Se Villa Adriana muore

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Puglisi Se Villa Adriana muore

La dicitura “V” sta a significare che questo è il quinto elemento di un percorso iniziato qualche anno fa. Nei precedenti lavori, in cui sono stata spesso affiancata da menti speciali, ho cercato di mettere su carta il pensiero e l’occhio maturati grazie alle recenti esperienze. Volevo che fossero collezioni di fotogrammi, estratti di testi che amo, testimonianza di periodi passati in altri posti. Oggi continuo a sfogliarli, di tanto in tanto, e penso sempre che sia un bel modo di fissare dei ricordi, come le canzoni riescono a fare con dei momenti. Dopo: “A public scene - A method to apply the attitude of a theatre as an instrument to analyze the city” Ancona, 2016; ”The In-Between spaces - When the infrastructure meets the man” Karlsruhe, 2016; ”Surfaces, Landscapes, Atmospheres” Lucerne, 2017; ”Augenblick” Fano, 2017; “Se Villa Adriana muore - Una riflessione sulla rovina intesa come un potenziale non esaurito e la scommessa per un suo ritorno in vita” vuole essere la conclusione di un percorso che appartiene all’università, e altresì la base per il tuffo in quello che viene dopo. Ma sempre una scusa per combattere quel verba volant che cancella tutto. Clara Maria Puglisi

V

Se Villa Adriana muore è il racconto di un luogo che di fatto è già morto, ma che forse custodisce ancora il segreto per la sopravvivenza. Nella prima parte è protagonista il “classico” inteso come principio ordinatore e generatore di spazialità. Vengono chiamate in causa le grandi personalità del passato, che esse possano essere davvero un fondamento, qualcuno a cui fare appello, e avere sempre con sé nel momento del bisogno. È come se si cercasse di ricondursi ad una metafisica: quel sostrato che permea la sostanze delle cose. E queste cose arrivano poi, spiegando l’intervento sulla Villa. Accompagnano questa seconda parte del percorso altre personalità, contemporanee per lo più, e che, su questa fresca mente, hanno sortito particolarmente effetto. In lingua tedesca esiste un termine che descrive bene questo pensiero: “Beeindruckend”. Esso ha in sé il verbo “drucken”, ossia spingere, premere, stampare. È più del semplice “colpito”, in italiano. È più di qualcosa di segnante. È questo l’effetto che hanno suscitato. Qualcosa che rimane impresso. Con un atteggiamento ingenuo spesso, presuntuoso a volte, si riflette sulla rovina intesa come un potenziale non esaurito e si scommette su un suo ritorno in vita.

In copertina: fotogrammi di Minerva dal film Le Mépris di Jean-Luc Godard, 1963.



Se Villa Adriana muore Una riflessione sulla rovina intesa come un potenziale non esaurito e la scommessa per un suo ritorno in vita

Scritto da Clara Maria Puglisi nell’ambito della Laurea magistrale in Ingegneria Edile - Architettura presso l’Università Politecnica delle Marche nell’Anno Accademico 2016/17 Relatore Prof. Antonello Alici Correlatori Prof. Francesco Leoni Prof. Daniele Marques



indice

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Prefazione

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Introduzione

parte prima

19 Capitolo I La perenne attualitĂ del ‘classico’ 35 Capitolo II Classico e inversioni del classico 65 Capitolo III

Villa Adriana: un esempio di globalizzazione architettonica

parte seconda

99 Capitolo IV La necessitas del fenomeno del ritorno 115 Capitolo V Se Villa Adriana muore 138

Epilogo

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Ringraziamenti

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Note



«Partire senza bisogno di speranze, continuare senza aspettarsi il successo» Guglielmo d’Orange



Prefazione Sono dell’idea che la tesi di laurea debba essere rappresentativa di se stessi. È il modo in cui diciamo che stiamo uscendo dalla palestra dell’università e che, in qualche modo, siamo pronti, eppure terribilmente impreparati. Voglio utilizzare questo strumento per scrivere di chi sono diventata, di quali siano le influenze che hanno lasciato maggiormente il segno su di me. Ho studiato al liceo classico, e questa è un’impronta indelebile che non mancherà mai di accompagnarmi: la sensibilità che ho nei confronti del passato, della nostra cultura, e di quella dei paesi che ho visitato, è anche frutto di questo tipo di educazione. È faticoso scegliere un tema, per quanto mi riguarda. La prendo come una questione personale. È un fatto serio. Serio ma anche così semplice, in fondo. Perché so benissimo di cosa voglio parlare. Voglio che sia trasparente ciò che, ora, in questo preciso momento, penso dell’Architettura. Anni fa misi nero su bianco il mio pensiero su ciò che ero sicura sarebbe diventato parte esclusiva della mia vita. È una dichiarazione di intenti, una descrizione della personalità, un flusso incontrollato di “influenze” che hanno cambiato il mio modo di vedere la realtà: le esperienze nei paesi altri dall’Italia, lo studio delle discipline propriamente classiche, il mondo della musica come del teatro. Il tutto ha turbato le nozioni che credevo basilari in me, stravolgendole e dando vita a una catastrofe, a un cambiamento, che oggi mi spinge a fare un punto del modo di vedere le cose. Voglio parlare di preesistenze costruite: architetture che hanno esaurito la loro funzione ma non per questo smarrito il loro senso. Voglio che si legga una concezione alta della “cultura del costruire” che considera le preesistenze storiche e le “emergenze archeologiche” componenti proprie e “attive” del progetto di architettura. Vorrei parlare di Sant’Agostino, che ha ispirato grandi costruttori, da Francesco Petrarca a Ludwig Mies van der Rohe. Folgorati tutti dal suo pensiero, per intravedere l’importanza per l’architettura 7


non dell’archeologia, ma delle rovine, che per l’archeologia sono oggetto di indagine storica e scientifica. Voglio parlare del valore universale che acquista l’architettura, quando essa diventa eterna e non vive solo nella contingenza del presente. Voglio capire quale sia la condizione perché l’architettura non tramonti. Voglio interrogarmi su che cosa significhi dire che un qualcosa sia “classico”. Voglio imparare a progettare belle rovine, come Auguste Perret ammoniva i suoi studenti. Voglio capire come fare a lavorare con la luce, come violarla con la presenza dell’ombra, come dare una straordinaria epifania al sole e alla luna. Voglio progettare ombre utili e belle. Voglio parlare di tettonica. Voglio essere poetica. Voglio avere l’abilità di disegnare sobri volumi definiti con lapidaria chiarezza e immersi nella luce di questa terra. Voglio che lo schema sia quello di una geometria ieratica e stabile, con un’eco classica di fondo e una postura retorica. Voglio parlare degli Etruschi. Sono nata nella loro terra ed è grazie a loro che esiste qualcosa come il Pantheon. Perché il Pantheon non ha nulla di greco, la rotonda la dobbiamo solo agli Etruschi. De Chirico osava definirli “talpe”, e guardate cosa ci hanno lasciato: un’architettura sotterranea ma al di sopra del piano di campagna. Mi piace vedere quando gli antichi impedivano il passaggio: voglio giocare con gli spazi per creare un valore aggiunto. E l’impedimento è uno di questi. Voglio far lavorare dentro di me quelle poche conoscenze che nel tempo hanno fatto in modo di incontrarsi e misurarsi con altre conoscenze e accrescersi e dilatarsi fino a formare questa base. Voglio trasmettere ciò che ho trovato onorevole in Svizzera. La coerenza, l’eleganza, il rispetto dello spazio con cui ci si relaziona. Il paesaggio è l’interlocutore privilegiato. E noi, in Italia abbiamo così tanto... 8


Oggi il progetto deve apparire come qualcosa che non ha precedenti, che non si è mai visto prima. Io invece voglio che quello che faccio sia permeato da tutti i miei modelli di riferimento, e non per qualche velleità nobilitante, ma per trasmettere quali sono i valori che secondo me devono essere fondanti della pratica del pensare (e fare chissà!) architettura. Avere l’abilità di fare una somma sintesi di chi mi ha preceduto, di chi secondo me aveva un carattere più affine al mio, o attraente al punto da spingermi a plasmare il mio a tal specie. Ma voglio dare vita anche a un progetto greco. Drammatico, con il conflitto che infuria alla base del disegno. La questione è, allora, come l’architettura possa perseguire quel valore che è stato definito l’eternamente attuale. Voglio usare tutte quelle forme archetipiche che hanno ispirato progetti che sono un ricordo. Perché forse ci credo che le forme “belle”, come diceva Le Corbusier, sono quelle che sono insite nella nostra memoria “innata”. E quindi la piramide: mi affascina pensare a questa grande massa piena in cui lo spazio vuoto, quello percorribile, ha un volume molto piccolo. Mi piace quella potente idea di ascensione. Voglio capire che cosa succede oggi quando pensiamo a dei principi. Vitruvio parlava di utilitas, firmitas e venustas. Le Corbusier destinava agli architetti il volume, la superficie e la pianta. Qual è la “triade” di oggi? Mi chiedo se sia troppo arrogante pensare a un’educazione del gusto. Mi affascina quel modus removendi, quello di Michelangelo con la Pietà Rondanini. Mi piace Michelangelo. È grazie alla Biblioteca Laurenziana che mi sono iscritta a questa facoltà. Perché Lui ha saputo giocare, con ironia, maestria, superba intelligenza, con tutti gli elementi, beffandosi di un ordine che doveva essere assoluto. Voglio esercitarmi sull’impulso all’astrazione, al trarre piacere dall’intima struttura geometrica delle cose, dalla fissità piuttosto che dal mutamento. Voglio capire come funziona la Metafisica, quando il tempo è fermo. Sospeso.

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Ma voglio anche capire in che modo l’architettura lavora con quattro dimensioni, e non con tre sole. In che modo sia in relazione con il tempo e il cambiamento. Capire come il medesimo edificio vari con le condizioni atmosferiche e la luce, a seconda che siano accentuati il profilo, la forma o la profondità. E allora come si traducono in movimento e cambiamento. Voglio avere il privilegio di lavorare con una rovina. La rovina ha natura poetica. La rovina ci fa viaggiare con la mente, ci fa perdere in una prospettiva temporale profonda e dagli incerti confini, alimenta il nostro bisogno di infinito. Ci fa trovare di fronte a qualcosa di frammentario, mutilato. Nella sua incompiutezza, nella sua frammentarietà ha forza di commuovere, di conseguire nuova o diversa bellezza. Un edificio che doveva essere coperto rimane scoperchiato, offrendo l’immagine di spazi a cielo aperto. Voglio imparare a far sì che la parte superstite mantenga una sua pienezza d’uso e, soprattutto, una sua pienezza formale. Che non sia una sconfitta, ma, al contrario, qualcosa che ha guadagnato dove ha perduto. Voglio capire che cosa sono le proporzioni che governano un edificio. Capire in che cosa funzioni l’armonia. Rileggere l’infinita lezione di Mies van der Rohe. Perché quando ho visitato la Neue Nationalgalerie, ancora non la stavano restaurando. Si ergeva in solitudine, vuota al suo interno. Era come se avesse perso il superfluo. E perdendo il superfluo è diventata universale, perché mondo di memoria, di fantasmi. Ci piace un Partenone bianco, illibato, con quella nota decadente manifesta nei fregi che non ci sono più, nella parti mancanti. Non siamo disposti a figurarcelo con i colori di un tempo. Questo toglierebbe il carattere dell’universalità proprio di qualcosa che è un cardine, un riferimento della nostra civiltà. Questo, credo, possa essere il significato autentico di quel less is more con il quale un giorno Mies aveva definito laconicamente il pensiero posto alla base del proprio lavoro di architetto.

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Parte Prima

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introduzione

Nella storia dell’architettura moderna, il tema del ‘classico’ è stato costante punto di riferimento, di richiamo, di contrasto. In una relazione a volte in analogia, a volte in determinata dialettica, ma sempre di grande attualità, il rifarsi agli Antichi pervade la pratica architettonica, nonché la trattatistica nel corso della definizione di un linguaggio nuovo. A volte con intento nobilitante, altre come semplice studio dei fondamenti, diventa peculiare di un approccio critico verso la materia lo studio come il “classico” si sia tramandato, evoluto e come esso sia stato distorto a volte o elevato e universalizzato grazie ad interpretazioni consapevoli. Questo percorso nasce con la volontà di indagare alcune fra le idee più acute e complesse che siano state concepite nella tradizione antica e che hanno formato quella del Movimento Moderno, dimostrando un possibile modo di fondere il passato con il moderno senza finire in un tradimento per entrambi. È indubbio che in architettura come in altri ambiti creativi, esistano epoche che hanno saputo segnare più o meno marcatamente la sensibilità dell’uomo, lasciando un fermento nutritivo nello spirito non solo di chi viveva in quel periodo, ma anche di chi lo ha succeduto. A volte è l’operato di un insieme di artisti che hanno dato vita a un corpus ancora tangibile ma non classificabile sotto un autore riconoscibile. In altri casi, invece, il disegno di personalità note ha necessitato di tempo affinché il messaggio e l’arditezza del loro cammino venissero riconosciuti. Ma al termine di questo processo sono stati anche loro classificati come avventurieri audaci che hanno saputo fatto muovere il

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introduzione

mondo, diventando per così dire ‘universali’. Io vado alla ricerca di queste costruzioni emblematiche, e mi chiedo come fare oggi a lavorare quando qualcosa di così compiuto e ‘parlante’ sia già stato realizzato. Come fare a non voler copiare? Come fare ad attualizzare? Fondamento di questo viaggio è la lezione di quei maestri che hanno saputo, o tuttora sanno, percepire l’esistenza di configurazioni quasi archetipiche, capaci di esprimere le forme base della società umana, coinvolgendo la ricerca di principi basilari. Vorrei lasciarmi attrarre dal mondo classico per l’intensa interazione tra intellettuale e sensuale nell’architettura dell’antica Grecia: per Le Corbusier, ad esempio, il Partenone era l’esempio primario («una pura creazione della mente»), mentre per Aalto l’ispirazione principale risiedeva nel modo in cui i Greci organizzavano i loro insediamenti urbani con anfiteatri, stadi, piattaforme per le cerimonie, collegandoli tra di loro tramite percorsi e strade. Armonia tra costruzioni, paesaggio e spirito. L’obiettivo di questa analisi è maturare una sensibilità verso quell’elegante senso delle proporzioni, quella delicata scala di intervento, che hanno fatto di molte opere una sorta di simulacro per l’architettura di ogni epoca. È come andare alla ricerca dell’universale. Quel sostrato, quei principi che sottendono il fare architettura (parafrasando l’impostazione aristotelica). Una sorta di ricerca di valori perenni e immutabili.

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introduzione

il sito villa adriana a tivoli

Villa Adriana diventa quindi la palestra perfetta per allenare la sensibilità verso gli Antichi. È stata spesso definita un’opera classica e al contempo estremamente moderna. Nell’organizzazione spaziale di quella che potrebbe essere definita a buon diritto una città, all’epoca più grande di molti dei borghi laziali, vengono messi in atto meccanismi d’avanguardia, traduzione di una personalità eclettica quale quella dell’imperatore Adriano, e allo stesso tempo si ritrovano i principi primi del costruire tradizionale, a partire dal mondo etrusco, di cui si parla poco ma che permea proprio il sostrato della Villa. A fianco delle tipiche grotte per le ninfee, espressione di un mondo quasi ipogeo, si trova inoltre una commistione di elementi prettamente ellenici, come le stoà o il portico del Pecile. Grazie alla complessità dell’articolazione della Villa, molti sono i principi sviluppati nelle diverse funzioni che si ritrovano all’interno: dall’uso strategico e al contempo ornamentale dell’acqua, al modo di trattare il sole e l’assenza di sole. Entrambi elementi di progettazione fondamentali che nascono da uno studio capillare delle potenzialità del sito. Si presenta come un fatto architettonico complesso, permeato da un apparente disordine. Non esistono accessi diretti, tutto è impedito e l’ostacolo è protagonista. Ogni area è trattata come indipendente dalle altre e rasenta una sorta di isolamento. Eppure ognuna di esse è specchio di un predeterminato obiettivo: che sia un particolare punto o una meta fissa del paesaggio o di giardini attraversati durante una passeggiata. Interessante è anche osservare come si sussegua il passaggio da aree aperte o chiuse, come un ritmo definito dalle diverse dimensioni di porte e ingressi.

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introduzione

Boussois, Planimetria generale di Villa Adriana, 1912

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introduzione

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introduzione

E tutto ciò garantisce un’unità di intenti non di certo casuale o caotica, ma ben studiata, grazie al sapiente uso di alcuni Leitmotiv. Ci sono specifici effetti percettivi voluti, tra cui domina la volontà di rendere evidente il contrasto tra paesaggio e costruito, mutuati dal tema dell’attesa, in cui l’elemento finale e culminante si svela appieno solo nel momento in cui lo si raggiunge. Esiste integrità, coerenza a livello concettuale. Giochi di acqua e luce, reali o efficacemente allusivi, infine, fanno di questo sito un posto unico, ma che oggi necessita di un contatto con la contemporaneità. Viva e brulicante di attività come una volta non è possibile, ma sarebbe quantomeno legittimo far sì che l’uomo di oggi ne possa sperimentare almeno la sensibilità.

