisogna

quindi averla

sperimentata direttamente o indirettamente. Al bambino vengono mostrate delle situazioni, attraverso delle vignette oppure mediante l'uso di oggetti o di bambole, in cui il bambino guarda e non guarda ciò che avviene. In ogni attività si prevede sempre una valutazione su di sé e una valutazione sugli altri. Nel caso della valutazione su di sé, al bambino si propone il gioco del nascondino che viene fatto ponendo su un tavolo una scatola e due palline, una grande e l'altra piccola. Al bambino vengono fatti chiudere gli occhi mentre si nasconde nella scatola una delle due palline, dopo di che gli si chiede quale pallina si trova nella scatola e perché. In caso di risposta errata occorre proseguire con ulteriori spiegazioni al fine di fargli acquisire il concetto se non vedi non puoi sapere. Nella valutazione sugli altri, si ripropone il gioco del nascondino solo che questa volta viene introdotto il personaggio di Sara rappresentato da una bambola e due palline di colore diverso. Si introduce la pallina rossa nella scatola senza che Sara veda perché fatta uscire dalla scena, successivamente la bambola rientra in scena e vuole prendere la pallina nella scatola. A questo punto si chiede al bambino se Sara è in grado di poter sapere quale pallina si trova nella scatola e perché; 4- capacità di prevedere azioni sulla base di ciò che una persona sa: consiste nell'insegnare ai bambini autistici che le persone pensano che le cose stiano dove le hanno viste. Se non c'è stata esperienza diretta o indiretta non possono sapere dove si trovano; 5- capacità di comprendere le false credenze: si prevedono due tipi di 143


attività. Nella prima vengono spostati degli oggetti da una posizione a un'altra in modo del tutto inaspettato, nella seconda attività si propone una serie di compiti ispirati alla “prova degli Smarties”, prova molta utilizzata nelle fasi sperimentali. In questa prova si chiede a un personaggio di dire cosa contiene il tubetto chiuso di Smarties. Nel momento in cui risponde caramelle o Smarties, il tubo viene aperto per mostrare che contiene una matita. Si richiude il tubetto e si chiede al bambino di prevedere cosa dirà un altro personaggio, che non ha visionato il contenuto, quando gli si chiederà di indicare cosa contiene il tubetto. Seguendo tutto questo iter si arriva insegnare un principio educativo fondamentale per lo sviluppo del bambino: se le persone non sono a conoscenza del fatto che le cose sono cambiate, allora sono convinte che siano restate le medesime. L'ultimo obiettivo è sviluppare il gioco simbolico, che nei bambini autistici risulta essere molto problematico, in quanto la loro incapacità di leggere la mente non permette

la costruzione di

rappresentazioni mentali relative ad azioni che non vedono direttamente e di quelle relative a se stessi mentre eseguono azioni a scopo ludico. Il programma che riguarda il gioco simbolico si articola in: 1. gioco sensomotorio: si tratta di attività eseguite dal bambino

quando con i giocattoli esegue solamente delle attività di manipolazione come gettarli in aria. Rientrano in questo tipo di gioco anche delle attività ripetitive come allineare gli oggetti o dividerli per colore o forme; 2. gioco funzionale emergente, dove per gioco funzionale si intende la sostituzione di oggetti con altri dello stesso tipo e aventi la stessa funzione. Questo tipo di gioco non è ancora il gioco di finzione; 3. gioco funzionale acquisito; 144


4. gioco del far finta emergente, dove il bambino impara a

distinguere la realtà dalla finzione; 5. gioco del far finta acquisito. Due sono gli aspetti fondamentali del gioco di finzione: –

la sostituzione di oggetti con altri non assimilabili a livello

funzionale: consiste nel far giocare il bambino a far finta che uno spago non sia uno spago ma invece sia ad esempio un serpente e verificare se il bambino è in grado di distinguere la realtà dalla finzione; –

l'azione fittizia: si rende partecipe il bambino al gioco del

fingere di lavarsi i denti. L'educatore finge di lavarsi i denti servendosi di uno spazzolino immaginario e poi domanda al bambino se è capace di fare la stessa cosa. Si continua il gioco stimolando le azioni fittizie nel bambino. Si deve ancora chiarire se questa metodologia d'intervento seguendo i principi della teoria della mente possa essere utilizzata solamente con i soggetti autistici aventi un livello cognitivo nella norma, o se sia possibile applicarla a soggetti autistici con un livello cognitivo inferiore. Oggi però non si è ancora riusciti a fornire questo chiarimento.

3.1.4 La comunicazione facilitata

E' una metodologia utilizzata per favorire la comunicazione nel caso in cui ci sia una grave disabilità verbale, utilizzata soprattutto con i soggetti autistici, dove le difficoltà comunicative sono uno degli aspetti più caratteristici. E' caratterizzato dalla presenza di un 145


facilitatore che aiuta il soggetto a effettuare delle scelte corrette quando deve indicare degli oggetti, delle lettere o delle figure. Il facilitatore non deve guidare il soggetto nella scelta, bensì fornendo un supporto mano su mano o mano su braccio deve stabilizzare il movimento della mano del soggetto. Questo supporto fisico serve per far superare al soggetto determinate difficoltà fisiche come la quasi totale mancanza di coordinamento occhio-mano, i problemi relativi all'estensione o all'isolamento del dito indice, i tremori, l'instabilità muscolare, l'impulsività, le difficoltà a iniziare un compito su richiesta. Nel tempo, però, questo supporto deve diminuire fino a ridursi a una solo tocco sulla spalla. E proprio il ruolo del facilitatore ha dato vita a un grosso dibattito a livello internazionale che tuttora risulta

ancora

aperto.

Si

discute

anche

sull'efficacia

della

comunicazione facilitata, che nonostante abbia fornito qualche prova di efficacia, tuttavia non ha alle spalle una vera e propria ricerca che la fondi, una sperimentazione veramente efficace. Rosemary Crossley fu l'iniziatrice di questo metodo: si tratta di una pedagogista australiana che in un istituto per bambini e ragazzi con handicap gravi, osservò che alcuni soggetti erano in grado di capire il linguaggio verbale meglio di quanto si pensasse. Quindi, cominciò a cercare forme di comunicazione domandando ai soggetti di indicare gli oggetti che lei citava, passando successivamente alle parole. Poiché la maggior parte di questi soggetti presenti nell'istituto presentavano delle disabilità motorie, dovevano essere facilitati durante la comunicazione mediante il sostegno del braccio. Ma l'uso di tale metodologia causò numerosi attriti che determinarono l'allontanamento dall'istituto della Crossley e la creazione di un Centro di

comunicazione

a

Melbourne 146

chiamato

DEAL

(Dignity,


Communication and Language). Verso la fine degli anni ottanta, la Crossley estese la comunicazione facilitata anche ai soggetti autistici e con ritardo mentale. La sua diffusione in Italia è dovuta soprattutto a dei genitori che fanno parte dell'Associazione ANGSA (Associazione nazionale genitori di soggetti autistici). Il facilitatore non deve fornire solo un supporto fisico ma anche un supporto emotivo «nel sostenere lo sforzo della persona intenta a comunicare» (Cottini, 2008, p. 114). La comunicazione facilitata può avvenire tramite tastiere di carta, in cui il soggetto indica delle lettere o delle parole che il facilitatore poi verbalizza. Sicuramente gli strumenti informatici offrono dei grandi vantaggi nell'ambito di questa metodologia. La sua principale caratteristica è rappresentata dal ruolo esercitato dal facilitatore che, reggendo il braccio o la mano del soggetto, gli consente di riuscire a indicare le figure oppure di digitare delle lettere. Il punto su cui si è acceso il dibattito riguarda la possibilità di poter influenzare il soggetto nella scelta delle lettere o degli oggetti. Esiste, infatti, il rischio che il facilitatore influenzi il soggetto durante la comunicazione, anche se questo metodo fa ricorso a una serie di accorgimenti che consistono proprio in una riduzione del sostegno al fine di raggiungere un'autonomia sempre più maggiore, nel fare in modo di non anticipare il soggetto che sta per scrivere, nell'insegnare a fare delle proteste. Il sostegno fisico è giustificato soprattutto dalla presenza di difficoltà nell'area motoria nei soggetti autistici. Si ipotizza che i soggetti autistici siano affetti da disprassia dello sviluppo, ossia che «alla base del disturbo ci sia un difetto di programmazione

e

sequenziazione 147

del

movimento» (Cottini,


2008, p. 117). Questo disturbo avrebbe delle conseguenze sulla capacità di organizzare gli schemi motori. Ecco perché per avviare uno schema motorio serve la presenza del facilitatore che assume la funzione di starter. Oltre al ruolo di sostegno fisico il facilitatore esercita anche quello di supporto emotivo: quindi, il suo ruolo non è neutro in quanto stabilisce un rapporto di empatia con il soggetto. Infatti, quando due mani si toccano si instaura un rapporto nel quale viaggiano oltre al messaggio fisico anche i messaggi affettivi. E proprio il fatto che questo contatto lasci passare messaggi affettivi rende i soggetti dipendenti dal sostegno, portando il facilitatore ad esercitare una forma di condizionamento. Stork ritiene che bisognerebbe prendere in considerazione i resoconti forniti dai soggetti che sono stati facilitati, in quanto le loro affermazioni mostrano come il sostegno motorio e soprattutto quello emozionale siano fondamentali. Dai loro resoconti, infatti, risulta evidente che il supporto emozionale riveste un'enorme importanza perché anche la più piccola esitazione del facilitatore impedisce la scrittura e inoltre se il supporto non funziona come dovrebbe funzionare provano una profonda inquietudine. Prima

di

applicare

la

comunicazione

facilitata

è

necessario valutare il grado di competenza raggiunto dal soggetto dal punto di vista motorio e comunicativo. Relativamente all'aspetto motorio, bisogna fin da subito individuare qual è la mano dominante e quanto supporto fisico sia necessario fornirgli per comunicare in modo facilitato. Oltre a questo occorre osservare attentamente il livello del tono muscolare o dei possibili tremori. Per quanto riguarda le competenze comunicative è necessario

148


verificare il suo livello di comprensione delle istruzioni verbali e la sua abilità nella lettura. Va sottolineato che i soggetti mostrano di incontrare meno difficoltà se si inizia l'attività di comunicazione facilitata con un lavoro molto semplice, in cui i soggetti devono rispondere a delle domande strutturate. Si possono utilizzare domande a scelta multipla o domande semplicissime come scrivere il nome dei componenti della famiglia o della città, oppure usare esercizi di accoppiamento figuraparola o di completamento come completare una parola a cui mancano delle lettere o una frase a cui mancano delle parole. Si tratta, quindi, di avvalersi di un lavoro strutturato per far sì che il soggetto possa prendere confidenza con questa tecnica. E' stato anche notato che la comunicazione facilitata riesce ad aiutare i soggetti che presentano linguaggio ecolalico. Ci sono stati parecchi casi in cui la sostituzione del linguaggio verbale con quello scritto ha contribuito a rimuovere alcune stereotipie verbali. Sicuramente l'obiettivo principale della comunicazione facilitata è il raggiungimento di un livello molto alto di autonomia. Quindi, è necessario diminuire il grado di dipendenza dal facilitatore, in modo da consentire al soggetto di «estendere la propria possibilità relazionale e di interazione con vari interlocutori in ambienti diversi» (Cottini, 2008, p. 123). Alcune esperienze di comunicazione facilitata hanno dimostrato che, nonostante alcuni soggetti siano stati in grado di digitare delle parole autonomamente, non sono però riusciti a farlo senza la presenza vicino a loro del facilitatore. Chi si occupa di questa metodologia ha individuato la seguente serie di strategie per aumentare il grado di autonomia dei soggetti: -

lavorare fin dall'inizio sull'indipendenza: è fondamentale fin 149


dall'inizio che i facilitatori stimolino continuamente i soggetti a scrivere in modo indipendente; -

usare un metodo di lavoro “dal minore al maggior grado di

facilitazione”:

durante

ogni

attività il

facilitatore deve prima

chiedere delle prestazioni autonome e intervenire solamente nel momento in cui si rilevano delle difficoltà. In altre parole, se il soggetto non è capace di scrivere da solo si interverrà con la facilitazione alla spalla, se eventualmente anche in questo modo non si raggiungono risultati positivi si proseguirà con il sostegno a livello del gomito; - non anticipare la risposta: anzi ai soggetti deve essere insegnato a protestare contro ogni forma di anticipo; - controllare la focalizzazione dell'attenzione: non bisogna fornire alcun sostegno fisico ai soggetti che rivolgono la loro attenzione a obiettivi diversi dal compito; - imparare a lavorare con più facilitatori: è molto importante per ottenere una buona autonomia e non bisogna avvilirsi per le momentanee regressioni che avvengono quando si cambiano i facilitatori.

3.1.5 La riorganizzazione neurologica Si tratta di un metodo utilizzato con i soggetti autistici che è conosciuto soprattutto come “Metodo Delacato”, perché prende il nome di un componente del gruppo di Filadelfia. Delacato, insieme ai suoi collaboratori ha elaborato una nuova metodologia di trattamento che ha suscitato molto interesse a livello internazionale e soprattutto

150


nei genitori, ma che ha dato origine anche a molte critiche. Il metodo Delacato ebbe una grande diffusione dovuta anche alla creazione di Istituti per lo Sviluppo del Potenziale Umano, costruiti pure in Italia, e riuscì a diffondersi nelle istituzioni sia educative che riabilitative. Tale metodo si basa sulla convinzione che l'organizzazione neurologica raggiunge la sua completezza mediante una serie di esperienze e di momenti di maturazione che avvengono in successione. Quindi tutto il processo di maturazione ha luogo per stadi, in ogni stadio si acquisisce una specifica classe di comportamenti. Secondo Delacato, l'organizzazione neurologica inizia ancora

durante il primo trimestre di gestazione per poi

terminare verso i sei anni nel soggetto normale. Si tratta di uno sviluppo neuronale ininterrotto: se uno stadio viene saltato o risulta incompleto, di conseguenza tutti gli stadi successivi verranno compromessi con notevoli ripercussioni sulle capacità del soggetto. Inoltre, ritiene necessario verificare il livello di organizzazione neurologica raggiunto dal soggetto e determinare una serie di metodologie per attuare una sorta di riorganizzazione neurologica. Si valuta il soggetto partendo da quello che dovrebbe fare secondo la sua età cronologica e poi si risale passando per i vari stadi di sviluppo fino al momento in cui si arriva a uno stadio dove la sua organizzazione neurologica risulta completamente normale dal punto di vista funzionale. Dopo aver valutato il soggetto, «bisogna cercare di fargli percorrere le varie tappe dello sviluppo nello stesso ordine cronologico in cui queste si susseguono nella normale evoluzione ontogenetica» (Cottini, 2008, p. 142). Il metodo Delacato si fonda su un principio secondo il quale i soggetti aventi delle lesioni cerebrali possono ricevere aiuto 151


dall'aumento della frequenza, della durata e dell'intensità delle stimolazioni. Quindi, si può cercare di lavorare sulla zona del cervello dove si trova la causa e stimolare così le cellule nervose ancora rimaste in modo che possano sostituire la funzione di quelle lese. Da ciò deriva che il soggetto cerebroleso deve seguire una riabilitazione attraverso programmi molto intensivi della durata di parecchie ore al giorno. Questa ipotesi relativa alla mancanza di organizzazione neurologica che è stata formulata appositamente per i soggetti cerebrolesi, successivamente è stata utilizzata anche per fornire una spiegazione ad altri diversi deficit. Infatti Delacato è giunto a considerare anche i soggetti affetti da autismo sostenendo che il loro comportamento caratterizzato da numerose stereotipie sarebbe causato da un mal funzionamento di una o più vie sensoriali. Questi soggetti non sono in grado di sfruttare gli stimoli che, provenendo dall'esterno, arrivano al cervello. Il loro comportamento ripetitivo rappresenta il tentativo di normalizzare le vie sensoriali lese: è un modo per curarsi. «Questi bambini non erano autistici per cause psicologiche; si comportavano come facevano per motivi neurologici. Erano cerebrolesi!» (Delacato, 1975, p. 65). Il comportamento di questi soggetti ci fa capire dove risiede il problema: nei loro movimenti ritualisti c'è una disperata richiesta di aiuto e di comprensione. Essi non cercano affatto l'isolamento, cercano invece di liberarsi dalle loro prigioni interiori, dove le sbarre sono una produzione delle deviazioni sensoriali. Il soggetto autistico ci sta informando che ha un problema sensoriale. Bisogna fermarsi a osservarlo, «e se il suo “autismo” cade in una determinata categoria (come i suoni), allora il problema sensoriale di cui ci parla è il suo udito» (Delacato, 1975, p. 63). Quando si scopre quale o quali canali sono coinvolti, si procede 152


procurando a quel specifico canale una maggiore quantità di stimolazione. Tramite l'osservazione, i bambini autistici si dividono in tre categorie, in base al tipo di disturbo sensoriale manifestato: 1- bambini con ipersensibilità: presentano dei sistemi sensoriali con un livello molto basso di soglia, pertanto si crea nel loro cervello sovraccarico

un

di informazione. Delacato li definisce soggetti che

sentono, odorano, gustano, odono e vedono troppo. Sono bambini che al minimo rumore si coprono le orecchie, che si sconvolgono a causa degli odori anche più lievi, che hanno un gusto molto attivo e quindi cercano di non mangiare molto e i cui occhi possiedono una forte sensibilità. Per vivere in queste condizioni usano vari comportamenti come allontanarsi dalla fonte dello stimolo oppure causare forti rumori allo scopo di coprire quelli presenti nell'ambiente; 2- bambini con iposensibilità: presentano una situazione opposta a quella precedente. Possiedono vie sensitive che lasciano passare pochissime informazioni, quindi necessitano di una maggiore stimolazione. In questo caso i bambini vanno alla ricerca di fonti di rumore come gli elettrodomestici o di sensazioni come essere pizzicati oppure si procurano delle autolesioni proprio per cercare di far arrivare al cervello un maggior numero di stimolazioni; 3- bambini a rumore bianco: denominati così perché presentano un costante rumore di fondo che non permette o rende difficoltosa la distinzione e l'elaborazione degli stimoli esterni. Pertanto il messaggio proveniente dal mondo esterno risulta alterato o addirittura coperto dal rumore di fondo. Una volta ridotti o eliminati i comportamenti ripetitivi, il soggetto riuscirà a spostare la sua attenzione verso il mondo esterno,

