CLAUDIA MAINA
Testi critici e pubblicazioni
Cosa c’è di più fragile di un castello di carte? Un castello di bicchieri, palazzi di vetro che si arrampicano attraverso moduli in bilico su tavoli e sedie, costruendo architetture improbabili e deboli abitate da Omini-Cimice in legno, chiusi ciascuno all’interno del proprio bicchiere. Claudia Maina con le sue installazioni e le documentazioni fotografiche e video che ne vengono ricavate, crea il modellino architettonico degli schemi di non-comunicazione odierna. Infatti, la campana di vetro attorno a ognuno è una metafora più che esplicita della difficoltà di rapporti dei nostri tempi. Pur appartenendo allo stesso macro-organismo, alla stessa società, pur essendo legati gli uni agli altri da una forza che o sorregge tutti o collassa l’intera struttura, ognuno vive isolato e solo, imprigionato da una gabbia trasparente ma palpabile.
Carolina Lio
CLAUDIA MAINA:::CORPI DOCILI::: Di Carolina Lio LA BELLEZZADELLA LUCE, LA FRAGILITA’ DELL’ESSERE NELL’ARTE DI CLAUDIA MAINA Di Francesca Ancona IMBALANCE & INSECURITY Recensione Di Tiziana Leopizzi LE CITTA’ DI CRISTALLO Di Serena Ciarà LUCI(DI)CORPI_LOOK AT FESTIVAL Di Elena Marcheschi VI CIMICE Di Anna Lagorio PARLAMI DI ME:GUSCI, SCRIGNI E SPECCHI NELLE OPERE DI CLAUDIA MAINA Di Elena Marchesci CLAUDIA MAINA di Claudio Beccaria
CLAUDIA MAINA:::CORPI DOCILI::: Testo di Carolina Lio per la mostra personale CORPI DOCILI presso la Gestalt Gallery di Pietrasanta
Metodi che permettono il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicurano l’assoggettamento costante delle sue forze ed impongono loro un rapporto di docilità-utilità: è questo ciò che possiamo chiamare «le discipline». Michel Foucault, Sorvegliare e punire Cosa c’è di più fragile di un castello di carte? Un castello di bicchieri. Ed è proprio questo l’elemento più riconoscibile del lavoro di Claudia Maina, le cui installazioni sono palazzi di vetro che si arrampicano attraverso moduli in bilico. Le sue architetture improbabili sono costruite da bicchieri appoggiati l’uno sull’altro in una struttura dall’equilibrio assai precario che si inerpica su progetti pericolanti, spudoratamente deboli, abitati da omini-cimice in legno ciascuno chiuso all’interno del proprio bicchiere. Questi personaggi in miniatura, ben sigillati e isolati, sono fissati in una staticità dalle posizioni paradossali, circensi, evidentemente contrarie a ogni possibile equilibrio fisico: in bilico su delle ruote, sospesi a mezz’aria, appoggiati ad arti irrealisticamente allungati e piegati, capolvolti a testa in giù, sono individui costretti a non raggiungere mai una situazione di riposo. Esposti nella loro cella trasparente, messi in vetrina, e tenuti sotto controllo l’uno dall’altro con sguardo tanto vigile quanto impietoso, devono mantenere il loro ruolo poco spontaneo e tenersi rigidi in un’ immagine distorta di sè. Fino allo stremo delle forze. Queste strutture sono, ovviamente, una metafora della condizione dell’uomo contemporaneo e del tessuto sociale che si è costruito. L’artista stessa sceglie per questa situazione l’aggettivo “docile”, avendo in mente la condizione di subalternità degli individui che si lasciano manipolare e controllare in modo consapevole e spesso accondiscendente dal sistema economico e politico, dalle logiche di mercato e di produttività, dai meccanismi di accettazione/esclusione e dalle regole del giudizio sociale. Da tutto questo reticolo di imposizioni più o meno evidenti e coercitive, l’uomo è racchiuso come in una gabbia. Il corpo invisibile delle nostre attività intellettuali ed emotive, viene come imbottigliato e messo sotto vetro, costruendo una struttura che si regge sull’accumulo di isolamenti. I modellini architettonici dell’artista sono quindi del tutto simili a delle prigioni e in particolari a quelle descritte da Michel Foucault nel saggio Sorvegliare e punire dove viene analizzato un allora nuovo sistema di carceramento, sistema che in modo più ampio veniva applicato in tutti gli ambiti in cui il potere aveva bisogno di creare disciplina: dalle scuole agli ospedali. Una disciplina che secondo lo stesso Foucalt serve a creare quelli che chiama “corpi docili”, fortemente voluti dal potere economico e politico perchè ideali a fronteggiare le velocità e le complesse esigenze dell’epoca moderna. Nel saggio, si parla dell’osservazione come strumento principale per la creazione di questa docilità. I soggetti devono essere, o almeno ritenersi, sempre sotto la possibilità
di essere visti, controllati e monitorati, in modo tale da non potersi abbandonare ai loro atteggiamenti naturali e far lentamente diventare la disciplina un elemento inscindibile da se stessi. Si tratta, quindi, di un modellamento interno degli individui, considerato ancora più crudele dei lavori forzati in quanto obbliga l’uomo a uno snaturamento intimo ai fini di un’utilità esterna programmata. Le installazioni di Claudia Maina sono analisi di questi meccanismi che hanno fatto effettivamente da base a tutte le strutture sociali dall’era moderna in poi, proprio come aveva previsto Foucault. La prigionia, l’isolamento, la sorveglianza continua gli uni sugli altri attraverso le pareti trasparenti, gli schemi di non-comunicazione, la rigidità comportamentale, creano un’esplicita manifestazione visiva dell’innaturalezza nei meccanismi sociali, perfino quelli apparentemente più intimi. Pur appartenendo allo stesso macro-organismo, alla stessa società, pur essendo legati gli uni agli altri da una forza che o sorregge tutti o collassa l’intera struttura, ognuno vive isolato e solo, imprigionato da una gabbia trasparente, ma così densa da risultare palpabile. Settembre 2012
LA BELLEZZADELLA LUCE, LA FRAGILITA’ DELL’ESSERE NELL’ARTE DI CLAUDIA MAINA Intervista di Francesca Ancona pubblicata sul magazine on-line Beautifulcontrocorrente!