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capitolo i

La perenne attualità del “classico” Il “classico” riguarda sempre non solo il passato ma il presente e una visione del futuro. Per dar forma al mondo di domani è necessario ripensare le nostre molteplici radici. Salvatore Settis

L’antichità non ci è data in consegna di per sé - non è lì a portata di mano; al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare. Novalis

Le tracce del passato, per un uomo europeo, in particolare italiano, sono così imponenti da incuriosirci e da obbligarci a studiare ciò che è stato per capire una parte importante di noi stessi. Diventa un percorso propriamente ontologico, formativo, che si traduce nel modo di leggere la cultura, la lingua, i monumenti, le istituzioni, il paesaggio. E proprio nello studio degli Antichi, della classicità greco-romana, si può leggere un modo per interpretare e capire le origini di una cultura non solo esclusivamente occidentale: constatare quanto molti dei temi che permeano il mondo architettonico, come filosofico e in generale speculativo, possano accomunare diverse civiltà, da Oriente a Occidente, dimostra che esiste un’universalità di fondo. Ecco perché anche nel mondo contemporaneo, esperienze architettoniche legate al vernacolo possono rivelarsi espressioni di una sensibilità che esula da un mero regionalismo. Ci sono dei valori di base che, reinterpretando una tradizione,

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si fanno portavoce di un qualcosa di universalmente applicabile. Profondità, rigore, ampiezza di applicazioni contraddistinguono i grandi stili del passato1. Lo storico Adolf Hildebrand rilegge la storia proprio in questa sua presunta visione universalizzante, proponendo atteggiamenti che motivano la persistenza delle forme ‘classiche’: - ragioni di bellezza, come principio di legittimità in arte, si considerino Canova, Thorvaldsen; - ragioni di contenuto, nell’uso di forme antiche come rimando a virtù civili, si considerino Ledoux, Soane; -l’esistenza di fatto del repertorio classico, nel caso dei razionalisti settecenteschi2. L’universalità ricercata è intesa come senso che sottende la realtà, come una sorta di elaborazione della metafisica di quel particolare tempo, da esprimere con il linguaggio artistico e architettonico. L’arte classica viene infatti vista come «un lessico perpetuo e universale di formule e gesti, un repertorio di conoscenze ‘tecniche’ sui modi di rappresentare la natura e il movimento, la profondità spaziale, i sentimenti e le passioni umane; di un’umanità che sempre era stata e sempre sarebbe stata uguale a se stessa, e che nell’arte classica aveva saputo esprimersi con un’“inaudita” intensità e perfezione. E tanto più un artista sapeva attingere a quel linguaggio assimilandolo intimamente, tanto più aveva titolo a diventare egli stesso ‘classico’, a incarnare fra i moderni la nobiltà degli Antichi»3. Tataèrkiewicz propone quattro significati della parola ‘classico’: a) per denotare un valore, nel senso di ‘prima classe’, perfetto, modello; b) per denotare un periodo cronologico, nel senso di ‘antico greco-romano’, o anche solo

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dell’apogeo della civiltà greca, in questo senso Eschilo non è ancora classico e Euripide non lo è più; c) per denotare uno stile storico, i moderni che si siano ripromessi la conformità ai modelli antichi; d) per denotare una categoria estetica, autori che hanno armonia, misura, equilibrio4. Nel momento in cui si considera la variabile temporale, è utile allora leggere «due visioni del classico che non nacquero l’una contro l’altra ma ci appaiono oggi fortemente contrapposte»5. La prima opzione, a-storica, volle vedere nel classico un inalterabile e perpetuo sistema di valori universali, senza luogo e senza tempo, messi a punto dai Greci e poi trasmessi dai Romani. L’altra versione cercò di storicizzare il classico, e considerandolo quindi non come immacolata origine, ma come un albero dalle forti radici, dai rami a volte spezzati e nascosti. Rimane tuttora da capire come mai quel deposito di memoria culturale potesse serrarsi ora come un sepolcro, ora dischiudersi a nuova vita, e fare delle immagini uno degli strumenti per l’orientamento dell’uomo nel mondo. Una possibile risposta si può individuare considerando il ‘classico’ di per sé come un concetto statico, in quanto designa un periodo storico per definizione concluso. Esso tuttavia «non ha senso e non diviene operativo senza un meccanismo dinamico di nostalgia e iterazione, senza una qualche pulsione ora verso il ritorno al ‘classico’, ora verso il suo superamento. È ciò che viene prima e designa ciò che è originale e paradigmatico, ciò a cui si rifaranno dopo le ondate dei diversi “classicismi”»6. Basilare diventa infatti considerare il progresso come costantemente permeato da un ‘senso del classico’, che continua ad assumere una sorta di ruolo legittimante, a fianco del continuo divenire della storia, intesa come «qualcosa

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che si muove in avanti, attraverso “epoche” diverse, ognuna dotata di un nucleo spirituale che si manifesta direttamente nelle realtà culturali e poi spaziali»7. Non si parla più quindi di modello immutabile e fuori dalla storia, ma di un perpetuo termine di confronto, inaggirabile non solo nel suo implacabile ritorno ritmico, ma anche nel teatro della comparazione fra la nostra cultura e le altre. È in nome del preteso carattere immutabile e paradigmatico del ‘classico’ che l’antichità greco-romana ha finito con l’essere identificata come la radice comune della civiltà occidentale, proprio nel senso in cui Hegel poté dire che “Al nome Grecia l’uomo colto europeo si sente subito in patria”. Uno dei problemi, oggi, è che si rischia spesso di innalzare la cultura classica sopra un piedistallo irraggiungibile, estirpandola dalla storia per proiettarla su un piano che si pretende universale. Si cade nell’errore di attuare una scomposizione dell’antico in frammenti decontestualizzati, tanto più pronti ad arbitrari rimontaggi: vengono svuotati della loro più intima essenza, sporcandoli e gettandoli nella demagogia più pericolosa. E tutto tende a rimanere esclusiva di sparuti e marginali cenacoli di specialisti, senza essere patrimonio comune di una futura civiltà essenzialmente tecnologica, in cui ci si chiede se il passato sarà consegnato all’oblio8. Ugualmente, trattare il nostro patrimonio come un serbatoio di exempla, riorganizzato secondo uno sguardo sinottico, rischia di diventare un modo per appiattirlo al presente, strumentalizzandolo con un uso arbitrario di principia estirpati da un contesto invece autentico. Mentre ciò che rende questa materia estremamente attuale è proprio la sua straordinaria complessità e singolarità. Forse, invece di inseguire il ‘classico’ solo sul nevoso Olimpo,

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dobbiamo invece cercarlo sulla terra, dargli nome e sostanza ripercorrendone la storia. «Dopo tutto, l’architettura è un’arte e da tempo immemorabile è stata considerata come una delle più grandi. Edifici belli come il Partenone, per esempio il Pantheon, Chartres o la Cattedrale di St. Paul hanno commosso gli uomini più profondamente di quanto non lo abbiano fatto i capolavori della pittura e della scultura» Reginald Blomfield, 1932

Nel pronunciarsi verso una ripresa degli stilemi detti ‘classici’ risulta doveroso specificare anche l’attitudine con la quale ciò può attuarsi: a turno ogni artista sviluppa una speciale relazione con il passato. Un linguaggio personale può cristallizzare caratteristiche del suo periodo e della sua società, e tuttavia trarre ispirazione da numerosi fonti interne ed esterne all’architettura. Si può fare infatti riferimento a motivi ideologici, come accennato, oppure propriamente formali, e allora ciò si esprime con un atteggiamento che in passato caratterizzò il modus operandi tipico delle Beaux-Arts ad esempio, in cui il dictat era rappresentato dalla simmetria in pianta o dalle ferree e auree proporzioni. Atteggiamento che, tuttavia, finisce per essere limitativo nel riferirsi ad un contenuto ben più vasto: lo schema assiale del classicismo BeauxArts poteva essere affiancato da un altrettanto appropriato equilibrio, eppure dinamico e asimmetrico. La ricerca di valori fondamentali nel neoclassicismo, dunque, fu forse più una mera semplificazione di ciò che invece si nutriva di ben altro.

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Eppure, nonostante il rifarsi al passato sia caratterizzato da filtri e obiettivi diversi, esso finì per fornire prodotti di artisti il cui genio è indiscusso: dai maestri rinascimentali (il cui operato verrà esso stesso considerato ‘classico’), a quelli che posero le basi per il futuro moderno, tra cui Schinkel, per citarne uno. Direzioni verso la semplicità e le geometrie primarie a cui oggi siamo abituati, partono proprio da questa attitudine verso la purificazione e il ritorno alle nobile qualità estrapolate dall’antichità. Parliamo di «relazione tra spazio e volume, penetrazione della superficie, disegno della forma nella luce, e reciproco rapporto proporzionale tra gli elementi»9. A volte il rifarsi al passato si è tradotto in un vero e proprio Platonismo, secondo il quale esistono forme di base straordinariamente belle, trascendenti le mere convinzioni di periodo e stile. Di nuovo, come se fosse una sorta di universale linguaggio formale dello spirito. Si sarebbe poi arrivato al nudo classicismo del primo decennio del XX secolo e al Cubismo, i quali avrebbero contribuito alla formazione di una versione dell’architettura che, nella sua condizione di libertà dal non-essenziale, avrebbe persino potuto superare la purezza classica [Curtis]. Emulare i grandi stili del passato senza imitarne la superficie. Per D’Annunzio, per esempio, il ‘classico’ è inteso come purezza, nudità, essenzialità, una pagina bianca su cui i moderni possano sperimentare la riguadagnata libertà di scrivere nuove parole, nuove architetture, nuove esperienze. Questa concezione del ‘classico’ come tabula rasa comportava anche la sua riaffermazione come necessaria base di partenza. Il ‘classico’ perciò ridotto all’osso, capace di agire non più come vincolo, ma come stimolo.

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Risulta estremamente strano, dissonante, riferirsi invece a un’antichità fatta di colori, di ornamenti. Torna di nuovo il tema della strumentalizzazione di un’immagine. Come scrisse Ludwig Klares nei Blätter für die Kunst di Stefan George, bisogna ‘immedesimarsi nell’antichità’ e non solo ‘appropriarsene’. Farne base per inediti pensieri sul presente come sul futuro. Diventa quindi lecito il passaggio al rapporto con l’antico in senso più propriamente nietzschiano, e quindi più che di classico parlare di ciò che è autentico. Fu proprio la tensione a questa autenticità che mosse l’architettura dei regimi totalitari ad adottare un riuso in forma assai semplificata di quel patrimonio, inteso nella sua accezione primordiale e rigenerante di patrimonio ‘classico’. Parliamo quindi di «un serbatoio di valori, perpetui e immutabili, ma schematizzabili e manipolabili a piacere»10. Il passaggio che invece si riscontra nel pensiero che in maniera così esigua Mies van der Rohe ha espresso in alcuni scritti, denuncia invece quella volontà di guarire la modernità dai suoi guasti, proponendo un nuovo ordine. Nel suo affascinante modo di rileggere il passato, è come se ne proponesse una forma aggiornata in competizione con il modernismo, affermando la piena identità del presente con quel passato mitico, e proiettandola in un futuro immutabile e mitico quanto il passato.

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«-Anche lei è figlio del Suo tempo, nel senso che ha basato il Suo lavoro su questo approccio scientifico, oggettivo e razionale, aiutato dai filosofi che ha menzionato. -Sì, ma ho imparato molto dagli edifici antichi. -Perché anch’essi sono scientifici e razionali? - No, perché sono chiari e ragionevoli» Intervista a Mies van der Rohe11

Questa visione astratta dei valori classici si mescolava, talvolta, a un ‘mediterraneismo’ vagamente metafisico. Scrivendo nel 1924 dei pittori del Novecento, la critica Margherita Sarfatti parlò di «uno stile di chiarezza e sintesi, che è al tempo stesso classico e profondamente moderno» e che sa «creare in ogni grande epoca un nuovo ideale di bellezza, eternamente vero che vada oltre l’inconsistente realtà», questo «è il compito del Mediterraneo: una volta era compito degli egizi e dei greci, ora degli italiani»12. Paradossalmente, questa stessa aspirazione all’universalità poté essere usata per promuovere la causa di alcune specifiche identità nazionali, mentre nell’antichità il trattamento del contesto coniugato con la messa in pratica di quei principi architettonici ordinanti e ordinatori era parte integrante del processo compositivo. Quelle che nel XX secolo divennero tendenze in opposizione13, in passato erano inscindibili: la tendenza al carattere, al clima e alla cultura di specifici luoghi, ai miti nazionali e alle continuità territoriali. Le architetture ‘mitiche’ che appartengono alla paradigmatica classicità parlano di una autenticità indigena. Parlano con consapevolezza dei luoghi del nostro emisfero, quello nord, nella fascia tra il 30° e il 40° parallelo: siamo nella latitudine delle grandi fioriture architettoniche. Siamo nella ‘luce della

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Grecia’. In questo chiedersi che cosa possa essere effettivamente definito ‘classico’, risulta lecito riflettere sul fatto che, in effetti, di periodi che, per diffusione e accettazione del significato, ambissero a una certa universalità, se ne sono susseguiti diversi. Se questi caratteri identificano davvero un qualcosa di ‘classico’, allora anche lo stile internazionale che si sviluppò nei decisivi anni fra le due guerre sembrerebbe assurgere a uno stile ormai senza tempo: con le sue nuove libertà formale nel plasmare volumetrie ‘pure’ (tendenzialmente prive di ornamento), questo movimento si assicurò non solo una straordinaria energia sperimentale, ma anche una sorta di unità transazionale, che pur in assenza di un manifesto e di un caposcuola unico14, lo trasformò in un modello condiviso da molti. Eppure qualcosa in tutto ciò non funziona. Perché non riesco a pensare alla bianca e pura rivoluzione dei volumi lecorbuseriani come un paradigma, un archetipo paragonabile a ciò che ci ha preceduti millenni. Nonostante la sua sia stata davvero una nuova direzione intrapresa a scala internazionale, e ancora praticata in maniera altrettanto diffusa. Dove si trova un’uguale unità di materiale, costruzione e forma? Qui è nascosta la saggezza di intere generazioni. Che senso per il materiale, e che potenza di espressione emanano questi edifici. Che colore irradiano e come sono belli. Negli edifici di pietra troviamo le stesse cose. Che sensazione naturale viene da loro espressa, che chiara comprensione del materiale, che sicurezza nel suo uso, che senso può e deve essere fatto in pietra. Dove altro troviamo una simile chiarezza di struttura. Dove troviamo una forza più sana

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e una bellezza naturale maggiore di questa. Con quale evidente chiarezza un soffitto a travi poggia su questi vecchi muri di pietra e con quale sensibilità vi è stata aperta una porta. Dove altro dovrebbero crescere i giovani architetti se non nell’aria fresca di questo mondo sano, e dove altro dovrebbero imparare a lavorare in modo semplice e prudente se non da questi maestri sconosciuti. Mies van der Rohe15

Oggi rientriamo in un periodo in cui l’architettura fa appello ai suoi principi fondamentali, quasi per legittimarsi. «I capolavori del passato ci mostrano come ogni generazione abbia avuto la sua maniera di pensare, le sue concezioni, la sua estetica, richiamandosi all’insieme di risorse tecniche della propria epoca» Le Corbusier16

Stimolante nell’affrontare un tema simile, è il fatto che indirettamente e inevitabilmente si finisca per riflettere sul modo attuale di fare architettura, sul modo personale di vedere questo episodio. Un secolo fa si sarebbe parlato di un confronto con l’antico per definire il moderno. Oggi facciamo parte della contemporaneità, eppure, in fondo, la questione non è cambiata. La provocazione sta quasi nell’utilizzare questo patrimonio come legittimazione del ‘tutto’: a seconda del modello a cui ci si riferisce, che sia la rovina o la riproduzione dei pensionnaires ad esempio, allora l’esperimento contemporaneo si appropria di una sorta di significato insito nel passato della cultura architettonica. Se è possibile farne usi così diversi e anzi opposti, modificandone di continuo l’immagine, è prima di tutto perché al classico continuiamo nonostante tutto a 28


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connettere valori ritenuti universali, come la perfezione, la misura, l’equilibrio, la grazia, l’intensità, la naturalezza dell’espressione. E ad esso è possibile riferirsi come ad uno stile: un complesso di relazioni formali in cui alcuni modi e significati sono più al loro posto. Esso fornisce una serie di convenzioni che, nell’opera d’arte convincente e profonda, si abbinano in modo tale che la convenzionalità sia dimenticata17. Le opere prettamente antiche ci procurano ancora godimento artistico, e in certa misura valgono ancora come norme e modelli inarrivabili. Le leggiamo ancora per il loro monito alla proporzione, al dettaglio e al ritmo, affinché un’opera trasmetta sobrietà e quiete, e sia insieme permeata da un senso di sereno classicismo, pur senza un esplicito uso degli ordini classici. Anche nel nostro tempo è possibile scegliere fra due opposti usi del classico: quello che lo iconizza come un immobile sistema di valori e quello che vi cerca la varietà e la complessità dell’esperienza storica. Il primo si accontenta di poco (le icone si riveriscono, non si esplorano); il secondo richiede invece di interrogarsi a fondo sul possibile significato e futuro del ‘classico’ nella scuola, nell’università, nella cultura condivisa dai cittadini. Evitiamo che la cultura classica sia solo un ingrediente tra tanti. Secondo Momigliano18 vale la pena di studiare la classicità greco-romano precisamente nella spola tra identità e alterità, e cioè sia che la sentiamo nostra, sia perché la riconosciamo diversa da noi. È per questo che oggi come non mai è necessario proporre una visione del classico proiettata nel futuro, ed elaborare alcuni principi ispiratori di un nuovo statuto degli studi

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classici in un contesto culturale soggetto a mutazioni tanto radicali a cui stiamo assistendo; il tutto partendo da una concezione unitaria delle scienze dell’antichità, e dunque contrastando l’eccessiva segmentazione interna alle discipline classicistiche. In secondo luogo, l’età classica greco-romana andrebbe vista come un gigantesco esperimento di globalizzazione economico-culturale, della quale abbiamo il vantaggio di conoscere non solo il momento di formazione, ma anche i meccanismi e i tempi del finale collasso19. Evochiamo, quindi, l’altro-da-sé che è dentro di noi (il classico), il che si traduce in un passo essenziale per intendere le alterità che sono fuori di noi (le altre culture), se sapremo ripetere con piena consapevolezza le parole di Rimbaud “Je’ est un autre”. E avrebbe senso riproporlo anche nella scuola, non più come immobile e privilegiato gergo delle élite, ma come efficace chiave d’accesso alla molteplicità delle culture del mondo contemporaneo, come aiuto a intendere il loro processo di mutuo interpenetrarsi... Ricerchiamo i nostri antenati, che per definizione sono lontani da noi ma ci appartengono, che ci hanno generato e che noi generiamo e ri-generiamo ogni volta che li evochiamo nel presente e per il presente. Quanto più sapremo guardare al ‘classico’ non come una morta eredità ma come qualcosa di profondamente sorprendente ed estraneo, da riconquistare ogni giorno, allora saremo in grado di leggerlo come un potente stimolo a intendere il ‘diverso’. Forse l’uomo contemporaneo dovrebbe davvero ambire a rifarsi al ‘classico’ come radice, ma soprattutto come progetto e come meta.