153


imparerà a interagire con gli altri e le cose che ci sono attorno a lui. Delacato prevede un programma terapeutico composto da tre fasi: 1- l'osservazione molto accurata degli atteggiamenti sensoriali del bambino: serve per riuscire a scoprire la via sensoriale alterata e per stabilire se questa è iper, ipo o rumore bianco. Per quanto riguarda il tatto, il bambino iper rifiuta il contatto, mentre al contrario quello ipotattile sembra essere totalmente indifferente anche a sensazioni molto forti come il dolore, per questo compaiono comportamenti ripetitivi di tipo autolesionistico. I bambini a rumore bianco invece cambiano spesso atteggiamento in maniera molto veloce. Il bambino iperolfattivo rifiuta la vicinanza delle altre persone a causa dei loro odori ed è possibile che presenti problemi di alimentazione mostrando una tendenza per il vomito. Quello ipo ricerca costantemente odori molto forti, quindi annusa tutti gli oggetti e può addirittura arrivare a manipolare le sue feci. I bambini invece a rumore bianco presentano un odore costante all'interno del loro sistema olfattivo, per questo si infilano piccoli oggetti nelle loro narici. Dal punto di vista dell'udito il soggetto iper cerca di scappare dai rumori esterni, mentre riesce a sopportare benissimo quelli da lui prodotti. Se non può scappare si tappa le orecchie e lo sconvolgono le situazioni caotiche, il traffico e le sirene. Al contrario il soggetto ipouditivo crea dei rumori molto forti o si dirige verso la fonte dei rumori mentre i bambini a rumore bianco appaiono attratti solamente dai rumori interni. Accade spesso, infatti, che a comportamenti stereotipati seguano delle pause durante le quali si ascoltano. Per quanto riguarda il gusto, i bambini iper mostrano gravi problemi alimentari e si alimentano pochissimo perché non tollerano 154


le variazioni di gusto. Quelli ipo, invece, si nutrono di ogni cosa, perfino di sostanze tossiche purché siano assai saporite, mentre quelli a rumore bianco sembrano succhiarsi lingua e gengive come se volessero assaporarne il gusto. Inoltre è tutt'altro che raro il rigurgitare il cibo appena introdotto, per rimasticarlo e ingerirlo nuovamente. I

bambini

caratterizzati

dall'ipervisione

osservano

continuamente piccolissimi oggetti oppure i granelli di polvere e si incantano a guardare per ore gli oggetti rotanti. Invece il comportamento

tipico

dell'ipovisione

è

il

dondolamento

accompagnato dalla continua ricerca di fonti luminose, mentre i bambini a rumore bianco sono soliti guardare attraverso le persone e le cose. Delacato interpreta questo sintomo caratteristico dell'autismo affermando che questi soggetti si comportano come se fossero «attratti da qualcosa che è “dentro il loro bulbo oculare” e che li confonde» (Cottini, 2008, p. 149). 2- La cura di sopravvivenza: ha come fine la normalizzazione delle vie sensoriali fornendo al soggetto la stimolazione adeguata utilizzando il canale compromesso. Liberare il soggetto da quegli atteggiamenti sensoriali che fino ad ora erano riusciti a monopolizzare la sua attenzione, gli dà la possibilità di iniziare a dirigerla verso cose a cui si vuole che lui ponga attenzione. «Dobbiamo liberarli dalle loro inclinazioni sensoriali, perché possano passare al di là della lesione» (Delacato, 1975, p. 173). I soggetti autistici avendo dei sistemi sensoriali distorti che rendono il mondo distorto ai loro occhi, preferiscono rimanere prigionieri di se stessi piuttosto che dover affrontare un mondo che appare terribile e minaccioso in quanto è sempre in perenne cambiamento. Se i loro sistemi percettivi alterati non subiscono un cambiamento, allora sono destinati a restare per 155


sempre imprigionati nei loro corpi. 3- La riorganizzazione neurologica: si tratta del trattamento del soggetto autistico, dopo che è stato regolarizzato il canale sensoriale, che avviene utilizzando lo stesso metodo adottato per i soggetti con lesioni cerebrali. Si prevede un controllo dell'organizzazione neurologica e un programma che dia la possibilità al soggetto di ripercorrere e sperimentare di nuovo lo stadio in cui è stato rivelato un deficit. Delacato e i suoi collaboratori sostengono di aver ottenuto dei risultati a volte perfino eccezionali con i soggetti trattati. A ciò si aggiungono anche le testimonianze dei genitori che si ritengono molto soddisfatti

del

metodo. Al

contrario,

invece,

la

letteratura

internazionale specialistica non mostra nessun tipo di articolo scientifico pubblicato dagli autori del metodo o delle ricerche che possano accreditarne la validità. Esistono, però, numerosi lavori molto critici nei confronti del metodo Delacato e anche delle prese di posizione dure da parte di vari enti ed organizzazioni.

Le critiche a

questo metodo sono concentrate soprattutto sui seguenti punti: • l'approccio teorico a cui si riferisce: le teorie di Delacato e dei suoi collaboratori «sono del tutto arbitrarie e non corrispondono che ad ipotesi presentate come certezze» (Cottini, 2008, p. 152). L'ipotesi che ci possa essere una ben precisa localizzazione cerebrale e anche una causalità del tutto meccanica fra la lesione a carico del sistema neurologico e la patologia sviluppata

dal

soggetto,

non

risultano

sostenibili

scientificamente. Si accusa Delacato di utilizzare un metodo fondato su principi che non sono supportati oppure sono 156


fortemente contraddetti quando sono

testati

mediante

certezze sperimentali o teoriche provenienti dalla letteratura scientifica condivisa; • i risultati terapeutici più ipotizzati che reali, infatti i progressi sarebbero notati maggiormente dai genitori, influenzati dall'ottimismo dei terapeuti. Questi progressi si devono maggiormente al cambiamento dell'atteggiamento nei confronti dei bambini piuttosto che alla validità del metodo. Inoltre, nel caso in cui tali miglioramenti si verifichino realmente, essi compaiono molto presto nell'arco di sei o dodici mesi dall'inizio del trattamento per poi arrestarsi successivamente; •

la pressione psicologica: infatti si richiede un grandissimo impegno ai genitori mentre i bambini sono sottoposti ad una forte sollecitazione. Inoltre il metodo risulta troppo costoso sia per

bambini che per i genitori per quanto riguarda le

prestazioni richieste, il tempo investito in confronto dei benefici che apporta.

3.1.6 Terapia di attivazione emotiva e reciprocità corporea (AERC) Questo metodo di trattamento è stato ideato da Michele Zappella, psichiatra, per intervenire nei soggetti affetti da autismo. Zappella si propone di rendere l'area emotiva il canale preferenziale attraverso il quale avviare un percorso educativo del soggetto autistico alla

vita

sociale

ed

emotiva.

Infatti,

l'attivazione

emotiva

permetterebbe di ridurre i comportamenti autistici, consentendo così ai 157


soggetti di poter riprendere il proprio sviluppo dove era stato interrotto dal disturbo. E' un approccio terapeutico-riabilitativo che viene condotto da terapeuti esperti e di conseguenza non può essere applicato dal personale educativo. Manca, quindi, una generalizzazione a livello scolastico che, però, non sminuisce la sua importanza. Essendo un metodo molto in uso in Italia, è molto probabile che gli educatori possano dover interagire con esperti che si avvalgono di tale metodologia, inoltre non è un approccio risolutivo, bensì si ritiene una terapia avente come fine la creazione di specifiche condizioni emotive e relazionali necessarie per applicare più efficacemente dei programmi di tipo educativo. Uno dei principi fondamentali di questo metodo è di «coinvolgere massivamente i genitori in una relazione con il bambino caratterizzata in senso intrusivo» (Cottini, 2008, p. 158). Già negli anni ottanta, Zappella aveva iniziato a cercare l'attivazione emotiva utilizzando un metodo di derivazione americana denominato holding (abbraccio), successivamente tralasciato a favore dell'AERC, perché esercitava troppo stress sui bambini autistici. Pertanto si può affermare che l'AERC è l'evoluzione dell'holding, il quale inseguiva lo stesso fine

inseguito dall'AERC, ossia riuscire ad avere una relazione

comunicativa diretta fra il bambino e i suoi genitori. Nella pratica dell'holding, un genitore teneva il bambino sulle ginocchia in collaborazione con l'altro genitore in modo da non consentire al bambino di scappare. Oltre a questo contatto corporeo, avveniva successivamente un rapporto faccia a faccia, in cui il genitore parlava al bambino utilizzando prima una forma di prelinguaggio caratteristica dei primi scambi comunicativi e poi delle approvazioni verbali. Si 158


trattava sicuramente di una esperienza drammatica che faceva uscire tutta la rabbia del bambino e i genitori davanti a questa esplosione dovevano porsi in modo positivo, mostrandosi affettuosi e rassicuranti: così facendo si cercava di creare il primo fondamento di una nuova comunicazione. Quindi, si può affermare che l'holding cercava di modificare il comportamento del bambino tramite una continua oscillazione fra comportamenti intrusivi e comportamenti di conforto generati dai genitori. Zappella ha documentato i miglioramenti ottenuti con la pratica dell'holding in numerosi bambini. Nonostante questi numerosi successi, ci si accorse che questa pratica terapeutica stimolava in modo troppo poco naturale le forme di interazione. Basti pensare alla normale vita quotidiana, nella quale non avviene mai che un bambino sia tenuto per così tanto tempo in braccio mantenendo un rapporto faccia a faccia. A causa di questa rigidità, l'holding fu ritenuto troppo costrittivo e pertanto oggi è considerato un metodo completamente superato da

nuove metodologie più mature come l'AERC.

Quest'ultima metodologia implica che il terapeuta attui un processo interattivo molto intenso con il bambino in presenza dei genitori, che non si devono limitare solamente ad assistere ma devono anche partecipare. Questo processo interattivo si basa sull'attivazione emotiva, che consiste nel cercare un aumento

quantitativo degli

stimoli specifici. Per provocare questa attivazione emotiva è necessario modificare completamente sia la situazione che la stimolazione sensoriale che riceve il bambino. Per far questo Zappella indica tutta una serie di modalità: –

la variazione del tono di voce: occorre renderla acuta in modo

improvviso oppure abbassarla. E' possibile passare da un contesto in 159


cui c'è molto chiasso ad un altro in cui si è creato improvvisamente un profondo silenzio, squarciato dal

timbro inaspettato di una voce

squillante che si erge per dominare la scena; –

l'incontro degli sguardi: viene cercato in modo molto insistente

anche se per un una durata di tempo che deve essere regolato sui singoli soggetti, in quanto rappresenta una forma di intrusione molto forte; –

l'attività motoria: si può stimolare prendendo per mano il

bambino e facendolo correre insieme all'operatore oppure al genitore; –

il contatto corporeo: può provocare delle fortissime attivazioni

emotive. Ad esempio, toccare improvvisamente il torace di un bambino autistico insieme a un atteggiamento scherzoso da parte di chi sta compiendo l'azione, determina nel bambino molto divertimento e contentezza. Il terapista ha il compito di variare tutte queste modalità di attivazione emotiva a seconda delle reazioni del bambino, dei suoi movimenti e dei suoi modi di interagire. L'obiettivo, comunque, è di riuscire a «modificare lo stato di scarsa reciprocità sociale per renderlo in grado di accettare proposte di interazione specifica» (Cottini, 2008, p. 161). L'intervento di AERC avviene all'interno di un'ampia stanza, nella quale si trova uno specchio unidirezionale e l'attrezzatura per la videoregistrazione. E' fondamentale che la stanza sia molto vasta perché il bambino deve sentirsi libero di muoversi. Come attrezzature devono esserci delle

sedie, un tavolo, delle poltrone o divani e

parecchi giochi. Il genitore deve instaurare un rapporto con il figlio e collaborare con lui in attività come il disegno, le costruzioni, e altre. Nello stabilire questo rapporto con il bambino, il genitore è 160


coadiuvato dal terapeuta, mentre l'altro genitore insieme a un altro terapeuta osserva dietro lo specchio. Il terapeuta è una sorta di modello per il genitore, che solitamente si sente frustrato a causa dei suoi numerosi fallimenti nel catturare l'attenzione del figlio. In questi incontri il genitore riesce a sperimentare un rapporto corporeoemotivo con il bambino. Il lasso di tempo che intercorre tra un incontro e l'altro è di alcune settimane, nelle quali i genitori dedicano un'ora ogni giorno a svolgere delle attività di gioco e di rapporto diretto con il figlio simili a quelle fatte con il terapeuta. In definitiva si può dire che l'AERC pone le condizioni per poter iniziare dei programmi educativi e riabilitativi diversi. Quindi si può integrare con altre metodologie d'intervento. I risultati ottenuti con questo metodo sono molto positivi, soprattutto con i bambini piccoli, come documentato da Zappella (Cfr. Zappella, 1996).

3.1.7 D.I.R. e floortime Il metodo D.I.R. (Developmental, Individual Differences, Relationship based) ha l'obiettivo di costruire le basi per l'acquisizione delle competenze sociali, emotive e intellettuali: favorisce i processi evolutivi e non le semplici abilità. La lettera D indica che si vuole aiutare il soggetto a sviluppare la capacità di relazionarsi con gli altri e di avviare tutte le modalità comunicative. La lettera I sottolinea le varie differenze individuali di ogni soggetto, che consentono di pianificare le diverse attività. La lettera R descrive le relazioni che il bambino instaura con le figure più significative della sua vita.

161


Questo tipo di intervento prevede la presenza di un team interdisciplinare, composto da una terapista del linguaggio, una psicomotricista, da psicologi e neuropsichiatri infantili e da educatori professionali. Tale team valuta attentamente il livello di sviluppo funzionale del bambino, i suoi deficit e le sue potenzialità e le relazioni intraprese con i propri pari e con le figure di riferimento. Successivamente traccia un profilo del soggetto e un piano d'intervento, tenendo in considerazione le sue caratteristiche. Il modello DIR analizza il livello di sviluppo emotivo raggiunto, le differenze individuali determinate biologicamente e le relazioni più importanti che il soggetto vive all'interno del suo ambiente di vita. Il floortime, che letteralmente vuol dire “tempo passato a terra sul pavimento”, è il versante pratico-applicativo del modello DIR. Si tratta di una strategia d'intervento basata sul gioco e sull'interazione spontanea tra adulto e bambino. Questa strategia riporta il bambino allo stadio di sviluppo che si pensa abbia perso, per poi ricominciare di nuovo il percorso evolutivo. Così facendo può acquisire quelle capacità che erano andate perdute. Floortime, quindi, si può definire un approccio evolutivo, in quanto è un metodo che aiuta il bambino problematico ad acquisire le varie tappe dello sviluppo, nonché le varie abilità. L'impianto teorico alla base del DIR e del Floortime è stato creato da Stanley I. Greenspan verso la fine degli anni ottanta negli Stati Uniti. Greenspan è professore di psichiatria e scienze comportamentali oltre a

essere

psicoanalista

infantile. Questo

suo approccio nasce da una lunga esperienza di lavoro con bambini e le loro famiglie. Partendo dal gioco simbolico e dall'interazione spontanea, si pone come fine la creazione di un contesto, in cui si 162


possono apprendere nuovi comportamenti e nuove abilità. Il modello DIR/floortime evidenzia il ruolo fondamentale dei genitori e di tutti i componenti della famiglia per l'importanza delle loro relazioni affettive con il bambino. I principi più importanti del floortime sono: 1- seguire gli interessi del bambino, iniziando dalla sua attività spontanea. Cercare di scoprire i suoi desideri per aiutarlo a mettere in pratica il suo pensiero; 2- adattarsi al livello di sviluppo del bambino, realizzando i suoi interessi naturali; 3- aprire e chiudere la comunicazione, cercando di condividere le attività e di mantenere uno scambio lineare. Ad esempio, si può partire da un interesse del bambino, per coinvolgerlo in un'interazione reciproca e insegnargli il rispetto dei turni; 4- creare una situazione di gioco ricca di stimoli, di sorprese e di tante novità; 5- interagire con il bambino in modo giocoso creando, però, anche delle ostruzioni quando è necessario come nel caso in cui il soggetto interrompa di colpo la comunicazione: in questo caso bisogna porsi tra lui e quello che desidera, in modo da costringerlo a riprendere l'interazione; 6- ampliare le esperienze interattive del bambino; 7- relazionarsi con il bambino avvalendosi di suoni, parole, vista, tatto e movimento; 8- creare delle specifiche interazioni sulla base delle peculiarità del bambino. Viene, quindi, privilegiata l'interazione fra adulto e bambino, che unitamente a un tappeto, al pavimento e ai giocattoli 163


appositamente selezionati, crea una situazione educativa divertente per entrambi i soggetti. Pertanto l'emotività, che rappresenta il perno dell'interazione sociale, deve essere considerata la base su cui fondare l'intervento psico-educativo. La voglia di partecipare ad una attività ludica favorisce tale tecnica di intervento. E' molto importante giocare con ogni cosa che attira l'attenzione del bambino in modo da favorire l'interazione. Ma seguire gli interessi del bambino non vuol dire farsi condurre passivamente dal suo gioco, significa costruire su ciò che il bambino sta facendo e spingerlo ad aprire e chiudere sempre più cerchi di comunicazione. Il lavoro viene eseguito in modo intensivo da terapisti e da genitori, e sono soprattutto quest'ultimi che devono impegnarsi a trovare il tempo da dedicare a 6 o 10 sessioni di floortime al giorno della durata di 20-30 minuti. Non ci sono limiti d'età per l'applicazione di questa strategia, visto che è caratterizzata da una notevole flessibilità ed adattabilità, anche se, a causa del contesto, sembrerebbe più adatta ai bambini fino all'adolescenza. Inoltre visto la sua recente applicazione non sono ancora state eseguite delle ricerche scientifiche che dimostrino l'efficacia di questa metodologia.