Claudia come definiresti la tua arte? Mi risulta complesso definire la mia arte. Ho un problema in particolare con le definizioni. Ciò che mi interessa è spesso legato al corpo, a come vive negli spazi e percepisce il tempo. Spazi fisici, ma anche mentali ed emotivi, così come percepisce un tempo che scorre, ripetuto o dell’istante. Di solito ogni progetto nasce dall’osservazione del corpo, spesso del mio. Lo guardo nei movimenti, ne percepisco a volte i disagi, oppure semplicemente cerco di prestare attenzione a dettagli quotidiani, che a volte sfuggono. I concetti di abitudine e ripetizione mi interessano in modo particolare. Cerco poi di tradurre quello che ho ascoltato in una forma che risponda alla mia poetica, quindi con la mia sensibilità e ciò che è il mio modo di fare arte, ma allo stesso tempo sia accessibile alle altre persone. Sviluppo una forma nella quale gli altri possano riconoscersi e concettualmente trovare delle connessioni possibili con ciò che in questo momento storico noi stiamo vivendo. A me ricorda quasi una ricerca fisico-scientifica-anatomica del corpo, dello spazio e anche degli oggetti, da dove nasce questa ossessione e a quale conclusione aspiri? Credo derivi da un’estrema difficoltà che ho nel percepire insieme le tre cose. Corpospazio-oggetti ed aggiungo tempo. Mi spiego meglio, a volte sento la necessità di sezionare ciò che ho intorno, cercando di comprenderlo meglio. Un corpo in uno spazio può sentirsi parte dello stesso, oppure a disagio e può relazionarsi agli oggetti in vari modi, oppure avere la percezione del tempo istante per istante o non accorgersi che il tempo scorre. Fin dall’inizio dei miei studi ho sempre lavorato con la figura e il corpo. Questo è sempre stato il centro della mia ricerca. Ma è nella relazione con l’esterno che noi ci confrontiamo e percepiamo in parte noi stessi. Quindi a volte per cercare di comprendere lo stare nel mondo ho la necessità di separare tutti gli elementi che ho intorno per poi dargli una nuova forma, che restituisca la sensazione e l’osservazione che ho fatto. A questo proposito sto lavorando attualmente sul testo di Jean-Paul Sartre A porte chiuse-Huis Clos del 1944. Nell’inferno ipotizzato da Sartre i tre personaggi sono costretti a vivere in una stessa stanza per l’eternità. La differenza tra la condizione di vivo e di morto sta solamente in ciò che morendo ci abbandona: la vanità. In un’ambiente senza specchi l’unico modo che i personaggi hanno per guardarsi è riflettersi nelle pupille degli occhi dell’altro. Senza la vanità l’uomo non sa che mostrarsi nudo e misero, e in questo modo viene visto e giudicato. L’altro diventa giudice e aguzzino perpetuo. Non esiste solitudine. “l’inferno sono gli altri” conclude uno dei tre personaggi. In questo senso continuare a studiare l’uomo in relazione all’altro da sé è la mia attuale ispirazione.
Il tuo lavoro ha un percorso ben organizzato. Si parte dal disegno, poi viene l’installazione o realizzazione del pensiero, per finire al video, il pensiero in movimento, finalmente concretizzato. Solitamente si usa dire che l’arte è caos, ma nel tuo caso la precisione matematica esprime il contrario... Sono convinta che ci sia sempre un estremo controllo nell’evolversi di un progetto. E’ un processo che ha spesso un percorso obbligato. Non è detto però che il tutto avvenga in modo lineare, però generalmente ci sono dei passaggi quasi obbligati proprio ai fini della realizzazione di un lavoro. E’ l’idea del lavoro che genera il processo e ne crea le modalità. Caos e precisione sono elementi che devono essere legati e andare di pari passo. Gli omini nei bicchieri, o cimici, fanno pensare alla fragilità dell’essere e dell’ambiente circostante, c’è una perfezione illusoria. La composizione (in mutamento) è casuale o segue un filo logico? Le composizioni sono una ricerca ossessiva di equilibrio. Sia mentre le compongo sia nel mutamento (ad esempio nel video Bedbug Castles) cercano di creare la sensazione di precarietà, pur mantenendo un equilibrio perfetto. Il filo logico sta appunto nella ricerca dell’equilibrio. Claudia, la scelta del vetro come materiale primo, del cristallo, denota purezza ma anche glacialità, in contrasto ai colori, agli abiti, alla musica, la terracotta, il calore. Cos’è la vita per te, come vedi questo nostro pianeta? Questa è una domanda molto difficile. Utilizzo il vetro per le caratteristiche che tu descrivi, ma anche perché è estremamente fragile, ma resistente allo stesso tempo e può trasformarsi prendendo nuove forme. Io percepisco una stessa fragilità e forza nella vita, e questi elementi si alternano e trasformano continuamente. Il che rende il tutto molto precario. Così vedo anche la sopravvivenza del nostro pianeta. La concentrazione sul corpo, su tuo corpo, corpi frammentati, puzzle anatomici. Che rapporto hai col tuo corpo? e perché l’immagine (l’apparire) è così importante? Cerco di convivere con il mio corpo come tutti ed a volte è una convivenza d’amore, altre volte molto complessa. Svolgo in parallelo il lavoro di modella d’arte e quindi sperimento l’immobilità per diverse ore e diversi giorni alla settimana. E’ un lavoro di