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Prima di tutto fui influenzato dagli edifici antichi. Li osservai: la gente li aveva costruiti. Non ne conosco i nomi, e non so cosa fossero - per la maggior parte edifici molto semplici. Fui impressionato dalla forza di questi edifici antichi, perché davvero essi non appartenevano a nessuna epoca. Ma erano lì da mille anni, ed erano ancora lì, ed erano ancora impressionanti, e nulla poteva cambiarli. Tutti gli stili, i grandi stili, erano passati, ma essi erano ancora lì. Non avevano perso nulla. In alcune epoche architettoniche vennero ignorati, ma erano ancora lì, ed erano così buoni come il primo giorno che vennero costruiti. Mies van der Rohe20

L’architettura dell’era contemporanea, come del moderno alla fine del XX secolo, possiede un’identità complessa, che continua ad aspirare a una certa universalità, anche quando reagisce a diverse tradizioni e territori; che stimola innovazioni radicali perfino quando riattiva i propri principi generativi; che ispira a nuove visioni per il futuro anche quando trasforma il passato. L’attrazione verso gli Antichi è sempre forte, forse proprio perché sono in grado di conferire certezza in situazioni di estrema fluidità. Non si cerca tanto di creare un nuovo stile, quanto rifarsi alla qualità dello stesso in generale, a quella centrale alle opere preminenti del passato. La sfida, punto centrale della revisione moderna nei confronti della tradizione, è la ricerca di una nuova direzione, che sappia tornare indietro fino agli elementi del passato, e simultaneamente avanti verso le nuove ispirazioni. Non ci resta che capire come tutte queste fonti a disposizione possano essere forgiate in una nuova sintesi adatta alle

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condizioni contemporanee. «Mies era incline a vedere il classicismo in termini nobili, come una sublime manifestazione geometrica del mondo spirituale»21 e il suo obiettivo fu costantemente quello di unire in un tutto armonioso le vecchie e nuove energie della «nostra civiltà». Le Corbusier, pur nel suo essere totalmente ‘altro’ come punto di arrivo, al culmine della sua sperimentazione moderna dichiarò: «Oggi sono accusato di essere un rivoluzionario. Tuttavia confesso di avere solo un maestro: il passato; e solo una disciplina: lo studio del passato»22.

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Atteggiamenti di persistenza delle forme ‘classiche’: A. Canova, Amore e Psiche, 1787-1793

Atteggiamenti di persistenza delle forme ‘classiche’: B. Thorvaldsen, Giasone e il vello d’oro, 1802-03

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Atteggiamenti di persistenza delle forme ‘classiche’: C.N. Ledoux, Casa del direttore, Saline Reali di Arc-et-Senans, 1775-79

Atteggiamenti di persistenza delle forme ‘classiche’: K. F. Schinkel, Altes Museum, Berlino, 1823-28

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Classico e inversioni del classico L’essenza del classicismo è venire dopo. L’ordine presuppone un certo disordine che esso viene a sistemare. Paul Valéry, Variété, 1944

E quel cortile è ricordato intorno Di larghe logge, con colonne tonde, Che son tant’alte, quanto è la larghezza Del pavimento, e sono grosse ancora L’ottava parte, e più di quell’altezza; Et han sovr’esse capitei d’argento Sant’alti, quanto la colonna è grossa; Et sotto han spire di metal, che sono Per la metà del capitello in alto. Trissino, Italia liberata

Il monumentale apparato così definito ‘classico’ è costituito da un universo di regole, matematiche come percettive, di corsi e ricorsi storici - per citare Giambattista Vico -, di tendenze conservative ma anche di re-invezioni e innovazioni. Non si può affrontare questo capitolo senza investigare, o perlomeno accennare ai principi cardine, che non sono stati ancora sradicati in più di duemila anni di architettura e storia dell’arte. Diventa inoltre interessante capire in che modo essi si siano evoluti e, nel susseguirsi di epoche e sensibilità, con essi si abbia giocato e sia stato dato vita

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a opere che si avvalgono dell’appellativo di ‘classico’, pur rivelandosi in completa controtendenza. Parlando del metodo didattico al Massachusetts Institute of Technology, Mies va der Rohe spiegava che «gli aspetti materiali, intellettuali e culturali della nostra èra sono esplorati per vedere in che cosa assomigliano a quelli di epoche precedenti e in che cosa ne differiscono. Gli edifici del passato vengono studiati affinché lo studente acquisisca dal loro significato e dalla loro grandiosità una sensibilità per i valori architettonici genuini, e affinché la loro dipendenza da una specifica situazione storica gli faccia comprendere la necessità delle sue stesse realizzazioni architettoniche»1. Secondo il maestro di Aquisgrana, lo scopo di un edificio è il suo autentico significato, e le costruzioni di tutte le epoche servivano a scopi del tutto reali, a partire dai quali esse assumevano la conseguente forma sacra o reale. I primi che iniziarono a interrogarsi in maniera critica, tuttavia, su che cosa può - nel senso di essere legittimato - essere e su che cosa deve e non dovrebbe essere, furono coloro che arrivarono dopo l’’autentica’ classicità. Questo racconto non piò che iniziare con una figura, Guglielmo di Occam (1285-1347), il quale, estremizzando il concetto di onnipotenza, ha distrutto l’idea di ordine. E, una volta eliminato l’ordine, ha lasciato soltanto vuoti nomina. Secondo il filosofo francescano, è nella vittoria del nominalismo che si manifesta il trionfo di uno spirito rivolto alla realtà, molto prima che questo stesso si esplichi nella realtà stessa. Tale spirito diventa quindi antimedievale. Quella a partire dal XV secolo divenne un’epoca di grande consapevolezza. A un certo momento della storia dell’uomo sembra che maturi la comprensione di certe situazioni. O in

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altri termini, sembra che una particolare situazione maturi in un dato momento e che venga compresa. Da qui ebbe inizio l’Umanesimo. Pur richiamandosi alle antiche forme del Medioevo, rispetto a queste, si dimostrò più libero e spontaneo, recando però in sé già la tendenza immanente al declino. Mentre l’uomo medievale era legato, interiormente ed esteriormente, alla comunità, ora subentra un grande isolamento dell’individuo, che considera suo diritto potenziare i propri talenti e sviluppare le proprie forze. Per la prima volta l’uomo prende davvero coscienza di sé. È uno dei momenti più ‘alti’ della storia occidentale, in quanto l’individuo acquista il coraggio di staccare gli occhi dal cielo, conquistando un’orizzontalità che gli permette di mettersi in relazione con l’altro, un’alterità che può riconoscere anche in se stesso. Dal verticalismo delle cattedrali gotiche, in cui solo la fede in Dio poteva essere libero rifugio dalle crudeltà del mondo contemporaneo, ora l’uomo ha tutte le carte in mano per giocare la sua partita, con se stesso e nessun altro. Questo sviluppo è diventato la base della libertà spirituale, della volontà di pensare autonomamente e di ricercare in modo indipendente. La conseguenza fu un contrasto tra l’integrazione sociale e l’assenza di essa, e ciò fu causa di una sopravvalutazione della personalità, di un’irrefrenabile volontà di potenza e di un illimitato arbitrio. Sempre più il punto di sostegno della vita spirituale si sposta verso la volontà. «L’azione dell’individuo autonomo diventa sempre più importante. Si studia la natura, e il controllo di essa diventa la grande aspirazione del tempo. Vennero riconosciute le immense potenzialità per l’umanità qui racchiuse»2. Francesco Bacone, filosofo e politico inglese, si espresse a

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sfavore della scienza pura, la scienza intesa come fine e se stessa, riconoscendone il valore pratico e imponendo che servisse alla vita. Egli pose il sapere a servizio della cultura e introdusse il metodo e la sperimentazione nella scienza. Ci troviamo all’inizio di qualcosa di nuovo. Contemporaneamente cominciò a instillarsi nella mente dell’uomo la convinzione che la sua opera, nel riuscire con successo a staccarsi da una sorta di dogmatismo cristiano, dovesse rifarsi ad altri dèi, quelli del mondo propriamente antico. Con Michelet Burckhardt si ha l’invenzione del termine Rinascimento, inteso come potente metafora della rinascita (che conteneva un rimando latente alla Risurrezione e alla renovatio interiore predicata dalla spiritualità cristiana [Settis]) - l’età della «decouverte du monde et decouverte de l’homme» - che implicava il riferimento al mondo classico, e non si dà ri-nascita se non dopo la morte. Il Rinascimento diventerà esso stesso ‘classico’ e Raffaello potrà schierarsi con gli antichi fra i modelli “perpetui” da imitare, perché forse è proprio in questo che consiste il significato di modello classico, un punto di riferimento, genesi in continuo divenire. Si iniziò a parlare quindi di renovatio dell’antichità. Classico e Rinascimento si corrispondono perciò simmetricamente: di fatto, l’uno non è mai esistito senza l’altro, l’uno non può spiegarsi senza l’altro. Una «continua ri-significazione»3 che spiega la posizione di Lévi-Strauss: il suo modello interpretativo si impernia sul Rinascimento dell’antichità, e dunque ingloba il tema perenne del classico che muore e risorge, presentandosi

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quindi come una nuova estensione. Eppure, in questa versione, la riscoperta del classico non è associata a un sistema stabile di valori occidentali da contrapporre agli altri; al contrario, essa è messa in serie con la riscoperta delle culture ‘altre’, in un crescendo che parte proprio dal classico, ma che si estende necessariamente a tutte le civiltà. Protagonisti di questa storia furono anzitutto gli artisti italiani. Roma era un serbatoio lì pronto. Quel generoso repositorum di marmi antichi prese ad arricchirsi in modo sostanzioso dal Quattrocento in poi per la ricerca sempre più assidua di sculture che emergevano dagli scavi (cfr. lettera Raffaello al Papa), in nascere del collezionismo. Da quelle nuove antichità, pittori, architetti, scultori traevano elementi di un lessico figurativo che si caratterizzava come un nuovo proprio perché ne riproponeva uno antico. Questo implicava l’auctoritas proprio dei modelli del passato. Anzi, dico che con poca fatica far si può, perché tre sorti di edifici in Roma si trovano: l’una delle quali sono tutti gli antichi ed antichissimi, li quali durarono fin al tempo che Roma fu ruinata e guasta da’ Gotti e altri barbari; l’altra, tanto che Roma fu dominata de’ Gotti, e ancor cento anni dappoi; l’altra, da quello fin alli tempi nostri. Gli edifici adunque moderni e de’ tempi nostri sono notissimi, sì per esser nuovi, come ancor per non avere la maniera così bella come quelli del tempo degl’imperatori, né così goffa come quelli del tempo de’ Gotti; di modo che, benché siano più distanti di spazio e di tempo, sono però più prossimi per la qualità, e posti quasi tra l’uno e l’altro. E quelli del tempo de’ Gotti, benché siano prossimi di tempo a quelli del tempo degl’imperatori, sono differentissimi di qualità, e come due estremi, lasciando nel mezzo li più moderni. 39


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Non è adunque difficile il conoscere quelli del tempo degl’imperatori, i quali sono li più eccellenti, e fatti con grandissima arte e bella maniera d’architettura; e questi soli intendo io di dimostrare: né bisogna che in cuore d’alcuno nasca dubbio che, degli edifici antichi, li meno antichi fossero meno belli, o meno intesi, perché tutti erano d’una ragione. Raffaello Sanzio, Baldassarre Castiglione, Lettera di Raffaello d’Urbino a papa Leone X, 1519

Era come se fosse maturato nella coscienza degli artisti il senso dell’insufficienza del proprio repertorio, e insieme della qualità e dell’efficacia di quello antico. L’ansia di trovare nell’arte classica nuovi motivi di figura, assimilandoli e facendoli propri, percorse come una febbre prima l’Italia e poi il resto d’Europa, e fu presto codificata in trattati (specialmente nel De pictura di Leon Battista Alberti) e in biografie di artisti (Vasari), e divenne ingrediente obbligato della comune pratica artistica. L’arte greca evocata e divinata da Winckelmann, poiché calata in una visione tutta nutrita di valori attuali, subito divenne la matrice di un programma educativo, non del solo artista, ma dell’uomo colto in generale. Ideale etico e ideale estetico di fondevano in uno, puntando alla costruzione di una metafisica del Bello, ma anche sulla certezza che dall’arte greca dovesse venire un nuovo impulso atto a trasformare nell’intimo l’uomo colto, per donargli una vita più piena, una più ricca interiorità. Ciò divenne la riproposizione di quell’essenza della speculazione artistica, nonché filosofica, greca. Il ‘classico’ (letto anche in chiave cinquecentesca) «assorbiva in sé la verità di natura, esaltandola e portandola a

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compimento. I Greci, infatti, incarnavano alla perfezione il ‘bello naturale’, poiché avevano sperimentato la natura in tutta la sua intatta bellezza, grazie anche al regime politico che vi si sviluppò, e che incoraggiava tanto il sentimento della natura che la propensione dell’arte»4. Parliamo di liberazione intellettuale dell’individuo attraverso l’esperienza estetica. In ambito propriamente artistico, ci si pose il problema della miglior costruzione delle immagini per parlare all’anima dell’osservatore. La composizione del dipinto doveva basarsi sul disegno e sulla forma più che sul colore, e orientarsi su una chiara percezione di ciascuna figura in uno spazio ben definito e in equilibrato rapporto reciproco, ‘secondo natura’(μετριότης). I gesti delle figure dovevano essere naturali per essere efficaci, e per parlare all’anima del popolo dovevano essere universali. E un vocabolario universale non poteva essere trovato se non nell’arte greca, modello atemporale perché prodotto dall’incorrotta cultura dei Greci. L’arte ellenica era come una scrittura geroglifica, in cui a ogni gesto corrispondeva un significato, immediatamente comprensibile a tutti perché conforme alla natura. Ma quali furono i principi guida di questa nuova architettura? Chi furono le personalità più influenti che, a distanza di anni, riuscirono a costruire un legame con il passato più nobile? Figura cardine fu sicuramente Leon Battista Alberti, per il quale, se è vero che sua guida sia stata l’antichità, non è men vero che il suo atteggiamento è più emotivo che ortodosso5. Evolvendo da una visione emotiva a una concezione archeologica, per poi rifiutare l’archeologia e l’obiettività, egli considerò l’architettura classica come un tesoro da cui

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attingere il materiale per un’architettura (muraria) libera e personale. Nel De re aedificatoria Alberti afferma che l’aspetto estetico di un edificio riposa su due elementi: la bellezza e l’ornamento. Egli definisce la bellezza come «un concerto di tutte le parti accomodate insieme con proporzione e discorso, in quella cosa in che le si ritruovano; di maniera che e’ non vi si possa aggiungere o diminuire, o mutare cosa alcuna, che non vi stesse peggio» [Libro VI cap. 2; ed. 1485]. L’ornamento è «una certa luce adiutrice de la bellezza e quasi un suo adempimento. Mediante queste cose penso io che sia manifesto, che la bellezza è un certo che di bello, quasi come di se stesso proprio e naturale diffuso per tutto il corpo bello, dove lo ornamento pare che sia un certo che di appiccaticcio e di attaccaticcio più tosto che naturale, o suo proprio». La bellezza è dunque, secondo Alberti, un’armonia insita nell’edificio, un’armonia che, come egli più volte chiarisce, non risulta dal capriccio individuale, ma da un obiettivo ragionato. Sua principale caratteristica è l’idea classica di conservare un sistema proporzionale uniforme in tutte le parti di un edificio. E la chiave per una proporzione corretta è il sistema pitagorico dell’armonia musicale (a cui verrà data ulteriore spiegazione in seguito). Di poco successivo, Andrea Palladio divenne una delle personalità che più seppe attuare una revisione moderna del passato, pur rimanendo visceralmente legato ad esso. Nel proemio al terzo libro dei Commentarii, torna all’idea che «i vestigij di tanti loro superbi edificij» ci danno una «certa cognitione della virtù e della grandezza Romana, che altrimenti forse non sarebbe creduta». Non saremmo probabilmente in errore nel ritenere che per lui la pratica

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della buona architettura costituisce un obbligo morale, e che anzi, considerasse l’architettura come disciplina fondamentale sia delle arti che delle scienze, il cui complesso racchiudeva, ai suoi occhi, l’ideale della virtus6. Ma è probabile che l’architettura, in quanto manifestazione di virtù, implicasse per Palladio anche qualcosa di più specifico. È come se si volesse riprendere Trissino, il quale confidava di infondere virtù civiche nella più giovane generazione: «Genio et studiis», «Otio et musis» e «Virtuti et quieti». Nella pratica, le disquisizioni su come dovessero tradursi queste intenzioni mirate alla bellezza e all’armonia - per citarne due sole -, spaziarono in molteplici campi. Anzitutto, «la condizione che architettura sia scienza, e che ciascuna parte dell’edificio, all’interno come all’esterno, debba integrarsi in un unico e identico sistema di rapporti matematici, può essere definita l’assioma fondamentale degli architetti rinascimentali»7. Secondo questo modus operandi, l’architetto non è in alcun modo libero di applicare a un edificio un sistema di rapporti scelto a capriccio, e che i rapporti stessi devono armonizzarsi con concezioni di ordine superiore, e che anzi un edificio dovrebbe rispecchiare le proporzioni del corpo umano; esigenza universalmente accolta in base all’autorità vitruviana. Come l’uomo è immagine di Dio e le proporzioni del suo corpo sono state concepite e fissate nella volontà divina, così le proporzioni architettoniche devono comprendere in sé ed esprimere l’ordine cosmico. La Simmetria è la bellezza dell’Ordine, come la Eurithmia della Disposizione. Non è assai ordinare le misure una dopo l’altra, ma necessario è, che quelle misure habbiano conuenienza tra loro, cioè siano in qualche proportione. Barbaro, I dieci libri