164


3.2 Riparare gli specchi rotti Uno psichiatria brasiliano Ami Klin ha appurato che i bambini autistici osservano le situazioni di tipo sociale in modo del tutto diverso rispetto ai bambini con uno sviluppo normale. Nei suoi esperimenti utilizzò uno strumento detto eye tracker che rilevava i movimenti oculari in soggetti con autismo e in soggetti sani mentre stavano guardando degli stimoli sociali dinamici, come dei video di persone intente in una conversazione animata. Il risultato è stato che i soggetti autistici non guardavano gli occhi delle persone che stavano conversando come invece facevano i soggetti sani, e più alta era la severità clinica del soggetto, maggiore era la sua fissazione visiva sugli oggetti della scena piuttosto che sulle persone. Al contrario, più i soggetti autistici si mostravano socialmente adeguati, più il loro sguardo andava sulla bocca delle persone osservate e non sugli occhi come facevano i soggetti sani. Sempre usando l'eye tracker, Ami studiò in che modo i due gruppi di bambini, quelli autistici e quelli sani, rispondevano a gesti di indicazione. Venne fatta vedere una scena, tratta da un film, in cui un personaggio indicando un dipinto sulla parete chiedeva ad un altro personaggio del film di dirgli chi aveva dipinto quel quadro. L'esperimento mostrò che i soggetti non autistici seguivano subito ed automaticamente con lo sguardo il gesto così

il quadro di cui

indicativo, individuando

si stava parlando. Al contrario, i soggetti

autistici non seguivano il gesto e muovevano gli occhi solo dopo che veniva completata la domanda verbale. Non avevano nessuna idea di quale fosse il dipinto a cui il personaggio si stava riferendo, e quindi spostavano a caso la loro attenzione da un quadro all'altro. In un 165


secondo tempo, venne chiesto a questi soggetti che cosa fosse il gesto indicativo ed il suo significato. I soggetti con autismo diedero una risposta adeguata riguardo al significato del gesto di indicazione all'interno della scena che avevano osservato prima. Invece, durante l'osservazione spontanea, i movimenti dei loro occhi dimostravano di non aver colto il senso di ciò che stava succedendo tra i due personaggi. I soggetti autistici mostrano queste differenze nella fissazione visiva già in età molto precoce. Non è facile individuare la causa di ciò. Può essere che siano meno dotati di neuroni specchio rispetto agli altri bambini, oppure è possibile che il loro diverso schema di fissazione visiva non dipenda dai neuroni specchio almeno all'inizio, anche se in questo caso si avrebbe ugualmente un effetto sui neuroni specchio. L'esperienza rafforza i neuroni specchio e lo si può vedere durante l'infanzia quando la reciproca imitazione permette al bambino di stabilire un'associazione tra determinati movimenti e il vedere un altro eseguire quegli stessi movimenti. I bambini autistici, invece, non sono in grado di guardare nessuno, neppure la madre e non riescono ad associare i propri movimenti con

quelli eseguiti da

altri che li imitano. Iacoboni afferma: «Credo che questo sia uno scenario probabile dell'età evolutiva, che tiene conto delle proprietà dei neuroni specchio, dei dati derivanti dai lavori sul tracciamento dello sguardo di Ami Klin e del ruolo dell'imitazione nelle prime interazioni sociali» (Iacoboni, 2008, p. 155). A questo punto ci si chiede se tutti questi dati e queste ipotesi possano portare a delle nuove forme di trattamento in grado di riparare le funzioni dei neuroni specchio nei soggetti autistici. Secondo Iacoboni le forme di trattamento basate sull'imitazione possono essere molto efficaci nell'aiutare le persone autistiche a superare i loro 166


problemi sociali. In questo momento, almeno tre scienziati si stanno dedicando allo studio degli effetti dell'imitazione sui bambini autistici. Recentemente hanno realizzato dei video che mostrano i loro interventi con bambini autistici piccolissimi. In questi video si può osservare che, quando il bambino non sembra essere interessato agli altri, interviene un ricercatore che inizia ad imitarlo, utilizzando come forma di interazione il gioco e l'emozione. Immediatamente, il bambino si mostra molto più reattivo nei confronti del ricercatore e interagisce in un modo che risulta significativo dal punto di vista emotivo. Appare molto evidente come un simile intervento rechi giovamento a questi bambini. Chi trascorre la maggior parte del suo tempo con i soggetti autistici afferma che quando non riescono a stabilire un contatto, imitano i loro movimenti stereotipati e ripetitivi. Solo così riescono a interagire e a svolgere delle attività con loro. Si è appurato che le persone tendono a imitarsi reciprocamente e che questa imitazione motoria favorisce una certa intimità sociale. Nonostante non ci siano ancora dei dati precisi riguardo queste forme spontanee di imitazione, oggi si sa che sicuramente i neuroni specchio sono implicati. In merito a ciò Iacoboni sostiene: «Quando il terapista imita il paziente, potrebbe attivare i suoi neuroni specchio, che a loro volta aiutano il paziente a vedere, letteralmente, il terapista. Si tratta solo di una mia teoria, ma ciò che sappiamo sui neuroni specchio la rende abbastanza plausibile» (Iacoboni, 2008, p. 157). A testimonianza di questo, esiste un video straordinario di un ragazzo dodicenne autistico, che presenta un comportamento tipico di questa tipologia ossia dei movimenti stereotipati e ripetitivi, che possono assumere varie forme: in questo caso il ragazzo muove le mani come per scacciare delle mosche. Il ragazzo si trova in una stanza 167


d'ospedale, è solo ma circondato da parecchi giocattoli ed oggetti vari: più precisamente ci sono due copie di tutti i giocattoli e di tutti gli oggetti. Nella stanza entra una bambina con quoziente intellettivo basso ma non autistica che il ragazzo conosce bene. La bambina si mette a giocare con alcuni giocattoli presenti ed inizia ad incitare il ragazzo a fare la stessa cosa: si mette in testa un cappello e mette il secondo sulla testa del ragazzo, lo aiuta ad infilarsi un paio di occhiali da sole e poi indossa lei stessa il secondo paio. I bambini iniziano a ridere, a darsi la mano e improvvisamente i gesti stereotipati del ragazzo vanno scomparendo. La bambina poi prende un ombrello, lo apre e se ne va in giro così per la stanza: subito il ragazzo autistico la imita spontaneamente. Ormai i suoi gesti stereotipati sono spariti del tutto: ora è un ragazzo impegnato totalmente a giocare con una bambina. Per un po' i due vanno avanti con questi giochi imitativi, ma quando la bambina lascia la stanza, di colpo il ragazzo si rinchiude in sé e riprende i movimenti stereotipati delle mani. Quando però la bambina ritorna, nuovamente i gesti ripetitivi spariscono. Tutto questo non avviene per magia: il rispecchiamento sociale fa sorgere un contatto emotivo fra le persone e può essere un modo utilissimo per aiutare i bambini autistici a superare alcuni dei loro problemi sociali. Per poter verificare in modo più rigoroso questa ipotesi sono stati eseguiti due esperimenti con bambini autistici. In entrambi i casi, un gruppo di bambini interagiva con un adulto che non faceva altro che imitarli, mentre l'altro gruppo interagiva con una persona adulta che giocava con loro senza però imitarli. Si riscontrò che i bambini che erano stati imitati dall'adulto mostravano di avere molto più “comportamento sociale” e giocavano con l'adulto in modo più reciproco rispetto a quelli che non erano stati imitati. A ciò si deve 168


aggiungere il fatto che i bambini imitati trascorrevano più tempo vicino all'adulto in confronto degli altri bambini. Si tratta di risultati che sono perfettamente in linea con le conoscenze possedute oggi riguardo i neuroni specchio. In Oregon si sta usando l'imitazione come cura per i bambini affetti da autismo e si stanno ottenendo dei risultati ancora più notevoli con l'uso di trattamenti

comportamentali

naturalistici.

Durante

interazioni

apparentemente spontanee e di gioco, la terapista inizia ad imitare i gesti, le azioni, le vocalizzazioni che il bambino esegue nei confronti dei giocattoli, e poi lo invita ad imitare il proprio comportamento. Si è notato che i bambini sottoposti a questo tipo di trattamento con interazioni naturalistiche mostrano di godere di benefici molto evidenti, che vanno oltre la pura imitazione. Questa è la vera novità importante: «anche altri comportamenti sociali-comunicativi, come ad esempio il linguaggio, registrano dei forti miglioramenti» (Iacoboni, 2008, p. 158). Un altro fattore positivo, è che queste tecniche possono essere insegnate anche ai genitori, perché possano utilizzarle a casa mentre interagiscono spontaneamente con i loro figli. Si è potuto verificare che anche questo aiuta enormemente i bambini autistici. Queste forme di trattamento non richiedono una tecnologia particolare e quindi possono essere insegnate molto facilmente. Pertanto tramite le comunità di genitori di bambini autistici, potrebbero avere una notevole diffusione e sarebbero disponibili per un numero elevato di persone affette da questo disturbo. La consapevolezza dell'esistenza di una relazione tra neuroni specchio e imitazione potrebbe permettere a questi bambini di ottenere dei miglioramenti in grado di cambiare la loro vita.

Recentemente

ho

avuto modo di occuparmi di un ragazzo autistico e posso affermare che 169


l'imitazione si è rivelato un validissimo strumento di aiuto per stabilire un contatto con lui. Era la prima volta che mi trovavo in un ambiente con bambini e ragazzi con disturbi di comportamento. Inizialmente mi sono sentita molto disorientata in quanto non sapevo come muovermi, come agire in questo ambiente totalmente nuovo per me, non riuscivo a catturare l'attenzione di questo ragazzo autistico che non parlava, non svolgeva nessuna attività, se ne stava da solo seduto ad un tavolo e si alzava soltanto per andare alla finestra a guardare le macchine: le uniche parole che pronunciava erano mamma, macchina e imitava il rumore del treno. E' stato proprio quando ho deciso di imitare i suoi gesti, andando anch'io alla finestra e mostrandomi interessata a ciò che lui osservava, le sue parole che sono riuscita a stabilire un contatto visivo ed anche corporeo con lui: prendeva la sedia e si metteva vicino a me, mi prendeva la mano e mi conduceva alla finestra mostrandomi macchine o moto. A questo punto ho iniziato a portargli foto di treni, macchine, giornali che potevano incuriosirlo: siamo riusciti anche a fare dei disegni insieme, abbiamo realizzato un quaderno con disegni, composizioni di immagini, scritte. Ma la cosa più bella è stata quando ha iniziato a sorridermi ogni volta che entravo nella stanza: per la prima volta vedevo sul suo volto, che era sempre stato inespressivo con lo sguardo nel vuoto, un'espressione. E anche ora, che da mesi non sono più in questo istituto, quando vado a trovarlo mi riconosce e subito mi sorride, mi prende la mano e iniziamo a fare i nostri discorsi fatti di piccole frasi in cui compaiono quelle parole che è solito ripetere continuamente. Devo dire che è stata una bellissima esperienza che mi ha insegnato tanto e soprattutto mi ha spinto a ricercare delle possibili soluzioni per sbloccare la situazione in cui mi

170


trovavo coinvolta. E l'imitazione è stato sicuramente un fattore chiave che mi ha aiutato tantissimo nell'interagire con lui.

3.3 Le farm communities Immaginiamo una persona autistica immersa nella vita caotica della città oppure alle prese con i vari tentativi di inserimento sociale. Sicuramente si sentirebbe un pesce fuor d'acqua, spaesata, intimorita, totalmente disorientata e in uno stato confusionale. Senza ombra di dubbio aumenterebbe il suo sentimento di impotenza e non sarebbe certamente aiutata ad abbandonare il suo comportamento tipicamente autistico. Quali possono essere, allora, i contesti adeguati ai soggetti autistici

che

necessitano

di

coerenza,

di

semplicità

e

contemporaneamente di ricchezza di stimoli, dove attuare un lavoro abilitativo, preparare all'inserimento in attività da adulti, lavorare per raggiungere l'autonomia, direttamente in relazione con la vita quotidiana? La risposta si può trovare nelle farm communities: si tratta di comunità agricole residenziali realizzate appositamente per adulti autistici, già presenti da alcuni decenni in diversi paesi occidentali. Ciò che colpisce di questi luoghi, è il clima affettivo che si respira al suo interno, l'allegria e la contentezza dei suoi ospiti. L'ambiente agricolo riesce a creare una sorta di connessione tra attività lavorative, abilitative e vita quotidiana grazie soprattutto ai suoi cicli naturali che, essendo completamente prevedibili, riescono a fornire un ritmo di fondo a questo tipo di vita, alla ricchezza degli stimoli, alla presenza di diversi tipi di attività adatte a ogni livello di competenza, alla bellezza dei luoghi. 171


Le farm communities nascono negli anni '70,

hanno

un'impronta antiistituzionale e rappresentano la ribellione ai manicomi che, a quei tempi, erano l'unica soluzione per i soggetti autisti adulti. Infatti nei vecchi ospedali psichiatrici esistevano dei reparti in cui vi vegetavano, in condizioni veramente terribili, degli adulti autistici. Quindi inizialmente queste farm communities nascono autogestite, su iniziativa di associazioni o di gruppi di genitori. Nel 1974 nasce la prima farm rivolta ad adulti autistici in Inghilterra e nel 1982 viene inaugurata un'altra farm in Irlanda: entrambe sono tuttora attivissime. Numerose altre farm hanno continuato a sorgere in tutta Europa e anche negli Stati Uniti. Tutte queste esperienze risultano diverse per tanti motivi: strategie d'intervento, dimensioni, modelli psicoeducativi, formazione del personale, strumenti di verifica e culture di fondo. Però, tutte hanno in comune una serie di caratteristiche: 1- considerare il contesto rurale come il più idoneo a creare una situazione

che

sia

prevedibile

nei

tempi,

nelle

attività,

nell'organizzazione e che, nelle stesso tempo, sia ricca di attività adatte a tutti. Attività che non sono astratte e seriali ma importanti per la vita della comunità stessa; 2- insediamenti

piccoli,

strutturati

in

modo

non

istituzionale, autonomi e familiari; 3- tutti gli interventi, le attività abilitative e quelle di verifica si realizzano all'interno del contesto della vita reale della comunità; 4-

ogni

scrupolosamente

intervento

e

inserimento

programmato

e

nelle

progettato

attività in

viene

maniera

individualizzata, considerando le abilità, le difficoltà, i bisogni, le caratteristiche di ogni soggetto; 5- nonostante non vengano tralasciate le attività ludiche ed 172


espressive, è il lavoro a essere ritenuto fondamentale. Caratteristica del lavoro è di non essere mai ripetitivo, meccanico oppure non aderente al contesto. Si tratta, comunque, di lavoro vero, che viene inserito in un progetto di vita collettivo, infatti tutti i residenti vengono coinvolti in lavori di cui possono immediatamente vedere le finalità e gli esiti. Quest'ultimo aspetto è molto importante perchÊ in tal modo i soggetti autistici possono ricavare soddisfazione che non potrebbero avere in altro modo, oltre a sentirsi dei soggetti attivi e ad aumentare il loro sentimento di autostima; 6-

l'utilizzo

di

programmi

strutturati

per

guidare

l'apprendimento e il problem solving. Settimanalmente viene programmata la strutturazione delle attività , degli interventi e di tutto il contesto, mentre tutti i giorni si verifica il tutto; 7- grandissima importanza viene data al problema della comunicazione, che viene costantemente monitorato. Le varie difficoltà di comunicazione vengono analizzate tenendo conto del possibile valore comunicativo che possono avere; 8- formazione continua di tutto lo staff, che deve avvenire direttamente sul campo con l'apporto della consulenza di specialisti esterni; 9- apertura costante verso l'esterno: la farm non deve essere considerata un sistema chiuso, ma come un luogo che consente l'apertura. Infatti, al suo interno viene sempre attivato un sistema di scambi attraverso l'attività agricola e di allevamento che consente la vendita e l'acquisto di prodotti e materiali e attraverso eventi sociali e ludici come fiere, feste, ricorrenze e attività sportive e di svago; 10- coinvolgimento delle famiglie; 11- la relazione tra lo staff e i residenti è fondamentale. I 173


membri

dello

staff

esercitano

la

funzione

di

facilitatori

dell'apprendimento, della socializzazione e della comunicazione: non si sostituiscono mai ai soggetti autistici ma li seguono nelle attività stando al loro fianco, cercando di sviluppare al meglio la loro soggettività. Cascina Rossago è la prima farm community italiana, sorta nel maggio 2002 dopo anni e anni di gestazione. Si tratta di un gruppo di cinque famiglie che ha preso l'iniziativa e si è autoorganizzata. Più precisamente nel 1996 nasce un'associazione e nel 1998 la Fondazione Genitori per l'autismo, che dà vita a questo

progetto con la

collaborazione del Laboratorio Autismo dell'Università di Pavia. A questo punto manca solo il luogo dove costruire la farm: inizia così la ricerca. Il luogo ideale viene trovato in Oltrepò pavese, nel comune di Ponte Nizza, in una vecchia cascina diroccata, situata in località Rossago, in una zona tra i boschi . La Fondazione Genitori acquista la proprietà e inizia la costruzione della farm. Cascina Rossago, oggi, è situata su un terreno di 18 ettari in parte verde e in parte coltivato. Il progetto architettonico è stato elaborato da un genitore, il cui figlio è autistico, dopo aver visitato alcune farm europee. Questo progetto ha cercato di non essere un istituto, anzi di non assomigliarvi per niente. L'insieme di tutti gli edifici si estende su una superficie di 2000 metri quadri coperti. Le case sono tre e sono tutte parzialmente indipendenti: in ognuna di esse ci sono otto stanze per otto residenti, un soggiorno, una cucina, spazi di servizio e una camera per l'educatore presente di notte. Queste case sono collegate dall'antica aia che oggi è un grande spazio verde comune e da diversi spazi ed edifici nei quali vengono svolti i laboratori. Esiste anche un'area foresteria, nella quale soggiornano i tirocinanti, i volontari e 174


qualche volta i visitatori. A tutto ciò si aggiungono un orto, un frutteto, campi, boschi e l'area degli animali, in cui si trovano gli alpaca, le capre, le oche, le galline, i cavalli, compresa anche la stalla. La cura degli animali è un elemento fondamentale per la vita della comunità: proprio intorno alla stalla hanno avuto luogo delle attività riabilitative tra le più riuscite. Cascina Rossago ospita persone anche molto gravi che hanno già subito diversi anni di istituzionalizzazione e nonostante siano stati registrati dei miglioramenti nel comportamento dei soggetti residenti, si sono verificate varie situazioni di agitazione anche gravi. Non si è però mai ricorso ai servizi psichiatrici, ogni volta le situazioni sono state gestite pazientemente, ricorrendo alle risorse fornite dal contesto. Anzi tali situazioni sono state occasione di riflessione collettiva sia sul singolo soggetto che sul contesto. L'uso dei farmaci è molto limitato, infatti quasi tutti i soggetti hanno solo la terapia antiepilettica e si ricorre molto raramente alla sedazione. Inizialmente Cascina Rossago ha iniziato l'attività con cinque residenti che erano i figli delle famiglie fondatrici, successivamente gli inserimenti sono stati di 4-5 ragazzi l'anno. L'inserimento di ogni nuovo soggetto viene prima di tutto valutato, poi programmato e organizzato, in quanto, essendo ogni persona autistica diversa dalle altre, è necessario osservare attentamente le varie dinamiche che questa nuova presenza innesca tra i residenti, gli operatori e i genitori degli stessi residenti. A gennaio 2006 gli ospiti erano 19 e l'organico è costituito da un direttore medico e scientifico presente a tempo pieno, da un coordinatore, da uno staff educativo composto da 5 educatori professionali, 3 riabilitatori psichiatrici, 2 infermieri professionali, 8 ausiliari socioassistenziali, 5 operatori sociosanitari, più il personale dei servizi. Ci sono anche dei consulenti esterni: un neurologo, due 175


psichiatri, un medico del lavoro. maestri

d'opera

Si

aggiungono,

anche,

dei

come collaboratori a contratto: una ceramista e un

agricoltore. Oggi Cascina Rossago è diventata sede didattica e di tirocinio degli studenti frequentanti il corso di laurea in Tecniche della riabilitazione psichiatrica. Molti degli ex tirocinanti ritornano poi come volontari. Recentemente uno studio del gruppo di E. Schopler ha confrontato quattro diversi contesti, aventi in comune l'utilizzo dello stesso programma di intervento, il TEACH, per verificarne l'efficacia e la qualità di vita prodotta. Si tratta delle farm communities, dei gruppi famiglia, delle famiglie e degli istituti. Il contesto farm è risultato di molto superiore agli altri sotto tutti gli aspetti. Un aspetto molto importante di Cascina Rossago è che riesce ad avere un costante rapporto con il mondo esterno, rimanendo sempre in contatto sia con l'ambiente circostante che con le famiglie e i luoghi di provenienza. Al contrario, nelle istituzioni viene cancellato qualsiasi traccia della propria storia precedente. «Un'altra “storica” obiezione è se sia opportuno che le persone autistiche “stiano tra loro”: non si rischia che non comunichino più del tutto?» (Ballerini, 2006, p.197). Sicuramente in una farm community gli autistici non stanno solamente tra loro ma si relazionano spesso con persone non autistiche, come gli operatori, i maestri d'opera, i vari tipi di scambi che avvengono sul territorio. Inoltre va comunicazione

tra

soggetti

autistici

precisato che la

sviluppa

amicizie,

simpatia,identificazioni: si crea così una rete comunicativa intensa e a volte pure emozionante.