grande controllo e fatica, che mi permette allo stesso tempo di confrontarmi con il mio corpo e osservarlo con grande attenzione. Anche in questo caso, durante le sessioni di posa, capita di sezionare mentalmente una parte per cercare di sciogliere i muscoli o controllarli ancora meglio. In questo modo cerco di comprendere meglio la mia fisicità nello spazio. Alcuni dei miei lavori sono sull’idea di un corpo frammentato, proprio perché a volte lo percepiamo così, come staccato dalla testa. Soprattutto in alcuni attimi la mente gioca brutti scherzi al corpo. Basti pensare ai momenti di forte ansia ad esempio, oppure alla percezione del dolore. Mi interessa lavorare sul corpo frammentato perché in qualche modo cerco di ricomporlo. L’apparire è il quotidiano, come ci vediamo e come ci vedono gli altri, per me è molto importante perché è un aspetto della quotidianità, che si connette però profondamente con alcune nostre parti molto intime. “Volo”, meravigliosa opera. Il terreno e l’uomo come essere astratto, quindi non solo corpo, non solo immagine, finalmente entra in gioco “l’essere”... Ti ringrazio molto. E’ un’installazione di molti anni fa, che nasceva dall’esperienza di volare che facciamo a volte sognando. La percezione corporea precisa che abbiamo quando sogniamo di volare nasce dall’esperienza che facciamo da piccoli quando saltiamo sul letto. Cioè noi triamo da quelle esperienze dell’infanzia, la percezione che poi utilizziamo nel sogno quando stiamo volando. L’installazione parla di questo e mette insieme i vari elementi di un sogno che io stessa ho fatto, appunto quello di volare sopra un prato verdissimo. Sì è un corpo astratto, fatto di orecchini appesi a formare una sagoma visibile solo da un lato, che si sospende su di un letto che è invaso dall’erba. Forse in questo modo sono riuscita a trasmettere quella sensazione del volo, che tu hai individuato come una percezione dell’”essere”. Ne sono contenta quindi. Raccontami l’esperienza nei camerini delle boutique di Milano per il video “Changing Room”. Vi hanno permesso le riprese? come reagisce la gente alle tue performance e alla filosofia che esprimi? In Changing Room ho agito da sola, senza permessi e di nascosto. Mi piaceva l’idea di mischiarmi fra la gente, indaffarata a comprare e provare abiti. I negozi di vestiti rappresentano per me un vero delirio collettivo, nel quale le ossessioni che ognuno ha per il proprio corpo si intravedono e sfuggono al consueto controllo. Tutte le donne e gli uomini mentre si specchiano si guardano con una precisione maniacale e spesso sono agitati. Entrare nei camerini, provare i vestiti, interpretare personaggi sempre diversi e
filmarmi, mi sembrava un modo di prendermi gioco di tutto questo. Non delle persone intendiamoci, ma di tutta quella situazione che vista fuori dal contesto risulta essere paradossale. In quel caso la gente non mi ha scoperto quindi non ha seguito l’aspetto performativo del video. Non è stata una vera e propria performance, è stata un’azione che si è poi tradotta in un video. Le persone che hanno visto il video oltre a cogliere l’aspetto voyeuristico hanno riflettuto sulla frenetica ricerca d’identità che sottintende tutta l’azione. “Miss Maina Magic” l’identità fittizia, la dualità o addirittura la volubilità dell’essere. Ma siamo davvero così fragili? pensi che non ci sia un’identità solida? Penso che ci siano molteplici identità. Le nuove tecnologie ci hanno costretto a studiarne l’esistenza. La fragilità sta a mio parere nel non prenderne coscienza e nel vivere come se queste fossero separate, accettarne le mille sfaccettature forse potrebbe costituire una nuova e più solida identità. I tuoi futuri pensieri, progetti? Attualmente sto lavorando a delle nuove installazioni della serie Bedbug World e progettando un’installazione più grande, nella quale gli omini-cimice invadano letteralmente lo spazio che avrò scelto creando quasi una città vera e propria o comunque una costruzione nella quale lo sguardo dello spettatore possa perdersi. 2012
IMBALANCE & INSECURITY_Mostra collettiva AMY-D Arte Spazio Gallery Recensione di Tiziana Leopizzi pubblicata su Exibart Dicembre 2011
Una collettiva in cui ciascun artista tratta il tema della precarieta’. Partecipano: Alexander Brodsky, Azadeh Safdari, Giuseppe Buffoli, Alessio Tibaldi, Claudia Maina, Emilia Castioni, Nicola Felice Torcoli, Nicoletta Braga… pubblicato giovedì 8 dicembre 2011 Tematiche come il mercato, la crisi economica, la precarietà sono più che frequenti oggi. Riflessione che si concretizza negli spazi della galleria i quali progetti sono pensati in una osmosi continua tra arte contemporanea ed economia, e lo si percepisce anche dalla presa di posizione nel voler partecipare non tanto alle fiere di settore come Step09, ma anche a quelle di robotica, il Matching, dell’energia alternativa, della moda, mantenendo come primo desiderio quello di valorizzare la ricerca artistica accostando agli artisti emergenti quelli già affermati all’interno di un dialogo continuo, una continua crescita. In Imbalance and Insecutity, mostra che sfocia dal progetto “Balance” presentato a Step09, queste