La costruzione della casa popolare nell’area orientale di Napoli (1910-2013)
INDICE 1.
Introduzione
01
Sviluppo urbano di una città europea Napoli fuori le mura: tra infrastrutture e risanamento Il “casale industriale” di San Giovanni a Teduccio
07 15 29
2.
La questione delle abitazioni a Napoli La macchina per abitare. 34 42 Il dibattito urbanistico a Napoli tra le due guerre: il Piano del 39’ Nascita dell’IACP ed i primi quartieri popolari nell’aria orientale durante il fascismo 46 56 59 61 62
3.
QUARTIERI ECONOMICI AL BORGO LORETO E ARENACCIA
Il ragazzo della via Gluck La città moderna nel dopoguerra La grande ricostruzione della Napoli post-bellica. Esperienze di edilizia sociale: la casa popolare tra Barra e S.Giovanni a Teduccio
66 71 77
RIONE VITTORIO EMANUELE RIONE LUZZATTI RIONE PRINCIPE DI PIEMONTE RIONE DUCA DEGLI ABBRUZZI
86 89 91 93 4.
rione cavour rione ina casa quartiere nuova villa
La deindustrializzazione dell’area orientale. Verso una “periferia residenziale” 96 Lotta per la casa e abitazioni di massa in Italia Una nuova stagione urbanistica nel territorio napoletano. 106 La metropoli dopo il sisma del 1980 113 126 130 134
PROGETTO DI RECUPERO PARTECIPATO DEI CORTILI DI PONTICELLI
TORRE RESIDENZIALE PONTICELLI complesso residenziale TAVERNA DEL FERRO
Conclusioni: Scenari attuali e scenari possibili Appendice Dati demografici e statistici attuali sulla popolazione dei quartieri di San Giovanni a Teduccio e Barra Report fotografici Rapporto finale indagine di Outreach. (Restituzione degli esiti delle interviste, delle passeggiate di quartiere e dei capannelli d’ascolto effettuati ascolto. 2005 - Comune di Napoli) Alcuni documenti sulla lotta per la casa relativa ai periodi: 1969-1974 e 2010-2014 Cronologia essenziale leggi urbanistiche e per la casa in Italia
137 142
Bibliografia
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La città è: “il più riuscito tentativo da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive in funzione delle sue più intime aspirazioni. Ma se da una parte la città è il mondo creato dall’uomo, dall’altra è anche il mondo in cui è condannato a vivere. Così, costruendo la città, l’uomo ha ricostruito, indirettamente e senza rendersene completamente conto, se stesso.” Robert Park
INTRODUZIONE INTRODUZIONE
L’esplosione dell’emergenza abitativa di questi ultimi anni ha riacceso il dibattito contemporaneo sul tema dell’abitare in Italia. Nel 2011 in Italia sono stati ordinati 63mila sfratti di cui ben 56mila per “morosità incolpevole”1. Un dato preoccupante, soprattutto se si pensa che più della metà sono stati eseguiti dalle forze dell’ordine, in un Paese già attraversato da molte tensioni. Ad aggravare questa immagine, è lo scompenso che ammonta tra i 694.000 alloggi invenduti ed i 583.000 che invece servirebbero a colmare buona parte dell’emergenza di alloggi popolari.2 Gli sfratti per morosità in Italia sono aumentati da un 12,9% del 1983 ad un 80% nel 2007 registrando un progressivo impoverimento della popolazione. L’incidenza degli affitti sul reddito supera, in molti casi, l’1/3, mentre il mercato degli affitti si dimostra rigidamente bloccato prediligendo le vendite immobiliari.3 Nonostante l’aggravarsi della crisi, la “questione delle abitazioni” è stata marginalizzata dall’agenda politica a partire dagli anni ’90, cioè dalla fine del Piano Casa, il dibattito sulle case popolari è arrestato al livello di una denuncia latente sulle condizioni di degrado delle periferie. Parallelamente a questi ultimi anni assistiamo ad un nuovo processo di rivendicazione dei diritti sociali, sfociato in un largo movimento nazionale di occupazione a scopo abitativo. La composizione sociale che caratterizza queste lotte è molto variegata, e spazia da giovani studenti fuorisede al precariato metropolitano, dai migranti alle famiglie sfrattate per “morosità incolpevole. Le rivendicazioni si intrecciano a quelle dei grandi movimenti territoriali nazionali contro le grandi opere, come la TAV, l’EXPO, il ponte sullo Stretto ecc. A partire dalla composizione e dai contenuti di queste lotte si denota la presenza di un analisi che trascende dalla costruzione di nuove case popolari e abbraccia un ambito più ampio legato all’abitare 1
critico4 ed ad una ridistribuzione del reddito più equa. Il momento, fino ad oggi, più rappresentativo mediaticamente è stato il corteo nazionale del 19 ottobre del 20135. Uno sciopero generale indetto dai sindacati di base e dalle realtà autonome, sul tema del diritto all’abitare6. Lo spazio urbano appare saturo di costruzione, il fallimento dello sviluppo delle città contemporanee si legge attraverso i “non finiti” e le grandi opere abbandonate, appena fuori dai centri storici e commerciali, tra il degrado del suburbio e quello della periferia, delle grandi metropoli. In queste città noi abitiamo. “Abitare è come un settimo senso, è parte dell’essere. (…) Dalla casa all’abitare vuol dire per l’architettura come per la politica rendere più solido questo rapporto, vuol dire pensare oltre la casa.”7 In questo nuovo clima culturale, che sollecita il governo del Paese a ripensare alle proprie risorse ed alle proprie priorità, è messa in crisi l’immagine dell’architettura contemporanea. Impegnata in un opera di spettacolarizzazione debordiana, l’immagine dell’archi‐star, sembra essere la figura più distante dai grandi temi sociali ed urbani a cui l’architettura è naturalmente legata. 8 Nel 2012 la Biennale di Architettura di Venezia, diretta da David Chipperfield, ha come titolo e “parola d’ordine” Common Ground. La mostra si interroga sulla distanza tra professione e società. “Questa Biennale, che ha luogo in un momento di grande preoccupazione economica a livello globale, ci dà la possibilità di riconsiderare da un diverso punto di vista i singoli, innegabili, conseguimenti architettonici che hanno contrassegnato l’identità degli anni recenti e di stimolare una più intensa valutazione dei nostri obiettivi e attese comuni. Il tema della Biennale era una provocazione rivolta ai miei colleghi affinché dimostrassero il loro impegno in questi valori comuni e condivisi; li incitava ad abbandonare la presentazione monografica della loro opera per mirare invece a un ritratto delle collaborazioni e affinità presenti dietro al proprio lavoro.”9 Tra i vari padiglioni si nota la ricerca di una corrispondenza mancata tra progetti ed usi alternativi, di una riconsiderazione riguardante le “superfetazioni di sopravvivenza”, la visione dalla città partecipata e socializzante, ma soprattutto il grande tema che emerge è quello della riappropriazione. A vincere il Leone d’Oro per il miglior progetto è uno studio sulla Torre David, a Caracas, grattacielo non finito ed abbandonato, trasformato nella più grande occupazione al 2
mondo a scopo abitativo.10 Il gruppo Urban‐Think Tank, ha riportato all’attenzione il lavoro di una comunità che in maniera informale, attraverso la riappropriazione ha trasformato una costruzione non finita in una casa, costruendo una nuova identità. Ritorna quindi l’esigenza di ripensare al grande tema dell’abitare. Dagli usi pubblici dello spazio urbano, vissuto da tutti, con percezioni differenti, alla riappropriazione degli spazi vissuti, il primo approccio più intimo che gli uomini vivono, è quello con la propria abitazione domestica. «Abitare è essere ovunque a casa propria»11, ma quale idea di casa ha sviluppato l’uomo metropolitano? Di fronte ad una nuova emergenza sociale, quali possono essere le soluzioni architettoniche alla luce delle incomprensioni tra progetto ed uso che hanno caratterizzato le nostre città? Da qui parte l’esigenza, per la cultura architettonica più avvertita, di riprendere il tema da dove è stato “lasciato”. Il lavoro di tesi si incentra sulla casa popolare, che rappresenta il fulcro della ricerca architettonica contemporanea, frutto delle analisi, delle sperimentazioni linguistiche e tecnologiche e dei rapporti di potere tra chi costruisce e chi vive la città. Il lavoro riattraversa alcune fasi della storia dell’architettura a noi più vicine, che hanno sedimentato alcune interessanti sperimentazioni a Napoli. A partire dall’osservazione di alcune opere emblematiche, è possibile rintracciare, attraverso le caratteristiche spaziali, delle forme e del metodo progettuale, le differenti interpretazioni che le principali correnti architettoniche hanno sviluppato sulla scena nazionale. I progetti selezionati sono prodotti da studi professionali rilevanti, ed i finanziamenti sono pubblici e legati a dinamiche urbanistiche e di pianificazione. Ad ogni capitolo corrisponde un excursus storico legato alla storia dell’architettura, alle politiche urbanistiche e sociali a partire da esperienze reali che hanno attraversato una precisa area metropolitana di Napoli, l’area Est, con particolare attenzione attorno allo sviluppo del quartiere di San Giovanni a Teduccio. La scelta dell’area è dovuta a più motivi: qui si instaura il primo insediamento industriale più vicino alla città; il quartiere gode della presenza di differenti stabilimenti industriali che connotano una pluralità di tipologie architettoniche ed incrementano la costruzione di infrastrutture; il legame storico con lo sviluppo urbano è legato anche ad una propensione naturale dovuta alla geografica linearità della linea di costa e alla generosità del territorio; questo legame con la città si mantiene costantemente, anche nei molteplici studi urbanistici per i piani regolatori che negli anni vengono pensati per la città; infine è riscontrabile una partecipazione di 3
abitanti ed utenti abbastanza attiva rispetto ai fenomeni che l’hanno attraversata; resta quindi tutt’oggi un area di grande interesse strategico, il cui sviluppo rappresenta un tema caldo dell’agenda politica napoletana. L’approccio metodologico è orientato al raggiungimento di uno scopo che «consiste nel coinvolgere e nell’attualizzare, nel riproporre il passato come momento insostituibile per capire la stagione contemporanea, nel vederlo non passivamente, come dato da subire ma come scelta da accettare o respingere, recuperandolo in chiave moderna o condannandolo.»12 L’analisi dimostra costantemente l’intreccio tra architettura, urbanistica, politica, cultura ed avanguardia che alimentano il tema della casa popolare e, più in generale, plasmano la città. La lettura storica dello spazio urbano parte dal periodo Borbonico in cui la città esce dalle sue mura di cinta e si avvia al processo di industrializzazione. La ricerca termina con la fine degli anni ’80, che rappresentano la fine dell’ultima stagione di interesse legata alla progettazione a grande scala per l’edilizia pubblica a scopo residenziale in senso classico. Secondo le analisi che Henry Lefebvre rivolgeva alla città moderna, il processo industriale (oggi rappresentato nel modello neoliberista) necessita di luoghi fisici, per il suo sviluppo produttivo, economico ed organizzativo, scontrandosi con quelli già destinati ad altri usi. Così i nuovi usi entrano in conflitto con lo spazio urbano e lo producono, lo plasmano, lo addomesticano. L’esplosione della città dà luogo a quello che chiamiamo “tessuto urbano”, cioè una maglia di reti e agglomerati che come un ecosistema si sviluppa risparmiando alcune frazioni e zona agricole che restano inalterate, ma del tutto spaesate all’interno della rete stessa. Questo tessuto è un supporto “di un modo di vivere” che è la società urbana. Tale modo coinvolge sistemi d’oggetti e sistemi di valori. I sistemi di oggetti sono tutti i servizi necessari, o ritenuti tali, alla vita urbana, quindi: acqua, gas, elettricità, automobili, elettrodomestici, mobili di arredamento ecc. I sistemi di valore, urbani, sono: lo svago cittadino nel tempo libero, le mode del momento, il bisogno di sicurezza, la garanzia del domani. Tutte le contraddizioni che si rafforzano in questo disegno, come il rapporto tra ruralità e urbanesimo oppure tra proletariato e padrone o, ancora, produzione e vita sociale,non scompaiono, restano in modo conflittuale a formare altri gruppi, aggregazioni e luoghi. «Nel 4
quadro urbano le lotte di fazione, di gruppo, di classe,rinforzano il senso di appartenenza. Le lotte politiche tra popolo minuto, popola grasso, aristocrazia, hanno per terreno e per posta la città. Questi gruppi sono rivali in amore per la loro città.»13 1
Repubblica Inchieste, “L’Italia sotto sfratto”, http://inchieste.repubblica.it , 12 maggio 2013
2
Dati: Nomisma e Federcasa, cfr Repubblica Inchieste, http://inchieste.repubblica.it
3
Francesco GAROFALO, Housing Italy L’italia cerca casa, Biennale di Venezia 2008, padiglione Italia. Cataloghi MaXXi, 2008
4
5
Francesca Iovino, babel² Diritto alla città, Forte Pressa, Roma 2012
Senza casa non ci so stare. Inchiesta, da http://www.contropiano.org/ , 04 Marzo 2014
6
David HARVEY , Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, 2012
7
Francesco GAROFALO,op. cit.