Esistono, però, dei contesti che sono

totalmente inadatti, anzi sono addirittura nocivi per le persone autistiche. Ad esempio, è un grave sbaglio mettere quest'ultime con le 176


persone affette da un disturbo di natura psicotica: disturbo di natura psicotica: purtroppo si tratta di uno sbaglio che avviene troppo di frequente. I contesti in cui si trovano le persone psicotiche sono colmi di esperienze persecutorie, di turbolenze molto forti: tutti fenomeni emozionali che sicuramente non giovano alle persone autistiche, che sono di solito miti, bisognose di prevedibilità, di stabilità, di calma, di coerenza, per avvicinarsi alla relazionalità. Le persone autistiche non tollerano per niente la psicosi, quindi nel momento in cui si trovano a stare insieme con le persone psicotiche si sentono spiazzate e sempre più spinte verso l'autismo. Purtroppo motivi economici e superficialità sono la causa di questo sbaglio tecnico di mettere insieme autismo e psicosi. L'esistenza di una strutturazione e di una organizzazione all'interno delle farm permette ai soggetti autistici di esprimere la propria soggettività. Non devono esistere dei vuoti di organizzazione dei contesti perché sono dannosi nell'autismo così come la confusione e la contraddizione. Questa forte progettualità delle attività è assolutamente indispensabile in qualsiasi ambiente in cui sono ospitate le persone autistiche. Le giornate sono organizzate in modo che le attività di lavoro avvengano al mattino: orto, stalla, laboratori di falegnameria, ecc. Il pomeriggio, invece, è dedicato ad attività come musica, cineforum, trekking, ecc. (Fig. 9). A Cascina Rossago si fa lavoro vero, non si pratica la ludoterapia ma si gioca e si fa sport, non si fa la pet therapy ma si allevano animali, si sta a contatto con loro.

177


Fig. 9: Progetto riabilitativo globale www.cascinarossago.it

L'autismo non può essere guarito, ma si possono creare dei contesti adeguati per consentire a queste persone di continuare la loro crescita e di poter esprimere tutta la loro speciale umanità .

178


4

INTEGRAZIONE DEI SOGGETTI AUTISTICI

4.1 Si può parlare oggi di integrazione? L'Italia è stato uno dei primi paesi a comprendere che, se si vuole agire in un'ottica di integrazione, le persone affette da disabilità non devono ricevere una formazione in scuole speciali, ma è necessario inserirle nelle scuole comuni. Per quanto riguarda l'autismo, l'integrazione rappresenta il fine da raggiungere e non un semplice mezzo che si può avere subito a disposizione. La scuola non è il luogo delegato all'applicazione di una terapia vera e propria per l'autismo. Delegare alla scuola questo compito è ciò che oggi fanno moltissimi genitori e non solo: è una sorta di confusione che si viene a creare ogni giorno. La scuola in realtà possiede altri compiti. Questa confusione che si è venuta a creare è dovuta agli esperti che vogliono allontanare il problema da loro per spostarlo verso il personale della scuola, non utilizzo la parola “personale docente” in quanto per l'autismo si ricorre al personale non docente, di sostegno. Non esiste oggi in Italia una diffusione capillare dell'abilitazione medica del soggetto autistico o affetto da malattie correlate, attuata da personale sanitario. Inoltre si ricorre spesso alla prescrizione farmacologica per ridurre alcuni sintomi, piuttosto che avvalersi di una terapia medica. Tale abilitazione medica viene fatta coincidere con l'abilitazione cognitiva pedagogica mentre l'aspetto comportamentale e relazionale insieme all'ambito sociale, familiare e lavorativo restano ancorati a forti pregiudizi duri da debellare. Tutte queste dimensioni permangono, quindi, in una sorta di panorama puramente fantastico e 179


in

una

dimensione

completamente

marginale.

Il

problema

disfunzionale, clinico, sensoriale e cerebrale, che rappresenta il vero ostacolo dell'autismo, è trapiantato sugli insegnanti e anche su nuove professionalità come la pedagogia clinica o la pedagogia speciale. I sanitari presenti sul territorio si muovono a fatica nell'ambito dell'autismo, per questo motivo preferiscono irrobustire l'importanza di ciò che è puramente pedagogico e quindi secondario: tutto questo sa di delega. Pertanto la scuola rappresenta un momento integrativo a cui non si può rinunciare: è la stessa realtà quotidiana insieme alle leggi a imporre ai genitori di deputare alla scuola sia l'abilitazione che l'integrazione. Alla fine, si accetta il ruolo che la scuola si limita esclusivamente

a

sostenere,

adattandosi

a

figure

prive

di

professionalità e di formazione adeguata che mutano l'integrazione in una consegna a tempo. Oggi la scuola viene ancora considerata uno spazio protetto in cui restare. «Non è l'autismo che preoccupa ma il posto di lavoro» (Gabrielli, 2003, p. 7). C'è uno spreco del tutto legale nascosto all'interno

dell'integrazione

scolastica

del

bambino

autistico. Troppo denaro è stato speso per vedere questi soggetti girare senza meta nei corridoi, controllati a vista da insegnanti di sostegno mentre fanno dell'altro. Si tratta di uno spreco di risorse e di tempo molto prezioso per realizzare una vera abilitazione del soggetto autistico, che anche se esiste non si vuole mettere in atto. Solamente tramite delle solide alleanze tra i professionisti dell'autismo, gli operatori e i genitori, e la definizione di obiettivi chiari e precisi, il tempo scolastico potrà produrre qualcosa di veramente buono. In merito a questo, va segnalata l'esperienza genovese riguardo il metodo della comunicazione facilitata che è stato introdotto in una scuola e viene regolarmente applicato ai soggetti che presentano dei deficit 180


mentali. L'applicazione di tale metodologia viene affidata a dei veri professionisti che operano all'interno della scuola stessa, in collaborazione con gli insegnanti. Fino a quando chi guiderà la scuola non saranno degli esperti veri, fino a quel momento, la scuola di fronte all'autismo, sceglierà di intraprendere percorsi autonomi e superficiali, senza essere in grado di elaborare delle risposte significative. E' necessario che ci si renda conto che la scuola non è il luogo a cui delegare la terapia propriamente detta. Come prevede la legge si vuole realizzare l'integrazione. Pertanto si desidera far avere anche ai bambini autistici delle esperienze di socializzazione, di sviluppo delle capacità comunicative, di apprendimenti minimi, finalizzati all'ottenimento dell'autonomia mediante delle abilità essenziali per il miglioramento della loro esistenza. L'integrazione avviene quando tutti agiscono insieme aiutandosi l'uno con l'altro per migliorare la capacità comunicativa e relazionale, nonché la competenza culturale di ogni singolo soggetto all'interno del gruppo. Per fare in modo che avvenga l'integrazione vera e propria e non rimanga solo a livello formale, è fondamentale ripristinare alcuni concetti completamente etici, che attualmente nella nostra società egocentrica sembrano fuori moda: si tratta della responsabilità personale, della responsabilità attiva, dell'impegno individuale e di gruppo. Perché avvenga l'integrazione è necessario che ci sia il coinvolgimento non solo dell'insegnante di sostegno ma anche dei docenti, del dirigente scolastico, dell'educatore, della famiglia, dei medici, degli alunni...insomma di tutti. Si deve agire in modo sinergico, tutti devono operare in stretta e continua collaborazione: ognuno, quindi, deve fare la sua parte. 181


Più che di integrazione, i soggetti disabili hanno bisogno di inclusione, ossia di venire accolti all'interno della collettività tramite degli adattamenti indispensabili per poter garantire loro pari opportunità. La scuola, purtroppo, si trova ancora molto lontana dal riuscire ad attuare l'inclusione degli alunni affetti da autismo, i quali necessitano di strategie d'insegnamento specifiche e di insegnanti dotati di solide competenze pedagogiche. La scuola non è per niente preparata ad accogliere soggetti con questa sindrome, nonostante esistano delle leggi molto belle e promettenti, che però sono molto difficili da applicare e rappresentano solo una fonte di illusioni. Invece, gli insegnanti di sostegno più che costituire una categoria professionale orgogliosa della propria particolarità, spesso, sono una figura che si trova a metà strada tra un bidello e un'insegnante in attesa del

raggiungimento del punteggio che gli consentirà di

diventare un insegnante curricolare. Sarebbe meglio invece valorizzare la loro professionalità e permettere loro una carriera in tale posizione. Rivestono un ruolo sempre più importante le associazioni dei genitori: purtroppo, però, l'eccessivo peso di lavoro assistenziale e il fatto che esista ancora una sorta di vergogna ad ammettere questa patologia, fa diminuire di parecchio il numero dei genitori che partecipano alle associazioni, e ancora di più il numero di quelli che si attivano per l'associazione stessa. Al contrario, proliferano le piccole associazioni dove i genitori da semplici volontari diventano improvvisamente dei professionisti. Inoltre è di fondamentale importanza evidenziare che oggi i soggetti autistici troppo spesso vengono abbandonati quando arrivano alla maggiore età. Dovrebbe, invece, avvenire come all'estero dove gli operatori assistono i soggetti autistici per tutta la durata della loro vita 182


iniziando dal momento della diagnosi. In Italia nel momento in cui raggiungono la maggior età perdono addirittura la qualifica della loro diagnosi e finiscono con l'essere mescolati con tutti gli altri soggetti affetti da disabilità mentale. Nel nostro paese purtroppo manca all'interno

dell'organizzazione

sanitaria

una

struttura

costruita

appositamente per fornire questo tipo di assistenza, che deve essere in grado di garantire la continuità dell'intervento. Occorre, quindi, che vengano approvate delle linee guida valide per tutto il territorio nazionale per la presa in carico del soggetto adulto autistico.

4.2 Continuità verticale e continuità orizzontale Nell'organizzazione di un programma bisogna costruire una continuità di servizi in senso orizzontale e verticale. In questo modo si promuove lo sviluppo di ogni soggetto, la sua integrazione sociale e la sua autonomia, senza dimenticare i deficit peculiari dell'autismo. Nell'età adulta il soggetto autistico dovrebbe poter vivere insieme con gli altri soggetti appartenenti alla società e bisognerebbe consentirgli di condurre nel migliore dei modi la propria vita quotidiana. Per continuità verticale si intende tener conto del fatto che il soggetto autistico necessita di un intervento rivolto a ogni momento della sua vita. Quindi occorrono centri specializzati per ogni età: prima infanzia, età scolastica e età adulta. Questa organizzazione consente alla persona autistica di poter avvalersi di appositi servizi e strutture specializzati nel trattamento del suo disturbo, per tutto l'arco della sua vita. Costruire una continuità orizzontale vuol dire offrire un aiuto 183


privo di contraddizioni in tutti gli ambiti della vita. Infatti, oltre alla scuola, è incluso un servizio di aiuto domiciliare per spiegare ai genitori cos'è l'autismo, per fornire loro una conoscenza teorica e aiutarli ad attuare delle strategie per prevenire le problematiche comportamentali del figlio autistico. Per le persone autistiche adulte creare e strutturare dei centri dove possono trascorrere il loro tempo e dare significato alla loro vita. E' fondamentale comprendere che l'autismo colpisce la persona in tutta la globalità della sua esistenza: pertanto non si è autistici solo in determinati giorni e in orari specifici, quindi non ha molto significato concedere solo qualche ora di terapia settimanale. Serve un programma veramente fatto su misura per questi soggetti, che mediante una buona valutazione sia in grado di porre la sua attenzione sulle loro capacità emergenti e non esclusivamente sulle loro difficoltà. Costruire una continuità orizzontale significa iniziare dalla strutturazione della vita del soggetto. Non si deve mai dimenticare che rispettare la persona nella sua diversità vuol dire adattarle l'ambiente e mostrargli i problemi, gli ostacoli gradatamente.

4.3 Inserimento e integrazione nell'ambito scolastico Negli anni settanta il nostro paese ha optato per la presenza di soggetti diversamente abili all'interno della scuola comune. E' stata una scelta che si è dimostrata molto positiva e che ha prodotto dei risultati talmente importanti da essere stata presa in considerazione da altri paesi europei ed extraeuropei. Ma cosa si intende veramente per integrazione? Si intende 184


promuovere la capacità di vivere in maniera collaborativa e costruttiva sia nella scuola sia nella società. Nella scuola per poter parlare di integrazione è necessario che ci sia un'organizzazione didattica molto flessibile, per permettere all'alunno che presenta dei deficit di poter acquisire alcune abilità e di poter costruire dei rapporti collaborativi con gli altri. Se, invece, la scuola accettasse questi bambini diversamente abili senza apportare nessun tipo di cambiamento ai suoi programmi e senza provare neppure ad adattarli, tali bambini verrebbero solamente assimilati e pertanto si parlerebbe di inserimento e non di integrazione. Nelle prime esperienze di integrazione c'è stata «una presenza non sempre significativa dell'allievo con problemi nella scuola,

arrivando

a

giustificare

l'appellativo

di

“inserimento

selvaggio”» (Cottini, 2002, p. 17). Successivamente la situazione è andata migliorata grazie anche all'utilizzo di programmazioni personalizzate. Oggi il vero problema non è l'inserimento selvaggio, bensì è quello di dare sempre più risalto e importanza all'integrazione dell'allievo con deficit nella società e nella scuola, che sono in continua mutazione. L'integrazione inizia all'interno della scuola per poi diffondersi a tutta la società. Questo perché è necessario adottare, anche nei confronti dei soggetti in situazione di handicap, una prospettiva di progetto di vita, di cui la scuola è una fase molto importante. Fino agli anni settanta si parlava di disabilità in termini medici, ossia c'era una sorta di medicalizzazione della disabilità. Si finiva con l'associare questa parola a una definizione medica: si tratta di una menomazione motoria oppure cognitiva che rende la persona non

185


abile in qualcosa come comprendere o camminare. Pertanto la disabilità veniva così intesa come un puro handicap. Durante quegli anni, erano stati disposti dei provvedimenti legislativi che si dedicavano ai problemi specifici degli allievi con disabilità ma non prevedevano ancora il loro inserimento nella scuola comune. Si riteneva che questi tipi di alunni potessero ricevere una forma di aiuto migliore quando venivano messi in gruppi di coetanei aventi dei deficit molto simili. La legge 1859/1962 relativa alla scuola media unica, prevedeva la formazione di classi d'aggiornamento e differenziali per alunni con deficit, mentre la legge 444/1968, riguardante la scuola materna statale, affermava all'articolo 3: «per i bambini dai tre ai sei anni affetti da disturbi dell'intelligenza o del carattere o del comportamento o portatori di menomazioni fisiche o sensoriali, lo Stato istituisce sezioni speciali presso le scuole materne statali e, per i casi più gravi, scuole materne speciali» (Cottini, 2002, p. 19). Quindi in base alla gravità del deficit, gli alunni venivano ammessi alla scuola speciale o alle classi differenziali. Queste leggi si sono preoccupate solamente di fornire un intervento tecnico-sanitario sul tipo di deficit, senza considerare pedagogicamente l'alunno. In altre parole è stata vista solo la malattia, senza vedere la persona che porta o indossa tale disabilità. Ciò ha dimostrato che è stata la stessa società a essere disabile, in quanto si fermava al primo sguardo, senza preoccuparsi minimamente di allungare questo sguardo al futuro, al probabile, al possibile. Le classi differenziali e le scuole speciali hanno fornito, però, dei risultati molto scarsi, accompagnati da numerose contestazioni che accusavano l'intero sistema scolastico di selettività e di emarginazione. Tutto ciò ha avuto come conseguenza la crisi di queste istituzioni separate e ha dato il via ai primi inserimenti degli 186


alunni in situazione di handicap all'interno delle scuole comuni. La legge 118/1971, all'articolo 28, sanciva agli allievi diversamente abili il diritto all'educazione nella classe normale: tale legge, però, non includeva i soggetti colpiti da gravi menomazioni fisiche o da gravi deficit intellettivi. Nonostante questa legge sembrasse non apportare nessuna modifica significativa all'organizzazione scolastica, ha invece rappresentato una svolta perché verso il 1975 gli specialisti hanno iniziato a rifiutarsi di certificare la gravità del deficit. Nel 1975 fu elaborato un documento molto famoso per i suoi contenuti innovativi, nel quale si affermava che per superare ogni forma di emarginazione era necessario modificare il modo di intendere la scuola, solo così si poteva accogliere ogni tipo di soggetto per favorirne lo sviluppo personale. Inoltre, si precisava che la partecipazione da parte dei soggetti in situazione di handicap alla scuola comune non comportava il raggiungimento di obiettivi comuni anche minimi. A questo documento si accompagnava una circolare, nella quale veniva proposto a livello di sperimentazione didattica, l'inserimento graduale all'interno della scuola comune di alunni problematici. Nelle stesso tempo, però, si evidenziano i vari problemi di natura strutturale e organizzativa che sarebbero poi emersi come conseguenza di questo inserimento: si presentava così la necessità di risolvere tali problemi nel più breve tempo possibile per poter ottenere dei risultati significativi riguardo l'integrazione non solo scolastica ma anche sociale di questi alunni. Bisogna arrivare al 1977 per avere