tematiche si fanno mostra, in particolare qui la precarietà è esplorata attraverso singoli episodi diventando elemento distintivo della poetica di numerosi artisti. Il nucleo di artisti chiamati a partecipare al progetto, pur proponendo lavori diversi tra loro condividono molteplici volontà comunicative mantenendo salde caratteristiche di sobrietà, dinamismo, antimonumentalità, spazialità, caducità dove la precarietà è considerata come condivisione esistenziale. Iniziamo il percorso con le fotografie di Azadeh Safdari che indagano il movimento conturbante e talvolta instabile delle sue danzatrici, alla ricerca di un’armonia naturale , celata dalla scelta cromatica; per giungere alla fragilità dell’installazione di Alessio Tibaldi: un’indagine sui processi naturali e sociali attraverso l’uso riciclato di un materiale delicato e biodegradabile sul quale fluttuano scure sagome umane, in continuo viaggio. Rimanendo nell’ambito del riuso e del riciclo, Emilia Castioni e Nicola Torcoli costruiscono dei paesaggi immaginari attraverso il riposizionamento di diversi materiali ed oggetti come scarti del prodotto industriale immersi in una vegetazione vera, una ricerca di un possibile equilibrio tra oggetto e soggetto. Claudia Maina attraverso i suoi palazzi, costruiti con oggetti di vetro all’interno dei quali compaiono piccole scene di uomini di legno in scenografie create col ferro, riflette sull’identità e incomunicabilità dell’uomo contemporaneo, sempre alla ricerca di un equilibrio sospeso. Giungiamo alle grandi installazioni che predominano nel centro delle stanze. Nell’installazione di Alexander Brodsky, artista che nei suoi lavori indaga il tema della memoria, sono presenti dei pesi simili a quelli delle vecchie bilance realizzati in creta che assumono la funzione di fermacarte per impedire ai messaggi scritti su foglietti di carta di volare via. Nell’altra stanza è protagonista il lavoro di Giuseppe Buffoli: un’installazione in cui l’artista si avvale del legno, che seppur di grandi dimensioni riflette sulla immutabile instabilità della scultura, in cui tutto si basa su un equilibrio delle forze, delle strutture,
delle masse e dei materiali dove il magnetismo, imprevedibile e imponderabile è elemento caratterizzante tutta la sua produzione artistica. Infine la performance di Nicoletta Braga che sarà protagonista del finissage, attraverso la quale l’artista indaga l’equilibrio precario in relazione alla questione economica del vivere con riferimento alla dimensione onirica, progettuale e immaginaria comune. Ma il tutto non finisce qui, infatti il progetto prevede successivamente a questa mostra il presentare una serie di mini personali dedicate ai singoli artisti accompagnate da contributi teorici e eventi con diversi studiosi e critici. 2011
LE CITTA’ DI CRISTALLO Intervista di Serena Ciarà pubblicata sul portale on-line GliArtigianauti.
Cosa ti ha spinto a costruire castelli di cristallo? Come è nata l’idea di immaginare appartamenti che fossero bicchieri in cui vedere gli uomini abitare? L’idea è nata da una frase che un amico mi disse molti anni fa. Eravamo ad una festa e lui improvvisamente si mise a gridare in modo ossessivo “Siamo come le cimici… siamo come le cimici! Tutto ciò che facciamo non ha senso”! Ripeteva questa frase continuamente lasciando tutti gli invitati storditi e perplessi. Questo parallelo uomocimice è entrato in risonanza con una mia particolare sensibilità verso gli spazi. Gli insetti spesso vivono in luoghi chiusi o costretti, sottoterra ad esempio. Ho cercato di capire in quale modo rendere questa similitudine e perché un uomo-insetto. Semplicemente ho pensato a come noi catturiamo gli insetti in casa. Lo facciamo con dei bicchieri o barattoli capovolti sull’animale, mettendo un foglio di carta sotto il contenitore lo imprigioniamo e ci troviamo con un barattolo in mano ad osservare la nostra preda. Metaforicamente ho catturato degli uomini dentro a barattoli e bicchieri. Li ho messi uno sull’altro, immaginando di costruire delle città, ma all’inizio erano più che altro degli accumuli. Mi interessava l’azione stessa dell’impilare in modo ripetitivo. L’uomo-cimice diventò per me l’uomo che vive in spazi costretti e chiusi. Ho iniziato quindi a lavorare sulla dimensione spaziale quotidiana ed abitativa delle persone. Un’evoluzione naturale del lavoro è stata quella di pensare a spazi che fossero intimi ed emotivi, al rapporto con il proprio corpo che vive gli spazi quotidiani. Mi piace lavorare sulla relazione fra il grande uomo-città ed il piccolo uomo-corpo. Hai preso ispirazione da “le città invisibili” di Italo Calvino? Se devo essere sincera, no. Quando ho cominciato a lavorare a Bedbug World non l’avevo ancora letto. Mi sono avvicinata a questo libro solo successivamente, dopo che alcune persone me lo avevano segnalato in rapporto alle mie installazioni. In effetti, l’immaginario di Italo Calvino ne Le città invisibili ha indubbiamente creato un immenso bacino dal quale poter cogliere nuovi modi di pensare la città, di viverla, progettarla e fantasticarla. E certamente ne ho tratto delle suggestioni che non si sono però tradotte direttamente nel lavoro. È comunque interessante quando altre persone trovano nei tuoi lavori delle connessioni di senso o dei riferimenti estetici che tu nemmeno avevi immaginato. Gli uomini diventano cimici, perché? Perché visti come una moltitudine compiono gesti ripetitivi e quotidiani, metodici e dettati da regole, come se fossero inconsapevoli della propria stessa vita. L’uomo insetto è laborioso e abitudinario, ma raramente si ferma e usa la comunicazione solo in modo