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Allo stesso modo, non sono importanti i numeri in se stessi, ma i rapporti fra di essi; e che i rapporti cosmici debbano essere considerati vincolanti anche nel microcosmo. È interessante notare come, a partire nuovamente dal Rinascimento, si cercasse ancora una sorta di commistione tra umano e divino, tra artificiale e naturale. Si acquista sì una indipendenza dal cieco dogmatismo, ma si ricerca quasi ossessivamente un controllo del modo di vedere la realtà filtrato dalla scienza dei numeri e dalla commensurabilità dei rapporti. Riprendendo Palladio al Libro IV, cap. 5: «…in tutte le fabbriche si ricerchi che le parti loro insieme corrispondano, et habbiano tal proportione, che nessuna sia, con la quale non si possa misurare il tutto, et le altre parti ancora». Appare, quasi, che soprattutto in quella che viene indicata come la composizione della classicità, la soluzione fosse proprio la conseguenza della risoluzione di un’equazione fatta di numeri, dai quali si ottengono proporzioni e combinazioni armoniche. Tutto in risposta a una percezione oggettiva dell’architettura e della realtà. Ecco che allora può essere possibile parlare di un ‘oggettivamente bello’, in quanto rispondente a leggi matematiche. Questo principio sarebbe stato ampiamente ripreso anche nell’epoca moderna, difeso ad esempio da uno dei più sinceri conservatori di un atteggiamento classico: L’artistico dà forma alla struttura delle cose. Si esprime nelle proporzioni delle cose, spesso addirittura nelle proporzioni tra le cose. In sostanze è qualcosa d’immateriale, di spirituale. Di conseguenza è indipendente dalle condizioni materiali di un’epoca. È una ricchezza cui persino un’epoca materialmente povera non può rinunciare. Non vogliamo aggiungere a una perdita materiale

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anche una perdita culturale. L’aspirazione alla semplicità non conduce a una perdita culturale, se noi ci sforziamo di introdurvi il massimo di bellezza possibile. Mies van der Rohe

Analizzando le proporzioni di un edificio rinascimentale, si deve inoltre tener conto del principio della generazione. Si può persino affermare che, astraendo da esso, è impossibile intendere pienamente le intenzioni di un architetto dell’epoca. Tocchiamo qui le basi fondamentali di uno stile, poiché le forme semplici, i muri i piani e l’articolazione omogenea sono presupposti necessari di quella «polifonia di proporzioni» che la mente rinascimentale sapeva vedere. Item comparationem eiusmodi esse triplicem, scilicet arithmeticam, geometricam, harmonicam. Arithmeticam in numerii paritate consistere. Sic inter tria et septem medius est quinarius, numero eodem, scilicet binario alterum terminum superans, ab altero superatus, per proportionem utrinque bipartientem. Geometricam vero in rationis aequalitate sitam esse, in qua sunt multiplex atque superparticularis: quando videlicet ita comparamus, sicut se habent tria ad novem, ita novem ad septem atque viginti, nam utrobique tripla. Item quod est nove-narius iuxta senarium, idem est senarius iuxta quaternarium. Nam et hic et ibi est proportion sesquialtera....Sic enim ponas tria, quator, sex, differentia inter sex and quator est binaries: differentia inter quator et tria, unitas, sicut autem inter sex et tria dupla ratio est, ita inter duo et unum est ratio dupla. Viget hic altera quoque similitude, scilicet portionum: simili namque extremorum portione medius terminus excedit atque exceditur. Marsilio Ficino, Opera Omnia (Basileae, 1576), 11, p. 1454

Risulta ormai chiara in questo breve excursus l’esistenza di un’interrotta tradizione, fin dall’antichità, secondo la quale

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l’aritmetica, studio dei numeri, la geometria, studio dei rapporti spaziali, l’astronomia, studio dei moti dei corpi celesti, e la musica, studio dei moti colti dall’orecchio, costituivano insieme il quadrivium della «arti» matematiche. A paragone di queste «arti liberali», la pittura, la scultura e l’architettura erano considerate attività manuali. Per elevarle dal livello di arti meccaniche a quello di arti liberali, occorreva fornire loro un saldo fondamento teorico, vale a dire matematico8. Questa trasformazione fu la grande conquista degli artisti del Quattrocento; e non c’è da stupirsi che essi si volgessero alla musica come all’unica arte liberale degna di rispetto, e studiassero la teoria musicale per trovarvi la chiave dei propri problemi. In tale modo, l’educazione artistica comportò, come conditio sine qua non, la familiarità con la teoria musicale. Lo stesso Alberti discute la corrispondenza tra gli intervalli musicali e le proporzioni architettoniche. Agli occhi degli uomini del Rinascimento le armonie musicali erano le prove udibili dell’armonia universale, che aveva efficacia generale e vincolante su tutte le arti. Questa convinzione non era soltanto profondamente radicata nella teoria, ma anche trasferita nella pratica come esigenza che le parti corrispondano al tutto e l’una all’altra. Ciò venne generalmente soddisfatto nelle chiese, dalla relazione tra navata centrale, navate laterali e cappelle, ma in questi casi il Rinascimento poté costruire seguendo anche le tradizioni medievali. Vasari si esprime sostenendo, d’altra parte, che sia necessario praticare la ‘maniera moderna’ solo in quanto intrisa di antico e nutrita di coscienza antiquaria. Egli attua una distinzione assai marcata tra gli Antichi – Greci e Romani – e i moderni (Rinascimento), ben

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separati e quasi opposti, perché ne fosse possibile l’assiduo paragone. Attraverso una tale contrapposizione, l’antiquitas, considerata compresente e viva fonte di norme e pensieri, veniva a trasformarsi in una remota e conclusa vetustas, la cui auctoritas un tempo incontestabile diventava sì più salda, ma anche più esplorata e pertanto meno inafferrabile, più disponibile a un paragone prima impensabile. Nel corso della fine del Cinquecento e del Seicento, i ‘moderni’ si persuasero di aver ormai ‘digerito’ gli antiqui, e perciò potevano ora contrapporsi ad essi rivendicando la propria superiorità. Parliamo di una nuova modernità, in cui i principi della nuova architettura relazionati a una dinamica asimmetria, alla trasparenza e al fluire spaziale erano combinati con un ricordo di convenzioni ecclesiastiche tradizionali come simmetria, imponenza, struttura professionale e con una pianta a basilica, con navata centrale, navata laterale e arcate. Abbiamo a che fare con i modi in cui fantasie, idee, persino intuizioni di ordine morale vengono tradotte in termini architettonici. Non si può pertanto non chiamare in causa la geniale mente del primo vero ‘moderno’ della storia dell’architettura, rilegato all’interno di una visione manierista di conflitto e complessità: Michelangelo. Citando l’esempio della Biblioteca Medicea Laurenziana, emerge la sua peculiare tensione, mista a una sorta di inquietudine quasi patologica. Un genio che sapeva giocare con gli elementi base della composizione classica, riposizionandoli a suo piacimento e conferendo loro un nuovo significato: lo scalone che con slancio espressivo riporta alla mente l’immagine di una colata di lava, l’ordine gigante che appoggia su mensole, che

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diventano elementi staticamente primari, sono solo pochi elementi che denunciano la grande innovazione del suo linguaggio espressivo. Altre ‘inversioni del classico’ si ritrovano nella curiosa figura del già menzionato Palladio: egli è ordinato, sistematico e interamente logico. Lo si guarda con una sorta di distacco incuriosito, più che con quella reazione violenta suscitata da molte strutture manieristiche più complesse. E nonostante ciò, tutti i suoi elementi potevano contare sulla garanzia di prototipi classici. Si prenda come esempio la Loggia del Capitanio, del 1571. Tipologicamente questo palazzo si colloca entro una lunga tradizione del palazzo comunale, o palazzo del consiglio o del podestà, che presenta sempre le logge aperte a uso pubblico al di sotto, e uffici nella parte superiore. Palladio modellò di nuovo il fronte principale verso la piazza sul modello dei palazzi capitolini michelangioleschi, tuttavia qui abbandonò il gioco mutuo di diversi ordini, e conferì alla facciata un’accentuazione di grande potenza, per mezzo di semicolonne giganti. Il trattamento delle campate stesse è notevole: le finestre tagliano il cornicione, e pesanti balconi posano su elementi che meglio potrebbero definirsi pezzi di cornicione con triglifi, anziché mensole. Simili inversioni dell’uso classico, si ritrovano per la prima volta nelle edicole del Ricetto di Michelangelo, ed erano diventate quasi tratto consueto del bagaglio manieristico. La Loggia si trova di fronte alla Basilica palladiana, sulla medesima piazza. Il confronto tra i due edifici mostra chiaramente ciò che era accaduto nel corso di venticinque anni: sebbene derivino da fonti classiche simili, essi non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altra. Il primo era fondato sugli esempi bramanteschi, in altre parole

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su un’interpretazione contemporanea dell’architettura classica, più che su quella propriamente palladiana. L’ultimo edificio è espressione di un atteggiamento essenzialmente personale; nella sua configurazione sono legate insieme numerose concezioni classiche, eppure, bel lungi dall’essere ortodosso e archeologico, esso appare piuttosto come una trasfigurazione libera ed emotiva dei modelli antichi. Partendo dalla figura di riferimento dell’architetto, prima che artista, fiorentino, prendiamo come esempio - estrapolato certo da un discorso di continuità temporale - la Plechnik Hall nel Castello di Praga. La creazione idiosincratica di Plechnik sembrava utilizzare e corrispondenze del tutto personali. Mescolava politica e allegoria, classicismo e folklore locale, tradizioni alte e basse, in una sorta di promenade attraverso il tempo. Plechnik evitò di cadere in una narrativa triviale conservando una disciplina generale e trasformando i riferimenti storici in una nuova struttura poetica. Egli dosava potenti esperienze architettoniche nello spazio, avvicinando passato e presente attraverso prospettive controllate. Un limitato numero di forme geometriche assumeva differenti identità e rinnovava i temi dominanti dell’insieme. Elementi classici di base, come colonne, modanature, piedistalli, capitelli, edicole e anfiteatri, prendevano ruoli, dimensioni e combinazioni sorprendenti, fondendosi talvolta con forme di significato locale. le fonti subivano una metamorfosi, acquistando nuove identità multivalenti in oggetti che entravano tra loro in risonanza. L’insieme era pervaso da un’intensità che lo sottraeva dall’ambito di un revivalismo superficiale. Plechnik rivelò qui un metodo per dissotterrare le memorie storiche presenti in un luogo.

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Risulta evidente già da ora, come nel corso dei secoli, la revisione dei principi figli della tradizione ereditata dagli Antichi, avesse subito un processo di reintepretazione e rivalutazione. Un grande passo in controtendenza, si ebbe tra il XVI e il XVII secolo, che vede protagonista una nuova sensibilità, ossia la non assolutezza della percezione e relatività delle proporzioni. Si prendano ad esempio in considerazione le parole di Tommaso Temanza, del 1762, in Vita di Andrea Palladio: «l’occhio non è capace di percepire simultaneamente i rapporti di lunghezza, larghezza e altezza di una stanza; e le proporzioni architettoniche devono essere giudicate in base all’angolo di visibilità sotto il quale è osservato l’edificio. In altre parole, le proporzioni architettoniche non possono essere assolute, ma relative». Qui l’accento si è spostato dalla verità oggettiva dell’edificio alla realtà soggettiva della percezione individuale di esso. È questo il motivo per cui Temanza considera l’uso dei medi proporzionali come «più misterioso che ragionevole». Tuttavia, si osserva che la posizione teorica di Temanza non è affatto chiara; poiché, malgrado egli introducesse fattori rivoluzionari nel problema della proporzionalità, non può rinunciare ancora alle nozioni tradizionali. In una lettera più tarda, indirizzata a Bottari, nella quale riafferma la sua posizione, insiste sul fatto che l’uso delle proporzioni armoniche in architettura condurrebbe alla sterilità. Per un classicista settecentesco, questa era davvero un’osservazione sensata. Circa negli stessi anni, Burke, in Inquiry into the Origin of our Ideas on the Sublime and Beautiful, del 1757, col suo atteggiamento sensuale ed emotivo e la sua esaltazione del

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sublime, sottopose la concezione classica della proporzione a un’analisi minuziosa, e la fece a brani. Negò che la bellezza avesse «nulla a che vedere con il calcolo e la geometria». La proporzione, a suo parere, è unicamente «la misura della quantità relativa», una questione di interesse matematico è «indifferente alla mente». Ci si può quindi chiedere se sia possibile collegare una percezione classica della bellezza con l’idea del sublime. Non è forse questo che suscitano le Carceri stesse o le incisioni in generale del Piranesi o di Hubert Robert? Non potrebbe essere una deduzione - nonché attualizzazione del concetto di rovina - quella di leggere oggi quell’architettura splendente come nivee un dipinti romantico? La bellezza classica non ha insita in sé l’idea della decadenza? Alison sostenne allora che qualunque norma, astratta o ideale, distrugge la funzione di un’opera d’arte. Sono i «pensieri prodotti da oggetti di gusto», gli stimoli spontanei dell’immaginazione, che rendono un’opera bella e sublime. «La sublimità o Bellezza delle Forme nasce insieme con le associazioni che noi vi colleghiamo, o con le Qualità che ai nostri occhi essere esprimono» (Essays on the Nature and Principles of Taste, Edimburgh 1790, pp.13 sgg.). Nella scia di Alison, Richard Payne Knight, nella sua Analytical Inquiry into the Principles of Taste, 1805, dichiarò che la proporzione «dipende interamente dall’associazione delle idee, e niente affatto da qualsivoglia ragione astratta o sensazione organica; altrimenti come l’armonia nel suono o nel colore, risulterebbe ugualmente dalle stesse relazioni comparative in tutti gli oggetti; il che è tanto lontano

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dall’essere in realtà, che le stesse dimensioni relative, che rendono un animale bello, fanno un altro assolutamente brutto… ma le stesse combinazioni armoniche di suoni, che producono l’armonia di un violino, la producono in un flauto o in un’arpa»). Si era così trovata una prova pseudologica per mostrare che l’armonia musicale e le proporzioni spaziali non avevano nulla in comune. Nel quadro di una concezione interamente nuova del mondo, tutta la struttura dell’estetica classica venne sistematicamente rovesciata, e in questo processo la visione umana subì un mutamento decisivo. La proporzione divenne un fatto di sensibilità individuale, e sotto questo riguardo l’architetto acquistò una libertà completa dai vincoli dei rapporti matematici. Tale era l’atteggiamento al quale molti architetti, come anche il pubblico, inconsciamente sottoscrivevano, e così hanno continuato a fare nei giorni nostri. Ruskin dichiarò che le proporzioni possibili sono infinite, come infinite sono le orribile arie melodiche, e che si deve lasciare all’ispirazione dell’artista di inventarle. Da qui la convenzione che gli edifici esistano per amore dell’architettura. Persino il linguaggio sacro dei templi e delle cattedrali è il risultato di uno scopo. Diventa quindi curioso prendere in considerazione il pensiero dell’architetto moderno, che attuò un’ulteriore revisione critica di tutto quell’apparato gnoseologico che aveva costituito i fondamenti della pratica più o meno antica. A partire dal XIX secolo, ci si chiese «che cosa può essere, cosa deve essere e cosa non dovrebbe essere. Perciò dobbiamo riuscire a carpire la sua essenza. Così esamineremo ogni

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funzione che si presenta, ne determineremo il carattere e faremo di questo carattere la base della nostra concezione e della nostra forma. Così come ci procuriamo una conoscenza dei materiali, e come acquistiamo la natura degli usi per cui costruiamo, allo stesso modo dobbiamo anche imparare a comprendere l’ambiente spirituale e intellettuale in cui ci troviamo»9. Tra i ‘nuovi’ imperativi sembrava allora esserci il controllo del caos, che è sempre segno di un’anarchia: movimento senza ordine, senza una direzione principale. Si riprese il pensiero dei grandi ‘costruttori di idee’, come Sant’Agostino che, sulla base delle teorie platoniche, formulò le regole fondamentali della concezione medievale del mondo. Nell’idea di ordine medievale riviveva, sebbene in una dimensione del tutto nuova, quello spirito delle proporzioni fonato e sostenuto da Platone. Il più nobile retaggio dell’Antichità. Affianco del Doctor Gratiae, si chiamò in causa la verità di Tommaso d’Aquino: «Adaequatio rei et intellectus». In linguaggio moderno: «La verità è il significato dei fatti» (come secondo Giambattista Vico: Verum ipsum factum). Ritengo che il modo in cui si evolse la teoria architettonica nel corso del Novecento, da parte di alcuni dei maestri, sia un riflesso conseguente di questa sensibilità ereditata dagli esempi del mondo antico. L’interrogarsi sull’autenticità di un’opera, sul suo significato e sulla sua sopravvivenza, può essere interpretato come un modo per declinare una forma mentis tipicamente occidentale e storicista con i nuovi stimoli provenienti dal mondo contemporaneo.