finalmente un quadro

normativo ben definito e preciso relativo all'inserimento degli alunni con deficit nella scuola comune. La legge n. 517 è stata la vera svolta nel panorama giuridico della scuola italiana per almeno due 187


motivi: prima di tutto ha abolito definitivamente le scuole speciali e le classi differenziali, rendendo così obbligatoria la presenza di alunni diversamente abili all'interno della scuola comune, in secondo luogo ha

offerto

tantissime

possibilità

per

facilitare

il

passaggio

dall'inserimento all'integrazione. Più precisamente l'articolo 2 dedicato alla scuola elementare e l'articolo 7 rivolto alla scuola media, accordavano il diritto a programmare una serie di attività integrative da utilizzare con gruppi di alunni della stessa classe o di classi differenti per poter così realizzare degli interventi completamente individualizzati in base alle esigenze di ogni alunno. Per mettere in pratica queste attività integrative si richiedeva la prestazione di insegnanti specializzati. Dopo il 1977, sono state emesse altre leggi e circolari del ministero della Pubblica Istruzione per colmare alcune lacune della legge 517 e per rendere veramente effettiva e reale l'integrazione. Particolarmente importanti sono: - la circolare ministeriale 199/1979 che mette in risalto l'importanza di una collaborazione continua fra scuola, servizi assistenziali e sanitari del territorio al fine di realizzare una piena integrazione; - la legge 270/1982 che ha sancito il sostegno anche nella scuola materna; - le circolari ministeriale 258/1983 e 250/1985 che sottolineano la necessità di interventi di collaborazione tra scuola ed enti locali. Alla fine degli anni ottanta c'è stata un'importante sentenza della Corte costituzionale che finalmente ha aperto la scuola media superiore a tutti i soggetti disabili, sostenendo l'illegittimità di una parte della legge 118/1972 che affermava la necessità di facilitare ma non di assicurare la loro frequenza in questo tipo di scuola. Questa sentenza, 188


definita “Magna Charta” dell'integrazione scolastica, ha consentito l'emissione della circolare ministeriale 262/1988 che permetteva a tutti gli allievi diversamente abili di frequentare la scuola secondaria di secondo grado. Un'altra tappa fondamentale per l'evoluzione della normativa in materia di diritto allo studio delle persone disabili è la legge quadro 104 per “l'assistenza, l'integrazione e i diritti delle persone handicappate” del 1992, anche se tale legge presenta un aspetto problematico: «in quasi tutti gli articoli il termine “debbono” era stato sostituito dal termine “possono”(Cottini, 2002, p. 23). Nonostante questo aspetto, la legge 104 ha contribuito a superare la cultura dell'assistenza, per dare spazio al mondo dei diritti. Al suo interno si trovano le basi per poter realizzare un progetto che sia globale e nello stesso tempo individualizzato, in modo di coinvolgere ogni singolo soggetto e contemporaneamente anche tutte le realtà presenti sul territorio. Al disabile non si offre più solo assistenzialismo, ma gli si garantisce un diritto, il diritto alla qualità della vita. Non bisogna prendere in considerazione solo i bisogni peculiari della persona disabile, ma anche i suoi desideri, le sue risorse e le sue potenzialità per poter parlare di vera integrazione. Integrazione significa rispettare e valorizzare le diversità delle persone che sono portatrici di risorse positive. Assume, quindi, un enorme importanza la realizzazione di un progetto educativo fondato sulla collaborazione costante fra tutte le istituzioni e le risorse umane e strumentali del territorio. Per far sì che questa collaborazione venga attuata e

mantenuta nel tempo, la legge ha previsto la

programmazione coordinata tra la scuola, i servizi sanitari, quelli socioassistenziali, culturali, sportivi, anche se molto spesso, ancora 189


oggi, tale coordinamento rimane più a livello teorico che pratico. Un aspetto molto importante a cui questa legge ha rivolto tutta la sua attenzione è la valutazione degli alunni. All'interno della scuola dell'obbligo vengono previste delle verifiche riguardanti i vari insegnamenti impartiti, che servono anche per valutare i progressi degli alunni in relazione ai loro iniziali livelli d'apprendimento e alle loro potenzialità. A questa legge quadro sono seguiti alcuni decreti per specificare gli strumenti dell'integrazione. Fra questi decreti, due appaiono i più significativi: - il decreto ministeriale del 9 luglio del 1992 tramite il quale vengono stabiliti gli accordi di programma che devono essere sottoscritti fra istituzioni scolastiche, amministrazioni comunali e provinciali e ASL. Attraverso il coordinamento di tutte queste agenzie, si ottiene un notevole miglioramento dell'integrazione scolastica e una maggiore riabilitazione dell'alunno disabile. Quindi l'integrazione scolastica non è più solo un compito specifico che spetta esclusivamente alla scuola: oggi, anche l'intera comunità locale deve mettere in campo tutte le proprie risorse accanto a quelle fornite dalle istituzioni; - il decreto del presidente della Repubblica del 24 Febbraio 1994 che sancisce in modo molto dettagliato i compiti delle unità sanitarie locali nell'ambito degli alunni diversamente abili. Uno dei loro compiti è il riconoscimento

dell'handicap, che viene effettuato dallo psicologo

esperto dell'età evolutiva presente all'ASL. Alla fine degli anni

novanta sono stati presi alcuni

provvedimenti normativi che hanno prodotto una vistosa modifica dell'organizzazione scolastica, e di conseguenza hanno avuto anche una profonda ripercussione sul processo di integrazione degli allievi 190


disabili. Si fa riferimento soprattutto all'autonomia della scuola «in termini giuridici, finanziari, amministrativi, didattici, di ricerca, di sperimentazione e organizzativi» (Cottini, 2002, p. 26). All'interno del decreto applicativo della legge relativa all'autonomia (D.P.R. 275/1999) si ritrovano i principi della legge quadro 104/1992. L'integrazione dei soggetti

disabili

si

affronta sottolineando la

grande importanza dell'individualizzazione degli interventi didattici: ciò significa modulare questi interventi sulle caratteristiche di ogni soggetto, infatti si prevedono corsi di recupero e soprattutto la continuità didattica. Non mancano, però, riferimenti alla flessibilità degli orari, alla collaborazione tra i diversi sistemi formativi, alla possibilità di affiancare ai curricoli delle altre discipline scelte direttamente dagli istituti scolastici. E' proprio tramite l'autonomia didattica che i vari istituti scolastici ricercano una maggiore individualizzazione dei percorsi formativi. In riferimento a questo proposito, le scuole autonome si attivano per: - promuovere dei percorsi formativi adeguati alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita evolutiva di tutti gli alunni; - riconoscere e valorizzare la diversità; - favorire le potenzialità di ognuno; - utilizzare tutte quelle iniziative che si sono dimostrate molto utili per raggiungere il successo formativo; - adeguare i tempi dell'insegnamento e dello svolgimento delle discipline e delle attività ai ritmi di apprendimento degli allievi; - avvalersi di forme di flessibilità dell'organizzazione didattica; - garantire iniziative di recupero, di sostegno e di continuità. 191


Ponendo, così, una maggiore attenzione all'individualizzazione dei percorsi d'insegnamento, si rimedia a uno dei più grandi limiti delle ultime riforme scolastiche, ossia l'enorme interesse, che spesso finisce con l'essere quasi esclusivo, per le prestazioni degli alunni e la loro valutazione. Anche la formazione dei docenti riveste un ruolo fondamentale, in quanto è proprio da loro che dipende la qualità del processo di integrazione scolastica. Attualmente, nei nuovi corsi di laurea in Scienze della Formazione Primaria, si dà molta importanza all'integrazione scolastica attuando diversi approfondimenti riservati non solo agli insegnanti di sostegno ma a tutti gli insegnanti. Ciò è molto importante perché permette di non delegare esclusivamente all'insegnante specializzato il processo di integrazione. Negli

ultimi

trent'anni

la

normativa

disposta

riguardo

all'integrazione scolastica dei soggetti disabili, ha sicuramente favorito il superamento di varie forme di emarginazione. Nonostante tutto non si può ritenere l'integrazione un processo ormai del tutto assimilato e fatto proprio dalla scuola, soprattutto nei casi di soggetti affetti da gravi forme di disabilità. Abbiamo a disposizione diverse risorse per favorire il processo d'integrazione: risorse umane comprendenti gli insegnanti, i compagni e la famiglia e altre risorse che riguardano la disponibilità di spazi adeguati, le strumentazioni, ecc., a cui si aggiunge una risorsa molto importante rappresentata dalle figure specialistiche. Per quanto riguarda le risorse umane e in particolare il corpo docente, si deve affermare che l'efficacia dell'integrazione degli alunni disabili si deve in gran parte alle competenze possedute dagli insegnanti. Esiste, però, un dato preoccupante che riguarda la continua richiesta che l'orario dell'alunno disabile sia interamente coperto da insegnanti specializzati. 192


Non è affatto scontato che a un maggior numero insegnanti per il sostegno

corrisponda

un

reale

miglioramento

nella

qualità

dell'integrazione, anzi si potrebbe addirittura verificare il contrario, attraverso la formazione di processi di separazione al posto dei processi di inclusione. Il problema quindi che permane riguarda l'integrazione tra i docenti di sostegno e quelli curricolari, nonché della preparazione di tutto il corpo docente. L'insegnante per il sostegno e gli insegnanti curricolari devono imparare a progettare e condurre insieme il lavoro educativo: si tratta di una condizione essenziale per sviluppare una migliore integrazione scolastica. Purtroppo, però, si è osservato che tale gestione integrata raramente viene realizzata, soprattutto nella scuola secondaria. Anche se recentemente è un po' migliorata la situazione, non si è ancora riusciti a estirpare completamente la prassi di delegare all'insegnante di sostegno il compito di pianificare e programmare l'intero percorso scolastico dell'alunno disabile. Lavorare insieme per redigere progetti richiede prima di tutto una formazione comune e la condivisione degli obiettivi nonché delle metodologie. Per questo motivo è di vitale importanza che tutto il personale docente partecipi a continui corsi di formazione e aggiornamento sulle tematiche riguardanti l'integrazione, come sostiene il D.M. 226/1995: « “la risposta all'esigenza di integrazione non può più esaurirsi né limitarsi alla formazione del personale specializzato, evidenziandosi invece inderogabile la necessità che tutto il personale scolastico sia riqualificato in funzione della messa in atto di strategie e di tecniche che consentano una effettiva integrazione scolastica”» (Cottini, 2002, p. 42). E' fondamentale procedere alla formazione continua dei docenti che sono in servizio da tempo, mediante la presa visione di nuove strategie didattiche per poter 193


attuare l'insegnamento inclusivo. Un'altra fondamentale risorsa per l'integrazione è costituita dai compagni di classe, risorsa che, però, non è stata sfruttata sufficientemente. I compagni possono sviluppare dei rapporti di solidarietà che giovano non solo agli alunni in difficoltà ma anche a tutti gli altri. Avvalendosi di programmi di insegnamento cooperativo e di tutoring si può portare avanti un insegnamento individualizzato e nello stesso tempo cercare di raggiungere sia obiettivi personalizzati che obiettivi relativi al processo d'integrazione. Se all'allievo in difficoltà viene chiesto di rivestire più ruoli, che possono essere più o meno attivi, l'allievo sarà in grado di ottenere più facilmente, mediante un contesto non artificiale, dei miglioramenti per quanto riguarda il proprio livello di apprendimento. Di conseguenza anche gli altri compagni potranno trarne molti giovamenti a livello sia sociale che cognitivo. Questi benefici possono essere così riassunti: - miglioramento del concetto di sé; - miglioramento

della

capacità

di

instaurare

rapporti

interpersonali; - minore paura delle differenze; - maggiore tolleranza; - piena accettazione; - miglioramento dell'autostima (Cfr. Cottini, 2002, p. 44). Quindi, si può affermare che la risorsa compagni costituisce una grande potenzialità per poter attuare un vero processo di integrazione del bambini disabile non solo all'interno della scuola ma soprattutto nella società. Infatti le varie relazioni che vengono a costituirsi e le amicizie che si instaurano spesso si generalizzano anche ad ambienti extrascolastici, stabilendo così le basi per la realizzazione di una 194


appagante vita sociale. E' necessario però precisare che questa risorsa per essere attivata ha bisogno dell'intervento dell'insegnante, che deve considerare il gruppo classe e le abilità sociali di tutti gli alunni. Infatti, se tra gli alunni domina la competizione o l'individualismo, risulta impossibile realizzare dei programmi di collaborazione e di aiuto tra i compagni. La famiglia, è sicuramente una risorsa molto importante per l'integrazione, però per poterla ritenere tale occorre che sia considerata un interlocutore alla pari di tutte le figure professionali che rientrano nel processo di integrazione. Questo spesso non succede, nonostante ci siano delle disposizioni di legge. La famiglia è vista solamente come ricevente dell'intervento e bisognosa di cure, che esplica un ruolo più passivo che attivo nell'ambito scolastico. Basta pensare alla stesura del piano educativo individualizzato, che nella maggior parte dei casi è elaborato esclusivamente dai docenti senza richiedere la collaborazione dei genitori, anche se la norma lo prevede. I genitori vengono interpellati solo quando devono sottoscrivere il progetto stesso. Così facendo si rinuncia ad una collaborazione molto importante che avrebbe coinvolto maggiormente la famiglia, coinvolgimento che sicuramente avrebbe una ripercussione molto positiva sul rapporto scuola-famiglia e di conseguenza anche sul processo di integrazione del bambino. Occorre uscire dal luogo comune che vede la famiglia come fonte di problemi piuttosto che come una forma di aiuto per risolverli. Purtroppo esiste una sorta di rifiuto a considerare la famiglia un soggetto sociale e una risorsa, ma contemporaneamente bisogna rilevare nella famiglia una scarsa capacità a sentirsi come tale. Per la famiglia risulta più facile richiedere dei servizi e delle prestazioni piuttosto che collaborare, ciò è dovuto al fatto che non è facile far fronte a una 195

situazione


problematica alla quale spesso si associano anche delle difficoltà nei rapporti interni. Quindi,

raramente la famiglia è

in grado di

interpretare un ruolo di collaborazione con la scuola e solitamente finisce con il delegare agli altri compiti che dovrebbe anch'essa prendersi in carico. Questo è il motivo per cui la famiglia non può essere abbandonata a sé stessa, sono necessarie delle reti di sostegno che comprendono tutte le agenzie sociali. La questione dell'integrazione è stata condizionata a lungo dalla discussione riguardo la possibilità di inserire nella classi comuni degli alunni in situazione di handicap molto grave, in quanto un inserimento di questo tipo crea sicuramente vari problemi di tipo organizzativo e didattico. Ma ritornare alla vecchia istituzionalizzazione sarebbe un grandissimo fallimento perché significherebbe negare i diritti della persona e le possibilità di sviluppo dell'organizzazione sia educativa che sociale. Al contrario, bisogna accettare questa sfida cercando di trovare delle forme più adatte di coinvolgimento per impedire che si attuino degli interventi segreganti. Quando si parla di interventi segreganti si fa riferimento all'opinione oggi molto diffusa di concentrare questi soggetti affetti da handicap molto gravi in scuole appositamente attrezzate. Si tratta di un problema attualissimo e rappresenta il sintomo di un nuovo disagio: il problema dei gravissimi. Attualmente si stanno creando dei centri per soggetti disabili gravissimi, di età compresa tra i 6 e i 14 anni, all'interno della scuola e fuori della scuola, il tutto gestito dalla sanità o dai servizi sociali. Tutto questo, però, ci restituisce l'immagine di persone che si possono riabilitare ma non istruire. Pertanto, affinché l'integrazione di un alunno in situazione di gravità abbia esito positivo, è necessario attrezzare in modo adeguato ogni 196


scuola, così che si possa cercare di raggiungere in qualsiasi scuola i fini dell'integrazione. Ciò vuol dire fornire alle scuole i sussidi necessari e le strumentazioni più consone, mettere a disposizione le professionalità necessarie e dar vita a una collaborazione tra istituzioni in modo da costruire progetti flessibili e coordinati.