funzionale alla sopravvivenza. L’idea di un uomo che diventa insetto è concettualmente un’esasperazione di elementi legati ad una visione utilitaristica della vita e dei rapporti. In realtà gli insetti sono molto più affascinanti di noi. Architetture effimere crollano per poi essere ricostruite. E’ la metafora per affermare cosa? Un ciclo ripetitivo continuo nel tempo, ma che nella ripetizione produce dei cambiamenti. All’interno di alcuni bicchieri sono presenti uomini e ragnatele a forma di clessidra. Il tempo diventa così resistente alla memoria e al contempo facile da perdere. E’ forse colpa del nostro modo frenetico di vivere le nostre giornate, in cui correndo spesso perdiamo lunghissimi fili di storie poco vissute? Direi di sì. Io lo percepisco come un tempo che viene vissuto per istanti ripetuti. Le azioni quotidiane e la frenesia ci portano a sviluppare una sorta di anestesia nei confronti del “resto”, questo si traduce in una totale incapacità di vivere pienamente il tempo, se non in termini di utilità, appunto. Le trasparenze, la lucentezza, la durezza e la fragilità. Tutte caratteristiche del vetro, tutte unite e tutte opposte fra di loro. Perchè hai scelto il vetro come protagonista delle tue istallazioni? Perché ne sono innamorata. Ho una passione per il vetro da sempre. Il fatto che sia un materiale modellabile lo rende concettualmente molto interessante, perché può trasformarsi all’infinito ed apparire sempre in forme nuove. Le caratteristiche che tu descrivi rendono perfettamente l’idea di un mondo lucente, lezioso e trasparente ma estremamente fragile, che è quello che mi interessava trasmettere. La fragilità in contrasto con la durezza del vetro genera un fascino nella contraddizione. Così i palazzi-cimice che costruisco hanno queste caratteristiche sono lucenti e rassicuranti, ma contemporaneamente fragili nella loro durezza. Più che un’istallazione d’arte, la tua città di cristallo potrebbe essere interpretata come un modello di vita. Che rapporto ha questa con la realtà? Le installazioni Bedbug Word mostrano il rapporto del corpo con una dimensione spaziale costretta e senza aperture. Posso ritrovare nel lavoro degli elementi che nascono dalla mia percezione della realtà (costrizione, senso di fragilità e perdita di riferimenti)
e che, proprio per contraddizione, ne propongono una diversa visione. Queste installazioni sono costruite come architetture cristallizzate simili a strutture microabitative. Al loro interno gli omini-cimici sono metafore appunto dell’impossibilità di un tessuto di relazioni umane. Architetture astratte che sono pronte a crollare per poi ricostruirsi, come in un continuo gioco, mostrano un soffocante rapporto mancato fra l’individuo e l’altro da sé. In questo senso sono una traduzione di ciò che a volte percepiamo nella realtà degli spazi quotidiani e delle città. Come proteggi la tua idea? In che modo ti difendi da chi potrebbe catturare la tua idea e farla diventare sua? Proteggo le immagini che pubblico sul mio sito con il sistema di licenze Creative Commons. I progetti ed i disegni possono essere utilizzati e divulgati da altri, ma con obbligo di citarne la proprietà e non a scopo di lucro. Credo che questo sistema favorisca la circolazione di idee proteggendo però l’autore. A chi vorrebbe intraprendere la tua stessa carriera artistica cosa consiglieresti? Consiglierei di frequentare un corso di studi accademici all’estero. Le Accademie di Belle Arti italiane non offrono molto in ambito laboratoriale, ma soprattutto promuovono un modo di fare arte troppo ristretto al mondo dell’arte contemporanea e poco incline alle connessioni fra i diversi abiti professionali creativi. In che modo Internet ti ha aiutata nella comunicazione della tua arte? Quali benefici ne trai? Utilizzo il mio sito un po’ come un archivio, oltre che per la divulgazione del mio lavoro e questo mi permette di poter avere il materiale sempre a disposizione ogni volta che mi serve. Uso alcuni social network che sono molto utili nella promozione degli eventi ai quali partecipo. Possono essere uno strumento interessante per creare contatti professionali e mantenere rapporti con altri colleghi. Anche se naturalmente questo da solo non basta e l’aspetto di comunicazione del proprio lavoro passa necessariamente da una promozione personale di diretto contatto con le persone e gli ambienti lavorativi. Avere visibilità in internet resta però molto utile. Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Purtroppo mezzo vuoto, ma sto cercando di smettere. 2011
LUCI(DI)CORPI_LOOK AT FESTIVAL Testo critico di Elena Marcheschi pubblicato nel catalogo della mostra LookAt Festival edizione 2009.