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Sostiene l’architetto di Aquisgrana che dove «la vera costruzione trova un contenuto autentico, là sorgono anche opere vere, opere vere e corrispondenti alla loro essenza, E queste opere sono necessarie. Sono necessarie in se stesse e in quanto parti di un ordine genuino. Si può fare ordine soltanto in ciò che è già di per sé ordinato. L’ordine è qualcosa di più dell’organizzazione. L’organizzazione è la determinazione di uno scopo. L’ordine è invece attribuzione di significato»10. Sembra, allora, che se noi attribuissimo a ogni cosa ciò che essenzialmente le spetta, allora le cose rientrerebbero, quasi da sé, nell’ordine loro corrispondente e solo allora sarebbero pienamente ciò che esse sono. È forse vero che soltanto in questo modo troverebbero la loro piena realizzazione? Il caos in cui viviamo cederebbe di fronte all’ordine e il mondo diventerebbe nuovamente pieno di senso e di bello? E che cos’è in fin dei conti la bellezza? Certamente nulla che possa essere calcolato o misurato. Invece è sempre qualcosa di imponderabile, qualcosa che si trova in mezzo alle cose. La bellezza in architettura, che per la nostra epoca è tanto una necessità e un fine quanto lo è stata per le altre epoche, si può raggiungere se, nel costruire, si ha in mente più che il puro scopo immediato, sosteneva Mies. La semplicità della costruzione, la chiarezza dei mezzi architettonici e la purezza dei materiali saranno gli strumenti della nuova bellezza. Il bello è lo splendore del vero! Tommaso d’Aquino

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Ieri si parlava ancora delle forme eterne dell’arte, oggi si parla della loro mutazione dinamica. Entrambi i fenomeni sono visti in maniera sbagliata. L’arte del costruire non è schiava né del giorno presente, né dell’eternità, ma dell’epoca. Soltanto un movimento storico crea il suo spazio vitale e la rende ciò che essa è. L’arte di costruire è l’espressione di un evento storico. L’autentica realizzazione del suo movimento interiore. Ciò significa persistere nell’umiltà, rinunciare all’effetto e compiere fedelmente il necessario e il giusto. Realizzare ed esprimere la sua essenza. E questo è il motivo per cui il XIX secolo ha fallito. Insospettatamente e profondamente celato sotto tutti i tentativi confusi di quel periodo, il flusso del progresso è avanzato tranquillamente, alimentato dalle forze di un mondo che era già di per se stesso diverso e portava con sé una giungla di forme nuove. Un mondo di un’inusuale e sconvolgente potenza. Il mondo delle forme tecniche, grandi e potenti.

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F. Di Giorgio, studi di proporzioni

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‘Inversioni’ a confronto: Michelangelo, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze 1519-34

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‘Inversioni’ a confronto: A: Palladio, Loggia del Capitaniato, 1571-72

‘Inversioni’ a confronto: J. Plečnik, Plečnik Hall, Castello di Praga, 1930

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Classico e sublime nelle incisioni di Giambattista Piranesi

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Classico e sublime nelle visioni di Hubert Robert

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Villa Adriana Piccola Galleria Fotografica

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Villa Adriana, un esempio di globalizzazione architettonica Fece costruire con eccezionale sfarzo una villa a Tivoli dove erano riprodotti con i loro nomi i luoghi più celebri delle province dell’impero, come il Liceo, l’Accademia, il Pritaneo, la città di Canopo, il Pecile e la valle di Tempe; e per non tralasciare proprio nulla, vi aveva fatto raffigurare anche gli inferi. Historia Augusta, Vita Hadriani, XXVI, 5

L’architettura è il confronto spaziale dell’uomo con il proprio ambiente e l’espressione di come l’uomo si affermi in esso e di come sappia padroneggiarlo. Ludwig Mies van der Rohe1

Villa Adriana è uno dei siti archeologici più affascinanti che l’uomo possa visitare oggi. È una summa di atteggiamenti classici e contemporaneamente moderni a tutti gli effetti. È un’affermazione architettonica di grande efficacia e suggestione. Questo luogo, così esteso e complesso, testimonia quella capacità propria dell’antichità di effettuare collazioni di stili, influenze ed esperienze, dando vita ad museo a cielo aperto, una vera e propria palestra per il giovane architetto. Qui trovano applicazione tutti i principi e le potenzialità

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dell’architettura classica: colonnati, cupole, stilemi dorici e complessi termali a più ambienti, a testimoniarne la lunga evoluzione. Ma accanto ai numerosi edifici di impianto tradizionale, altri di straordinaria originalità dimostrano la sicurezza con cui gli architetti si addentrarono in territori inesplorati. Si rivela qui, più pienamente che altrove, la grande creatività dell’architettura romana che ha saputo dare vita ad un luogo innovativo, basato per intero sulla singolarità della disposizione e della combinazione di forme classiche già conosciute. In questo esempio ritroviamo un tema caro alla critica: l’alterità del popolo latino rispetto a quello ellenico. L’allontanarsi dei Romani dai Greci, infatti, non fu negato, ma riproposto non più come un processo di degenerazione, ma di creazione di un linguaggio e un gusto consapevolmente nuovi. Per Wickhoff, anzi, all’esaurirsi del naturalismo greco corrispose a Roma la nascita della rappresentazione illusionistica della realtà. Vasari poneva addirittura l’arte romana al culmine dello sviluppo dell’arte antica, come la maniera «più divina di tutte le altre». E c’è una palese convivenza proprio negli esemplari adrianei di elementi provenienti dalle altre culture da essi assorbite. Di qui venne la diffusa immagine dell’arte romana come ‘bipolare’, che contiene, ossia, al suo interno sia un’arte aulica, che tendenzialmente aderisce ai canoni classici, sia un’arte plebea, che invece se ne allontana. Per questa duplicità, è possibile parlare di un’arte in bilico fra ‘classico’ e ‘non-classico’. Adriano e i suoi geniali collaboratori diedero impulso a questa lunga e continua evoluzione stilistica ereditata dal passato, cercando al suo interno espressioni artistiche nuove

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e significative: come altri che seguirono, essi capirono che il classicismo non si era esaurito e che il suo potenziale non era stato ancora sfruttato fino in fondo. Nel suo rivelarsi come rovina, la Villa conserva oggi, come all’epoca della sua riscoperta, una patina che le permette di accedere all’universalità, ad un’esistenza intramontabile, grazie al suo essere repositorum di lezioni di composizione, rapporto con il suolo, pianificazione urbana. Qui ritroviamo quel qualcosa che rende un progetto - realizzato - eterno, cioè destinato a divenire un giorno rovina e parlare alle generazioni future ed essere in qualche misura universale. Per questi e tanti altri motivi, la Villa si configura come un’esperienza perfetta per esplorare la sopravvivenza del “classico”, proprio perché mantiene tuttora la capacità di proiettarsi nel futuro. Per bellezza fu subito, già allora, antica, ma oggi esse ci appaiono fresche, come se fossero state appena ultimate. Ne sgorga come una perenne giovinezza che le conserva immuni dall’assalto del tempo, quasi fossero intrise di uno spirito che fiorisce in perpetuo e di un’anima incapace di invecchiare. Plutarco2

La costruzione della residenza di campagna di Adriano iniziò nel 118 d.C., sebbene sia possibile riconoscere tre fasi di realizzazione particolarmente attive tra il 118 e il 121, il 125 e il 128 e il 134-138 (consentendo di abbracciare un intervallo presumibile di costruzione tra il 118 e il 138)3. Tivoli si prospettava come la destinazione perfetta per la collocazione della Villa: non era troppo distante da Roma, e la disponibilità di una preziosa riserva idrica, grazie alla

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presenza dell’Aniene, avrebbe consentito all’imperatore di realizzare una vera e propria architettura d’acqua, facendone un - o il - Leitmotiv della costruzione. Il sito è delimitato sui lati lunghi da due valli più o meno parallele, orientate nord ovest e sud est, che distano l’una dall’altra circa cinquecento metri in corrispondenza dei ruderi sud e quasi un chilometro in più a settentrione. Le valli, sul cui fondo correva un torrente ormai asciutto, sono contornate per la maggior parte da rupi erose di tufo rossastro che verso nord ovest si riducono in altezza man mano che si abbassa il livello del suolo; il dislivello massimo tra valle e villa raggiunge i venticinque metri circa. Grazie a tale conformazione del terreno, la residenza gode di una marcata identità topografica e di una privacy notevole. Entro i confini del sito, il terreno è irregolare e ha la morfologia tipica della campagna romana, con bassi crinali arrotondati e un ripido fosso o alveo, cioè l’antico letto di un corso d’acqua inaridito, in cui è collocato il canale scenografico. Il controllo della topografia fu uno dei passaggi fondamentali per la progettazione e la collocazione di tutte le fabbriche contenute all’interno, e la forte impronta artificiale sulla modellazione del sito è ancora oggi testimoniato dalle sostruzioni massicce dei quartieri di servizio. Questo terreno, infatti, leggermente accidentato e che «dai ruderi sud al Pantanello scende di una sessantina di metri, subì numerose modifiche per mano degli ingegneri assunti da Adriano, che effettuarono sterri e terrazzamenti su grande scala»4. La Villa ha un’estensione di due chilometri in lunghezza, entro i quali si presentano due grandi dislivelli: dal Pantanello alla terrazza est ovest (32 mt) e dalla terrazza est ovest al parco superiore (24 mt); frequenti sono poi i dislivelli di minore entità, non sempre graduali.

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Per la conformazione del terreno e per l’uso che volle farne Adriano, non esiste una linea di orientamento principale, né un edificio che domini il sito intero. Le singole fabbriche sono per la maggior parte simmetriche e parecchi gruppi di edifici hanno una disposizione ortogonale; ma i rapporti planimetrici sui vari gruppi possono sembrare irrazionali, fatto che anche in questo caso è dovuto spesso al terreno. Mancando un asse centrale, è difficile avere una visione di insieme del sito. Per conoscere la Villa, dunque, bisogna esplorarla ed è questa un’altra sua chiave di lettura: la rivelazione immediata non rientrava nelle intenzioni del suo artefice. Come accennato in precedenza, osservando la pianta salta agli occhi l’indipendenza di ciascuna area chiusa, un’indipendenza che talvolta rasenta l’isolamento. Oltre a svolgere funzioni proprie (non sempre evidenti dall’aspetto esterno), ognuna di queste aree era anche un obiettivo, un particolare punto o meta fissa nel paesaggio di giardini attraversato durante una passeggiata5. Alcune volgevano le spalle al complesso della Villa; altre erano gabbie architettoniche piene di finestre o di schermi colonnati che si sostituivano alle pareti, o di entrambi. Varie testimonianze indicano che la pianta della villa derivò in buona parte dalla creazione di specifici effetti percettivi, da un gioco voluto di contrasti tra edifici vicini e fra spazi aperti, semiaperti e chiusi concatenati fra loro, ideato per lo svago dei sensi. Una rivelazione progressiva che tanto riflette quella sensibilità tipicamente greca di esperire un luogo dalla morfologia articolata, e il cambiamento cui si assisteva passando da un’area aperta a una chiusa, secondo una volontà tutta scenografica, era nettamente definito e spesso sottolineato dalle dimensioni della porta o dell’ingresso, più ridotte rispetto alla fabbrica.

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Non è difficile immaginare come in questi luoghi, sotto la volta del cielo, davanti all’ampia distesa della villa, con la campagna romana e i monti che si scorgevano in lontananza, potesse nascere una sensazione di vastità spaziale nettamente opposta alle atmosfere che si respiravano nella aree chiuse edificate. Escludendo i ruderi nord e sud, la Villa può essere suddivisa in tre parti: la prima corrisponde alla zona più in piano del terreno demaniale, fittamente edificata, la seconda all’area che si estende lungo il crinale della valle ovest, dal belvedere ovest all’estremità ultima del complesso sud, la terza all’altura. Le differenze topografiche evidenziano anche una diversità di funzioni: da un lato, ci troviamo di fronte a una serie di strutture complesse, adatte al tradizionale stile di vita che si conduceva in villa, obblighi imperiali compresi; dall’altro, un rifugio costruito in posizione elevata e nettamente separato dagli altri edifici, con un perimetro ben protetto di mezzo chilometro, e infine spazi enormi con poche fabbriche in superficie, nessuna delle quali adibita alle normali attività di routine. Nella zona più a valle, dunque, Adriano eresse edifici per la vita quotidiana, il lavoro, lo svago e l’intrattenimento, alloggi per gli ospiti e per la corte e indispensabili strutture di supporto e servizio. Sull’altura, invece, piuttosto che le esigenze di Adriano uomo e sovrano, o gli svaghi e il piacere, si privilegiarono i contenuti allusivi e, forse, lo spirito6. La villa viene spesso definita anche città, oppure si dice che vi assomigli a causa delle sue dimensioni e del gran numero di fabbriche, molte delle quali hanno un carattere

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decisamente urbano, tra cui anche l’edificio di servizio nord. Eppure, nonostante l’esperienza sensoriale di attraversare ambienti molto diversi fra loro disposti ad arte - e talvolta ad effetto - contribuisca a creare un disordine apparente, la villa possiede una sua integrità, una sua coerenza a livello concettuale. Il suo valore storico risiede nell’aver allentato, perfino indebolito, ogni certezza spaziale, ricercando forse un’affermazione o dimostrazione dei rapporti tra cielo e terra, aspetto che si coglie anche in altri monumenti adrianei. Ma oltre a riproporre effetti scenografici e ottenere un adeguato esempio di magnificenza, cosa voleva Adriano? Oggi la Villa ha ancora una sua utilità e attualità? Nella storia dell’architettura e dell’arte, l’attenzione che artisti e architetti hanno sempre riservato a questo luogo ne testimonia al meglio il fascino e il valore: come dimostrano le vedute e gli schizzi di Quarenghi, Piranesi, Rossini e molti altri, il complesso conquistava tutti. Louis-Marie-Henri Sortais7, in un elegante restauro dei Beaux-Arts risalente al 1893, si avvicinò più di chiunque altro alla sua plausibile configurazione originaria, e il tutto quando l’era delle visite turistiche si profilava ancora lontana: scoprire nella malinconica e selvaggia desolazione della Villa le rovine non restaurate esercitava senza dubbio una forte suggestione sullo spettatore. Tuttavia, il fatto che quegli artisti abbiano individuato l’eccezionale spirito architettonico del luogo, rappresenta un tributo alla visione di Adriano. E oggi che ne abbiamo una conoscenza più approfondita grazie agli studiosi e agli ingegneri italiani, che hanno disboscato la zona e ne hanno realizzato gli elementi, le realtà artistiche e funzionali ci appaiono più nitide che mai.

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Adriano costruì non tanto perché spinto da un desiderio autocelebrativo, quanto piuttosto per un vivace e genuino interesse all’arte e all’architettura. Egli seppe coniugare edifici tradizionali e poco originali con una varietà di progetti nuovi nati dal desiderio, fin allora sconosciuto nel mondo classico, di rompere con la tradizione, cosicché in un certo qual modo la Villa simboleggia lo stato dell’architettura a quell’epoca. La Villa, al suo interno, riserva percorsi alternativi, suggerimenti sperimentali; evoca e legittima anche il ‘primitivo’ e l’‘anticlassico’, accogliendo in sé non solo il centro, ma anche i margini e persino le deviazioni dell’arte antica. Si può dire che si mettesse in sintonia con le avanguardie di un tempo. L’innovazione architettonica della Villa è tuttavia basata per intero sulla singolarità della disposizione e della combinazione di forme classiche già conosciute. Le piante degli edifici, raramente eccentriche e irregolari, sono quasi sempre impostate su quadrati, rettangoli, cerchi e curve circolari. Eppure non mancano ricerche di variazioni sul tema, grazie all’uso diffuso di aperture non verticali, orizzontali, inclinate, rotonde, rettangolari. La Villa potrebbe essere la rappresentazione, concentrata in un unico luogo, della filosofia artistica dell’imperatore8. Superando in originalità qualsiasi cosa vista altrove, essa ampliò gli orizzonti architettonici del suo artefice e fu per lui un vero e proprio laboratorio. I suoi viaggi e la sua esperienza nel mondo hanno alimentato sicuramente questo processo, e le opere innovative della Villa sono con ogni probabilità

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nate dal suo personale modo di pensare e dal suo moderno senso della progettazione: l’Egitto aveva qualcosa da dire, soprattutto sulla sfera dell’intangibile, ma la Grecia era la culla dell’erudizione, della letteratura e dell’arte di un’epoca forse più nobile che si era fatta veicolo di incomparabili valori estetici, ed entrambi necessitavano una loro espressione all’interno di questo mirabile complesso architettonico e artistico, filtrati tuttavia dalla mano prettamente latina. E se la Villa esprime specificatamente questi temi, il Pantheon li trasmette nei loro valori universali. Allo stesso tempo, la Villa tradisce quasi la volontà di riproporre modalità rappresentative e stilistiche ormai remote. È come se si volesse affiancare le esperienze delle ultime generazioni con un’incontenibile e accorata nostalgia per i tempi andati, per i grandi maestri di allora. La grande modernità di Villa Adriana, così difficile da rinchiudere all’interno di definizioni predeterminate. La villa come un’esperienza palesemente ‘moderna’ e ancora contemporanea. Questo sguardo alla residenza adrianea come come occasione di attuare una sorta di analisi retrospettiva, può essere legittimato dal fatto che in diversi sostengano che «gli stessi Antichi abbiano avuto, a partire da un certo momento i loro “classici”»9. La Villa può essere quindi interpretata come un ultimo anelito di quel paradigma biologicoparabolico che gli Antichi elaborarono e trasmisero ai moderni, prima della sua riscoperta nel Rinascimento. È un gioco a corsi e ricorsi storici, un continuo negarsi per poi riaffermarsi. Lo stesso Aristotele accenna che «è verosimile che ogni arte e ogni filosofia sia stata trovata e condotta al massimo sviluppo molte volte, per poi perdersi di nuovo» [Metafisica 12.1074b]. 9

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Oggi, momento in cui l’apertura verso (e l’influenza da parte di) molteplici esperienze non è mai stata così possibile, osservare questi luoghi di mirabile sintesi, non può che motivarne uno studio attento, perché luogo della memoria, e la memoria è un obiettivo rilevante di moltissima letteratura e delle falsificazioni storiche tramandateci dai romani. La memoria rafforza il senso del passare del tempo, implicito sia nella Villa che nel Pantheon, e pur appartenendo a un tempo determinato i due monumenti ne ricordano e testimoniano l’irreversibile movimento.