4.4 Collegamento casa-scuola In che modo il dialogo scuola-famiglia può diventare positivo e costruttivo, in modo che si possa realizzare pienamente il processo di integrazione? L'ostacolo alla costruzione di questo rapporto è dovuto sia al fatto che la famiglia non riesce a intravedere alcuna risposta competente da parte della scuola sia al fatto che la scuola privilegia un approccio puramente burocratico piuttosto che progettuale. La famiglia pone alla scuola due tipi di richieste: 1- che la scuola sia in grado di organizzarsi in modo che il proprio figlio possa essere inserito nel gruppo classe e abbia la possibilità di vivere in maniera positiva l'esperienza di stare insieme con i propri coetanei; 2- che la scuola sia in grado di gestire la presenza del loro figlio in situazione di handicap mediante l'utilizzo di metodologie che permettano all'allievo di apprendere le varie competenze scolastiche. La verifica di queste due richieste si concretizza con lo stare dentro la classe e con l'avere a disposizione l'insegnante di sostegno. La qualità della relazione scuola-famiglia dipende moltissimo dalla decisione e dall'autorità con cui la famiglia pone le sue richieste e dal 197


tipo di risposta che la scuola riesce a dare a tali richieste. Infatti la scuola può mettere in atto due tipi di risposte: quella normativoburocratica e quella progettuale. Nel primo tipo di risposta, la scuola privilegia richieste burocratiche che si realizzano nel rispetto della norma, richiedendo continuamente spazi, sussidi, attrezzature e soprattutto docenti per poter affrontare tale situazione che viene solamente subita. Nella risposta di tipo progettuale, l'alunno in situazione di handicap è considerato come un elemento naturale del gruppo classe e viene posto «al centro dell'attenzione nella messa a punto del progetto educativo e organizzativo della scuola, del plesso, della classe» (Cottini, 2002, p. 99). Nel caso dell'inserimento di un soggetto autistico, è molto probabile che la scuola finisca con il fornire una risposta di tipo normativo-burocratico, perché essendo la sintomatologia dell'autismo molto oscura, diversa da soggetto a soggetto e in parecchi casi molto grave, permette di giustificare delle risposte in cui si delinea l'impossibilità di gestire il rapporto con il bambino autistico se manca la copertura degli insegnanti di sostegno o non viene attuata la separazione dalla classe. Sicuramente questo tipo di risposta può giustificare la domanda di ulteriori risorse, che, però, non avrebbero nessun tipo di significato se non fossero collegate a un progetto di integrazione. Per fare in modo che la scuola e il suo progetto risultino attendibili alla famiglia, è necessario disporre il progetto educativo individuale nel progetto progetto educativo generale. La scuola deve riconquistare «la sua valenza di polo esperto agli occhi dei genitori chiamati a fornire un contributo veramente sostanziale e non solo formale» (Cottini, 2002, p. 103). 198


4.5 Team di lavoro: strategie operative Il bambino dovrebbe arrivare alla scuola in possesso almeno dei requisiti minimi indispensabili: l'attenzione condivisa, la capacità di scambio, la motricità fine, la comprensione del linguaggio e altre autonomie di base. Questo, però, il più delle volte non avviene e il bambino autistico si presenta privo di una adeguata attrezzatura, pertanto uno dei primi compiti che la scuola deve assolvere è di valutare l'esistenza di questi prerequisiti e, nel caso in cui siano assenti, attuare dei percorsi in grado di far acquisire all'alunno autistico queste competenze essenziali. La scuola dovrebbe cercare di favorire: - l'acquisizione di un tipo di linguaggio che può essere verbale, non verbale, corporeo, scritto. Naturalmente

si cerca di favorire il

linguaggio verbale; - lo sviluppo della capacità di esplorare l'ambiente; - l'acquisizione delle competenze di base; - la partecipazione attiva al gruppo classe; - l'avvio alla socializzazione in classe e nell'ambiente extrascolastico. La diagnosi medica rappresenta una sorta di informazione utilizzabile dagli insegnanti per inquadrare il soggetto autistico, che non deve essere visto come un esempio di patologia, bensì come una persona che è da conoscere nella sua totalità di essere umano. L'insegnamento non deve avere tempi morti, deve essere molto flessibile ed esplicito, inoltre deve utilizzare gli spazi correttamente e i materiali in un modo adeguato, valutando di volta in volta i risultati ottenuti per poter correggere eventuali errori o potenziare i progressi. Occorre guardare al bambino e alla sua specificità e non alla patologia 199


in sé. Affinché l'insegnamento riesca a dare qualche risultato positivo, bisogna elaborare obiettivi semplici, limitati, graduali, progressivi mediante tentativi vari e aggiustamenti continui degli apprendimenti12. Non bisogna pensare che l'esito del processo formativo dipenda solo dall'insegnante di sostegno oppure dalle capacità dell'alunno: è necessario abbandonare la visione individualistica per adottare una visione allargata, che creda possibile il raggiungimento di un obiettivo comune mediante lo sforzo coordinato di tutti. E' molto importante, a livello concettuale, sostituire l'insegnante di sostegno con la parola “sostegni”, con cui si intende un insieme di strumenti, operatori ed energie, coordinati tra loro e riferiti a una specifica realtà scolastica e sociale all'interno della quale si vuole realizzare l'integrazione del bambino disabile. Pertanto rappresentano dei sostegni: - il gruppo scolastico e sociale; - il gruppo classe; - il tutoring; - i materiali specifici; - l'uso specifico e l'organizzazione adeguata degli spazi; - i corsi di formazione; - gli incontri tra gli operatori coinvolti: medici, genitori, video, ecc.13. Come si può vedere i sostegni sono tanti e coinvolgono anche altri contesti, altri enti e altre istituzioni. Il tutoring, che rappresenta un sostegno, prevede che un alunno (tutor) esegua una sorta di insegnamento diretto, in coppia, a un altro alunno, con o senza difficoltà di apprendimento. I tutor sostituti dell'insegnante, in quanto

però

non sono solo dei

riescono a trarre da questa

esperienza dei notevoli vantaggi. Il tutoring, ossia l'alunno che 12 13

Cfr. autismo.inews.it Ivi.

200


insegna all'altro alunno, consente di ottenere degli ottimi risultati non solo nell'ambito puramente scolastico, ma anche all'interno dei rapporti interpersonali, nell'area della motivazione e dell'autostima: quindi si capisce il motivo per cui ha continuato ad acquisire sempre più importanza nella didattica speciale. La collaborazione tra gli allievi è in grado di realizzare delle occasioni veramente straordinarie per l'educazione di tutti gli alunni, compresi gli alunni disabili. Il tutoring consente

di

attuare

un'istruzione

individualizzata

e

contemporaneamente di inseguire gli obiettivi sociali dell'integrazione. Assegnare a un alunno in situazione di handicap il ruolo di tutor significa comunicargli di essere capace di fare qualcosa e di avere piena considerazione di lui. Inoltre, se tutti gli alunni provano a essere insegnanti, è molto più facile che si instauri in classe un clima più favorevole all'apprendimento. I benefici che riceve l'alunno assistito da un compagno sono dovuti soprattutto all'approccio individualizzato e al tempo che è stato dedicato in più alle sue difficoltà all'interno del contesto scolastico. I tutor durante la spiegazione al compagno, imparano non solo quando sviluppano l'argomento che stanno insegnando ma anche quando riesaminano la spiegazione che hanno fornito ripetendo e soffermandosi sugli aspetti più complessi. Inoltre riescono a imparare mentre osservano il processo di apprendimento dal punto di vista del compagno. In questo modo il tutor acquisisce maggiore sicurezza e autostima. Il tutoring contribuisce a sviluppare negli alunni degli atteggiamenti positivi nei confronti della scuola, ad aumentare la sensibilità verso gli altri e ad accrescere le interazioni positive tra i compagni di classe. Questo tipo di strategia consente al bambino autistico di tollerare meglio la presenza degli altri che si trovano a occupare il suo 201


stesso spazio e a utilizzare i suoi stessi materiali. Peck e collaboratori hanno attuato una ricerca condotta mediante delle interviste dirette a studenti che avevano interagito in prima persona, per mezzo soprattutto di programmi di tutoring, con compagni disabili. Le interviste hanno evidenziato ben sei tipi di benefici: 1- miglioramento del concetto di sé, ossia capacità di apprezzare le proprie caratteristiche personali in maniera molto più positiva; 2- minor paura delle differenze umane; 3- aumento della tolleranza nei confronti delle persone con cui si interagisce; 4- sviluppo di principi personali per i quali si è disposti a impegnarsi; 5- accettazione reale delle diversità; 6- aumento della comprensione interpersonale (Cfr. Cottini, 2002, p. 78). Per il bambino autistico poter restare in classe rappresenta un obiettivo importantissimo a livello relazionale, anche se trascorre la maggior parte del suo tempo in attività ripetitive e individuali. Riuscire a sviluppare la capacità di restare in ambienti poco prevedibili senza dar vita a comportamenti ostili è sicuramente una meta educativa assai significativa. Inoltre la permanenza in classe del bambino autistico anche durante attività non adatte a lui, può dimostrarsi molto utile: in questo caso si dice che l'alunno in situazione di handicap viene fatto “partecipare alla cultura del compito”. In altre parole viene messo nella condizione di riuscire a cogliere alcuni elementi in modo da poter gradire l'argomento. Un esempio di ciò è dato dalla testimonianza di Donna Williams, la quale afferma che è stato proprio il suo inserimento in una scuola normale a 202


permetterle di immagazzinare moltissime informazioni relative alle situazioni e alle persone: « “L'essere nelle scuole normali significava accumulare moltissime informazioni su come la gente si muoveva e parlava e su quanto dicevano, su ciò che a loro piaceva e che volevano o pensavano e come rispondevano a certe cose. [...] Se volevo spostarmi attraverso una stanza, per prendere qualcosa, avevo accumulato tutte quelle informazioni su come lo facevano gli altri e potevo farlo come loro. [...] Se non fossi stata esposta a tutte quelle parole, l'enorme vocabolario che avevo accumulato in modo subconscio, che sarebbe stato speso, più tardi, attivato dall'esterno da altri, non sarebbe stato costruito su base così ampia”» (Cottini, 2002, pp. 72-73). Occorre, anche, attuare un insegnamento uno a uno, che può essere svolto fuori dalla classe quando il tipo di attività da svolgere non può essere conciliata con l'ambiente perché, ad esempio, ci possono

essere

troppi

stimoli

che

distraggono

il

bambino.

Naturalmente questi momenti fuori dalla classe devono essere molto limitati e si devono ridurre con il progredire dell'adattamento del soggetto.

E' fondamentale anche creare un clima favorevole e

sereno all'interno della classe. La classe deve essere considerata una comunità, nella quale ognuno esercita la sua parte offrendo un suo contributo. Gli insegnanti hanno il compito di incentivare l'instaurarsi di rapporti tra gli alunni, soprattutto quando questi coinvolgono un alunno autistico. Perciò è opportuno creare in classe delle discussioni in merito all'importanza dell'amicizia e dell'aiuto, facendole diventare addirittura parte integrante del curricolo scolastico. Infatti tra gli obiettivi da raggiungere si potrebbe inserire quello di aumentare negli alunni la sensibilità verso i bisogni delle altre persone, mettendo in 203


evidenza la differenza esistente tra la semplice assistenza e l'aiuto volontario prestato a un compagno. Riguardo questo proposito risultano importanti i programmi di insegnamento di abilità prosociali, di cui si ha poca conoscenza in Italia e pertanto trovano poca applicazione all'interno del nostro sistema scolastico. Roche ha realizzato un particolare curricolo educativo per bambini della scuola materna, avente l'aumento dei

comportamenti

prosociali

come

fine

e l'organizzazione dei

rapporti di amicizia. Questo programma è stato presentato anche in versione italiana ed è

costituito da undici sessioni di lavoro

finalizzate a sviluppare gli elementi principali che compongono il comportamento prosociale: - la valutazione positiva dell'alunno; - l'empatia; - l'espressione dei propri sentimenti; - la creatività; - le relazioni interpersonali; - la non aggressività; - la non competitività; - i modelli positivi; - la collaboratività; - l'aiuto; - la condivisione (Cottini, 2002, p. 75). Ogni sessione di lavoro è costituita da attività che si articolano in ulteriori punti. Queste azioni prosociali di aiuto si attivano molto più facilmente se c'è una valorizzazione dei compagni. E questo è fondamentale nel caso

di

un alunno

autistico, perché occorre 204

che i compagni


comprendano che alcuni suoi comportamenti caratteristici, come la difficoltà a instaurare relazioni sociali o alcuni atteggiamenti aggressivi, non sono da attribuirsi a cattiveria, ma si tratta di conseguenze di un deficit. Per spiegare tutto questo si può utilizzare una semplice spiegazione degli aspetti principali della sindrome, oppure visionare dei film che hanno trattato storie relative a persone autistiche, o ancora leggere e commentare biografie di persone autistiche ad alto livello fino ad approdare allo studio proprio scientifico della patologia: tutto dipende dalla classe frequentata dagli alunni. Per creare una interazione prosociale fra tutti gli alunni della classe e per eliminare ogni forma di competizione dando vita così a un clima collaborativo, bisogna rimuovere i simboli che richiamano forme di competitività, come le classifiche di rendimento, i migliori disegni esposti e così via. Sarebbe opportuno creare dei cartelloni dove possano essere appesi i lavori di tutti gli alunni e non solo, come spesso avviene, quelli migliori, oppure fare dei murales in cui partecipano tutti gli allievi. E' utile creare dei gruppi di apprendimento cooperativo, anche se appare impossibile applicare tale metodologia in presenza di alunni autistici. «Malgrado ciò, ritengo che, con alcuni accorgimenti, il far parte di un gruppo organizzato in senso realmente cooperativo possa essere molto utile per l'allievo autistico» (Cottini, 2002, p. 84). Agli allievi autistici si devono assegnare dei compiti che siano il più possibile riferiti alle abilità che mostra di possedere, come la memoria meccanica, la facilità di calcolo, l'abilità visuo-spaziale, abilità che possono essere di grande utilità al lavoro collettivo. Sicuramente l'alunno autistico può ricavare dei risultati positivi da queste esperienze di gruppo, sia a livello dei rapporti interpersonali sia a livello cognitivo. 205


Non è da sottovalutare l'utilizzo del computer all'interno della didattica, che anche per l'alunno autistico può diventare un'occasione interessante, in quanto può avvicinarlo alle attività che vengono svolte da tutto il resto della classe. Il computer consente di focalizzare l'attenzione per tempi molto più lunghi e favorisce la gestione di compiti in modo autonomo. E' necessario, però, avvalersi di software specifici in base agli obiettivi che si vogliono raggiungere. Inizialmente è meglio usare software poco elaborati dal punto di vista informatico, ossia che non utilizzino troppi codici diversi perché questo potrebbe creare una sorta di confusione nel processo di decodifica del soggetto autistico. Sarebbe anche opportuno creare delle unità didattiche e delle esercitazioni personalizzate, costruendole sulle reali esigenze dell'alunno con il quale si interagisce.

4.6 Socializzazione nel gruppo classe L'obiettivo primario dell'insegnante di sostegno deve essere quello della socializzazione, superando delle attività educative in cui si instaura esclusivamente un rapporto di tipo “1:1” con l'alunno autistico, che finirebbe così con l'essere isolato dal gruppo classe. Occorre, invece, aiutare l'alunno a stare in maniera autonoma in classe, rispettando le regole del gruppo. Successivamente questo supporto scolastico deve diminuire gradualmente, via via che il soggetto riuscirà ad acquistare un certo livello di autonomia in classe. Solamente così si potrà ritenere effettivamente inserito e potrà imparare gradatamente a stare in classe e a interagire con insegnanti e compagni in modo del tutto autonomo, indipendentemente dalla presenza dell'insegnante di 206


sostegno. Il soggetto autistico non sa come relazionarsi con un compagno e, a sua volta, il compagno può trovare particolarmente difficoltoso interagire con lui. Se poi, a questa difficoltà di interazione e di comunicazione implicita nella stessa natura del disturbo, si viene ad associare un comportamento ostile e oppositivo che lo rende “diverso” agli occhi dei suoi compagni, allora di solito si forma una barriera che non consente ai coetanei di rapportarsi con lui. Nonostante tutto queste forme di relazioni sono fondamentali per lo sviluppo emozionale di questi soggetti. Pertanto l'obiettivo primario da inseguire nell'inserimento scolastico di un soggetto affetto da autismo, è proprio di cercare di introdurlo in un ambiente formato da coetanei con i quali non può evitare di intrattenere degli scambi sociocomunicativi. In questo modo la scuola si trasforma in una sorta di palestra, dove è possibile acquisire e successivamente esercitare la capacità di relazionarsi con gli altri. Non si deve però dimenticare che spesso

un

soggetto

autistico,

quando

mostra

comportamenti

gravemente ostili, viene isolato dal gruppo che si limita solamente a prendersi cura di lui senza coinvolgerlo in attività come feste o altre occasioni di incontro che sono essenziali per lo sviluppo emozionale di qualsiasi soggetto. Infatti il solo prendersi cura di un bambino autistico non necessariamente garantisce il successo dell'interazione: occorre anche servirsi di apposite strategie. Inoltre è importante offrire ai coetanei una guida per favorire gli scambi socio-comunicativi. Pertanto bisogna aiutare i coetanei del bambino autistico «a riconoscere e rispondere ai comportamenti comunicativi verbali e non verbali del bambino con autismo» (Quill, 2007, p. 236). Le strategie devono servire al coetaneo per riuscire a comprendere al meglio i tentativi di comunicare messi in atto dal bambino autistico ed è 207


importante che siano focalizzate sulla capacità del coetaneo di iniziare un'interazione con lui, di sapergli rispondere e di far continuare l'interazione. L'adulto utilizzerà delle istruzioni dirette, darà delle dimostrazioni oppure dei supporti ambientali, in base alle varie situazioni. Tramite le istruzioni dirette si insegna ai coetanei ad avvalersi di particolari sistemi per poter incoraggiare le interazioni. Prima di tutto è necessario che siano a conoscenza delle parecchie forme di comunicazione esistenti e inizino a capire i vari tentativi di comunicare del loro coetaneo autistico. Impareranno che le immagini, gli oggetti e le parole scritte sono tutte forme di comunicazione che si affiancano al linguaggio verbale, mentre il contatto visivo, l'espressione facciale, i gesti e la postura fisica sono tutti mezzi che servono per veicolare il messaggio. I coetanei, così, apprendono quanto sia importante diventare dei buoni ascoltatori quando il loro compagno autistico cerca di comunicare, inoltre «imparano a interpretare le modalità di comunicazione non convenzionali, come ad esempio afferrare o lanciare oggetti» (Quill, 2007, p. 237). Ai coetanei può essere insegnato direttamente il modo per riuscire a far parlare con loro il compagno autistico. Si può insegnare loro ciò che devono dire e fare per poter attirare l'attenzione del compagno, per avviare e sostenere

un'interazione:

questo

insegnamento

può

avvenire

utilizzando il gioco di ruolo. I coetanei, poi, si esercitano sull'approccio più idoneo da utilizzare con quel determinato bambino autistico, approccio che può consistere nel prendere la mano del compagno, nel toccargli il braccio, nel stargli vicino in piedi o nel mostrargli un oggetto. Inoltre, ai coetanei si insegna «come insistere se l'amico non risponde, come aspettare una risposta e come ignorare 208


certi comportamenti» (Quill, 2007, p. 237). Per favorire le relazioni tra bambini si può fornire un modello, che può essere presentato nella forma di dimostrazione o di supporto verbale. Tale modello rappresenta un supporto esplicito del coetaneo. Gli adulti possono partecipare all'attività dei bambini altrimenti possono assistere dirigendo l'interazione. Nel caso in cui si assista a un'attività, si danno al coetaneo una serie di suggerimenti verbali, stando posizionati in un angolo della stanza oppure dietro il coetaneo stesso. Risulta fondamentale che l'adulto all'interno dell'interazione eserciti un ruolo molto esplicito per il coetaneo e per il bambino affetto da autismo. Per quanto riguarda i supporti ambientali, questi si possono usare insieme con il modello oppure in sostituzione dell'aiuto fornito dall'adulto. Si tratta di schemi o schede-guida contenenti la sintesi di tutti i comportamenti che i coetanei devono avere con il compagno autistico. Sono dei promemoria illustrati o scritti, che i coetanei possono vedere e che ricordano come bisogna parlare a un bambino autistico e cosa si deve fare. Si cerca di fare in modo che i coetanei inseriscano queste tecniche di interazione nel loro repertorio così da non avere più bisogno dell'aiuto dell'adulto per relazionarsi con in loro compagno autistico.