Osservare il complesso universo dell’arte contemporanea e cercare di capire come negli ultimi anni esso sta reagendo rispetto ai movimenti disordinati e alle pressioni inquiete della crisi mondiale: la terza edizione del LookAtFestival, seguendo questa direzione, presenta le opere di otto autori italiani che si muovono ai confini del metalinguismo e dell’intermedialità, proponendo attraverso le forme espressive del video e dell’installazione una reinterpretazione artistica delle problematiche attuali e delle possibili reazioni e soluzioni alle sollecitazioni e ai cambiamenti del mondo nel quale viviamo. Se storicamente uno degli obiettivi delle avanguardie del ‘900 è stato quello di superare il confine tra arte e realtà, dando vita a un flusso collante di comunicazione a vantaggio di esperienze estetiche che rigeneressaro il senso vitale e poetico dell’esistenza, oggi il mondo dell’arte aderisce alle problematiche attuali schizofrenicamente e in modo meno salvifico, facendosi interprete e cartina tornasole di un decennio difficile, martoriato da fatti tragici che hanno cambiato equilibri e assetti mondiali, incidendo profondamente nella vita quotidiana della compagine sociale. Questa situazione di crisi collettiva, con la quale siamo abituati a fare i conti quotidianamente in ogni aspetto del vivere, ha generato progressivamente una cultura dell’emergenza, dell’urgenza, del disordine, capace di scatenare a livello intimo personale e sociale stati d’ansia, paure, insicurezze, fragilità, ossessioni, reazioni di chiusura difensiva come di incontrollata violenza. Schizofrenia, certamente, perché di quel paradigma di scambio e fusione proposto dalle avanguardie manca il senso di reciprocità: l’arte non riesce a invadere la vita in senso poetico proponendo soluzioni alternative, ma la vita sta sopraffacendo l’arte lasciandovi tracce persistenti di reazione alle paure e ai disagi del mondo in cui viviamo, sia nei contenuti che nei linguaggi adottati. Ma c’è di più: la realtà sembra voler rifuggire metodicamente una possibile e libera traduzione estetica di se stessa, promuovendo una politica di immobilismo e ostruzionismo attraverso la quale la cultura dell’emergenza impone di rinunciare a tutto quello che le è apparentemente superfluo (o scomodo specchio). Un atteggiamento perverso, perché in fondo la rinuncia all’estetica non è mai radicale. L’arte viene salvata dove può fornire un aiuto strumentale, decorativo, d’impatto come nelle citazioni, richiami o coinvolgimenti negli ambiti “produttivi” della pubblicità o in certe situazioni istituzionali: in breve si preferisce camuffarla sotto forme più innocue, piuttosto che promuoverla come mediatrice di dialogo, riflessione o attivatrice di processi sociali attivabili tramite la creatività e il libero pensiero. La pressione esercitata dalla crisi generale, acutizzata dalle varie mancanze – attenzio-
ne, risorse, spazi, energie, visibilità – di cui il mondo dell’arte soffre in modo sempre più prepotente, ha decisamente influito sulla produzione artistica elettronica che nell’ultimo decennio ha come preponderante oggetto di riflessione la questione del corpo. Siamo però lontani dall’uso del corpo come mezzo di espressione artistica in riferimento alle esperienze della Body Art degli anni ’60-’70 (Bruce Nauman, Marina Abramovic, Gina Pane…) nelle quali gli artisti stessi mettevano al centro delle produzioni se stessi come soggetto e referente dell’atto creativo, misurando sulla propria pelle le tematiche del limite e della resistenza umana sia in termini fisici che psicologici. E siamo anche distanti dall’ossessione del corpo nelle ricerche degli anni ’90, luogo di morte e fragilità estrema altresì potenziabile grazie all’uso delle nuove tecnologie (vd. Marcel.lí Antunez Roca, Orlan, Stelarc…). Gli artisti che il LookAtFestival presenta in questa edizione, in un’ottica di resistenza e militanza nella difesa e promozione dell’arte attivatrice di pensiero, rappresentano un campione esemplificativo di questa tendenza: essi non rivolgono la videocamera su di sé, ma studiano il corpo come fulcro centrale dell’esistenza dove entrano in rotta di collisione le pressioni esercitate dalla realtà esterna e come svelamento dei meccanismi interiori di reazione e/o adattamento alle problematiche sociali. Il corpo viene reinterpretato come ultimo depositario dell’esperienza umana: la sua impalcatura fisica, concretamente composta di carne, ossa, cellule, è il luogo in cui si determinano le risposte basilari alla evoluzione umana, sia essa sociale, intellettuale, emotiva. In un’epoca in cui il senso di minaccia e l’esigenza di protezione vengono fortemente esasperate e il soggetto rischia di essere annullato dal mondo, gli artisti rivendicano la centralità dell’essere umano attraverso la rappresentazione di un corpo che oscilla bulimicamente tra presenza (organica e spesso lacerata) e la tendenza all’annullamento che trasforma il corpo in luce e movimento fino a dissolversi (più che risolversi) in assenza. Le opere selezionate per l’edizione 2009 del LookAtFestival ci suggeriscono le coordinate di una mappa che tenta di ricomporre il panorama finora descritto, attraverso un approccio che vuole essere critico e trasgressivo, coinvolgendo lo spettatore in un’esperienza sensoriale e interattiva. Opere che stanno ai confini di pratiche artistiche diverse e consolidate lungo l’arco del XX secolo e che costruiscono proficui dialoghi tra l’esperienza cinematografica e documentaristica, le arti visive, la performance, la videoarte, l’animazione, l’arte interattiva, la scenografia, l’architettura e l’arte digitale. In un gioco di rimandi fatto di presenze e assenze, lo spettatore incontrerà i corpi mutanti, postumani e perturbanti immaginati da Alessandro Amaducci, esseri metamorfici
partoriti dalle allucinazioni del tempo e dello sviluppo tecnologico. Si ritroverà faccia a faccia col dolore intimo e fisico e verrà invitato a riflettere ancora una volta sulle delicatissime questioni del testamento biologico grazie all’installazione di SantiFantiFilm. Con la videoinstallazione di auroraMeccanica “giocherà” interattivamente con gli effetti del consumismo e rifletterà sul problema della sovrapproduzione dei rifiuti come una delle tante piaghe sociali che necessitano la riattivazione di una coscienza sociale e politica. Riscoprirà la carnalità della passione e le necessità di soddisfare il desiderio tramite l’opera di CILEMA REISEN#. Resterà perturbato nella trasposizione animata del violento dramma del traffico di organi narrato da Louis Böde. Fluttuerà nel canto e nella danza di abiti erranti alla ricerca di un corpo smarrito nella videoinstallazione di Claudia Maina. Ritroverà una dimensione immersiva e contemplativa avvolto da luci e specchi nell’installazione di InFlux. Si libererà nell’urlo catartico della videoscultura di Sara Taigher. Come tasselli di un mosaico intercambiabile, le opere selezionate ci raccontano storie che parlano di noi e del mondo che ci ruota intorno in preda a una frenesia entropica spesso distruttiva. Ci mostrano corpi: fatti di carne, di sangue, di passione e dolore. E ci mostrano scie emotive, dissolvimenti percettivi, tracce di luce dei corpi stessi. Arte di luce e di corpi: luci (di) corpi.