8
Franco LA CECLA, Contro l’architettura, Bollati Borighieri, Torino 2008
9
David Cipperfield, Commond Ground, in: http://www.labiennale.org/it/architettura/archivio/mostra‐13/chipperfield/
10
Biennale di Venezia: I Leoni, in: http://www.domusweb.it/it/notizie/2012/08/29/biennale‐di‐venezia‐i‐leoni.html
11
Ugo La Pietra, "La riappropriazione della città", Ed. Centre Georges Pompidou, Paris 1977
12
Bruno ZEVI, Architettura. Concetti di una contro storia, Newton & Compton, Roma, 2004
13
Henri LEFEBVRE, Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970 p. 21
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1. Sviluppo urbano di una città europea Napoli fuori le mura: tra infrastrutture e risanamento Il “casale industriale” di San Giovanni a Teduccio
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NAPOLI FUORI LE MU NAPOLI FUORI LE MURA: TRA INFRASTRUTTURE E RISANAMENTO
Dal periodo che va dai Borbone alla Prima Guerra Mondiale, nonostante la lentezza del processo e la resistenza di una cultura ecclesiastica e feudale ben radicata, anche l’antica città di Napoli, come le principali città europee, si prepara ad un nuovo sviluppo urbano. La guerra di successione spagnola si concluse con il trattato di Utrecht (1713), il regno di Napoli, privato della Sicilia, passò all’Austria ma venne poco dopo riconquistato dagli spagnoli con un esercito capitanato dal giovanissimo Carlo di Borbone che ne divenne il sovrano assoluto (1734). « Napoli fu pervasa da un fervore nuovo, soprattutto nei lavori di pubblica utilità. Questi lavori dovevano predisporre la città al nuovo ruolo di capitale del Regno, ma allo stesso tempo diventare trainanti per l’economia cittadina»1 . Numerosi erano gli artisti, i pensatori ed i nobili che da tutta Europa giungevano in città “consumandone” le bellezze e portando ricchezza e cultura. Le mura, che, ormai, con le nuove tecniche belliche e l’uso della fanteria, avevano perso l’antico ruolo difensivo,furono in parte demolite ed in parte utilizzate come cinta daziaria; la città in espansione demografica smette di crescere su se stessa ed inizia ad espandersi lungo la costa e risalendo le colline2. Gli interven-ti esterni alla città, e la propensione ad uscire dai vecchi confini, furono parte integrante del programma urbanistico intrapreso dai Borbone. Gli interventi infrastrutturali che legavano il centro della città a nuove importanti costruzioni permisero l’inurbamento di zone esterne all’antico perimetro che fino ad allora risultavano essere volte alla vita contadina con una limitata densità demografica. In tal senso, fu strategica la costruzione di architetture magniloquenti, come nuovi punti di riferimento urbani. Le nuove residenze reali: la Reggia di Portici (1742), che diede una forte spinta alla città verso i territori vesuviani; la Reggia di Capodimonte (1757), con il bosco, ma anche la grande costruzione, a scopo filantropico, del Real Albergo dei Poveri (1749). Quest’edificio, progettato da Ferdinando Fuga (1699–1781), fu posto come ad indicare un nuovo ingresso della “città aperta”, anche sul versante Nord-Est, l’imponenza che presentava nel tessuto urbano si rifletteva nell’accurata ricerca prospettica.
Immagine di copertina. Evoluzione urbana della lnea di costa.
Vista panoramica della mappa del Duca di Noja. Prospettiva dalla Reggia di Portici. 1775
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L’edificio era destinato ad accogliere una parte della popolazione che riversava in quel periodo nelle strade di Napoli senza dimora e operò come primo grande edificio per abitazione popolare, collettiva3. Un’ulteriore apertura vi fu verso Ovest, con la sistemazione del quartiere Chiaja (1692) che venne pre-sto inurbato da palazzi dell’aristocrazia e borghesia napoletana e fu sublimato dalla disposizione della Real Villa (oggi Villa comunale) che affacciava sul lungomare. La dimensione della città settecentesca, che utilizza nuove geometrie prospettiche integrando l’architettura in una nuova composizione urba-na mette in crisi il modello tardo barocco che si andava perdendo in molte città italiane ed europee4. Nella pianta del Duca di Noja questa nuova configurazione della città si legge chiaramente; ma ancor meglio risulta alla veduta prospettica contenuta stessa pianta e inserita nell’ampia ansa del golfo. La scelta del punto d’osservazione è di per se significativa: la città è vista dalla strada costiera che mena alla Reggia di Portici. Questa prospettiva, del tutto nuova rispetto alle vedute del Seicento, consente di leggere Napoli con occhi nuovi, e ci dà la dimensione acquistata dalla città nel corso del Settecento5. Rinforzato il collegamento per la strada che dalla zona del mercato attraverso il ponte della Madda-lena porta alla Reggia di Portici, i comuni della pianura vesuviana come, S. Giovanni a Teduccio, Barra, S. Giorgio a Cremano, Portici, Resina e Torre del Greco, videro un rapido incremento produttivo e de-mografico. Tutti i casali ebbero uno sviluppo intenso, e numerose ville furono edificate. «Ci troviamo di fronte ad un fenomeno che non è solo architettonico, ultimo bagliore di una raffinata stagione arti-stica, ma anche economico; esso contribuì all’elaborazione di un paesaggio agrario che fu suggestivo non meno che redditizio. La villa reale o il casino gentilizio non sono più, come nel ‘500 e nel ‘600, le residenze estive dei signori. La villa ora è un’azienda agricola. Se è vero che i grandi investimenti di capitali vennero assorbiti il più delle volte dalla monumentalità delle fabbriche e dalla lussureggiante varietà dei parchi in cui le fabbriche stesse erano immerse, è anche vero che l’opera di sistemazione dei siti ebbe effetti positivi sulla trasformazione produttiva delle campagne. I profitti dell’agricoltura, del resto, costituivano tuttora la principale fonte di reddito dell’aristocrazia meridionale: i nobili trascorrevano i mesi estivi in queste residenze, lasciando che i coloni curassero i fondi per il resto dell’an-no. Venne così a crearsi una un ceto agrario borghese che nel Settecento, e ancora di più nell’Ot-tocento, finirà con l’assumere un ruolo di primo piano nello sviluppo delle campagne meridionali.»6 La riorganizzazione della produzione e la trasformazione del paesaggio agrario furono agevola-te dall’eccezionale fertilità del suolo d’origine vulcanica, solcato dai filari delle vigne e coltivato per ampi tratti a orto e frutteto.7 Si assiste in sostanza ad una graduale trasformazione dell’eco-nomia e quindi della società feudale; ma il mutamento è lentissimo, le istituzioni feudali resistono
Teatro San Carlo, progettato da Giovanni Antonio Medrano per volere di Carlo III di Borbone. 1737
Nuovo ingresso alla città. Real Albergo dei Poveri. 1749
Reggia di Portici. Vista dalla Strada per le Calabrie. XVIII sec. 8
alle correnti illuministe che attraversavano il ‘700 napoletano ed iniziarono a radicarsi in Europa. Nel 1799 la nuova schiera di politici letterati, con idee progressiste, vicine al modello di borghe-sia parigina, riuscì ad organizzarsi insorgendo contro la corona ed affermando un nuovo model-lo democratico, nacque la Repubblica Napoletana. Lo stesso anno il re Ferdinando accompa-gnato da Cardinale Ruffo ed un esercito di “sanfedisti” marciarono su Napoli reinstaurando il Governo borbonico e perpetrando una violenta repressione nei confronti dei repubblicani. Dopo pochi anni, nel 1806, il Reame borbonico s’interruppe nuovamente, in questo decennio s’inse-diò un governo bonapartista, che con l’occupazione di Napoli trovò il suo sbocco sul mediterra-neo. Furono attuate numerose riforme a modello francese per riorganizzare lo stato su più aspetti. Con la legge del 1806 si attuò la riforma dell’amministrazione, venne nominato un sindaco, il regno venne diviso in 13 province, e Napoli in 3 distretti con capoluoghi Pozzuoli e Castellamare. Fu istituito il “Corpo Reale di ponti e infrastrutture” un organo dedito allo studio tecnico per le grandi opere infrastrutturali. Gli interventi urbani insistevano sul prolungamento verso i confini della città non ancora urbanizzati. Fu costruito il Corso Napoleone,con il cosiddetto ponte della Sanità (progettato da Gioacchino Avellino e Nicola Leandro) che dal centro antico si prolungava sino alla Reggia di Capodimonte. Fu potenziata Via Foria fino al Campo di Marte, incoraggiando ancora una volta questo ingresso alla città che si apriva in prospettiva lungo l’Albergo dei Poveri. Infine fu realizzata la strada che dopo la Villa Reale risaliva Po-sillipo fino alla Discesa di Coroglio, verso Bagnoli, eliminando ancora un’antica delimitazione naturale. Venne fatta una riforma tributaria che permise l’incameramento diretto da parte dello Stato a tutti i beni Ecclesiastici. «Se la soppressione dei monasteri sortì i suoi effetti sull’organizzazione del centro ur-bano, l’altra grande e storica questione dell’eversione della feudalità, che era stata al centro del dibat-tito illuministico, fu affrontata con misure assai più caute ed in effetti inoperanti. I baroni costituivano una oligarchia troppo radicata e potente nella struttura sociale del regno»10. Il Re Ferdinando, per questi motivi, riprese di lì a poco, nuovamente il controllo della città, questa volta la restaurazione non fu vio-lenta, ma seguì una linea leggermente più progressista in continuità con il governo appena debellato. La massima dimostrazione di modernità e ricchezza del “nuovo” regno dei Borbone fu data quan-do nel 1839 fu inaugurata la ferrovia di Pietrarsa, prima in Italia. Addirittura lo Zar dalla Russia, ven-ne a visitarla studiandone il modello per il complesso ferroviario di Kronstadt. Questa grande opera ingegneristica, venne costruita, appunto, dall’Opificio di Pietrarsa, che si dimostrò una prestigiosa industria siderurgica che funzionò da volano per lo sviluppo nell’area orientale11. La fabbrica, diven-ne il vero fiore all’occhiello del meridione, contava più di 1000 operai, giusto il doppio dell’Ansal-
Ville vesuviane. Paesaggio agreste XVIII sec
Stampa dell’epoca. Repubblicani napoletani 1798-1800.