209


4.7 Integrazione sociale del soggetto autistico Insegnare le abilità sociali è assolutamente indispensabile per poter ottenere l'integrazione, che deve andare ben oltre il periodo scolastico. Perché avvenga l'inclusione del soggetto autistico sono necessarie alcune condizioni: - è necessario che entri a far parte del mondo dell'informazione verbale; - è necessario che possegga la capacità di tollerare la vicinanza degli altri per varie ore del giorno; - è necessario che la sua rigidità mentale non gli impedisca di imparare a sapersi muovere all'interno della vita sociale; - è necessario che le sue regole non siano esageratamente esigenti, come quando si intestardisce su alcuni comportamenti. Pertanto occorre focalizzare l'attenzione sugli aspetti funzionali, ossia insegnare ai soggetti autistici comportamenti e abilità che poi potranno usare veramente nella vita di tutti i giorni, come tenersi puliti, usare il bagno, lavarsi i denti, vestirsi, saper nutrirsi, interagire socialmente, saper vivere all'interno della comunità, all'interno degli ambienti. E' fondamentale insegnare loro non solo le abilità di autonomia personale ma anche quelle di autonomia sociale come l'uso dei mezzi pubblici di trasporto, del telefono, dei soldi oppure saper leggere l'orologio. A queste si aggiungono le abilità

interpersonali

come

salutare

e

rispondere agli altri, le abilità di comunicazione come esprimere verbalmente o a gesti le esigenze personali e le abilità prelavorative. Per quanto riguarda le abilità scolastiche di base come leggere, scrivere e contare è difficile che i soggetti autistici riescano ad acquisirle, la maggior parte delle volte acquisiscono solamente delle 210


abilità funzionali, come la capacità di leggere solo parole dotate di una grande validità pratica, ad esempio “entrata”, “uscita”, “pericolo”, etc. L'acquisizione dei vari tipi di abilità di autonomia aiuta questi soggetti a rispondere in modo positivo alla loro disabilità e a vivere una vita più normale, sentendosi maggiormente inclusi nella società. E' la scuola che ha il compito di cercare di rispondere al bisogno dell'integrazione sul piano sociale. E per una giusta integrazione, che vada ben oltre il semplice assistenzialismo o la sola accoglienza, occorre ritenere il soggetto autistico

un individuo in continuo

divenire, che ha il diritto ad avere un futuro e rispettarlo nella sua identità. Il 9 Maggio 1996 il Parlamento Europeo ha adottato la carta dei diritti dei soggetti affetti da autismo, in cui si afferma che le persone autistiche hanno i medesimi diritti di tutta la popolazione europea nella misura delle proprie possibilità e del proprio miglior interesse. Più precisamente le persone autistiche hanno diritto a: 1. una vita piena e indipendente nella misura delle proprie possibilità; 2. una diagnosi e valutazione clinica precisa, accessibile e imparziale; 3. un'educazione accessibile e idonea; 4. (o i rappresentanti) a decidere del proprio futuro e, per quanto possibile, al riconoscimento dei propri desideri; 5. a un'abitazione accessibile e appropriata; 6. ad attrezzature, aiuto e presa in carico necessaria per condurre una vita produttiva, dignitosa e indipendente; 7. a un reddito o ad uno stipendio sufficiente a provvedere al sostentamento; 8. a partecipare per quanto possibile, allo sviluppo e alla gestione dei servizi realizzati per il loro benessere; 211


9. a cure accessibili e appropriate per la salute mentale e fisica per la propria vita spirituale; 10. a una formazione corrispondente alle proprie aspirazioni e a un lavoro senza discriminazioni e pregiudizi; 11. a mezzi di trasporto accessibili e alla libertà di movimento; 12. attività culturali, svago, sportive; 13. a godere di risorse, servizi e attività a disposizione della popolazione; 14. a relazioni sessuali, matrimonio incluso, senza coercizione o sfruttamento; 15. a rappresentanza, assistenza legale, e protezione dei propri diritti legali; 16. non dover subire la paura o la minaccia di un internamento ingiustificato in ospedale psichiatrico o in qualunque istituto di reclusione; 17. a non subire maltrattamenti fisici o abbandono terapeutico; 18. a non ricevere trattamenti farmacologici inappropriati o eccessivi; 19. (o i rappresentanti) all'accesso a documentazione personale in campo medico, psicologico, psichiatrico, educativo14. Questo documento è stato presentato al IV Congresso di AutismeEurope, l'Aia, tenutosi il 10 Maggio 1992. Autisme-Europe è una associazione internazionale, il cui principale obiettivo è di difendere i diritti delle persone autistiche e delle loro famiglie e di migliore la loro qualità di vita. E' in grado di assicurare un efficace coordinamento tra più di 80 associazioni, i governi e le istituzioni europee e internazionali. Tutte queste associazioni sono composte da genitori di persone affette da autismo e 14 Cfr. www.autismoitalia.org

212


sono presenti in ben 30 paesi europei, tra cui 20 sono Stati membri dell'Unione Europea. Autisme-Europe svolge un ruolo fondamentale nel sensibilizzare l'opinione pubblica e i responsabili politici europeiriguardo i problemi dell'autismo e nel promuovere i diritti delle persone con autismo15. Ogni due anni organizza un convegno a livello europeo che unisce le persone con autismo, i genitori, i professionisti e

i

responsabili delle

decisioni

politiche.

A

tale convegno

partecipano i maggiori esperti di autismo e vengono mostrate le più recenti ricerche scientifiche e i migliori esempi di pratica. Quindi lo scopo di Autism-Europe è di prestare una particolare attenzione al rispetto della dignità e dei diritti delle persone affette da autismo, che hanno lo stesso valore umano di qualsiasi altra persona, e come tali hanno gli stessi diritti umani. Più precisamente le persone autistiche devono avere gli stessi diritti che devono essere garantiti e difesi per tutte le persone affette da disabilità. Nonostante alcuni Stati membri dell'Unione Europea abbiano accettato la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, entrata in vigore il 3 Maggio 2008, Autisme-Europe chiede che tale

Convenzione

sia

accettata non solo da pochi Stati, bensì da tutti gli Stati dell'Unione Europea. In questo modo, si assicurano alle persone autistiche dei benefici, derivanti dai principi guida che sono alla base della Convenzione tra cui:

• rispetto per la dignità intrinseca, l'autonomia individuale, compresa la libertà di esercitare le proprie scelte, e l'indipendenza della persona;

• non-discriminazione; • piena ed effettiva inclusione nella società; 15 Cfr. www.autismeurope.org

213


• rispetto delle differenze e accettazione delle persone con disabilità come parte dell'umanità nelle sue diversità;

• pari opportunità; • diritto alla salute; • diritto a un'educazione appropriata16. Autisme-Europe, però, sostiene che i bisogni delle persone autistiche nell'ambito della salute, dell'educazione e dell'occupazione non sono presi in considerazione in maniera sufficiente, e che in ogni paese europeo avviene una violazione dei diritti delle persone autistiche. Per questo motivo Autisme-Europe raccomanda anche di prendere in considerazione le seguenti 10 misure: 1. migliorare gli indicatori esistenti nell'ambito dei servizi sanitari in modo da poter misurare la percentuale di persone con autismo o altre disabilita’ complesse che beneficiano di programmi abilitativi adeguati; 2. rafforzare la formazione iniziale e permanente degli operatori sanitari sui sistemi di diagnosi accreditati a livello internazionale, e garantire una formazione appropriata al personale educativo che si occupa di persone con autismo; 3. garantire una collaborazione attiva fra famiglie e professionisti nella programmazione degli interventi educativi o di altro genere; 4. garantire l'uguaglianza di accesso per tutti al sistema educativo e assicurare pari opportunità di sviluppare le potenzialità individuali in ogni

tipo

e

livello

d’insegnamento, indipendentemente dal

tipo o dal livello di scuola, per mezzo di strategie educative consolidate e di programmi educativi individualizzati;

16 www.autismeurope.it

214


5. integrare i

bisogni e le

caratteristiche

comportamentali

e

comunicative delle persone con autismo o altra disabilità complessa nei sistemi educativi ordinari per mezzo di percorsi di formazione permanente, e non solo di corsi specialistici, per gli operatori scolastici di ogni livello e per i genitori; 6. rafforzare l’educazione permanente e soprattutto la formazione professionale degli adulti con autismo o altre disabilità; 7. rinforzare e adattare il supporto sul posto di lavoro ai bisogni delle persone con autismo o altre disabilita’ complesse; 8. adeguare l’ambiente per favorire la comunicazione e prevenire i comportamenti problematici delle persone con autistiche; 9. garantire la scelta del proprio stile di vita, a casa o in ambiente residenziale, con un supporto adeguato da parte dei servizi sociosanitari; 10. garantire alle persone autistiche una buona qualità di vita in termini di benessere fisico, emotivo, sociale e materiale17. Autisme-Europe ritiene l'educazione permanente fondamentale per il soggetto autistico in quanto è solo per mezzo dell'educazione permanente per tutto l'arco della vita che le persone affette da autismo riusciranno a rendere più positiva la loro partecipazione alla vita sociale. Spesso si crede che con la comparsa del linguaggio, la vita del soggetto autistico possa migliorare notevolmente. Ciò è vero in parte in quanto l'acquisizione del linguaggio non rappresenta assolutamente la fine delle difficoltà della persona autistica nell'ambito della comunicazione e delle interazioni sociali. Per tale motivo è necessario guidare per tutta la vita l'acquisizione delle abilità sociali e funzionali mediante dei mezzi educativi appropriati. Affinché 17 www.autismeurope.org

215


gli adulti autistici possano condurre una vita sempre più indipendente all'interno della comunità di appartenenza, Autisme-Europe sostiene fortemente la necessità che l'educazione permanente per le persone autistiche comprenda centri, strutture residenziali e risorse all'interno della comunità, nonché programmi di integrazione nella stessa. E' necessario incoraggiare

attivamente

nei

soggetti

autistici

gli

interessi personali individuali, la capacità di autonomia nel difendere i propri

diritti,

l'apprendimento

dei

prerequisiti

necessari

alla

formazione professionale, le abilità di autonomia personale all'interno della vita quotidiana e di autogestione del tempo libero. Autisme-Europe ha anche avviato un costruttivo dialogo con le varie

istituzioni

europee,

il

Consiglio

d'Europa

nonché

l'Organizzazione mondiale della sanità.

4.8 Organizzazione di ambienti idonei «Organizzare l'ambiente di lavoro significa rispondere alla domanda: dove si svolgono le diverse attività?» (Cottini, 2008, p. 70). Delimitando gli spazi si aiuta il bambino autistico a rendersi consapevole delle attività che si svolgono in ogni singolo luogo: in questo modo riesce a capire cosa deve fare quando si trova in un determinato ambiente e di conseguenza si può aiutarlo ad agire in maniera più efficace. La strutturazione dell'ambiente tranquillizza e rassicura la persona autistica, che diventa meno ansiosa «quando sa esattamente che cosa ci si aspetta da lei in un certo momento e in un certo luogo e che cosa accadrà in seguito» (Società Italiana di Pedagogia Speciale, 2008, p. 48). Lo spazio in cui si trova il soggetto 216


autistico si dovrebbe suddividere in ambienti diversi, i quali si differenziano per le attività che vi verranno svolte. All'interno di una classe si potrebbe così realizzare uno spazio dedicato ad attività da tavolo e uno spazio per il gioco costituito da un tappeto e dai giocattoli: è fondamentale che entrambi

gli spazi vengano

contrassegnati da simboli adeguati che ne permettano l'identificazione. Si può organizzare lo spazio di lavoro affiancando a un banco due banchi posti in modo perpendicolare: sul banco a sinistra viene disposto il materiale necessario per eseguire il lavoro, mentre a destra quello

completato.

In

considerazione

di

quanto detto, risulta

fondamentale prevedere classi in cui lo spazio di lavoro non si limiti a essere costituito esclusivamente dalla cattedra e dai banchi, ma ci sia la possibilità di organizzare ulteriori spazi in cui poter realizzare altre attività didattiche come la lettura individuale, il lavoro al computer, il lavoro di ricerca, i lavori manuali e così via. Questa strutturazione non deve essere, però, intesa in termini di rigidità ma di flessibilità, ossia è necessario che sia realizzata secondo le esigenze di ogni singolo individuo e del suo livello di sviluppo raggiunto. E' fondamentale, quindi, che le modalità di strutturazione dell'ambiente si basino sulle caratteristiche peculiari del soggetto, che sono desumili dalla valutazione funzionale e che si trovano contenute all'interno del PEI. Strutturare l'ambiente significa renderlo prevedibile, organizzarlo tenendo presente le

«caratteristiche sensoriali del bambino, della

sua attenzione, del suo livello di attività (iper o ipo), della sua comprensione del linguaggio» (Società Italiana di Pedagogia Speciale, 2008, p. 47). Pertanto, occorre prestare particolare attenzione ai possibili stimoli distraenti presenti nell'area di lavoro: qualora fossero troppo distraenti, bisognerebbe cercare di eliminarli per poter così 217


indirizzare più facilmente l'attenzione del bambino sulle attività da svolgere. Questo è il motivo per cui non si devono assolutamente prevedere cartelloni o altri tipi di decorazioni alle pareti, orologi a muro, tendaggi variopinti e ricchi di disegni e altri stimoli simili all'interno

dei luoghi adibiti

allo

svolgimento

delle

attività

didattiche. Per un alunno autistico stare nel primo banco è un modo per evitare possibili distrazioni causate dai compagni che si troverebbe ad avere davanti. Anche l'avere di fronte al banco un muro bianco, privo di qualsiasi oggetto appeso, contribuisce a rimuovere le distrazioni e ad accrescere la sua attenzione nei confronti delle attività scolastiche. Nel caso in cui l'aula sia troppo piccola e disordinata, si avrebbe un ambiente del tutto inadeguato a un soggetto autistico: infatti gli oggetti sarebbero sparsi per la classe non essendoci lo spazio a sufficienza per riporli correttamente e, inoltre, l'alunno autistico avrebbe notevoli difficoltà a individuare i confini visivi. In un simile ambiente il bambino autistico non è in grado di orientarsi da solo e di raggiungere l'autonomia di movimento per lui così importante. Come sostiene Schopler, modificare determinati aspetti dell'ambiente consente di aumentare notevolmente i punti di forza del soggetto autistico, facendo diminuire fortemente i suoi deficit. L'ambiente, quindi, si deve presentare ordinato e prevedibile non solo dal punto di vista macrostrutturale, ossia nella disposizione delle attività e dei materiali, ma anche da quello microstrutturale con l'inserimento di particolari supporti. A livello macrostrutturale gli spazi di lavoro, oltre a essere contrassegnati, dovrebbero essere dotati di supporti visivi come immagini e scritte relative a una particolare attività da svolgere, in modo da puntare sulle abilità visuo-spaziali del bambino e contemporaneamente cercare di potenziare le 218

sue

capacità di


letto-scrittura. Per sviluppare tali capacità, nell'ambiente dovrebbe essere presente il seguente materiale:

• prospetti che riportano i tipi di attività di lavoro da svolgere in • • • • • •

giornata; calendari; uno schema della giornata; etichette; segni stampati; bacheche; carte immagine/parola per aiutare il bambino autistico a elaborare l'informazione uditiva e orientare così il suo comportamento (Cfr. Quill, 2007, p. 190).

A livello microstrutturale, nell'ambiente ci dovrebbero essere una serie di supporti concreti che devono essere studiati appositamente per facilitare la comprensione da parte del bambino. Si possono utilizzare dei simboli per indicare un cambiamento che avverrà nella giornata, in modo da aiutare il bambino a capire che qualcosa di nuovo subentrerà al posto di una delle consuete attività inserite nello schema della giornata. Può essere usato un simbolo generico come una linea frastagliata o un'immagine oppure la stessa parola “cambio”. Così se un giorno attività motoria viene spostata nell'orario in cui di solito ci si reca in biblioteca, l'immagine o il simbolo grafico della biblioteca è sostituito con quello della palestra. Questo supporto concreto aiuta il bambino a comprendere il difficile passaggio da un'attività all'altra o il trasferimento da un luogo a un altro. L'ambiente è in grado sia di favorire le relazioni comunicative che di scoraggiarle. E' possibile dar vita a un contesto comunicativo per incoraggiare l'utilizzo del linguaggio a scopo comunicativo. Pertanto bisognerebbe riuscire a creare un maggior numero di occasioni 219

ambientali in modo da


sollecitare l'interazione e facilitare le risposte verbali. Si dovrebbe costruire appositamente un particolare ambiente che susciti nel bambino autistico l'esigenza di comunicare con qualcuno allo scopo di ottenere degli oggetti oppure di fare succedere qualcosa. Tutto questo viene definito da McClowry e Guilford con il termine “disequilibrio dinamico” e affermano che il suo scopo è di favorire una responsività sempre maggiore.