2009
Ph Matteo Girola
VI CIMICE_2009 Testo critico di Anna Lagorio_Mostra personale VI CIMICE alla Chiesa di San Bernardo a Pisa
Claudia Maina è un’artista silenziosa. Il suo lavoro procede per accumulazioni, concedendo poco spazio alla parola. A partire dalle prime sculture in terracotta: Azione, Il compatto, Camminano (2001). In questi miniteatri esistenziali, gli uomini avanzano in un’unica direzione. La superficie è piana e uniforme, non ci sono indizi né segnali disposti a guidarli. Ognuno procede da solo, riducendo gli scambi comunicativi a puri gesti, come una stretta di mano o la condivisione casuale di un attimo di riposo. Per la maggior parte del tempo, però, lo stato di solitudine costringe l’uomo a confrontarsi con la propria identità. Anche l’installazione Volo (2004), mette in scena una condizione di (auto)isolamento. La scena è scarna. Ci sono solo un materasso, dell’erba fresca, degli orecchini sospesi nell’aria. Un tappeto di erba delimita i confini dell’opera, focalizzando l’attenzione sull’elemento cardine della scena: un letto candido, con la trapunta appena spostata, proprio come prima di andare a dormire. Riposo, culla, protezione o spazio di indipendenza onirica, il letto rievoca memorie infantili e suggerisce un desiderio. Quello di fermarsi, mettersi sotto le coperte, pensare. Correndo il rischio di non volere/sapere più uscire da quel rifugio sicuro. Nella sua ricerca, Claudia Maina utilizza spesso gli elementi domestici in chiave perturbante. E così, nella serie Mondo Cimice, un tavolo di formica, uno sgabello o delle sedie diventano i sostegni su cui costruire intere città, fatte di uomini-cimice intrappolati dentro a grappoli di bicchieri di cristallo. Nella familiarità e nella quotidianità degli arredi – tratti dalla memoria personale dell’artista - , si insinua una distorsione, un elemento di panico. La condizione di disagio è costruita estremizzando una sensazione di calma apparente. In questa situazione di assoluta immobilità, lo spettatore è costretto a trattenere il fiato per paura di distruggere tutto. Basta un soffio per far crollare il castello di carte. Niente è sicuro all’interno di queste città verticali. La dimensione psicotica dell’abitare è suggerita dall’accumulo di forme identiche, ossessive. La condizione di astenia comunicativa è totalizzante e si innesta su un piano intimo e privato. E così, in VI CIMICE i banchi di scuola evocano un paesaggio interiore, il tempo acerbo di chi si affaccia alla vita, con le sue ansie e fragilità. Le stesse che Claudia Maina fa emergere nelle relazioni impossibili fra individui-cimice. Prigionieri involontari costretti a lottare contro ostacoli trasparenti. In assoluto, sadico, silenzio.
PARLAMI DI ME:GUSCI, SCRIGNI E SPECCHI NELLE OPERE DI CLAUDIA MAINA Testo critico di Elena Marcheschi_Mostra personale VI CIMICE alla Chiesa di San Bernardo a Pisa_2009
Claudia Maina, come una funambola esperta e audace, lavora in bilico tra i confini delle arti, servendosi dell’immagine elettronica per realizzare video monocanale e installazioni che riflettono sulle pieghe sottili, gli aspetti intimi, le fratture e le esitazioni della vita. Tra performance e scultura, arti elettroniche, musica e pittura: lo spettro di discipline che compongono il sostrato della sua esperienza artistica prende forma nelle immagini delle sue opere a livello sia concettuale che strutturale, con un candore poetico che sta tutto dalla parte dell’universo femminile. Introspezione leggera, sguardo simbolico, gusto del bello, ricerca degli aspetti grandi attraverso l’osservazione delle cose minute, dei dettagli, con la decisione e la forza di chi cerca di comprendere se stessa e il circostante attraverso la misura dell’arte. Il cinema delle origini affiora in MissMainaMagic con la memoria di Méliès e i suoi film fantastici realizzati in teatro di posa tra magie e illusionismi e con lo stupore per i viaggi impossibili verso dimensioni altre e immaginari straordinari. In questo video l’autrice gioca la doppia parte del mago e della donna contenuta nella celebre scatola magica, corpo indifeso alla lama che lo dividerà in pezzi a se stanti. Il trucco è noto, ma la singolarità del numero sta nel vedere come vittima e carnefice siano la stessa persona: come in un quadro cubista, non solo la cavia finirà per essere scomposta, ma il mago stesso. I brandelli dei due corpi mescolati daranno vita a un unico organismo, senza stupore, con la naturalezza dell’inevitabile in un equilibrio precario che lascia intravedere ulteriori scomposizioni e assemblaggi per un nuovo annullamento dei limiti e dei ruoli. In Changing Rooms la componente performativa rievoca le sperimentazioni artistiche in circuito chiuso degli anni ’70. In questo viaggio attraverso i camerini di prova di vari negozi, l’autrice indossa vestiti di ogni tipo adattando la propria gestualità fisica in conformità all’abito. Romantica, sportiva, eterea, disinvolta, sognatrice, eclettica, timida: a ogni cambio di indumento l’attitudine corporea si adatta e trova la dimensione interiore corrispondente all’ispirazione dell’immagine risultante. Riflessa negli specchi e continuamente spiata, esibita e denudata, l’autrice/attrice/spettatrice si osserva nella trasformazione e sperimenta la molteplicità dell’essere, condividendo con lo spettatore ricerca e spettacolo dell’intimità. Il corpo si disgrega in Falling Clothing, lasciandone traccia visibile in una caduta libera di vesti che come pennellate di colore luminoso invadono una tela nera. Questa celebrazione di assenza di fisicità ci racconta la difficoltà di lasciarsi veramente andare, abbandonandosi alla libertà di se stessi e alla bellezza. Nell’incessante precipitare di questi gusci vuoti risuonano melodie incrociate cantate dalla stessa autrice, materializzazione di un corpo che non c’è, proponendo una riflessione sui concetti di assenza e presenza, labilità ed effimera concretezza. Essenze fragili, come poeticamente delicata la vita che passa attraverso il nostro corpo mettendo in comunicazione la profondità dell’essere con il mondo.