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VILLA PIRANESI

75 Planimetria di Villa Adriana secondo il rilievo di G. B. Piranesi


ationalVersion

ANFITEATRO ROMANO

Luoghi "deposito" o non aperti al pubblico

Luoghi "privati"

Luoghi "pubblici"

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TEATRO GRECO

TEMPIO DI VENERE NINFEO

TERME CON HELIOCA MINUS

INGRESSO COLLEGAMENTO VIA TIBURTINA

932,99 m2

ANTINOEION

CENTO CAMERELLE Immagazzinamento merci (/dimore servitù - poco probabile)

(vestibolo)

EDIFICIO CON TRE ESEDRE

STADIO

Possibili: strutture di servizio magazzini

GRANDI TERME

VESTIBOLO

PICCOLE TERME

EDIFICIO CON PESCHIERA Possibili: residenza imperatore sale udienze

CASERMA DEI banchetti e cerimonie VIGILI

QUARTIERI DI SERVIZIO Immagazzinamento merci (/dimore servitù - poco probabile)

13.627,45 m2

Collegamenti a: Terme con Heliocaminus Sala dei Filosofi Stadio Cento Camerelle

PECILE Piscina Portici

(/sala di attesa)

1.880,01 m2

PALAZZO IMPERIALE

SALA DEI FILOSOFI

TEATRO MARITTIMO

Possibili: triclini estivi turres per ingresso a dimora imperatore ingressi monumentali Palazzo

CORTILE DELLE BIBLIOTECHE

1.816,84 m2

2.482,08 m2

VILLA REPUBBLICANA

(stanze per ospiti)

HOSPITALIA

TRICLINIO IMPERIALE

BELVEDERE SULLA VALLE DI TEMPE

PIAZZA D'ORO

1.065,63 m2

PRETORIO

Diagramma delle funzioni all’interno della Villa in un’intepretazione “pubblico/privato”

CANOPO

ROCCA BRUNA

TEMPIO DI APOLLO


ationalVersion

ANFITEATRO ROMANO

Luoghi preval. a uso diurno

Luoghi frequentati anche di notte

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TEATRO GRECO

TEMPIO DI VENERE NINFEO

HOSPITALIA

STADIO

QUARTIERI DI SERVIZIO Immagazzinamento merci (/dimore servitù - poco probabile)

VESTIBOLO

PRETORIO

Diagramma delle funzioni all’interno della Villa in un’intepretazione “notte/dì”

INGRESSO COLLEGAMENTO VIA TIBURTINA

ANTINOEION

GRANDI TERME

PICCOLE TERME

CENTO CAMERELLE Immagazzinamento merci (/dimore servitù - poco probabile)

PECILE EDIFICIO Piscina CON TRE Portici ESEDRE Collegamenti a: Terme con Heliocaminus Sala dei Filosofi Stadio Cento Camerelle

SALA DEI FILOSOFI

TEATRO MARITTIMO TERME CON HELIOCA MINUS

EDIFICIO CON PESCHIERA

CASERMA DEI VIGILI

PALAZZO IMPERIALE

VILLA REPUBBLICANA

CORTILE DELLE BIBLIOTECHE

TRICLINIO IMPERIALE

BELVEDERE SULLA VALLE DI TEMPE

PIAZZA D'ORO

CANOPO E SERAPEO

ROCCA BRUNA

TEMPIO DI APOLLO


Il muro del Pecile e i quartieri di servizio nelle incisioni di Giambattista Piranesi

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le cento camerelle

Lavorare all’interno e, in una certa misura, con Villa Adriana significa trovarsi di fronte molteplici atteggiamenti e obiettivi. In questa commistione di effetti, influenze, esperienze, capire in quale punto mettersi in gioco si traduce nel decidere con quale delle tante atmosfere, tradotte dall’imperatore e dai suoi collaboratori in architetture, interfacciarsi. Il complesso noto come Cento Camerelle rappresenta ancora oggi un luogo aperto al dibattito, ma soprattutto permeato da una sorta di mistero, come se nascondesse qualcosa di occulto. Abbiamo precedentemente introdotto il tema del grande intervento sulla morfologia che fu attuato per realizzare i vari momenti profondamente scenografici all’interno della Villa. In particolare, per gestire il terreno che verso occidente declinava assai rapidamente e per realizzare la spianata del Pecile, venne modellata una poderosa sostruzione alta più di 15 metri. Questo sistema di contenimento, divenne un modo per dare spazio a quasi duecento ambienti, la maggior parte dei quali cubicoli coperti a volta nascosti da un’imponente muratura a nicchioni, che guardano verso Roma. Collocati sotto i margini della terrazza est ovest e della terrazza angolata, i quartieri avevano da due a quattro piani, a seconda della pendenza del terreno da sud a nord, e su ogni piano si aprivano fino a un massimo di sessanta ambienti. Rispecchiando un disegno tipico della tradizione romana, queste strutture svolgono quindi un ruolo duplice: fanno da sostegno alle spianate e forniscono al contempo spazi abitabili semplici ma decorosi, visto che la fabbrica poteva dare alloggio a circa settecento persone, è verosimile

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che ve ne fosse altre ora scomparse10. Senza dubbio, nella Villa esistevano ulteriori alloggi per servitù, operai e schiavi, presso l’angolo nord occidentale dei quartieri di servizio, nei ruderi nord o magari in altri luoghi non ancora identificati. Le stanze, caratterizzate da identiche dimensioni, pavimento in legno ed unica apertura sul fronte, erano accessibili da ballatoi esterni realizzati in legno e raccordati da una scala in muratura. Come risulta chiaro dalla disposizione delle buche pontate, il collegamento tra gli ambienti avveniva in diagonale. Sulla funzione delle Cento Camerelle sono state fatte alcune ipotesi nessuna delle quali tuttavia pienamente convincente. I rivestimenti parietali e pavimentali modesti dei vari vani e la presenza di una strada basolata che li costeggiava e che inoltrandosi nel terreno dava accesso a tali ambienti servili, fanno supporre che fossero alloggi della servitù. Secondo MacDonald e Pinto11, altre sarebbero invece le strutture preposte ad essere una dimora, come il blocco del canale e il salone dei cubicoli, mentre i quartieri di servizio venivano usati soprattutto per l’immagazzinaggio di merci e derrate alimentari. La stessa tesi sostiene che sia dubbia l’eventualità che l’edificio di servizio nord, così vicino alla residenza, ospitasse servitù e operai. Quello delle cosiddette Cento Camerelle è un progetto funzionale di cui si trovano molti esempi a Ostia (dove la metà dei resti riportati alla luce è di epoca adrianea) e nei mercati traianei. Si tratta di una fabbrica a due piani, con una trentina di ambienti simili a botteghe e una serie di latrine all’una o all’altra estremità; il lato superiore era orientato a ponente e si affacciava su una zona più elevata. Altra ipotesi è che esse fossero più probabilmente le residenze delle guardie imperiali, dal momento in cui si pensa che sul

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lato occidentale fosse collocato l’ingresso trionfale alla Villa. Tale ipotesi è sostenuta anche dal Piranesi che nella sua pianta indica come ‘castro’ tale parte del complesso adrianeo. Nell’ultima supposizione, soprattutto per quanto riguarda le nicchie ai piani inferiori con un soffitto ribassato rispetto a quelli dei piani superiori, è che si trattasse di ambienti destinati al deposito di alimentari e merci. La presenza in uno degli angoli di una latrina mista e di superfici decorate seppur con poca raffinatezza fa propendere per l’ipotesi abitativa, ma non è scartata anche la possibilità di un uso misto. Oggi di fronte alle Cento Camerelle vi è una conca racchiusa tra due pareti di tufo che si stringe ad imbuto quasi a voler invogliare il passaggio verso la risalita che conduce al Vestibolo della Villa. Ciò ben si ritrova nelle presupposte regole compositive del complesso: generare nel visitatore che proviene dalla strada a nord-est una sorta di effetto a sorpresa. Tra gli aspetti interessanti del progetto della Villa rientra il fatto che queste strutture semplici e prive di connotati classici - tra le quali possiamo annoverare anche il blocco del canale, oltre che i quartieri di servizio e gli edifici di servizio nord e centrale - figuravano accanto a volumi assai contrastanti. Per quanto funzionali ed estremamente lontane dalle sofisticate architetture destinate allo svago dell’imperatore e dei suoi ospiti, esse non potevano comunque essere ignorate: sicuramente, non il blocco del canale con i suoi balconi e la facciata di ‘botteghe’, né i quartieri di servizio, che affacciano su una delle principali vie di accesso. Tutte queste strutture sembrano piuttosto confermare l’impressione che Adriano volesse accogliere nella sua villa un indizio di tutto quello che riteneva degno nell’arte e nell’architettura del suo vasto

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mondo greco-romano. Entra qui in gioco, infatti, un tema che potremmo definire arcaico, proprio perché fa parte della tradizione etrusca, popolo che i Romani conoscevano bene: il passaggio nonché paesaggio - sotterraneo, quello fatto da cubicoli e tunnel in cui, grazie all’impiego della pozzolana nella costruzione, i rumori risultano attutiti. E ciò che così manifestamente colpisce della Villa - i giochi d’acqua, gli scorci scenografici, le grandi coperture voltate - viene quindi affiancato da questi locali di meno ovvia esperienza, in cui è richiesta la curiosità da parte di chi si appresta a visitare il sito. In essi non ci si imbatte inevitabilmente, ma costituiscono il vero sostrato che permea la Villa, si pensi solo a tutti i criptoportici che sottendono le fabbriche più significative all’interno del complesso. Questi edifici possono essere pensati come densi microcosmi che danno un’interpretazione a scala più ampia di quelle ancestrali strutture che un tempo ospitavano le necropoli dei popoli dell’Etruria. Chiediamoci allora se sia possibile non tanto scoprire quanto di ideale sotto di essa si cela, ma immaginare come raggiungere quella sorta di base concettuale sulla quale questa parte della Villa è stata edificata. Perché questa è una delle ragioni per cui la residenza adrianea ha una tale bellezza: perché è una sapiente mescolanza di contrafforti naturali e mutazioni e bastioni artificiali. Ed è qui che è insito il suo fascino: l’aver fatto incontrare un’idea assoluta di architettura con la modulazione della natura - un bell’impianto sul suolo. L’edificio si naturalizza, rifuso con gli altri elementi della natura, e dà una soluzione all’incontro tra il momento dell’astrazione, quasi mentale, della forma e il momento della collisione di quella forma con il sito, con i vincoli topografici. E questo è il carattere poetico dell’architettura.

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Vista della terrazza del Pecile e delle Cento Camerelle

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Vista della terrazza del Pecile

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Il muro del Pecile

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L’area del Pecile nelle sezioni dei Pensionnaires

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L’area del Pecile nelle sezioni dei Pensionnaires

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Modello della ricostruzione della terrazza del Pecile

Modello dello stato di fatto della terrazza del Pecile e delle Cento Camerelle

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capitolo iii

fondazioni, sostruzioni e spazi sotterranei

Da una parte, nel mondo inferiore, troviamo lo spazio negativo ottenuto togliendo materia; dall’altra nel mondo superiore, lo spazio positivo, ottenuto addizionando. Francesco Venezia

Si indaga troppo raramente sulla parte nascosta che sostiene un progetto, ma esistono una realtà della fondazione dell’edificio ed una sua metafora. Il valore di metafora di questo fondare è esattamente il basare l’idea di un progetto su qualcosa che abbiamo avuto modo di sedimentare, su ciò che costituisce la base di appoggio. È come rendere finalmente manifesta la compresenza di due mondi: il mondo del cavato e il mondo dell’addizionato. L’antro e l’aperto. Muovendoci all’interno della Villa ci si può infatti prefigurare l’immagine composta dal mondo inferiore e da quello superiore, e questa immagine è degna di essere posta alla base di un programma di architettura. Pensare allo spazio nascosto in cui hanno trovato posto i locali di servizio della Villa, scoperchiare quelle terrazze unico risultato di questa azione di modellazione del terreno che diventa visibile - significa immaginarsi il momento della progettazione come quasi connaturato al mondo della stratigrafia delle rovine. Si instaura un rapporto tra lo stratificarsi delle rovine stesse e quello della memoria. Questa indagine guarda alla cosiddetta architettura del suolo, ossia di come un edificio si impianta sul suolo, di come si mette in moto e si dà espressione di quell’azione di contrasto di un atto costruttivo verso la situazione che a esso preesiste.

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Partiamo dal presupposto che l’architettura interviene pesantemente e il sito non ha nessun desiderio di essere occupato da essa. Per convincersene basta osservare un piano di fondazione e il disastro che un cantiere nei primi mesi provoca. L’architettura, tuttavia, una volta che tutto si è concluso, opera il miracolo di offrirci di quel sito un’immagine che, senza la presenza di quell’intervento, non sarebbe mai stata possibile. Sempre che esso abbia saputo con capacità espressiva interpretare quell’azione di contrasto. E la conciliazione si palesa sempre a cose fatte, non è mai preliminare: è un risultato. A volte sembra che la struttura portante di un edificio possa ‘rovinare il disegno’ di un progetto; che eliminarne la rappresentazione significhi risolvere un fastidio, come se togliesse attrattiva, come se gli edifici fossero come nuvole, tanto da librarsi in aria e non scaricassero le loro migliaia di tonnellate sul suolo con tutte le conseguenze che quest’azione comporta. Verrebbe da immaginarsi i Pyrénées di Magritte. Eppure in questo caso, l’apparente assenza della fondazione genera nell’edificio delle presenze invisibili, che sembrano far levitare il monolito, quasi si trattasse di un edificio-magnete che ‘reagisce’ all’azione del polo opposto, il terreno su cui è fondato. Il mondo sotterraneo è invece dotato di un fascino quasi ancestrale, forse perché spesso collegato al culto del divenire, al riposo dovuto alla morte. Il richiamo adesso è alle necropoli, alle architetture rupestri e a tutto ciò che è costruito levando, scavando. E, visitandone i resti, abbiamo ancora oggi la possibilità di rivivere quell’esperienza, di

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camminare sul piano di campagna e affacciarsi all’interno delle cavità attraverso le loro fessure. Sarebbe interessante richiamare alla mente esempi mirabili come il Tempio di Zeus Panellenico, a Olimpia del 470-56 a.C., oppure il grande Schinkel, con il progetto di Orianda in Crimea - ben più successivo e affine al cenotafio in onore di La Pérouse di Henru Labrouste. Prendiamone a riferimento uno. Schinkel immagina un mondo ipogeo - una grotta artificiale - e un mondo superiore dominato da un tempio ionico. Egli decide di collocare la collezione di statue antiche del palazzo sottoterra e individua nella parte ipogea la sede deputata ad albergare il tesoro artistico del palazzo. Capisce che lo spazio sotterraneo ha dignità di ospitare una straordinaria collezione di sculture antiche. Vi leggiamo certo una profonda conoscenza della compresenza del mondo sotterraneo con il mondo superiore, un’erudizione notevole nell’immaginarne la forma costruttiva e la struttura decorativa. E di esempi ve ne sono innumerevoli, chiaramente. Basti pensare al Teatro Farnese nel complesso della Pilotta a Parma, o, di molto precedenti, la Domus Aurea, Capo Sounion, il Tempio di Apollo a Delfi; oppure l’Abbazia Mont Saint-Michel per i contrafforti, che vengono utilizzati parzialmente per albergare minuscoli ambienti in comunicazione con le grandi sale, e nelle membrature strutturali di sostegno si formano intercapedini, in cui alloggiano ambienti di dimensioni minime, eppure vivibili. Tutto ciò non si realizzarebbe se non si chiamasse l’altra componente, senza la quale nulla sarebbe visibile: la luce. Perché, penetrando attraverso i vuoti, fra i blocchi di

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capitolo iii

pietra, va a violare la profonda ombra dell’ipogeo. La luce parsimoniosamente entra e si muove, e muovendosi gioca in qualcosa di oscuro, di misterioso. In ciò il sole riesce a trovare un’epifania straordinaria.

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Fondazioni, sostruzioni e spazi sotterranei nelle tombe etrusche di Cerveteri

Fondazioni, sostruzioni e spazi sotterranei nelle tombe etrusche di Sutri

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Fondazioni, sostruzioni e spazi sotterranei all’interno di Villa Adriana

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Parte Seconda

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capitolo iv

La necessitas del fenomeno del ritorno Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine Chateaubriand, Génie du Christianisme, 1802

L’uomo muore e non rinasce, il ‘classico’ muore per rinascere, ogni volta uguale a se stesso e ogni volta diverso.

Questo modello ciclico, questa ricorrente ossessione per un ‘classico’ sempre dato per defunto e sempre rinascente, attraversa tutta la storia culturale europea. Ungaretti dice che la rovina conquista all’architettura un valore universale, poiché quest’ultima ha sempre una doppia componente: una attuale, contingente, immersa nella contemporaneità; l’altra universale, eterna. Questa è la condizione perché l’architettura sia degna di portare questo nome. Le rovine segnalano al tempo stesso un’assenza e una presenza: sono un’intersezione fra il visibile e l’invisibile. Ciò che è invisibile è messo in risalto dalla frammentazione delle rovine, dal loro carattere ‘inutile’ e talvolta incomprensibile, dalla loro perdita di funzionalità. Ma la loro ostinata presenza visibile testimonia la durata, la loro eternità e vittoria sullo scorrere irreparabile del tempo.