Repubblica Napoletana. 1799
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do, altra industria italiana siderurgica genovese, in grado di competere con le industrie londinesi12. L’area orientale, da San Giovanni a T educcio fino a Castellammare, vide una trasformazione rapida e spontanea da zona agricola, a zona industriale. Non a caso, le nuove attività industriali tendevano a svilupparsi, in tutte le città, vicino alle fonti di energia, ai mezzi di trasporto, alle riserve di mano d’opera. Con L’Unità d’Italia, Napoli continua ad esercitare una forte capacità di attrazione, anche rispetto alle bellezze naturali ed artistiche, riconfermando nel contempo la sua identità di città di consumo13. Le iniziative industriali, urbane e di organizzazione amministrativa che vennero portate avanti tesero ad instaurare un nuovo modello nazionale, vicino al capitalismo liberale, che tuttavia, raramente accolse le proposte più critiche della schiera intellettuale napoletana riguardanti le specificità di quella che sarà chiamata “questione Napoli”. I dati della popolazione denotano che la città soffrì un forte inviluppo dopo l’Unità «Se nel 1861 Napoli era la prima tra le maggiori città italiane per la popolazione residente, nel 1881 occupava per incremento l’ottavo posto»14. Le ripercussioni negative, dei primi tempi, sono leggibili anche sul piano industriale, testimoniate dal malcontento della classe operaia che in quegli anni iniziava ad organiz-zarsi. Ricordiamo i gravi incidenti che si ebbero all’Opificio di Pietrarsa, quando, a seguito di un ciclo di proteste contro il prolungamento degli orari di lavoro e l’abbassamento dei salari, nel giugno 1862 fu scatenata una brutale repressione e 4 operai vennero uccisi dalle baionette delle forze armate15. Gli interventi urbanistici, invece, continuavano a ricalcare i progetti borbonici e francesi, i più importanti furono prodotti a Chiaia ed in prossimità del Museo Nazionale. La densità di popolazione restava altissima in certe zone, soprattutto nel centro antico e nei nuclei residenziali rurali, vicini alle nuove fabbriche. Sorsero numerose organizzazioni filantropiche in tutte le principali città italiane, ma anche su questo piano le società napoletane non furono particolarmente operative ma si mantennero su un piano di denuncia. Tra le varie associazioni filantropiche citiamo: la società per le Case dei ceti poveri fondata da Matteo Schilizzi, l’Associazione di Mutuo Soccorso degli operai di Napoli fondata da Giuseppe Mazzini e la Società Filantropica Napoletana di Marino T urchi, che ebbe un importante ruolo nella sensibilizzazione per i risanamenti igienici e delle abitazioni popolari. Nel 1868 costruirono un esempio di casa collettiva, in linea con i migliori esempi distributivi europei e dotata di servizi igienici. Nel 1884, Nicola Amore, uomo di spicco molto vicino al Presidente del Consiglio Depretis, vinse le elezioni a sindaco. Lo stesso anno, scoppiò una grave epidemia di colera, che solo in città fece circa 7.000 vittime, soprattutto tra i proletari (così chiamati poiché non possedevano null’al-
Gioacchino Murat re di Napoli, stampa da incisione su rame XIX secolo
Come si presentava il Real Opificio di Pietrarsa a fine XIX sec.
Wanzel Franz. Ingresso di Garibaldi a Napoli 1860. 10
tro che la prole e la loro stessa forza lavoro), residenti nei quartieri più poveri. Le epidemie, infatti, erano dovute all’improvviso affollamento demografico dovuto alla rivoluzione industriale a causa delle condizioni a dir poco disagiate in cui viveva buona pare della nuova popolazione urbana. Questi processi comuni a molte grandi città europee, furono peraltro, denunciati già nel testo “la questione delle abitazioni” di Fredrich Engels del 1872: « La scienza naturalistica moderna ha dimostrato che i cosiddetti “quartieri cattivi”, nei quali sono pigiati gli operai, costituiscono le sedi d’incubazione di tutte quelle epidemie che di tanto in tanto affliggono le nostre società. Il colera, il tifo, la febbre tifoidea, il vaiolo ed altre malattie devastatrici diffondono i loro germi nell’aria appestata e nell’acqua inquinata di quei quartieri; non vi si estinguono quasi mai, per svilupparsi, non appena lo consentano le circostanze, in morbi epidemici, e allora sconfinano dai loro luoghi d’incubazione per invadere anche le parti della città più ariose e salubri, quelle abitate dai signori capitalisti Lor signori i capitalisti non possono permettersi impunemente di provocare malattie per la classe lavoratrice; le conseguenze ricadono anche su di loro, e l’angelo sterminatore imperversa fra i capitalisti con la stessa spietata imparzialità che fra i lavoratori. Non appena accertato scientificamente tutto questo, i borghesi filantropici s’infiammarono di nobile emulazione per la salute dei loro operai. Si fondarono società, si scrissero libri, si abbozzarono proposte, si dibatterono e sancirono leggi per intasare le sorgenti delle sempre ricorrenti epidemie. Si studiarono le condizioni abitative dei lavoratori e si fece il tentativo di porre rimedio agli avvenimenti più clamorosi.»16 I mutamenti urbani si generarono anche a partire dai differenti sistemi economici. I sovrani del-la città antica tendevano a centralizzare le ricchezze, investendole, in modo “improduttivo”, sul-la forma e la prosperità della città stessa, generalmente con una certa tendenza all’autocele-brazione. Con l’istaurarsi del sistema capitalistico liberale, le ricchezze accumulate furono rese mobili, e con la nuova organizzazione del tessuto urbanistico questo valore spaziava e muta-va in forme ben più complesse.17 Il piano che fu preparato per le grandi città europee interpreta-va, quindi tendeva a ristrutturare non solo la forma urbana a ma anche quella imprenditoriale. La situazione di emergenza, anche a Napoli, portò il comune ed il governo Depretis a varare un grande piano per il Risanamento, che fu il più grande piano urbanistico realizzato che la cit-tà abbia mai visto nel corso del ‘900. Si cercò di mettere ordine nel tessuto urbano tracciando una zonizzazione di classe che in parte già rispecchiava la realtà esistente riprendendo grosso-lanamente le linee hausmaniane. Il piano prevedeva un ampliamento della città verso Nord il
Michelina Di Cesare (1841-1868). Brigantessa campana. 1860
Paulus Fürst. Il medico della peste. 1656 11
rione Vomero- Arenella, ad occidente il rione Principe di Piemonte e Parco Margherita e ad orien-te nuovi rioni di case popolari e verso il mare con Santa Lucia ed il rione Margherita di Savoia.18 I criteri di progettazione furono molto accademici, gli assi stradali s’incontravano in piazze po-ligonali con una lottizzazione che differiva in base alla caratterizzazione “sociale” dei quar-tieri. Fissando un tipo di insula più piccola per i quartieri popolari, disposti verso est; ed un tipo di insula più spaziosa, per i quartieri borghesi, come quelli del Vomero, di Mergellina ecc. I maggiori intellettuali napoletani come Serao, Croce e Capasso si pronunciarono coralmente sulla ne-cessità di avviare un programma radicale contro lo stato di degrado della città, non immaginando che l’operazione potesse essere così violenta. Nei quartieri più poveri e popolosi gli abitanti vennero sradi-cati dalle loro abitazioni senza garantire soluzioni alternative. De Seta parla di un chiaro piano speculati-vo. Dopo gli espropri la ricostruzione venne affidata a ditte appaltatici. Vinse la Società per il Risanamen-to, che era composta solo per 1/5 di imprenditori napoletani, gli altri erano imprenditori del nord Italia. 57.000 abitanti furono espulsi dalle aree interessate, di cui circa 21.000 economicamente agiati si spostarono verso l’aria occidentale, dei restanti 36.000 il 60% ritornò negli stessi quartieri, mentre il 40% si sarebbe spostato verso i paesi vesuviani detti “della corona di spine”. In tal senso il problema delle condizioni sociali della “plebe” non venne risolto. «In certe zone, specie in quelle site al centro, l’estendersi delle grandi città moderne conferisce alla proprietà fondiaria un valore artificiale, che spesso aumenta sino a livelli vertiginosi; gli edifici che vi sono costruiti sopra, invece di elevare periferia, che le abitazioni per operai, o comunque piccole, si fanno rare e care e spesso addirittura introvabili; in condizioni del genere, infatti, l’industria edilizia, a cui abitazioni più care offrono un campo di speculazione di gran lunga migliore, costituirà solo per eccezione case per i lavoratori»19. La Società per il Risanamento realizzò il corpo della città bassa e l’ampliamento dei rioni popola-ri. I nuovi rioni economici non hanno un ruolo urbano di spicco, sono considerate semplicemente delle quantità edilizie, in stile, per le residenze popolari. Nel regolamento edilizio si precisa che gli edifici dei nuovi quartieri popolari dovevano essere di 5 piani, senza botteghe al piano terra e sen-za tetti a falde. In seguito le quantità di alloggi vennero raddoppiate a parità di area. Le case degli operai dovevano essere prima di tutto economiche e quindi bisognava limitare i costi dei terreni, gli sprechi di spazio e dei materiali costosi. Per questi motivi si diffuse l’uso degli isolati a blocco. Nell’ambito degli studi per nuove tipologie abitative in grado di rispondere alle nuove richieste, l’archi-tetto Pier Paolo Quaglia, che provvedeva a coordinare l’ufficio tecnico della Società per il Risanamento, mise appunto un tipo di casa isolata a blocco, con cortile, per la distribuzione interna prevedeva cinque alloggi per piano con servizi ed furono eliminati corridoi ed ambienti poco o male illuminati.20 In questi
Stampe inglesi. La Peste Nera. XIX sec.