CLAUDIA MAINA Testo critico di Claudio Beccaria_ Mostra personale presso l’associazione NAC a Novara
Il 2 febbraio 2006, presso gli spazi di corso Cavallotti 11, Nac propone una personale della giovane artista novarese Claudia Maina, proseguendo una linea di valorizzazione e visibilità offerta alle personalità creative emergenti nel territorio, che annovera dal 2003 le presenze di Federico Ambiel, Barbara Fragola Degli Esposti, Alessandro Roma, Marco Currò e Roberto Palermo. La giovane artista, invitata a interpretare i nostri spazi, ha organizzato un percorso di lettura ambientale articolato in stanze successive che conduce lo spettatore all’interno del suo originale e complesso sistema di ricerca visuale, luogo di elaborazione mentale e formale che slitta continuamente tra i permeabili confini linguistici della scultura, dell’installazione, del progetto grafico, del video. Non a caso l’artista si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Milano con una tesi dal titolo “Musica come scultura del tempo. Scultura come musica dello spazio” con il docente di Storia della Musica Roberto Favaro, in cui già sviluppava l’analisi dei sottili rapporti che intercorrono tra linguaggi espressivi differenziati, e che divengono oggetto della sua raffinata indagine, intrecciata sempre con tematiche ispiratrici di riflessioni sulla dimensione di uno spazio esistenziale, a volte colto problematicamente in sequenze-limite di compressioni anche soffocanti, se non di piccole ossessioni private che si proiettano nei lavori “Siamo come le cimici”, “Portacimice”, “Invasione”, con bicchieri di vetro su tavoli e sedie in formica verde. Appaiono strane architetture cristallizzate, “città che salgono”, non in dinamiche futuriste, ma in un accumolo di cellule simili a strutture microabitative, congelanti cinicamente al loro interno omini-cimici, metafore dell’impossibilità di un tessuto di relazioni umane o di un afasia comunicativa di fredda sospensione atemporale. Le contraddizioni di questi estesi contesti sociali sono esplicitamente connesse dall’artista ad ansie di natura più intima, dettate dall’ambigua relazione con il ristretto mondo domestico, in uno spazio del quotidiano in cui l’orizzonte-limite è rappresentato dal tavolo della vecchia cucina che diventa luogo di reazione poetica, di evocatività infantile, ludica e nostalgica nel segnare il passaggio in un altro luogo “mentale”, dove accadono processi di dislocazione e frammentazione di un Corpo/identità sezionato e dissociato, ma che non rinuncia alla ricerca di un’unità ricompositiva nella dinamica rituale del gioco, come nella sua replica su diversa scala del vecchio “gioco del quindici”. Qui Miss Maina decostruisce e moltiplica la sua immagine non più in un tempo-spazio intimo e circoscritto, ma in un atto di condivisione sociale, concedendosi alla manipolazione dello spettatore nel magico e perpetuo gioco di rigenerazione delle immagini, come nella sua più recente opera video “MMM Miss Maina Magic”, dove l’artista si sdoppia in valletta e mago, segata e scollata in un gioco di prestigio, in attesa che il pubblico le rimetta la testa a posto. Solo allora lo spettatore avvertirà, forse, la possibiltà/necessità di libero accesso e uscita dallo spazio sospeso dell’arte e del gioco, dal corpo dell’artista e dalla sua scatola magica. 2006
Ph Matteo Girola
Claudia Maina è un artista che vive e lavora a Milano. Si laurea In Scultura ed in Arti Interattive e Performative all’Accademia di Belle Arti di Brera con una tesi sulle interconnessioni tra la scultura e la musica. Frequenta alcuni workshop fra cui un seminario con Chana Benjamin presso la Parsons School Of Design a New York. Il suo lavoro artistico nasce a partire da una riflessione sulla figurazione e sul corpo. Utilizza il disegno, la scultura, l’installazione ed il video. Dal 2000 partecipa a numerose mostre collettive tra le quali nel 2011 Imbalance and Insecurity, Galleria Amy-d Arte Spazio, Milano a cura di Anna D’Ambrosio; The Scientist_2011 International Videoart festival di Ferrara a cura del G.A.I di Ferrara; Lo stato del’arte nel 2011, Galleria Obraz, Milano a cura di Loris Di Falco e Contaminazioni_7 Stanze in cerca d’autore, Museo Civico Polironiano San Benedetto Po (Mn) a cura di Paola Boccaletti. Nel 2010 Experimental Texture, BAC!2010: TIME 11.0 Edition of Barcelona Art Contemporary Festival a cura di Gye Joong Kim; Premio Arte Novara Palazzo Bellini, Oleggio (No) selezione video a cura di Cristina Trivellin. Nel 2009 Look At Festival, mostra di video installazioni Ex-Manifattura Tabacchi, Lucca, a cura di Elena Marcheschi e nel 2008 Dal Corpo alla Città. Cinque parole per il video d’autore, Promosso da ArtVerona presso la Biblioteca Civica di Verona a cura di Mario Gorni, Nel 2007 Memoria Esterna con il guppo ZimmerFrei, l’archivio Care/of a Milano a cura di Chiara Agnello. Tra le mostre personali l’ultima è nel 2013 dal titolo LA TRILOGIA ESISTENZIALE _OMAGGIO A MICHELANGELO ANTONIONI con il progetto L’eclisse con Elizabeth Aro and I Santissimi presso Gagliardi Art System di Torino a cura di Maria Cristina Strati.
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