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capitolo iv

Il rapporto con ciò che ci ha preceduto parte dal presupposto che ci sia un momento finale, la decadenza su cui far leva per una nuova partenza. «Come le arti erano morte alla fine dell’antichità, così esse potevano rinascere, e di fatto erano rinate»1. Era già chiaro alla generazione di Petrarca: era necessario tornare agli Antichi, ridar loro vita e renderli attuali col contrapporli ai moderni; anzi, fare se stessi simili a loro per comprenderli a fondo, riviverne le esperienze e riproporne gli insegnamenti. Lo sforzo di legittimare il presente scegliendosi nel passato i modelli ‘giusti’ è testimonianza del fatto che l’uomo occidentale non è in grado di guardare al futuro senza prima sbirciare al passato. Ciò che viene è in funzione di ciò che è stato, o, meglio, ne è una sua derivata. Non si rischia di sbilanciarsi sostenendo che «l’antichità degli Antichi, col suo impulso a convalidare e a giudicare il presente mediante una ben marcata nostalgia del passato, ha suggerito, e anzi generato, tutte le nostre immagini dell’antichità, tutti i nostri “classicismi”»2. E non sono le forme architettoniche che ci fanno sembrare le costruzioni del passato così ricche di significato, bensì il fatto che i templi, le basiliche, come pure le cattedrali medievali, non sono l’opera di singole personalità ma la creazione di un’intera epoca. Queste architetture sono per loro natura assolutamente impersonali. Esse sono pura espressione della volontà di un’epoca. E proprio in ciò sta il loro significato più profondo. Soltanto così hanno potuto diventare simboli del proprio tempo. L’arte di costruire è sempre la volontà dell’epoca espressa spazialmente, nient’altro. 2

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Protagonista di questo fenomeno diventa allora il frammento, che acquista un valore assoluto. Avrebbe scritto Theodor Wiesengrund-Adorno, che esso ha in sé il carattere costitutivo della ‘modernità’: perché è un’invincibile necessità, il germe di qualcosa, la perentoria eloquenza dell’incompiuto. La condizione del frammento intensifica il senso, acuisce lo sguardo dell’osservatore. È, insomma, ‘moderna’. Quando parlavo di quarta dimensione, ossia il tempo, non potevo non chiamare in causa proprio questi mutili monumenti dell’antichità: con il loro decadimento inarrestabile attestano la fine di un’epoca, ma al tempo stesso ne rendono le tracce presenti e incombenti; ne testimoniano insomma la morte e insieme ne preannunciano la rinascita. Nel loro intermittente e ritmico ridestarsi a nuova vita ritrovano così il loro senso. La rovina è quindi ciò che resta di un edificio compiuto; l’edificio non finito è ciò che resta di un progetto compiuto. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a qualcosa di frammentario, mutilato. Tuttavia, proprio nella loro incompiutezza, nella loro frammentarietà hanno forza di commuovere, di conseguire nuova o diversa bellezza. È come una conchiglia infranta: l’interno, svelato, ci fa scoprire un mondo affascinante. E in architettura avviene la stessa cosa: un edificio che doveva essere coperto rimane scoperchiato, offrendo l’immagine di spazi a cielo aperto, immagine imprevista e potente. Questo mantra del «progettare belle rovine» animò le architetture di Albert Speer, che dovevano essere sì percepite per un regime ‘millenario’, ma che prevedevano sin dalla fase progettuale il loro futuro Ruinenwert, il «valore di rovina» che esse avrebbero assunto alla fine dei tempi.

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capitolo iv

Roma disgiunta da un concetto dell’universale non è immaginabile. Esaurita la funzione politica, giuridica, militare, morale, mistica e religiosa del latino sull’incivilimento dell’Europa, come fu bella Roma voltasi a riconquistare il suo prestigio per le strade antiche, del metafisico ed estetico sapere. Fu ancora una città, l’universo; ma era una città morta da mille anni, … e fu universale perché morta da mille anni, perché memoria, perché universo di fantasmi. Lezione di Giuseppe Ungaretti sulla poesia del Petrarca, 1943

Ungaretti ci dice una cosa: la rovina conquista all’architettura un valore universale. L’architettura ha sempre una doppia componente: una attuale, contingente, immersa nella contemporaneità; ma anche universale, eterna. Questa è la condizione perché l’architettura sia degna di portare questo nome. Quamdiu stat Colysaeus stat Roma; quando cadet Colysaeus cadet Roma et mundus. Finché starà il Colosseo, starà Roma; e finché starà Roma, starà il mondo. Detto attribuito al monaco Beda

Il riferimento è a questo gigantesco rudere che continua a morire a ogni istante. Un’immagine molto romantica, nel senso ottocentesco del termine, che ispira ancora sensazioni, un sentimento del sublime destato dal contrasto tra la nostra condizione umana e la caduta dei grandi imperi, che le rovine testimoniano ed evidenziano. Allo stesso tempo, i resti di queste civiltà che furono mostrano una sintesi tra natura (intesa come forza distruttiva) e cultura. Le rovine, proprio perché sfidano il tempo, possono essere percepite e legittimate in questo status, come fabbrica la cui condizione di decadenza è insita nel loro modo di apparire, in questo momento.

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capitolo iv

Ma grazie ad esse è anche possibile raccontare la storia di una rinascita, proprio perché essa rappresenta la condizione indispensabile della tradizione e della memoria. Warburg la chiamava Nachleben der Antike - sopravvivenza dell’antico -, applicandolo al dramma sempre attuale dell’oblio, della distruzione della memoria del presente, come del passato. Bisogna metter allora in campo - e rapidamente - le migliori risorse dell’immaginazione, perché la parte superstite mantenga una sua pienezza d’uso e, soprattutto, una sua pienezza formale. In altre parole, riesca a non apparirci come una sconfitta, ma, al contrario, come qualcosa che guadagni proprio dove ha perduto. Il fascino della rovina sta in ultima analisi nel fatto che un’opera dell’uomo possa essere percepita come un prodotto della natura. Georg Simmel

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SuperArcheologia Atteggiamenti anacronistici, sperimentali, contraddittori, applicati alle Cento Camerelle Galleria Fotografica

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Suggestioni La lezione di due maestri

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Giovan Battista Piranesi e

le Invenzioni capricciose di carceri

Riprendere la visione onirica, fortemente immagini ca delle Carceri di Invenzione di Giovan Battista Piranesi, calate nel contesto precipuo della rovina adrianea, vuole essere un modo per coniugare due entità che nascono scisse, ma che possono vivere l’una dentro l’altra. Piranesi fu una gura fortemente d’avanguardia: seppe cogliere che la storia è un tramite per la modernità e che bisogna avere un atteggiamento di conoscenza a servizio della contemporaneità. Egli, proprio come Michelangelo, è un giocatore di azzardo: utilizza il suo contesto con notevole libertà, spingendo il linguaggio per sondarne i limiti. Questi ambienti senza eguali, fortemente drammatici, frutto di un’eccitata fantasia unita ad un’attenta conoscenza della forma e della fabbrica architettonica, sono visioni arditissime, eppure composte nel loro rigore architettonico: scaturite dal genio visuale del loro autore e modellate su solide nozioni di prospettiva e costruzioni tridimensionali. Rimango a ascinata da questo senso di disagio, solitudine, silenzio, inquietudine e repulsione. Sale infinite, volte distanti, spazi immensi e tuttavia claustrofobici, inibitori, in cui la ripetizione infinita di varchi, spazi e scalini, l’intrico dei volumi, il dedalo, richiamano una prigione psicologica quasi più che fisica. Il carcere, quale luogo da cui non si può fuggire, non è reso tanto da mura, inferriate e catene: tutti questi elementi nella tavole di Piranesi ci sono, e pure massicci, ma paradossalmente non costituiscono una chiusura, un ostacolo alla libertà. Al contrario, le catene si trovano casualmente sparpagliate in ogni dove, i muri hanno mille aperture e le inferriate sono più di decorazione che altro. La vera impossibilità di scappare, di uscire dalle Carceri, è data dalla loro essenza labirintica, dall’incrocio di scale che non conducono in alcun posto, dal dissolversi nel buio (o nell’aria) di ogni fuga. Mi chiedo come questa suggestione, questa visione espansa, panoramica, chiaramente alterata, dove il dentro ed il fuori, il sotto ed il sopra nella progressione infinita di scale che salgono e scendono, calata in un contesto atipico ma probabilmente a ne come gli ambienti delle Cento Camerelle, possa essere interpretata.

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Giambattista Piranesi, veduta delle Carceri di Invenzione

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Architettura stereotomica vs architettura tettonica

Secondo Campo Baeza in “L’idea costruita” Steretomico e tettonico. I due termini raccolti da Gottfried Semper tramite Kenneth Frampton sono strumento per elaborare un’architettura più precisa.

Architettura stereotomica

Intendiamo per Architettura Stereotomica quella in cui la gravità si trasmette in maniera continua, in un sistema strutturale continuo dove la continuità costruttiva è completa. È l’architettura massiccia, pietrosa, pesante. Quella che poggia sulla terra come se nascesse da lei. È l’architettura che cerca la luce, che perfora i suoi muri per fare in modo che la luce entri in lei. È l’architettura del podium, del basamento. Quella dello stilobate. È, riassumendo, l’architettura della caverna. Ad esempio il Pantheon

Architettura tettonica

Intendiamo per Architettura Tettonica quella in cui la gravità si trasmette in maniera discontinua, in un sistema strutturale con nodi dove la costruzione è sincopata. È l’architettura ossea, legnosa, leggera. Quella che si posa sulla terra come in punta di piedi. È l’architettura che si difende dalla luce, quella che deve velare le sue aperture per poter controllare la luce che l’innonda. È l’architettura dell’involucro. Quella dell’abaco. È, riassumendo, l’architettura della capanna. Ad esempio la cattedrale gotica. L’uomo come animale si rifugiò nella caverna, come essere razionale costruì la capanna.L’uomo colto, creatore, concepì la casa come dimora per abitarla.

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Rembrandt, A man in a room, 1627-30

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capitolo v

Se Villa Adriana muore costruire, pensare, essere costruire, essere, pensare pensare, costruire, essere pensare, essere, costruire essere, costruire, pensare essere, pensare, costruire Livio Vacchini

È il momento di spiegare il titolo di questa dissertazione, ingenua sì e senza regole, ma che trova un suo fondamento. Tutto parte dalla lettura del saggio di Salvatore Settis - “Se Venezia muore”: non solo ne è stato parafrasato il titolo, ma è diventato un filtro nella comprensione delle dinamiche di Villa Adriana, a volte con un atteggiamento in analogia, altre in estrema contraddizione. Cos’è più autentico nel viversi un sito archeologico? Trattarlo come una mera meta di attrazione, come un oggetto patinato, come un anziano con le ossa fragili da toccare con guanti di gomma piuma? Oppure è possibile “profanarlo” e restituirgli la possibilità di vivere con dignità? Non è forse più contraddittorio racchiudere il tutto dentro una teca? Non è una disillusione che sotto la polvere si conservi meglio?

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capitolo v

Steven Conn si chiede “Do Museums still need objects?», ed è uguale che essi siano a cielo aperto o meno. Qual è la funzione - ‘eccezionale’ - che distrugge il monumento antico? L’Arena di Verona riceve un tale bombardamento di persone, ogniqualvolta che al suo interno si riversano migliaia di spettatori - con annesse installazioni acustiche, visive, luminose, … - probabilmente ben diverso da quello dell’epoca romana. Eppure, in questo precipuo metodo di conservazione e prevenzione, ha mantenuto una sua funzione fino a questo secolo. La fruizione è così costante e controllata da far diventare l’eccezionalità una quotidianità: le ha concesso di proiettarsi verso il futuro. Vivere un luogo per sette ore al giorno, alias l’orario di apertura, collocare al suo interno un posto per la conoscenza dei reperti in legittimi spazi museali, è la corretta risposta per la maggior parte dei siti archeologici. Ma può non essere il caso di Villa Adriana. Lei viveva come una città, 24 ore su 24. C’erano abitazioni, parchi, piscine, terme, piazze, locali per lo svago e il ristoro. Perché non interrogarsi su quale possa essere l’autenticità di un uso del luogo come quello attuale? In un paragone estremizzato e volutamente provocatorio, sembra di camminare all’interno del Cretto di Burri, a Gibellina Vecchia: un intrico di strade che sono memoria di un passato che non si leggerebbe più. Ed è proprio qui la differenza: questa città vicino a Tivoli è ancora un posto vivibile, giorno e notte! Si fanno rivivere palazzi storici come shopping mall, e questo sembra essere un modo per restituire alla collettività un bene. Ma non sarebbe forse una mistificazione allora?

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capitolo v

È davvero un modo ‘nobile’ per pensare al futuro di una rovina? Se Villa Adriana raccogliesse oggi funzioni che le permettono di essere vissuta di giorno come di notte, non le si conferirebbe forse una nuova vita ma con dignità? Calvino racconta di «città invisibili», ma per la villa dell’imperatore Adriano, lo stadio raggiunto è probabilmente ancora più grave: perché di essa si è persa la memoria, ed è diventata più una «città fantasma». È così sbagliato pensare a una conversione? Sostenere che per proiettare nel futuro la rovina, la si possa rivivere di nuovo? Toccarla con la nostra vita? Le stagioni inevitabilmente passano e cambiano ciò che incontrano. L’uomo è lo spazio in cui vive, e oggi lo fa in modo diverso rispetto a diciannove secoli fa. Con un gesto, di nuovo, totalmente arbitrario, l’uomo moderno descrive il suo mondo, pur rimanendo affascinato da ciò che la rovina rappresenta, come un monito, come stimolo alla sopravvivenza. Il progetto cerca di lasciare l’interpretazione della residenza adrianea come un parco, in cui il verde predomina, preservando quella patina romantica che tuttora caratterizza questo sito archeologico così vasto. È come passeggiare tra i resti della splendida valle dei templi di Agrigento, in cui la vegetazione offre l’unico riparo dalla canicola. Ad accomunare questi posti è il fatto che attraverso essi si passeggia, ci si lascia rapire dall’atmosfera e trasportare in un’epoca lontana, che appartiene ad un passato onirico seppur evidentemente ancora leggibile. Basta scorrere di nuovo queste parole pensando a Venezia o a Villa Adriana, ed è così.

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capitolo v

Pensiamo all’acqua di Venezia come alla vegetazione della Villa: entrambe possono essere un ostacolo, eppure definiscono un limes e un orizzonte al tempo stesso. Come la vista si perde nel mare Adriatico, così avviene guardando i rilievi dei monti Tiburtini. Settis pungola il lettore parlando di un posto - il capoluogo veneto - che in effetti sta perdendo la sua vitalità, o, meglio, il suo diritto alla vita. Con presunzione, si parte ora da questo stesso dilemma nel rileggere - assecondando un non-sense un luogo che di fatto è già morto, ma che forse custodisce ancora il segreto per la sopravvivenza. Il progetto, che funzionalmente, concettualmente può essere contestabile, cerca di risolvere diverse equazioni fornite dal posto e nel posto. Non si discosta, lo aggancia nutrendosi di esso. È una scommessa. È la volontà di offrire un punto di vista.

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capitolo v

«La città è stata sempre largamente caratterizzata dalla residenza. Si può dire che non esistono o non sono esistite città in cui non fosse presente l’aspetto residenziale; là dove questo aspetto aveva una funzione del tutto subalterna nella costituzione di un fatto urbano (il castello, l’accampamento militare) si arrivò ben presto a una modificazione a tutto vantaggio della residenza» Aldo Rossi1

Con la volontà di preservare il carattere che lascia esperire la Villa come un parco, alcune parti vengono lasciate come ‘rovine’ mentre altre sono campite, occupate da una nuova funzione. Strutture effimere, temporanee consentiranno di sostare in luoghi che oggi sono solo ed esclusivamente di passaggio, facendo riconquistare loro la spazialità di una piazza o di un teatro. Basilare è stato un processo di analisi grazie al quale sono emerse alcune discriminanti, e con esse la volontà di prediligere alcune parti della Villa, piuttosto che altre, nella collocazione di determinate funzioni: a volte in continuità con quelle del passato, altre invece suggerendo una innovazione. Si consideri che laVilla ha oggi in gran parte perso la sua autentica - nel significato di originaria - conformazione in cui è stata edificata: non tutti gli edifici sono ora definibili tali, di tanti è rimasto solo il segno di un muro, o l’idea di una facciata. Mentre altri posti conservano la dignità di spazi, intesi come contenitori. In maniera assolutamente arbitraria, alcuni mantengono il loro aspetto di rudere, di architettura - come già detto - che ha perso la sua funzione, altri rivestono una carica attiva, anche indipendentemente dalla loro precedente destinazione d’uso. 119


capitolo v

Si suggeriscono quindi le collocazioni di nuove strutture - con la possibilità di essere rimosse dopo un determinato intervallo di tempo - che possano conferire nuova vitalità a luoghi un tempo catalizzatori di azioni. A fianco alla Piazza d’Oro, un padiglione che dia una sorta di destinazione commerciale all’area, oppure una struttura che contenga dal palcoscenico ai camerini per rendere il Teatro Greco di nuovo luogo di rappresentazioni. Collante dell’intervento diventa infine un sistema di percorsi: sempre con l’intento di lasciare che la Villa sia percorsa come una sorta di riserva naturale, una pavimentazione tufacea suggerisce il cammino e collega i punti focali. Più definita in corrispondenza delle vie principali, si dissolve nel momento in cui il parco entra dentro la residenza adrianea. Scendendo di scala, l’obiettivo più ambizioso è quello di procrastinare la fine della visita al sito archeologico, proponendo una possibilità che da sempre richiama il forestiero a voler sostare anche nelle ore notturne in un luogo ad egli sconosciuto. La collocazione è l’affascinante terrazza del Pecile, sotto cui giacciono temi come la stratificazione, l’ostinato carattere romano della modellazione del terreno, l’imponenza di un’architettura che ha saputo suscitare la curiosità dei più illustri disegnatori e architetti del passato. La risposta è un microcosmo all’interno del quale vivere, seppure per un arco di tempo limitato, sostare godendo di quegli spazi tanto amati dai Romani, come l’otium delle terme o del momento del convivium. Si ragiona per stratificazione: di concetti, di ispirazioni, di anticipazioni di atmosfere, di tempi e ritmi nello sperimentare uno spazio.