4.9 Forme di supporto alla famiglia E' molto importante offrire aiuto alle famiglie con figli in situazione di handicap, perché in questo modo riescono ad aiutare non solo se stesse ma anche tutte le agenzie educative che rientrano nel progetto di vita del figlio. Purtroppo, però, nel nostro paese fino ad ora si sono fatte solamente tante parole e poche azioni concrete. Si è assistito a una diffusione di determinati approcci terapeutici

che

attribuiscono al genitore il ruolo di terapista o di educatore. Sembrano, invece, migliori certe «iniziative di supporto alla famiglia sviluppatisi nell'ambito dell'approccio sistemico denominato community care» (Cottini, 2002, p. 92). Queste iniziative consistono in una serie di aiuti e sostegni che permettono alla famiglia sia di adattarsi più facilmente alla nuova situazione di handicap del figlio sia di integrarsi più agevolmente nella comunità di appartenenza. Due sono i tipi di azione di sostegno che si possono intraprendere per aiutare le famiglie: i gruppi di mutuo-aiuto e i programmi di parent training. I gruppi di mutuo-aiuto sono dei piccoli gruppi di persone 220


aventi in comune il fatto di essere genitori di bambini in situazione di handicap. Questi gruppi si riuniscono regolarmente per potersi dare sostegno a vicenda e soprattutto all'inizio è presente un professionista con la funzione di guida del gruppo e di facilitatore della comunicazione. Si tratta di un «intervento finalizzato a rinforzare la rete di supporti sociali al di fuori della famiglia» (Usai, Zanobini, 1997, p. 210). Il fatto che anche altri genitori vivano le stesse esperienze rappresenta una forma di sostegno emotivo e nello stesso tempo l'occasione di poter affrontare dei problemi mediante lo scambio di esperienze. Poter constatare che altri hanno le stesse paure, gli stessi problemi a volte anche più gravi e che altri sono riusciti a trovare la maniera per poter vivere una vita più soddisfacente, conduce a una riflessione molto profonda sulla propria situazione, facendo apprezzare molte cose a cui prima si era dato pochissimo valore. In questi tipi di gruppi «ogni membro è contemporaneamente fruitore e dispensatore di aiuto, in funzione dell'esperienza maturata nei confronti del problema» (Cottini, 2002, p. 93). Tutti i membri si danno assistenza reciproca per trovare possibili soluzioni ai loro problemi comuni. Per far parte di un gruppo di mutuo-aiuto è necessario essere disposti a condividere i propri bisogni e a rispettare i pareri degli altri evitando ogni forma di prevaricazione. La partecipazione a questi gruppi consente ai genitori di ottenere una forte gratificazione, in quanto sentono di essere d'aiuto ad altri che si trovano nella stessa situazione. Sicuramente non mancano delle difficoltà che limitano il valore del gruppo facile

che

di

muto-aiuto. Infatti, è

la discussione si faccia dispersiva perché le persone

parlano contemporaneamente oppure perché il gruppo si ritrova ad essere diviso in piccoli nuclei che trattano di altri argomenti. Inoltre, 221


può accadere che alcuni membri del gruppo finiscano con il monopolizzare la discussione facendo continui interventi o che altri, al contrario, siano incapaci di prendere la parola, bloccati dalla timidezza o dal clima per nulla disteso presente nel gruppo. Per questi motivi risulta importante la presenza di un conduttore della discussione in grado di regolare gli interventi evitando così gli eccessi che sarebbero solamente dannosi al gruppo stesso. Il gruppo poi dovrebbe riuscire a spostare la funzione di leader dal conduttore a quei genitori che fanno parte del gruppo da tempo: solo così si possono gettare le basi per poter continuare questa esperienza dei gruppi di mutuo-aiuto in maniera totalmente autoregolata. Questo tipo di esperienze si stanno diffondendo anche nel nostro paese e «i primi risultati appaiono estremamente significativi in termini di sostegno emotivo, di attivazione di energie e di presa di coscienza del ruolo attivo e collaborativo che la famiglia deve assumere» (Cottini, 2002, p. 94). I programmi di parent training sono rivolti alle famiglie di bambini in situazione di handicap e differiscono dai gruppi di mutuoaiuto per la loro maggiore strutturazione. Sono programmi formativi tenuti da personale specializzato e aventi come fine lo sviluppo di capacità in grado di incrementare le risorse familiari e della capacità di saper gestire i problemi. All'interno dei corsi di parent training i genitori imparano a osservare più attentamente, ad approfondire e definire i problemi dei propri figli in termini di capacità e di comportamenti. Inoltre imparano a sondare l'ambiente in cui si manifesta il problema alla ricerca di stimoli che ne favoriscono o ne arrestano la comparsa e imparano, anche, a porsi dei traguardi e a stabilire dei parametri per poter misurare il grado di raggiungimento 222


di queste mete. Questi corsi solitamente hanno una durata minima di tre mesi, con una frequenza settimanale, mentre la durata massima può arrivare fino a un anno ed estendersi anche oltre. Il numero dei partecipanti può andare dalle 5-6 famiglie, se il corso prevede anche attività di tipo psicologico, fino ad arrivare a 12-15 famiglie se il corso è di natura prettamente didattica. Solitamente si fa in modo che i partecipanti siano abbastanza omogenei riguardo i problemi da affrontare, così ci potranno essere prevalentemente genitori di bambini autistici oppure genitori di bambini affetti da un lieve ritardo mentale. Comunque, qualunque sia il tipo di patologia, in questi corsi si punta soprattutto a migliorare le abilità del bambino piuttosto che a eliminare i comportamenti problema. Questi programmi di parent training hanno fatto la loro comparsa negli Stati Uniti alla fine degli anni settanta focalizzando il loro interesse soprattutto sui seguenti campi: - il controllo del comportamento oppositivo; - il controllo dell'iperattività; - l'autocontrollo; - il comportamento del bambino autistico (Cfr. Cottini, 2002, p. 96). Anche nel nostro paese, Soresi insieme ai suoi collaboratori ha sperimentato questo tipo di intervento, ottenendo riscontri interessanti. Più recentemente, ha preso avvio un progetto di Scuola Nazionale di Parent Training presso il Centro Socio-educativo di Urbino. Fino ad ora questo tipo di attività ha visto impegnate circa cinquanta famiglie, producendo dei riscontri particolarmente positivi, in quanto si è potuto constatare che la maggioranza dei genitori ha tratto da questa esperienza dei vantaggi sia a livello della relazione con il bambino disabile sia sula piano personale nonché di coppia. 223


Tali corsi vengono condotti da un équipe di psicologi e pedagogisti, che prevede una serie di attività diverse per favorire la collaborazione fra la famiglia, le istituzioni educative e i servizi specialisti nella stesura del progetto di vita per il soggetto in situazione di handicap. Esistono, poi, altri tipi di supporti offerti alla famiglia come i servizi di respite care, che letteralmente significa “sollievo nel prendersi cura”. Questi tipi di servizi, infatti, danno ai genitori la possibilità di prendersi un momento di pausa dalla cura quotidiana del bambino. Non deve essere tralasciato il supporto economico che in parecchi casi è fondamentale in quanto la presenza di un figlio in situazione di handicap comporta un notevole aumento di spese e una riduzione delle risorse lavorative. Entrambi questi tipi di supporti sono di tipo pratico e contribuiscono a ridurre lo stress dei genitori. A livello di servizi educativi, esistono delle strutture in cui il bambino può aumentare le sue capacità nell'ambito della cura personale, delle relazioni sociali e della comunicazione, riducendo così la fatica dei genitori nel gestire le diverse attività giornaliere. A questi tipi di supporti si aggiungono altri due tipi di interventi: - gli interventi per migliorare le relazioni all'interno della famiglia, aventi come fine l'insegnamento di abilità comunicative adeguate per fronteggiare le situazioni problematiche e il potenziamento della soddisfazione nel matrimonio; - gli interventi per migliorare i rapporti fra genitori e professionisti, mediante

l'utilizzo

comportamenti

di

di

programmi

quest'ultimi

e

per

poter

migliorare

le

modificare loro

i

abilità

comunicative, e attraverso l'insegnamento ai genitori di opportune strategie per essere in grado di interagire positivamente con i vari professionisti (Cfr. Usai et al., 1997, p. 211). 224


Tra tutti i tipi di supporti elencati, nessuno di essi può ritenersi risolutivo. Occorre considerare l'utilità di ogni supporto in base alle specifiche esigenze di una determinata famiglia, che si trova a vivere una certa fase della sua evoluzione. In parecchi paesi sta iniziando a essere applicato anche in termini legislativi il principio secondo cui gli interventi non siano costruiti esclusivamente sul bambino, ma si focalizzino pure sulle esigenze e sulle risorse delle famiglie. Riguardo a questo, si deve menzionare l'entrata in vigore del P.L. 99-457 negli Stati Uniti: si tratta di una legge che contempla programmi di intervento precoce individualizzati diretti sia al bambino che alla famiglia. In Italia esiste, invece, la legge quadro sull'handicap n. 104 del 5 febbraio 1992 che ufficializza i diritti delle persone disabili e delle loro famiglie in vari ambiti: diagnosi e cura; integrazione sociale, scolastica e lavorativa; rimozione delle barriere

architettoniche; agevolazioni lavorative

riservate alle famiglie con un membro disabile; partecipazione delle famiglie a tutte le fasi di progettazione degli interventi educativi.

4.10 Il ruolo della famiglia Tutti i diversi elementi che compongono una famiglia si trovano in stretta relazione tra di loro, per questo motivo «gli eventi e le circostanze che investono un membro della famiglia hanno inevitabili ripercussioni anche sugli altri membri» (Simpson et al., 2006, p. 129). Pertanto la presenza di un bambino autistico non solo influenzerà tutta la famiglia, ma a sua volta sarà influenzato dalla famiglia stessa: ciò richiede una focalizzazione dell'attenzione dei genitori e degli 225


operatori non solo sul soggetto autistico ma su tutti gli altri componenti della famiglia e sui loro rapporti. Questo è uno dei motivi per cui si cerca di coinvolgere i genitori e i familiari dei bambini autistici. Un secondo motivo è dovuto al bisogno, mostrato da tutti questi bambini, di diverse tipologie di interventi. Infatti, i soggetti autistici presentano una serie di necessità veramente importanti in molti ambiti diversi, come quello comportamentale, linguistico, cognitivo, relazionale, ecc. E' per queste ragioni che gli operatori spesso non sono in grado di rispondere in maniera adeguata a tutti i bisogni di questi soggetti se non si avvalgono della collaborazione dei familiari. Questa collaborazione consiste non solo in una efficiente comunicazione tra genitori e operatori ma anche nella creazione di appositi programmi di insegnamento di particolari competenze e di gestione del

comportamento

in ambito familiare: collaborazione

che si è dimostrata essere assai utile. Quindi genitori e familiari dovrebbero avere un ruolo decisamente attivo all'interno dei programmi di insegnamento e di educazione. La comunicazione tra genitori e operatori è fondamentale in quanto permette sia ai genitori che agli operatori di ottenere informazioni molto dettagliate. Mediante un

profondo

interscambio,

gli

operatori

acquisiscono

molte

informazioni importanti sul bambino, come la storia del suo sviluppo, il suo cammino scolastico e le aspettative della famiglia, mentre gli operatori danno ai genitori un resoconto particolareggiato e sempre aggiornato dei progressi fatti dal figlio. Il resoconto rilasciato dagli operatori deve contenere anche delle valutazioni effettuate ed è fondamentale che non si riduca a una serie di dati trasmessi aridamente, ma che si articoli in una discussione in merito agli stessi dati. Tali discussioni permettono ai genitori di ottenere ulteriori 226


indicazioni assai significative. Spesso, infatti, le indicazioni degli operatori consentono a tutti i familiari di realizzare dei programmi educativi individualizzati con il proprio figlio. Questi programmi educativi fanno in modo di coinvolgere i familiari nell'educazione e rendono più ottimale le relazioni tra la famiglia e il bambino autistico. Inoltre i genitori possono ottenere notizie riguardo il modo di gestire il comportamento del figlio e avere informazioni sulle diverse procedure educative: in tal modo possono apportare delle modifiche anche nel contesto familiare, diffondendo così il lavoro educativo effettuato dagli operatori ad ambienti non professionali. Pertanto sarebbe opportuno che gli stessi operatori insegnassero ai familiari il modo di lavorare in prima persona con il figlio autistico. Si possono coinvolgere le famiglie nei vari interventi, nei programmi educativi e nelle attività di sostegno. Il ruolo della famiglia in questi ambiti può essere quello di:

• agenti di segnalazione precoce di qualcosa che non va; • agenti di supporto rispetto a interventi professionali; • manager del caso per i loro bambini (Simpson et al., 2006, p. 134). Essere agenti di segnalazione significa riferire all'operatore con quale frequenza, intensità e durata si presenta il problema. E ciò è molto importante perché consente di effettuare un intervento educativo precoce che per i soggetti autistici è fondamentale, e di ricorrere a un'assistenza adeguata quanto prima. E' fondamentale che operatori e genitori lavorino insieme: quando gli operatori prendono una decisione è necessario che i familiari la supportino e la mettano in pratica nella quotidianità.

227


«Genitori

e

operatori

devono

sforzarsi

di

raggiungere

una

partnerschip in cui entrambe le parti abbiano il diritto di affermare la propria opinione e il proprio eventuale disaccordo» (Simpson et al., 2006, p. 138). Un rapporto di questo tipo permette di rafforzare collaborazione e

di

la

migliorare notevolmente la qualità dei servizi

offerti ai bambini. I genitori devono riuscire ad avere fiducia negli operatori: ciò non vuol dire accettare passivamente le proposte e le strategie oppure delegare ad altri la responsabilità di soddisfare al meglio le esigenze del bambino. I genitori si devono impegnare in prima persona per difendere i diritti dei loro figli, cooperando costantemente con gli operatori. Se la diversità inizia a essere accettata da più datori di lavoro, offrendo a queste persone uguali opportunità, allora la loro integrazione nel mondo del lavoro continuerà a diffondersi. Per favorire questa integrazione lavorativa, negli Stati Uniti si rilasciano delle agevolazioni fiscali a tutti quei datori di lavoro che sono disposti ad assumere una persona affetta da autismo. Ovviamente tutte queste opportunità che vengono concesse hanno più probabilità di avere esito positivo con soggetti autistici meno gravi anche se comunque dovrebbero poter esserci possibilità appropriate a qualsiasi livello. Sicuramente si tratta di una grandissima sfida per il futuro.

228


CONCLUSIONE Non so quale sia la ragione, ma l'autismo ha da sempre catturato la mia attenzione, probabilmente perché si tratta di una patologia ancora poco conosciuta, che presenta molti aspetti a cui la medicina non è riuscita a fornire delle risposte esaurienti e certe. E come tutte le cose oscure e poco conosciute che esercitano su di noi un certo fascino facendoci diventare curiosi e assetati di conoscenza, anche l'autismo risveglia la nostra sete di sapere. Vorremmo riuscire a saperne sempre di più, ma nonostante siano stati fatti enormi progressi, la strada da percorrere è ancora lunga e in salita. La mia curiosità è stata attratta da un libro con un titolo un po' strano “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” il cui protagonista è un ragazzo affetto dalla sindrome di Asperger, una forma di autismo. E' lui stesso il narratore del romanzo e fin dalle prime pagine ci informa che conosce a memoria tutte le nazioni del mondo e le loro capitali, e tutti i numeri fino a 7507. Più tardi ci dice che ha 15 anni, 3 mesi e 3 giorni, che non mente mai, che non ama assolutamente essere toccato. E' sicuramente un autoritratto fuori dal comune che incoraggia a conoscere ulteriormente questo personaggio. Ciò che sorprende è da un lato la sua straordinaria intelligenza matematica e la sua notevole memoria mentre dall'altro la sua grandissima difficoltà a relazionarsi con gli altri e il suo bisogno costante di certezze. Se il mondo intero fosse ridotto a numeri, per lui vivere sarebbe molto più semplice. Pagina dopo pagina la mia curiosità aumenta, voglio conoscere il suo modo di vedere la realtà: mi attrae l'unicità di questo soggetto, ammiro la sua capacità molto singolare di mettersi a nudo e soprattutto il suo osservare il mondo con un'innocenza e una inflessibilità che oggi sembrano andate perse. In 229


un secondo tempo decido di entrare in contatto direttamente con questi soggetti, facendo un tirocinio di alcuni mesi presso un istituto. Dopo un iniziale impaccio, perché naturalmente non so come comportarmi, avviene un graduale avvicinamento: si può dire che ci siamo studiati reciprocamente. E' accaduto tutto in modo molto naturale e anche in pochissimo

tempo.

Posso

constatare

in

prima

persona

la

straordinarietà di questi soggetti: proprio come era accaduto durante la lettura del libro, mi ritrovo ad ammirare la loro purezza, la loro genuinità, la loro semplicità. Oggi seguo un bambino autistico di 10 anni, e la sua freschezza, la sua spontaneità, la sua capacità di essere sempre così com'è senza artifici, senza barriere, non smettono mai di sorprendermi e nello stesso tempo di entusiasmarmi. E' un bambino straordinario e veramente speciale. Spesso mi chiedo se non siamo noi, la società in cui viviamo, a essere realmente disabili: noi con i nostri infiniti pregiudizi, con le barriere che quotidianamente costruiamo, con la nostra abitudine di etichettare e stigmatizzare chi è diverso da noi. Perché invece non impariamo noi “normali” a comunicare, a interagire con chi consideriamo “diverso” da noi? Dopo tutto si tratta di un individuo proprio come noi, con una sua identità, una propria connotazione e con delle caratteristiche proprie. E' innanzitutto una persona e sarebbe ora che noi lo imparassimo e non ce ne dimenticassimo mai. Lo dobbiamo considerare come un interlocutore e non isolarlo solo perché mostra atteggiamenti e comportamenti fuori dalla norma. Riguardo al soggetto autistico è opinione comune ritenerlo incapace di provare empatia. In merito a ciò mi rammento una frase di Donna Williams: « “Non ci si chiedeva mai se alla persona autistica l'ignoranza mostrata dai non-autistici facesse apparire privi di empatia quest'ultimi”» (Williams, 1998, 230


p.18). Inoltre Donna Williams sostiene che i comportamenti dei soggetti autistici, definiti dagli altri “bizzarri”, non solo possiedono per loro un significato, ma alcune volte rappresentano anche una forma di adattamento per poter aiutare se stessi a stabilire delle relazioni o per calmarsi cercando di avere il controllo sulle situazioni. Pertanto è importante calarsi nei panni del soggetto autistico per vedere la realtà dal suo punto di vista, per ragionare alla sua maniera: solo così si riesce a comprenderlo e a trovare il modo più adeguato per comunicare con lui. Inoltre sono molto interessata anche ai lavori della scienza riguardo l'autismo. Ecco perché mi sono soffermata sulla scoperta dei neuroni specchio. A dir il vero è stato durante una giornata dedicata alle neuroscienze, tenutasi a Imperia nel Febbraio 2007, che ho potuto approfondire la conoscenza dei neuroni specchio e il loro legame con l'autismo: l'argomento per altro è stato presentato dallo stesso Rizzolati che ha illustrato in maniera molto chiara i suoi esperimenti. Io sono rimasta molto colpita dal suo intervento, dalla sua scoperta e dalle conseguenze che avrebbe potuto avere. Per questo motivo ho iniziato ad approfondire l'argomento per saperne di più e per soddisfare la mia curiosità. Devo dire che tutto il lavoro di ricerca e di lettura che ho effettuato per affrontare in modo abbastanza approfondito una patologia così complessa e poco chiara come l'autismo, mi ha permesso non solo di riflettere su questa patologia ma anche di venire a conoscenza delle varie metodologie esistenti per poterla affrontare. Ho cercato di fare tesoro di tutto quanto ho appreso per poterlo applicare al meglio nella mia professione, visto che oggi mi ritrovo a essere l'insegnante di sostegno di un bambino autistico. Bambino che ho cercato fin dall'inizio di integrare nella classe, non trattandolo come diverso, cercando di farlo uscire il meno possibile 231


dall'aula, anche se ciò mi ha portato a scontrarmi con l'educatore. A tre mesi dall'inizio della scuola, il bambino ha imparato a comportarsi in classe e con gli altri tanto che non è piÚ necessario condurlo fuori o fargli fare delle pause durante le lezioni, anzi ha imparato a rispondere a tono alle domande dell'insegnante curricolare e sta imparando perfino a riconoscere quando si scherza da quando si parla seriamente. Spero in futuro di poter raggiungere ulteriori traguardi, per potergli offrire una migliore qualità di vita.

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