Veduta aerea della Avenida Richard Lenoir, i tipici viali intersecati da Haussmann a Parigi
Parigi dopo il Piano Georges Eugène Haussman. XIX sec. 12
anni fu di rilevante importanza la nascita dell’Istituto Case Popolari, che contribuirà, come vedremmo nei prossimi paragrafi, alla costruzione di interi quartieri definendo le dimensioni della città attuale.21 Seppure i lavori per il Risanamento diedero luogo ad un periodo di grande confusione tra cantieri e speculatori giunti ad approfittare della grande occasione, tutto questo costrui-re diede luogo alla possibilità di sperimentare un rifiorire di nuove forme architettoniche. In un primo momento la tendenza predominante fu quella dei revival. Le opere pubbli-che ed i primi quartieri di edilizia popolare denotavano uno stile neorinascimentale, le zone più borghesi come Piazza Sannazzaro e Piedigrotta sposano il neobarocco; nelle fabbri-che di LamonYoung il neogotico, in quelle di Adolfo Avena era adottato il neoromanico. Accanto a questi linguaggi infine, si manifestò lo stile Liberty o floreale. Intere zone, furono ac-comunate da questo stile, rilanciato anche dal primo piano urbanistico De Simone, che riusci-va a dare la sensazione alla classe intellettuale e regnante che Napoli potesse ancora compe-tere con le grandi città europee. I luoghidove si manifesta maggiormente questo stile sono vari; il Vomero “alto” riscendendo la collina verso via Palizzi fino a Piazza Amedeo, l’intero asse Filangieri e via dei Mille progettato da Giulio Ulisse Arata(1881-1962), e non mancarono nu-merosi esempi singolari nelle zone di Posillipo, Corso Vittorio Emanuele e Parco Margherita. Il piano per il “risorgimento economico”, varato nel 1904, fu un tentativo di far fronte ad una cre-scita industriale che si mostrava lentissima rispetto a quella delle altre grandi città, soprattutto considerando il gran numero di abitanti, e l’importanza che la città stessa continuava a rivestire.22 Il Governo Giolitti, e la “Reale commissione per lo sviluppo di Napoli” guidate da Nitti approva-rono il piano che di fatto non indicò la strada per lo sviluppo di un settore specifico, ma si limitò nel potenziare le infrastrutture e soprattutto stabilì una nuova zona di espansione industriale, in-sediando il grande impianto dell’Ilva a Bagnoli, condannando in maniera in riparabile il futuro paesaggistico e la possibilità di differenti sviluppi di quell’area, inoltre venne trascurata la zona orien-tale e settentrionale della città. Su quest’onda un ultimo tentativo di risistemazione interna alla città venne concluso nel 1914 con il piano urbanistico De Simone, che come si evince del testo e dalla mappa puntò a riorganizzare l’assetto della città in chiave prettamente capitalista. Le zo-nizzazione delle aree furono progettate ed argomentate secondo canoni classisti e funziona-li, seguendo le linee orografiche e attitudinali preesistenti, anche se il piano non venne realizzato. La città in crescita continuava a svilupparsi e stratificarsi su se stessa. Bisogna-va avviare un nuovo ragionamento sui confini della città, nonché sulle zone di espan-
Fotografia. Lyon, 1855.
Cerimonia inaugurale per i lavori del risanamento. Napoli
Funicolare di Montesanto. Napoli inizio XX sec. 13
sione, dove la città già da tempo si proiettava. In questa direzione fu compiuto un importante passaggio amministrativo sull’allargamento formale dei confini della città. Su proposta di Francesco Saverio Nitti i comuni dell’antica “cintura di spine” furono aggregati a Napoli. Abolendo i dazi e inglobando tutte queste zone nello stesso comune sarebbero state favorite sia le attività commerciali che produttive ed anche il prestigio della città in termini dimensionali ed industriali ne avrebbe beneficiato. Tra il 1925 ed il 1927 vennero annessi Barra, Ponticelli, San S. Giovanni a Teduccio, S. Pietro a Patierno, Soccavo Pianura, Chiaiano e Nisida; mentre Miano Marianella e Piscinola furono già annesse nel 1865. «Iniziava di fatto, con l’aggregazione alla città, un processo di trasformazione urbanistica dei casali e del loro contesto immediato che avrebbe raggiunto nel secondo dopoguerra ritmi ed intensità assai elevati: nella ricerca di assetti più moderni, secondo criteri organizzativi d’altro canto corrispondenti agli obbiettivi politici ed ideologici dei ceti e gruppi dominanti, la fascia periferica costituita dai territori degli ex comuni autonomi veniva ad essere configurata come il “recapito finale” di quanto “infrastrutture, impianti, oppure strati sociali” la città dei monarchici o dei clericali, Ferrovia Metropolitana. Progetto con le relative “clientele padrone” di speculatori e“palazzari”, riteneva preferibile rimuovere a sé»23 . Lamont Young. Napoli 1874
Stampe ottocentesche. Questione Napoli. 14
IL “CASALE INDUSTRI IL“CASALE INDUSTRIALE” DI SAN GIOVANNI A TEDUCCIO
L’area dei casali della pianura vesuviana è sempre stata a stretto contatto con la città. Vi sono tracce di necropoli che testimoniano come in quei luoghi, già nel IV sec. d.C. insistevano degli “insediamenti satelliti” della città romana di Neapolis. I casali di Villa, S. Giovanni, Barra fino a Ponticelli si sviluppano a ridosso della zona paludosa che diventa per secoli un confine naturale con Napoli, ma lo sviluppo della città stessa, l’intensificarsi dello sfruttamento agricolo ed idrico del territorio nonché la naturale conformazione della costa del golfo, che favoriva una certa predisposizione infrastrutturale, mostrarono tutta l’area della pianura napoletana in continua sinergia.24 Le tipologie, che rinveniamo ancora oggi, erano strettamente legate alle attività che si svolge-vano, generalmente legate all’agricoltura, e alle condizioni sociali ed economiche dei cittadini.25 Le costruzioni più antiche sono associabili prevalentemente a case coloniche rurali, con giar-dini o orti, mentre durante il periodo di espansione Borbonica settecentesca, fu incremen-tata la costruzione di residenze nobili, specialmente nella zona più bassa, verso il mare, lungo la via Regia a San Giovanni a Teduccio e Barra. La presenza aristocratica ed anche lo svi-luppo industriale in queste aree fu intensificato dalla costruzione della prima ferrovia (1839). Questa compresenza di elementi, permise lo sviluppo di interessanti produzioni archi-tettoniche, le quali variavano tra la conservazione dei caratteri della cultura vernacola-re alle nuove importanti sperimentazioni tecniche legate alla Rivoluzione Industriale. Già dall’antichità, i tipi di residenze più comuni, al di fuori delle mura cittadine, erano la casa mononuclea-re o pluricellulare elementare, generalmente a base quadrilatera, su due o più piani e coperture che si dif-ferenziavano in base alla posizione geografica. Le tipologie che rinveniamo in molte città del mediterra-neo: arabe, greche e sicule hanno le stesse caratteristiche delle abitazioni rurali delle isole e lungo la costa campana.26 Le caratteristiche principali di questi casali sono: le murature piene; le coperture con terrazzo o a volta nelle zone vulcaniche, dove era possibile l’utilizzo di pietrisco leggero; rivestimenti bianchi in calce; tipologia per lo più a corte, con poche aperture verso l’esterno oppure a ballatoio con scale esterne.