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capitolo v

1. Un progetto “siracusano”: la città inferiore -le mille cavità- e la città superiore -i volumi sotto la luce-. Due spazi ipogei diventano fattori scatenanti il progetto. Da una parte l’elemento circolare di raccordo delle due braccia delle Cento Camerelle, che accoglie la funzione di ingresso al nuovo complesso. Dall’altra il volume nascosto al di sotto della grande vasca sul Pecile, che offre un Impluvium termale d’eccezione. In fondo, il mondo sotterraneo è dotato di un fascino quasi ancestrale, forse perché spesso collegato al culto del divenire, al riposo dovuto alla morte. Il richiamo adesso è alle necropoli, alle architetture rupestri e a tutto ciò che è costruito levando, scavando. E, visitandone i resti, abbiamo ancora oggi la possibilità di rivivere quell’esperienza, di camminare sul piano di campagna e affacciarsi all’interno delle cavità attraverso le loro fessure. 2. Un elemento orizzontale: una lunga piattaforma di fronte al paesaggio. L’inserimento di un piano orizzontale di fronte al mare, o di fronte a qualsiasi paesaggio che abbia l’orizzonte lontano, è un meccanismo così efficace che fu sapientemente utilizzato tanto dai greci come da Palladio, fino a Mies van der Rohe. Diventa interessante riprendere le parole di De Chirico associate alla dimensione del Pecile: la piazza si manifesta come un grande spazio, mentre la terrazza diventa un osservatorio, e il luogo in cui può avvenire una sorta di decompressione.

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capitolo v

3.

Un’architettura che cerca la vibrazione nella luce «Non è la LUCE l’unico mezzo capace di alleggerire l’insopportabile gravità della materia? La LUCE è il materiale fondamentale, imprescindibile, dell’Architettura. Con la misteriosa ma reale capacità - magica - di porre lo SPAZIO in tensione per l’uomo. Con la capacità di dotare QUALITÀ quello spazio, che riesce a muovere, commuovere, gli uomini» Alberto Campo Baeza2

Heidegger sostiene che l’Architettura si occupi di spazi che, tesi dalla luce, possano essere abitati dall’uomo. Ciò si ricerca, in fase di progetto, sia nel volume principale, quello che ospita l’albergo, sia soprattutto nella composizione del blocco termale. Se nel primo la luce determina il ritmo della facciata, con i suoi vuoti e pieni, nel secondo, penetrando attraverso i vuoti, fra i blocchi di pietra, va a violare la profonda ombra dell’ipogeo. La luce parsimoniosamente entra e si muove, e muovendosi gioca in qualcosa di oscuro, di misterioso: il sole trova un’epifania straordinaria. Presentandosi come una costruzione massiccia, che cerca un confronto con il muro del Pecile, alto nove metri, il complesso che ospita le camere, il ristorante e il bar, è quanto corrisponde a una cosiddetta architettura stereotomica. Le terme, in contrappunto, si conformano rispetto a quanto suggerisce la tettonica: i volumi che contengono le varie componenti del complesso definiscono nuovi piani, in una sorta di movimento “tellurico” del terreno che scavano.

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Esempi di stratificazione all’interno di Villa Adriana

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Esempi di stratificazione all’interno di Villa Adriana

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Riferimento: la disposizione delle Terme di Traiano e di quelle di Tito rispetto alla Domus Aurea sull'Oppio

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GSEducationalVersion

ACCESSO DA P.LE YOURCENAR

TEATRO

PALESTRA

ANFITEATRO ROMANO

Nuove funzioni

"Rovine"

Centralità risaltate dall'affiancamento di nuove funzioni Centralità risaltate dal sistema dei percorsi

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TEATRO GRECO

TEMPIO DI VENERE NINFEO

ACCESSO DA"VALLE DI TEMPE"

ACCESSO DA STRADA ROCCABRUNA

TERME CON HELIOCA MINUS

1.751,23 m2

932,99 m2

Possibili: residenza imperatore sale udienze

2.800,00 m2

ANTINOEION

CENTO CAMERELLE Immagazzinamento merci (/dimore servitù - poco probabile)

EDIFICIO CON TRE ESEDRE (vestibolo)

STADIO

Possibili: strutture di servizio magazzini

GRANDI TERME

VESTIBOLO

PICCOLE TERME

EDIFICIO CON PESCHIERA

FONTANA

BOOKSHOP MERCHANDISING

CASERMA DEI banchetti e cerimonie VIGILI

QUARTIERI DI SERVIZIO Immagazzinamento merci (/dimore servitù - poco probabile)

HOTEL

Collegamenti a: Terme con Heliocaminus Sala dei Filosofi Stadio Cento Camerelle

PECILE Piscina Portici

1.880,01 m2

PALAZZO IMPERIALE

SALA DEI FILOSOFI

TEATRO MARITTIMO

INGRESSO COLLEGAMENTO VIA TIBURTINA

2.555,23 m2

Possibili: triclini estivi turres per ingresso a dimora imperatore ingressi monumentali Palazzo

CORTILE DELLE BIBLIOTECHE

1.816,84 m2

2.482,08 m2

VILLA REPUBBLICANA

(stanze per ospiti)

HOSPITALIA

TRICLINIO IMPERIALE

BELVEDERE SULLA VALLE DI TEMPE

PIAZZA D'ORO

ACCESSO DA"PIAZZA D'ORO"

BAR

CANOPO

RISTORANTE

2.131,25 m2

PRETORIO

Diagramma delle funzioni, degli accessi e dei collegamenti all’interno della Villa dopo l’intervento

ACCESSO DA STRADA ROCCABRUNA

OSSERVATORIO

ROCCA BRUNA

TEMPIO DI APOLLO


Stato attuale dei percorsi e degli accessi (in rosso)

Nuove funzioni

In rosso gli accessi, in verde i collegamenti carrabili e in azzurro i collegamenti pedonali suggeriti

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Concept: l’intervento sulla terrazza del Pecile

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5

10

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Pianta a quota 7,70 mt

SEducationalVersion

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5

10

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Pianta a quota 12,00 mt

alVersion

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B'

Vista 2

C'

C

Toilette D DispensaFrigoriferi cucina

Archivio

Toilette D UfďŹ cio cuoco

Toilette U

Cucina Toilette U e magazzino bar

Bar

A

A' Guardaroba Guardaroba Personale U Personale D

D

D'

B

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Pianta a quota 16,00 mt GSEducationalVersion

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5

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Piante a quota 19,70 mt, 22,50 mt e copertura

n

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D

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Sezioni

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Direzione Terme con Heliocaminus

Direzione Tempio di Venere

Direzione Teatro greco

Direzione Piazza d'Oro Direzione Rocca Bruna

Direzione Pretorio

Direzione Vestibolo

Direzione Teatro Marittimo

Direzione Canopo (Canale Scenografico)

Schema della copertura: il sistema dei “punti di osservazione”

GSEducationalVersion

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epilogo

«Noi siamo ciò che facciamo e il meglio che facciamo è cambiare quello che siamo» Eduardo Galeano

La più sincera intenzione è far sì che con l’architettura realizzata le idee esplicitate con queste parole stiano in piedi. Sarà allora la maggior prova che quelle idee sono valide e queste parole vere. In fondo, le parole in architettura sono sempre espressioni di quelle idee la cui costruzione è propria dell’architettura. Senza idee è vana, vuota. «Architectura sine idea, vana architectura est»1. E non si può fare questo viaggio senza leggere tra le righe la ricerca della Bellezza, e del suo senso. Campo Baeza, spiegando l’architettura di Coderch, dice che «si suppone che la bellezza assoluta sia come una meravigliosa testa calva (per esempio Nefertiti), è necessario strappare capello dopo capello, pelo dopo pelo, col dolore che procura ogni strappo, uno dopo l’altro»2. La semplicità semplice. Alle Superiori partecipai ad una serie di conferenze di filosofia dal tema “Chi salverà la bellezza?”. Seguivo per quel che potevo, ma si parlò anche di architettura, e di città. Per curiosità andai a vedere quel pezzo dell’Idiota di Dostoevskij in cui si dice che «la bellezza salverà il mondo». Il giovane Ippolit chiede a Myskin «Ma quale bellezza salverà il mondo?» e soggiunge che «idee così frivole sono

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dovute al fatto che il principe è innamorato». Perché «la bellezza è un enigma» anche se quella d Aglaja Ivanovna «può mettere il mondo sottosopra». Per Myskin la bellezza è uno stato di grazia, «uno straordinario rafforzamento dell’autocoscienza». La bellezza di cui ci parla è sopra di noi, qualcosa a cui ci si abbandona, innamoramento o preghiera, «acquietamento e trepida fusione con la suprema sintesi della vita». Quella del Pantheon, delle Terme di Caracalla, degli acquedotti, è l’architettura che ha quella estrema eleganza del gesto giusto, della frase corretta, così precisa che rasenta il silenzio. Un’architettura che possiede la difficile capacità della fascinazione, vicina alla poesia. In quelle lezioni del primo anno, in cui ricevetti le prime scottature da cui è impossibile liberarsi, il mio primo maestro, seduttore, ci disse che anche se solo si sapesse copiare bene, allora ci si potrebbe già ritenere un buon architetto. Forse mi sarei dovuta fermare a questo, senza cercare di dare un senso a questi resti smozzicati del passato. Sarebbe giusto poter ancora utilizzare quell’espressione viennese citata da Rossi: Heimatbezirk, il quartiere che si identifica con la patria e con lo spazio vitale3. Una nuova identità. Perché il futuro si è già presentato per questo sito. Villa Adriana è già morta, non è come Venezia che ancora combatte per la scrittura di un suo progresso e non di un suo epilogo. Eppure ha ancora la capacità di modellare l’aria con perfezione, restituisce dei sogni, che chiedono di essere costruiti.

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ringraziamenti Ho formulato le parole di questa pagina a partire dal primo giorno. È forse la parte più gustosa, sicuramente la più gratificante perché conclude e sigilla il racconto di questa esperienza. Grazie mamma e papà, non fate altro che darmi senza mai aspettare di ricevere. Grazie per aver sopportato e gestito le ansie e gli isterismi dell’ultimo periodo. Grazie Rachele e Filippo, con gli anni si cambia, ma il fatto che voi siate al mio fianco rimane una costante (…e usiamolo un po’ di linguaggio ingegneristico!) Grazie a Federica, Massimo, alla piccola Alessia, alla famiglia Tiberi e ai PuglisiSempre! È bello essere parte di una famiglia così grande e così unita. Il vostro è stato un continuo, affettuoso incoraggiamento. Grazie agli amici di una vita. Grazie agli amici di Sant’Orso, ci siete sempre, anche quando è difficile incontrarsi perché presi dai mille impegni. Grazie agli amici delle Superiori, è stato bello (ri)scoprirsi in questi anni universitari. Siete delle belle persone e so che ormai non ci perderemo più di vista. Grazie a tutti i colleghi del Miglio Verde! È stato un onore condividere con voi l’università. Grazie a quei pazzi del KIT, l’anno a Karlsruhe ha fatto la differenza, so che non potevo trascorrerlo con persone migliori. Grazie perché l’amicizia non si è conclusa con quell’esperienza. Grazie al buon Francesco, collega di mille avventure. Posso sempre contare su di te, dalla folle organizzazione di un ArchiSpritz ad una serata cinema in compagnia di Wes! Grazie che non dici mai di no, grazie dei preziosi e pazienti consigli. Grazie prof. Alici, è un docente che ha davvero a cuore i suoi studenti. La ringrazio per essere sempre stato presente, anche con i chilometri di distanza. L’esperienza con Lei è stata costruttiva dal primo giorno: uno studente lo capisce subito quando viene apprezzato. Senza la Sua premura non avrei iniziato quel percorso in Germania, non avrei conosciuto quelle persone.. e il resto della storia lo conosciamo! Sono contenta che le coincidenze abbiano portato in questa direzione.

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Grazie prof. Leoni, sa bene di essere il mio mentore. Quel professore che dà la “scottatura della prima lezione di architettura”. Sembra di essere a conclusione di un percorso, mentre siamo in procinto di iniziarne un altro! Grazie per offrirci la possibilità del Piranesi: oggi niente di tutto ciò sarebbe stato scritto. E ne vado fiera. Sono esperienze in cui buttarsi e da condividere con chi sa darti tanto. Lei è uno di questi. Grazie per avermi permesso di affiancarLa nel corso. È stimolante, emozionante e gratificante. Grazie Daniele, è imbarazzante pensare quanto possa essere cambiata la mia vita dopo Lucerna. Grazie per avermi accolto nel Tuo studio, per aver acconsentito a seguirmi in questa tesi, per essere stato sempre così presente e premuroso nei miei confronti. È come avere una seconda figura paterna in Svizzera. Ho imparato tanto, sono contenta che ci sia stato Tu a tenermi per mano, e spero che continuerai a farlo. Danke Dir, Ich muss nicht einmal deinen Namen sagen, es ist offensichtlich, auf wen ich mich beziehe! Danke für die unendliche Geduld. Sie sagen, dass Beziehungen schwieriger werden, wenn es eine Distanz gibt. Aber mit dir ist es unglaublich einfach, spontan. Du bist die Person, mit der ich diesen Moment mehr teilen möchte als jeder andere. Grazie infine a tutti coloro che, nei modi più svariati, hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto. Dai collaboratori del Dicea, sempre disponibili alla risoluzione di un problema e dall’infinita pazienza, a chi ha dato una mano ‘fisica’: Sonja, Silvia e tanti altri. A voi davvero grazie. Dovremmo scrivere una pagina di ringraziamenti molto più spesso. Si mette nero su bianco l’affetto che si prova per tutte le persone incontrate finora. Sembra più un voler dire “grazie” fino a questo punto della vita, per quesi primi, inaspettati, 25 anni.

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NOTE Capitolo I

Capitolo II

1 Curtis W. J. R., L’architettura moderna dal 1900, New York, Phaidon, 2006 2 Hildebrand A., Das Problem der Form in der bildenden Kunst, Strasbourg, 1893 3 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p. 58 4 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p. 66 5 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p. 92 6 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.18 7 Curtis W. J. R., L’architettura moderna dal 1900, New York, Phaidon, 2006, p.21 8 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.5-7 9 Sestoft J. e Christiansen J.H., Guide to Danish architecture 1, 1000-1960, Copenhagen, 1991, p.33 10 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.93 11 Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.207 12 Curtis W. J. R., L’architettura moderna dal 1900, New York, Phaidon, 2006, p.360 13 Curtis W. J. R., L’architettura moderna dal 1900, New York, Phaidon, 2006, p.131 14 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.25 15 A proposito degli edifici dei nostri antenati_ Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.92 16 Le Corbusier, La Chartre d’Athènes, Paris, Minuit, 1971, p. 91 17 Curtis W. J. R., L’architettura moderna dal 1900, New York, Phaidon, 2006, p.268 18 Il rimando al testo di Momigliano è inserito all’interno del saggio: Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.117 19 si veda nota 16 20 A proposito del futuro dell’architettura_ Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.152 21 Curtis W. J. R., L’architettura moderna dal 1900, New York, Phaidon, 2006, p.142-43 22 Le Corbusier, Précisions sur un état présent de l’architecture et de l’urbanisme, Paris, 1930, p.34

1 Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.98 2 Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.55 3 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.117 4 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p.46 5 Wittkower R., Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1964, p.56 6 Wittkower R., Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1964, p.67 7 Wittkower R., Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1964, p.101 8 Wittkower R., Principi architettonici nell’età dell’Umanesimo, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino, 1964, p.115 9 Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.92 10 Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.104

Capitolo III

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1 Pizzigoni V. a cura di, Ludwig Mies van der Rohe, gli scritti e le parole, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a, p.53 2 Plutarco sulle opere promosse da Pericle sull’Acropoli, Vita di Pericle, 13.3 3 Gioacchino Mancini, ADRIANA, VILLA Enciclopedia Italiana (1929) 4 MacDonald W. L., Pinto J. A., Villa Adriana - La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn, Milano, Electa, 2006, p. 35 5 MacDonald W. L., Pinto J. A., Villa Adriana - La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn, Milano, Electa, 2006, p. 43 6 MacDonald W. L., Pinto J. A., Villa Adriana - La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn, Milano, Electa, 2006, p. 151 7 Rakob, 1964; Neuerburg, 1965; Mielsch, 1987, p.121-126 8 MacDonald W. L., Pinto J. A., Villa Adriana - La costruzione e il mito da Adriano a Louis I.


Kahn, Milano, Electa, 2006, p. 225 9 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p. 79 10 MacDonald W. L., Pinto J. A., Villa Adriana - La costruzione e il mito da Adriano a Louis I. Kahn, Milano, Electa, 2006, p. 76 11 si veda nota 8

Capitolo V 1 Rossi A, L’architettura della città, .... p.69 2 Campo Baeza A., L’idea costruita, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa, 2016, p.18

Epilogo

Capitolo IV

1 Campo Baeza A., L’idea costruita, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa, 2016, p.9 2 Campo Baeza A., L’idea costruita, LetteraVentidue Edizioni, Siracusa, 2016, p.64 3 Rossi A, L’architettura della città, .... p.68

1 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p. 80 2 Settis S., Futuro del “classico”, Torino, Giulio Einaudi editore s.p.a., 2004, p. 81-82

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