Terra di Lavoro. 1690
Mappa Duca di Noja. Area S. Giov., Villa, Barra. 1775 15
Dalla mappa del Duca di Noja (1775) si denotano lotti rettangolari con fabbricati elementari ed allineati secondo direttrici obbligate. Le grandi varietà dimensionali e catastali dipendevano dal ceto degli utenti e dalle dimensioni della proprietà del suolo. La tipologia a corte assumeva un significato pratico e simbolico. Già dall’antichità, i tipi di residenze più comuni, al di fuori delle mura cittadine, erano la casa mononucleare o pluricellulare elementare, generalmente a base quadrilatera, su due o più piani e coperture che si differenziavano in base alla posizione geografica. Le tipologie che rinveniamo in molte città del mediterraneo: arabe, greche e sicule hanno le stesse caratteristiche delle abitazioni rurali delle isole e lungo la costa campana. Le caratteristiche principali di questi casali sono: le murature piene; le coperture con terrazzo o a volta nelle zone vulcaniche, dove era possibile l’utilizzo di pietrisco leggero; rivestimenti bianchi in calce; tipologia per lo più a corte, con poche aperture verso l’esterno oppure a ballatoio con scale esterne. Dalla mappa del Duca di Noja (1775) si denotano lotti rettangolari con fabbricati elementari ed allineati secondo direttrici obbligate. Le grandi varietà dimensionali e catastali dipendevano dal ceto degli utenti e dalle dimensioni della proprietà del suolo. La tipologia a corte assumeva un significato pratico e simbolico. le facciate, sul fronte strada, tendevano a conservare uno stile simile a quello del centro urbano, lo si denotava anche dai rapporti tra chiusi e pieni. La vita collettiva dei braccianti e il legame con l’orto, anche di sussistenza, erano caratteristiche importanti di questi insediamenti, che ritrovavano all’interno del cortile uno spazio di uso domestico. Contemporaneamente, lungo la pianura vesuviana, già nel 1500 sorgevano numerose ville aristocratiche, importanti e sontuose. Le ville riconosciute sono 122 in un territorio delimitato dalla pianura vesuviana.27 Queste ville potevano essere di due tipi, o “case delle delizie” e quindi luoghi di riposo, con rivestimenti raffinati e giardini, oppure le “dimore rustiche”, dove il padrone veniva ad alloggiare con la famiglia per alcuni mesi dell’anno a controllare il lavoro dei campi e vigneti annessi.28 Con l’intenzione di espandere i confini della città, verso le sue propaggini naturali, e controllare le già numerose residenze aristocratiche che si estendevano nel vesuviano, Carlo di Borbone fece costruire la Reggia di Portici, la località fu scelta anche per la vicinanza agli scavi archeologici, che iniziarono in contemporanea ai lavori della Reggia. I lavori che iniziarono nel 1738, furono commissionati prima al Medrano, poi ad Antonio Canevari, e nell’ultima fase anche da Luigi Vanvitelli (1700-1773) e da Ferdinando Fuga (1699-1781). Il Palazzo presenta una superba facciata con ampie terrazze e balaustre ed è costituito da una parte inferiore ed una superiore, divise da un vasto cortile attraversato dall’antica “Strada regia delle Calabrie. La grande “casa delle delizie” divenne una forte attrazione per tutta l’aristocrazia locale che incrementò la realizzazione di nuove ville.29
Casale della Barra. Mappa Duca di Noja 1775
Abitazione tipo Casali. 16
Insieme alla costruzione della Reggia, venne anche ampliata e rivalutata la strada che dalla zona mercato vi giungeva, tagliando il casale di San Giovanni. Nel 1749 Ferdinando Fuga fu chiamato a Napoli, nell’ambito del programma di rinnovamento edilizio del nuovo re Carlo III di Borbone, l’idea per l’area citata era quella di sviluppare un nuovo asse urbano, potenziando la via lungo il mare, che collegava i paesi vesuviani al centro di Napoli. Per dare un valore non soltanto infrastrutturale ma anche monumentale vennero costruite delle importanti opere lungo il percorso come la Caserma di Cavalleria Borbonica (1754), di Luigi Vanvitelli, al ponte della Maddalena al di fuori del Borgo Loreto; dopo il ponte sorse la maestosa fabbrica dei Pubblici Granai, incominciata a spese regie circa nel 1778. Questa fabbrica il cui fronte principale superava i 500 metri, era caratterizzata da un andamento monotono, fu adibita a magazzino per la raccolta del grano; altri ambienti vennero destinati ad arsenali di artiglieria e a fabbriche per cordami; più avanti sorgeva una curiosa e piccola costruzione, la Casina Cinese, a forma di pagoda, residenza estiva di un collegio, per giovani cinesi ed indiani, fondato dal un sacerdote missionario, Matteo Ripa; «ancora più innanzi si perveniva(…) alla marina delle tre torri, e cioè a quella par-te del litorale dove sorgevano tre antichi resti di molini all’altezza del casale di Pazzigno o Pozzigno.»30 L’insediamento settecentesco che si sviluppò sulla Via per la Reggia conservava un carattere produt-tivo nella zona paludosa e a carattere residenziale lungo la costa, la rete ferroviaria, di fatto, favorì en-trambe le attività. L’accesso dal mare, il potenziamento infrastrutturale resero l’area maggiormente accessibile al nuovo sviluppo industriale, fino a quando questo prevalse come attività caratterizzante. Il territorio, attraversato del piccolo fiume Sebeto, era caratterizzato per la presenza di paludi e ruscelli, a causa della continua attività vulcanica. Questi terreni erano impiega-ti per le coltivazioni di lino e canapa, in seguito fu possibile anche la coltivazione di vigne ed ortaggi e si intensificò la costruzione di mulini grazie alla bonifica avviata dagli angioini.31 A fine ‘800 San Giovanni a Teduccio presentava un territorio con cinquanta ettari di terreni aratori e 75° coltura agricola, con la produzione di 557 ettolitri di vino locale e 409 quintali di ortaggi. Sempre secon-do i censimenti riportati, il bestiame vivo risultava di 100 cavalli, 60 asini, 40 muli, 150 maiali e montoni e altro numeroso bestiame ovino per il macello. Un’altra attività largamente praticata era la pesca.32 Come già abbiamo in precedenza affermato le nuove attività industriali iniziarono a svilupparsi, come in tutte le città, vicino alle fonti di energia e di trasporto. Per più motivi il territorio di san Giovan-ni a Teduccio è quello più coinvolto dall’espandersi dell’attività industriale. Le paludi ed il Sebeto, permettevano l’uso dei mulini e facilitavano lo scarico diretto dei rifiuti industriali; per quanto riguarda i mezzi di trasporto, il porto e la ferrovia, erano quelli più efficienti della città; infine il pro-
Abitazione tipo Casali.
Ville Vesuviane. Fotografia Contemporanea S. Riccio
Ville Vesuviane. Fotografia Contemporanea S. Riccio 17
alla costante presenza di corsi d’acqua ed una preesistente componente artigiana e contadina in que-ste zone, la cui esperienza fu determinante per la costruzione e la lavorazione nelle prime manifatture.33 Si affermarono fabbriche di alcol (Cardone, Bordò, DeSimone, Iesu), fabbriche di di pasta (Orsini, Alberto Izzo e C., G. Chioppetti, Improta e i fratelli Savino ecc), I Mulini di Bod-mer e il deposito di legnami di Feltrinelli, le fabbriche di cuoi di Amato e Ganna, il gran de-posito di porcellane, cristalleria e maioliche Richard-Gironi; la fabbrica di carbon fossile di Raggio-Fischer. Un giornale dell’epoca riporta una dettagliata descrizione del mulino di Bodmer: «Lungo il lato destro del terzo tratto di strada diPazzigno si prolunga il grandioso e nitido Stabili-mento. Essoè composto di quattro corpi di fabbrica. Nel 1° a tre piani, si esegue il macinamento del frumento, che ha luogo anche la domenica. Nel pian terreno vi è la macchina a vapore, che mette in moto tutti i meccanismi che sono nel pian terreno stesso ad essa accanto e nei piani su-periori. La macchina occupa una superficie quadrata pari a 5 stanze di lato. Al 1° piano nella par-te postica del fabbricato,ed a perpendicolo sul locale della meccanica sono gli uffici. I due corpi di fabbrica, che seguono sono a due piani e sono depositi. Dietro la facciata postica di essi è la co-lombaia. L’ultimo dei 4 corpi di fabbrica è composto di altrettanti magazzini autonomi, coper-ti di tetto acuto alla svizzera: i due ultimi hanno la parte superiore in legno. Il tetto di tutti e 4 è poi formato da tegole di Marsiglia e si entra in ognuno di essi per l’uscio, aperto dalla parte po-stica, visibili tutti e quattro dalla sponda settentrionale del terzo ponte della Maddalena(…)»34 Queste strutture avevano in buona parte una forma subordinata al sostegno della macchina, mentre i restanti locali utilizzati per la manifatturazione ricordavano forme simili a quelle usate per l’edilizia abitativa. Con l’incalzare della specializzazione dei processi permessi dalla messa a punto di nuove macchine e soprattutto con l’introduzione, dell’energia artificiale si ebbe il passaggio alla piena età industriale. «Fu nelle costruzioni comuni, e destinate a scopi puramente pratici, e non nei revivals gotici o classici di primo ottocento, che si produssero dei fatti decisivi, quei fatti che portarono allo sviluppo di nuove possibilità.»35 Le fabbriche si sviluppano seguendo differenti modelli tipologici, che talvolta coesisto-no. I primi tesero ad adattare strutture già esistenti, compatibilmente con le destinazioni d’uso, op-pure ne vengono edificate di nuove strettamente funzionali che tendono a recuperare i caratteri del patrimonio esistente, che le circonda. Un altro modello tese a sviluppare nuove tipologie edilizie, che avevano un aspetto più funzionale ai meccanismi produttivi industriale, talvolta mossi da un ispirazio-ne “auto celebrativa” dell’imprenditore.
Vista prospettica della Reggia di Portici.
“Pubblici Granai”. Vista.
I Pubblici Granai sulla linea di costa. Planimetria.
18
La fabbrica assume un nuovo significato simbolico. Interpreta il cambiamento di una nuova vita comunitaria, di una nuova classe, quell’operaia, che abita questi luoghi e coscientemente svilupperà un importante ruolo sociale, culturale e politico nella storia moderna. La nuova organizzazione spaziale esce dalla fabbrica stessa, servizi residenziali e comunitari si sviluppano nelle vicinanze a spese dei dirigenti con spirito filantropico, ma soprattutto utili ad evitare dispersioni ti tempo e di lavoro. Nel1904 fu varata la Riforma per l’Incentivazione Industriale di Napoli. L’industria metallurgica e di materiale edile furono quelle che si svilupparono maggiormente. Le iniziative ed i finanziamenti principali riguardarono l’area ovest. Nonostante ciò le agevolazioni incrementarono lo sviluppo già avviato nell’area est. Solo nell’area del comune di S. Giovanni rinveniamo notizie di: fabbriche di combustibili agglomerati, officine per la lavorazione del ferro, rame e piombo, officine meccaniche, officine per l’illuminazione,fabbriche di mattoni, cemento e seghe, ma anche altre industrie tessili ed alimentari. Tra queste ricordiamo la più rappresentativa: La Corradini. Nel 1874 sorse uno stabilimento per la lavorazione di rame e ottone chiamato Deluy-Granier di proprietà del CarafadiNoja e Stefano Cas (Carafa, Cas&C.). questa fu ceduta a Giacomo Corradini, un imprenditore svizzero, che dopo la Riforma appunto fondò la “G. Corradini S.p.A.”. Questa fabbrica già sul finire del XIX secolo era specializzata nella produzione bellica. La sua posizione era strategica. Si trovava tra la ferrovia Circumvesuviana e il mare. Questo, come per Pietrarsa, obbligò uno sviluppo longitudinale sul demanio marittimo. «Sono qui ben rappresentate, in circa 3 mila mq. D’ingombro totale, le varie fasi di sviluppo tipologico dell’edificio-fabbrica ottocentesco e novecentesco che, dalle prime forme incerte a sviluppo verticale multipiano, tipiche degli impianti tessili, (da cui l’ipotesi di una preesistenza architettonica, estranea alla lavorazione metallurgica) evolve decisamente verso linee più moderne del capannone terraneo in muratura a campate multiple e coperture a tetto, giustificato infatti solo dalla disponibilità di sicure fonti di energia elettrica e meccanica. Sarà questo, come sappiamo, il tipo definitivo, ma dovrà ancora perfezionarsi sia nel disegno delle sottili capriate in ferro, che nella spartizione dello spazio interno, scandito ormai da pilastri e colonne in ghisa al posto dei muri di spina, fino a raggiungere le forme più evolute delle costruzioni interamente metalliche.»36 Tra fine ‘800 e inizio ‘900 la popolazione, solo nel comune si S. Giovanni a Teduccio, si decuplica. Nell’analisi catastale del 1874 e 1881 si denota la formazione di un nuovo tessuto edilizio attorno ai casali che rende evidente la trasformazione della borghesia cittadina legata al commercio e l’impoverimento delle classi subalterne.37
Dalle paludi all’industria. Immagine XIX sec.
Impianto industriale XIX sec. 19
Il sovraffollamento, restava contenuto nei vecchi casali, dove la popolazione viveva ammassata e in pessime condizioni igienico sanitarie rifunzionalizzando gli spazi in base al nuovo uso del territorio. Il risultato fu l’insorgere di gravi epidemie di colera, che in queste zone fecero tantissimi morti. Gli effetti del grande piano di Risanamento ed Ampliamento portarono ad un aumento della popolazione in queste zone, dove furono anche indicate e progettate alcune soluzioni abitative popolari che però non vennero realizzate. Oltre le sponde del Sebeto fu progettata una zona verde, che venne sostituita da un corso alberato indicando l’inizio dell’area industriale. Le costruzioni, invece, furono concretizzate nella prima fascia della zona est di Napoli, già infrastruttura. In particolare al Borgo Loreto e Arenaccia, tra piazza Carlo III e la Stazione Ferroviaria Centrale, la Società per il Risanamento costruì il primo grande ampliamento verso oriente con dei quartieri di edilizia economica che si avvicinavano alla zona industriale, realizzando, di fatto, i primi quartieri operai e popolari di Napoli. Il progetto fu iniziato nel 1907, sotto la guida di Pier Paolo Quaglia. L’impianto urbano era pensato come una grande scacchiera di grossi “familisteri”, dove ai piani terra erano predisposte botteghe con le annesse abitazioni. Le tipologie erano a blocco con isolati pluricortile, le scale interne poste sui lati, fornivano degli appartamenti senza corridoi, con stanze da letto, cucina e latrina, la ventilazione era aiutata dai piccoli cortili interni. Nel complesso queste soluzioni, nonostante le evidenti ed ancora bestiali condizioni di abitabilità, riscontrarono molto successo e vennero pubblicate dai manuali dell’epoca. Le decorazioni, previste dall’Architetto Benvenuti, erano molto semplici e rispondevano allo stile eclettico dell’epoca. Dal punto di vista formale queste architetture erano fortemente caratterizzate dei revival architettonici. Che a partire dal recupero del neoclassicismo nell’illuminismo e dello storicismo ottocentesco riproposero dei codici precisi del passato attraverso degli elementi prevalentemente estetici. Le poetiche ripercorse cambiano in base alle radici culturali dei paesi e spaziano tra il neogotico, neobarocco, neoromanico e neoclassico. Quest’ultimo affermatosi già nel ‘700 anche grazie alle grandi scoperte archeologiche del tempo, fu ripreso e fatto proprio dal potere imperiale ottocentesco e poi dalla borghesia, come stile riconosciuto delle classi dominanti. Di fatto i revival, in particolare il neoclassicismo, più che uno stile proprio è un linguaggio che ben si adattò lì dove si cercava un senso nazionale riconoscibile, infatti fu ripreso anche tra gli anni ’20 e ’40 nei periodi dei grandi totalitarismi in Italia, Germania, Russia e Stati Uniti. L’arte classica, inoltre, era quella che lasciava più spazio alla sperimentazione delle nuove tecnologie
Sezione tecnica di un mulino.
Mulino in legno. Immagine dettagli tecnici. 20
ingegneristiche, perché segue delle chiare metodologie progettuali, partendo da una certa sobrietà artistica, si lasciava adoperare nelle più disparate applicazioni pratiche e tecnologiche pur restando comprensibile. Quest’ultimo affermatosi già nel ‘700 anche grazie alle grandi scoperte archeologiche del tempo, fu ripreso e fatto proprio dal potere imperiale ottocentesco e poi dalla borghesia, come stile riconosciuto delle classi dominanti. Di fatto i revival, in particolare il neoclassicismo, più che uno stile proprio è un linguaggio che ben si adattò lì dove si cercava un senso nazionale riconoscibile, infatti fu ripreso anche tra gli anni ’20 e ’40 nei periodi dei grandi totalitarismi in Italia, Germania, Russia e Stati Uniti. L’arte classica, inoltre, era quella che lasciava più spazio alla sperimentazione delle nuove tecnologie ingegneristiche, perché segue delle chiare metodologie progettuali, partendo da una certa sobrietà artistica, si lasciava adoperare nelle più disparate applicazioni pratiche e tecnologiche pur restando comprensibile.
Opificio meccanico e fonderie”V. Godono”
Industria “Corradini”
Macchinari industriali. “Sardegna”
21
Note: 1Romano LANINI, Guglielmo TRUPIANO, Città, innovazione, trasformazione , F.lli Fiorentino, Napoli1988 2
Massimo ROSI , Napoli entro e fuori le mura : le trasformazioni urbanistiche, demografiche e territoriali di
un’antica capitale rimasta per troppo tempo vincolata dalle sue stesse mura , Newton & Compton, Roma 2004 3 4 5 6 7
Roberto PANE, Ferdinando Fuga, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1956 Arnaldo VENDITTI, Architettura neoclassica a Napoli, ESI, Napoli 1961 Cesare DE SETA, I casali di Napoli , Editori Laterza, Roma ,Bari 1989 Cesare DE SETA , Napoli, Laterza, Roma 1981, p. 216 Cristoforo LUCARELLA, San Giovanni a Teduccio : ...storia di una borgata napoletana, Arti Grafiche
Meridionali MASI, Napoli 1992 8 9
Pasquale VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Guida, Napoli 1978 Cesare DE SETA , Napoli, op. cit.
10
Idem
10
Centro relazioni aziendali FS, Da Pietrarsa e Granili a Santa Maria La Bruna, Napoli‐Roma, 1971
11 12
Cristoforo LUCARELLA, op. cit. Francesco Saverio NITTI, Scritti sulla questione meridionale, Lacatena, Bari 1978
13
Massimo ROSI , op, cit.
14
Cristoforo LUCARELLA, op. cit.
22
15
Friedrich ENGELS, La questione delle abitazioni , 1887
16 17
Henri LEFEBVRE, Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970 Benedetto GRAVAGNUOLO, La progettazione urbana in Europa : 1750‐1960 : storia e teorie, Laterza, Roma
1991 18
Friedrich ENGELS, Op. cit.
19
Gaetano AMODIO, Pier Paolo Quaglia. L'architetto del risanamento napoletano, Pacini, Pisa 2008
20
Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993
21
Cesare DE SETA, I casali di Napoli, Op. Cit. p. 38
22
Cristoforo LUCARELLA, San Giovanni a Teduccio : ...storia di una borgata napoletana, Arti Grafiche Meridionali MASI, Napoli 1992
23
Cesare DE SETA, I casali di Napoli , Editori Laterza, Roma ,Bari 1989
24
Idem
25
www.villevesuviane.net
26
Cesare DE SETA, Leonardo DI MAURO, Maria PERONE, Ville vesuviane , Rusconi immagini, Milano 1980
27
La tradizione vuole che la locazione fu lasciata decidere alla Regina Maria Amalia che, durante un temporale, a causa di uno sbarco di emergenza su questo versante del golfo, restò incantata dalla geografia del luogo. Re Carlo, acquistò due ville preesistenti e due grosse aree verdi ,quella del Conte di Palena e quella del principe di Santobuono, che furono integrate nella costruzione. Dal vestibolo si accede al primo piano attraverso un magnifico scalone lungo il quale sono poste statue provenienti da Ercolano. Nei primi tempi, infatti, il museo degli Scavi di Ercolano venne disposto all’interno della reggia, ed alcuni mosaici, ritrovati nella città antica, vennero riposizionati in diverse pavimentazioni, come anche le colonne in marmo rosso nella cappella barocca, a testimonianza della grande passione del Re e della Regina per l’archeologia. Un altro elemento di raffinata eccellenza locale, era il salottino in ceramica 23
prodotto dalla fabbrica di Capodimonte. Elemento tipico settecentesco, come per la Reggia di Capodimonte e di Caserta, sono i Giardini di cui la prima parte ricca di fontane, statue e grossi viali messi in prospettiva verso la facciata. Altri spazi di notevole interesse sono il giardino all’inglese, l’anfiteatro,ed il chiosco del re ad ancora le aree da caccia, la fagianeria e quelle per il gioco. 28
Cristoforo LUCARELLA, , Op. Cit. p.24
29
Roberto PARISI, Lo spazio della produzione : Napoli : la periferia orientale, Athena, Napoli 1998
30
Cristoforo LUCARELLA, , Op. Cit.
31
CENTRO DOCUMENTAZIONE E RICERCA PER IL MEZZOGIORNO, Manifatture in Campania : dalla produzione
artigiana alla grande industria , studi a cura dell’Associazione per l’archeologia industriale, Guida, Napoli 1983 Cristoforo LUCARELLA, , Op. Cit. 32 33
CENTRO DOCUMENTAZIONE E RICERCA PER IL MEZZOGIORNO, op. cit. 1
34
Ibidem
35
Cesare DE SETA, I casali di Napoli , Op. Cit.
36
Renato DE FUSCO, Napoli nel Novecento, Electa, Napoli 1994
24
1
Nuovo Piano di Risanamento ed Ampliamento della cittĂ di Napoli 1888 2
Pianta topografica della cittĂ di Napoli 1910 3
Progetto di Risanamento dei quartieri Bassi
1
2
3 25
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Mappa daziaria dei comuni di Napoli 5
Evoluzione della linea di costa. Mappa topografica del Duca di Noja 1775. Planimentria del Real Opificio 1815-40. I.G.M. 1995 6
In Evidenza le preesistenze di edifici storici su Corso S. Giovanni
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Fotogrfie di Mimmo Jodice. In "I Casali di Napoli"
Fotogrfie di Mimmo Jodice. In "I Casali di Napoli" 9
Fotogrfie di Mimmo Jodice. In "I Casali di Napoli"
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QUARTIERI ECONOMICI AL BORGO LORETO E ARENACCIA
Opere Trattate
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QUARTIERI ECONOMICI al BORGO LORETO e ARENACCIAE
scheda
Collocazione geografica: Via Arenaccia, Corso Garibaldi, Piazza Poderico. Progettista: ing. Piero Quaglia (Capo uff. tecnico della Società per il Risanamento di Napoli); Benvenuti, L. Martinoli Ente costruttore: Società per il Risanamento Anno costruzione: 1889-1893 Informazioni tipologiche: isolati a blocco Caratteristiche costruttive: fabbrica in tufo, solai piani in ferro e voltine in tufo Dati dimensionali: Area 90.000 mq; 59 edifici, 7400alloggi; 50.000 abitanti (5Ab/vano)
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Case Popolari, quartieri bassi analisi delle facciate
Dopo la grave epidemia di colera viene redatto a Napoli nel 1886 il Piano di Risanamento ed ampliamento. Vengono demoliti parte dei quartieri Porto Pendino, Mercato, vengono costruite in rettifilo nuove strade, si prevedono ampliamenti ad oriente della città. Il piano per il Risanamento prevedeva precise condizioni riguardo il regolamento edilizio, le insule potevano essere di due tipi: insule piccole, 60X60/90 m ; le insule grandi, 90X90/120m, erano quelle del Vomero, delle altre zone borghesi. Anche i reticoli stradali erano differenziati: nei quartieri dove i lotti erano grandi le strade ordinarie non superavano i 10-12 m mentre quelle principali erano di 20m più altri 5 di marciapiede; le strade ordinarie con i lotti più piccoli le strade ordinarie erano di 8 m le principali 29
Questo motivo fu ripetuto durante tutti i 70 metri di ogni corpo di fabbrica, fornendo 8 abitazioni per piano. Entrambe le facciate, est ed ovest furono scandite ritmicamente da coppie di terrazzini aggettanti protetti da ringhiere e da logge, poste sempre in maniera speculare ai lati. L’ultimo piano fu composto da un loggiato leggermente aggettante riproponendo il tema attico, presente nel progetto, furono posti lavatoi e stenditoi. L’edificio ha struttura in cemento armato con i piani seminterrati utilizzati per cantinole. Al piano terra furono previsti dei giardini condominiali che con gli anni diventeranno parcheggi per auto. È uno dei quartieri inglobato nell’abitato di Barra a Napoli1, configurato in via Egidio Velotti, nel medesimo territorio occupato dal rione D’Azeglio ed il Parco Azzurro, tutti elevati per opera dell’Istituto Autonomo Case Popolari, con l’eccezione che, in questo caso, le abitazioni vennero costruite tra il 1947-1948, dal progetto di Franz Di Salvo, autore anche delle Vele di Scampia, a Secondigliano. 2
Piano di Risanamento quartieri bassi 1866
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Insediamenti per le residenze economiche
La Società del Risanamento differenzia anche i suoi interventi: case signorili a blocco lungo i nuovi rettifili, isolati a più cortili, del tipo detto “familistei”, per l’edilizia economica operaia e popolare. Le costruzioni di edilizia economica e popolare furono concretizzate nella prima fascia della zona est di Napoli, già infrastruttura. In particolare al Borgo Loreto e Arenaccia, tra piazza Carlo III e la Stazione Ferroviaria Centrale, la Società per il Risanamento costruì il primo grande ampliamento verso oriente con dei quartieri che si avvicinavano alla zona industriale. Nasce in questi anni la prima periferia industriale operaia e popolare. Gli edifici realizzati erano quelli che utilizzano i criteri più redditizi e speculativi e quelli che eliminano tutte le decorazione. L’immagine che ne veniva e ne viene fuori ben coincide con quella che la scrittrice Matilde Serao descrisse come dei veri “caravan serraglio”. Il Piano comprendeva 90.000 mq di superficie coperta, cinquantanove isolati, 7.400 alloggi per circa 50.000 abitanti con un’organizzazione interna di cinque ab. per vano con uno sfruttamento di superficie dell’85%. Gli edifici hanno tutti dei cortili che potremmo, definire per lo spazio ridotto della pianta e l’altezza dei fabbricati, dei veri e propri cavedi. Gli isolati realizzati al borgo Loreto e all’Arenaccia a pianta rettangolare hanno all’interno fino a sei 30
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Insule al Borgo Loreto
cortili. Al piano terra, l ’ing. Quaglia realizzò case botteghe, mentre ad ogni singolo piano, sei alloggi composti da: cucina, bagno in loggetta ed un vano. Ai quattro piani si accedeva attraverso scale interne d’angolo. La struttura realizzata in tufo aveva solai piani in ferro e voltine in tufo. Furono previsti in un primo tempo anche coperture a falde inclinate, ma le varianti che seguirono alla prima stesura del progetto, non solo eliminarono le coperture inclinate, ma concessero anche l’innalzamento di un piano agli edifici. Dal punto di vista formale queste architetture erano fortemente caratterizzate dei revival architettonici. Che a partire dal recupero del neoclassicismo nell’illuminismo e dello storicismo ottocentesco riproposero dei codici precisi del passato attraverso degli elementi prevalentemente estetici. Le poetiche ripercorse cambiano in base alle radici culturali dei paesi e spaziano tra il neogotico, neobarocco, neoromanico e neoclassico. Quest’ultimo affermatosi già nel ‘700 anche grazie alle grandi scoperte archeologiche del tempo, fu ripreso e fatto proprio dal potere imperiale ottocentesco e poi dalla borghesia, come stile riconosciuto delle classi dominanti. Di fatto i revival, in particolare il neoclassicismo, più che uno stile proprio è un linguaggio che ben si adattò lì dove si cercava un senso nazionale riconoscibile, infatti fu ripreso anche tra gli anni ’20 e ’40 nei periodi dei grandi totalitarismi in Italia, Germania, Russia e Stati Uniti. L’arte classica, inoltre, era quella che lasciava più spazio alla sperimentazione delle nuove tecnologie ingegneristiche, perché segue delle chiare metodologie progettuali, partendo da una certa sobrietà artistica, si lasciava adoperare nelle più disparate applicazioni pratiche e tecnologiche pur restando comprensibile.
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Dettaglio planimetrie interne 31
Bibliografia essenziale: CAMERA DEI DEPUTATI , Progetto di massima per la costruzione di case economiche per le classi operaie miste in Napoli, Roma, 1887 Società cooperativa per costruzione di case economiche operaie, con sede in Napoli: Statuto, Tip. Bideri, Napoli 1889 Nicola DEL PEZZO, I casali di Napoli / Napoli nobilissima : rivista di topografia ed arte napoletana, Vol.1, 1892 C. REBESCHINI, Le opere della Societa pel risanamento di Napoli : lo stato attuale dei lavori, Tip.Bernardoni, Milano 1894 Alessandro RUBINACCI, Le case popolari ed economiche nella provincia di Napoli, G. M. Priore, Napoli 1910 Pasquale VILLARI, La questione di Napoli e le case popolari , Nuova antologia, Roma1910 Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993
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2. La questione delle abitazioni a Napoli La macchina per abitare. Il dibattito urbanistico a Napoli tra le due guerre: il Piano del 39’ Nascita dell’IACP ed i primi quartieri popolari nell’aria orientale durante il fascismo
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La macchina per ab LA MACCHINA PER ABITARE
Il pensiero tardo illuministico che si sviluppava attorno al concetto fiducia nel progresso tecnologico e l’invenzione delle macchine, si radicò nella coscienza collettiva della nuova civiltà urbana. La ripresa del classicismo, con alcune delle sue formule antiche, come la triade vitruviana “Firmitas, utilitas, venustas”, o il contetto naturalistico di Lamarck “la forma segue la funzione”, forniscono le basi pratiche per un nuovo codice architettonico, cioè quello razionalista.1 Dopo la prima guerra mondiale, si avvisò un atteggiamento differente nei confronti della storia. In un epoca in cui la rottura con la storia segna il suo passo, e i grandi eventi bellici e rivoluzionari mutarono le certezze incoraggiando ad un cambiamento positivo. L’atteggiamento critico delle personalità che segnarono quest’epoca, vive nei grandi filoni culturali e nelle sperimentazioni artistiche ed architettoniche che modellano le basi della modernità.2 «L’architettura è condizionata dallo spirito di un epoca e lo spirito di un’epoca è fatto della profondità della storia, della nozione di presente, del discernimento dell’avvenire.»3 L’avanguardia figurativa, del movimento moderno, coglie in ogni mutevole forma sensibile ogni cambiamento dell’uomo e si allontana definitivamente dalla visione “consolatrice” e rappresentativa, della arte “classica”, per divenire arte critica, rivolgendosi alle masse. La rottura col passato e il distacco dalla raffigurazione naturalistica dello spazio, furono interpretate dal pensiero cubista, che fece avanzare la ricerca oltre un equilibrio simmetrico e decorativo, raggiungendo un nuovo immaginario di spazio. Walter Gropius (1883-1969) affermava che «il fine ultimo di ogni arte decorativa è l’architettura»4 , è possibile sostenere che nell’architettura razionale, coesistono tutte le tracce tutte delle avanguardie. Le nuove forme nacquero dall’appropriazione delle nuove tecnologie e da un forte impulso di rivolta verso le architetture dogmatiche dei totalitarismi borghesi che si esprimevano nei revival. «L’architettura moderna e razionale si è sviluppata in tutto il mondo secondo alcuni principi generali:
Walter Gropius. Grande gioco delle costruzioni. 1923
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1) la priorità della pianificazione urbanistica sulla progettazione architettonica; 2) la massima economia dell’impiego del suolo e della costruzione al fine di poter risolvere, sia pure a livello di un “minimo di esistenza”, il problema delle abitazioni; la rigorosa razionalità delle forme architettoniche intese come deduzioni logiche (effetti) da 3) esigenze obbiettive (cause); 4) il ricorso sistematico della tecnologia industriale, alla standardizzazione, alla prefabbricazione in serie, cioè la progressiva industrializzazione della produzione di cose comunque attinenti alla vita quotidiana (disegno industriale); La concezione dell’architettura e del progresso sociale e dell’educazione democratica della 5) comunità. »5 Non è un nuovo stile dogmatico o una tipologia da sostituire che viene ricercata, ma degli strumenti da mettere a disposizione delle masse, resesi attori protagonisti in questi anni. L’architetto non è più condizionato da un unico committente o da un genere di stile richiesto ma deve interpretare delle volontà collettive per plasmare un nuovo immaginario di città. La formula compositiva è completamente nuova la cui base teorica si sintetizza nello standard, nella modularità e nell’Existenzminimum 6. La fase progettuale divenne il momento cardine dell’opera architettonica, capace di governare con attenzione il rapporto tra spazio interno ed esterno che estende la scala progettuale “dal cucchiaio alla città”. Il soggetto di riferimento era l’uomo della società industriale, che viveva questo nuovo tempo e plasmandone i contorni spaziali. Abbandonatigli aspetti tradizionalisti dell’architettura, il Razionalismo riuscì a trovare delle forme assolutamente nuove dettate da alcuni metodi operativi che si svilupparono a partire delle azioni quotidiane delle persone, dallo studio dei bisogni umani e culturali. Il rispetto per lo spazio individuale fu considerato dal primo momento progettuale ed inserito come criterio base all’interno degli studi tipologici delle cellule abitative. La qualità della vita del cittadino, secondo Gropius, poteva migliorare a partire dalle abitazioni dotate in prima istanza di requisiti base, quali: luce, aria e possibilità di movimento. Grazie alla standardizza-zione e alla prototipazione furono eseguiti numerosi progetti dove gli elementi costruttivi, vennero prefabbricati; i moduli base furono progettati per aggregazione ed avevano la possibilità tecnologica di essere modificati nel tempo in base alle esigenze del nucleo familiare.7 «Obbiettivo per l’edilizia re-sidenziale. Soluzione delle esigenze opposte di massima standardizzazione (economicità) e di mas-
Le Modulorum. Disegni Le Corbusier 1946
Foto 2013. Unitè d’Hbitation de Marsille. 35
sima variabilità delle abitazioni … gioco delle costruzioni in grande, con cui a seconda del numero degli abitanti e delle loro esigenze, si possono comporre diverse macchine per abitare.»8 Osservandogli studi per la composizione della cellula abitativa A.Klein (1879- 1961) strutturò un metodo grafico ed aggiunse ad alcuni parametri, già assunti dal dibattito architettonico, come: lo spazio, la luce ed il calore, altri più introspettivi quali la “calma” e la “tranquillità”. L’abitazione per l’”uomo di ritorno dall’officina” doveva garantire un distacco, visivo e percettivo dall’ambiente lavorativo. L’operaio doveva avere la possibilità di dedicarsi al riposo e alla famiglia, così la casa diventava il luo-go dove cercare conforto dai ritmi della città e dalle avversità del mondo.9 Il funzionalismo del “metodo Klein” era legato a degli studi metodologici sui comportamenti della vita dell’uomo e su alcuni progetti residenziali. Partendo dal conteggio dei posti letto si rese possibi-le, con degli schemi grafici, organizzare infinite soluzioni, disponendo gli elementi base in composi-zioni differenti a seconda del contesto e del reddito della famiglia, aumentando il grado “qualitativo” dell’alloggio a prescindere dalla dimensione delle case. La cellula abitativa, intesa come spazio indivi-duale, diventa a pieno titolo modulo di progettazione urbana, come minuscola tessera di un mosaico che si andava sempre più estendendo. «Un organismo nuovo, proprio della nostra civiltà contemporanea, è andato formandosi da un secolo a questa parte, per acquistare fisionomia ben definita con caratteri permanenti: l’abitazione collettiva di tipo popolare.» 10 Giuseppe Samonà, con un preciso spaccato sulla casa anni ’30, descrisse le nuove forme abitative a partire dalla differenza sostanziale che si contrapponeva tra abitazione popolare ed abitazione individuale svelando le basi per un’analisi spaziale e sociale dell’abitare contempora-neo. La casa individuale era intesa, prima di tutto, come organismo unitario, mentre quella popolare, come cellula di un insieme più ampio. La casa individuale nella sua concezione e progettazione spa-ziale, nacque per adempiere ad esigenze di tipo personale, o comunque strutturate attorno ad uno specifico nucleo di persone. La scelta della destinazione d’uso degli spazi e dell’immagine comples-siva che questa abitazione aveva nella fase di progettazione, poteva essere modificata in base alle richieste del committente o alla sensibilità dell’architetto. Questi ultimi dovevano tener conto dello stato sociale, religioso e spirituale del nucleo abitante. La casa popolare era progettata secondo alcuni valori appartenenti alla “cultura moderna”, che sintetizzavano, attraverso alcuni paramenti,delle necessità oggettive organizzate nello spazio da un’unica mente ideatrice di tutto il complesso. Le cellule tipo, che si ripetevano fino a formare l’organismo edilizio, si fondavano su alcuni elementi basilari che formavano gli spazi in cui non vi era mai spreco di superficie. La priorità era quella di as-
Walter Gropius (1883 – 1969)
Bauhaus di Weimar. 1923
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sicurare delle dignitose condizioni igieniche, dopodiché la progettazione si basava su alcuni canoni di comfort, tradizioni etniche e sociali. Tra gli ambienti minimi erano compresi la realizzazione di vani dedicati al riposo, altri per il soggiorno diurno, infine vi era la zona dedicata ai servizi. «ogni cellula ha una determinata disposizione planimetrica, che dipende da tre fattori essenziali: 1) La disposizione tipica dei servizi; 2) Dal valore dato a certi elementi che la compongono in riferimento alle caratteristiche etniche e sociali del popolo che v’ abita; 3) Dal tipo di organismo edilizio di cui la cellula fa parte. »11 Durante i vari Congressiinternazionali di Architettura,la casa minima fu sintetizzata come un utensile da abitare, usufruibile allo stesso modo, da tutte le popolazioni, con possibili variazioni dovute alle differenze climatiche. La cellula era destinata ad un nucleo familiare di tipo patriarcale, dove anche le camere dei figli erano separate per sesso. L’organizzazione dell’orario di lavoro e la cultura dominante del tempo, si riflettevano nei ritmi della vita quotidiano e ne dettavano anche le forme che ritroviamo nella rigidità funzionale delle cellule. Ogni cellula era organizzata a partire da un dimensionamento razionale. Il primo parametro da considerare per la progettazione era la quantità dei componenti del nucleo familiare, quindi il numero di letti necessari. considerare per la progettazione era la quantità dei componenti del nucleo familia-re, quindi il numero di letti necessari. Il letto è tra gli elementi di maggior ingombro ed era possibile sistemarlo nella camera in modo da utilizzare minor spazio possibile, coordinandolo ai comodini e all’armadio. La dimensione della parete utilizzata per predisporre gli arredi della camera da letto ve-niva usata come modulo obbligato per ricavare gli altri ambienti, così da evitare i corridoi e rendere funzionale tutta la superficie disponibile. La concezione del “salotto popolare” si allontanava note-volmente da quella di “salotto borghese”, inteso come stanza di rappresentanza disimpegnata dalle altre stanze utili. Il “salotto popolare” era funzionale, come ogni spazio della casa, generalmente disimpegnava, esso stesso, le stanze da letto e le nicchie con i servizi. Questa stanza era il luogo dove si svolgono tutte le funzioni domestiche diurne, nei momenti di sosta e collettivi.12 La zona dei servi-zi era disposta in maniera da assicurare la ventilazione e la giusta articolazione dei cavedi. Gli spazi erano predisposti in maniera da permettere solo l’inserimento del mobilio e l’agibilità di movimento per azioni necessarie al loro utilizzo. La cucina dispensava di alcune attrezzature, quali gli elettrodo-mestici, il carico e lo scarico dell’acqua e dei piani da lavoro. La toilette predisponeva come minimo il water, talvolta veniva aggiunto il lavabo e la doccia.
Existenzminimum. 1929
Metodo Klein 37
Gli organismi edilizi potevano essere di diverse tipologie: a schiera, a ballatoio, in linea e a torre con altezza variabile dai 2 ai 7 piani e aggregati in lotti a blocco chiuso, a blocco aperto o isolati. Lo schema di ogni singolo fabbricato era organizzato in base al posizionamento della scala e alla quantità di abitazioni che erano servite per piano. Tale fabbricato era detto: a schema “denso” quando sussisteva un disimpegno centrale che serviva più appartamenti; “semidenso” quando vi erano due appartamenti per piano; infine, era “rado” se dalla scala si accedeva ad un unico appartamento. La domanda di residenza, la disposizione geomorfologica del territorio, il clima del luogo e soprattutto la disponibilità dei finanziamenti influenzavano la scelta tipologica dell’abitato e servivano come premesse alla progettazione generale. I Servizi generali, incidevano in maniera elevata sul valore economico dell’opera, risultando come elementi ricorrenti e prioritari che influivano sulla progettazione. Rientravano in questi parametri di valutazione: la rete infrastrutturale delle strade e delle fognature dell’acqua e dell’elettricità; ma anche le attrezzature per il tempo libero come campi da gioco e parchi ed infine le scuole, gli asili e i luoghi di culto. Se pensiamo alla situazione d’emergenza in cui versavano le principali città italiane, nel periodo tra le due guerre, dobbiamo considerare che il parametro principale adottato dall’Istituto Case Popolari per la scelta delle costruzioni, fu soprattutto quello della massima economicità risparmiando sull’utilizzo dei suoli, sacrificando spesso gli spazi comuni e quelli verdi. Ad esempio, se un quartiere era costruito con blocchi a schiera, i costi dei Sevizi generali di cui parliamo, erano molto più onerosi perché le residenze si sviluppavano lungo una maggiore area, mentre un impianto urbano con edifici a torre avrebbe permesso di centralizzare i costi, intensificando la stessa densità abitativa in altezza. In questi schemi si racchiudeva una vera rivoluzione dell’abitare, che dai primi del ‘900 segnò il “modus vivendi” quotidiano di gran parte della popolazione urbana. L’Italia uscì particolarmente schiacciata dagli effetti della prima guerra mondiale. A pesare vi erano motivazioni dovute alle naturali conclusioni di un evento bellico, altre dovute al mancato sviluppo di un unità nazionale, che ancora faticava a raggiungere di uno sviluppo omogeneo, economico e sociale. L’industria bellica trovò difficoltà nell’evolversi in industria di pace, i tassi di disoccupazione ed analfabetismo continuavano a crescere mentre tardava una risposta infrastrutturale e di abitazioni. Il divario tra un nord industrializzato ed un sud agricolo venne accentuato dalle misure protezionistiche che lo Stato applicò in materia economica, che tendevano ad incoraggiare la produzione nei campi meridionali, per la produzione diretta di materie prime da raffinare per le industrie del Nord, ammettendo di fatto uno squilibrio strutturale dell’economia.
Giuseppe Samonà, La casa popolare negli anni ‘30, Marsilio, Padova 1975.
Homes shown as part of the Century of Progress Exposition. Official Guide Book of the World’s Fair of 1934. Chicago 38
Gli eventi politici di questo periodo storico furono molto travagliati ed intensi. L’identità delle classi sociali era sentita in maniera particolarmente cosciente e vissuta in maniera più o meno conflittuale secondo le specificità dei diversi territori. In ogni paese nacquero gruppi di attivisti, artisti ed intellettuali che sviluppando differenti correnti di pensiero si organizzavano formando scuole, avanguardie e gruppi politici. La classe, che con l’unità d’Italia e il processo di industrializzazione, si era radicata in maniera egemone nella gestione del potere, era quella della piccola borghesia, che si affacciava preoccupata in questo complesso scenario. La crisi economica, l’idea della “vittoria mutilata” ma soprattutto la minaccia del bolscevismo russo, che ebbe seguito anche in Italia nel cosiddetto “Biennio Rosso”, incoraggiò le incertezze di buona parte della classe politica parlamentare a favorire l’ascesa del Fascismo che già da tempo lavorava sui territori con i sindacati ed i gruppi squadristi. Lo scenario politico si delinea nel 1925, quando l’affidabilità e la risolutezza di Mussolini, si rivelarono stringendo accordi con la classe imprenditrice ed ottenendo i prestiti dagli USA; il Fascismo divenne Stato. Le differenti tendenze che nel periodo tra le due guerre si affermarono sul piano sociale, si riflettono anche nel piano culturale ed in alcuni casi si materializzarono nelle architetture, che è possibile dividere in tre grandi indirizzi: - “il monumentalismo classicista” con un volto conservatore ed autoritario, riveste le strutture istituzionali. Espressivodell’ideologia, diviene presto lo stile predominante in un Italia che ricerca il suo nazionalismo. - “il decorativismo naturalistico” che porta il linguaggio dell’innovazione produttiva, si lega ad una borghesia più intellettuale e legata allo stile internazionale dell’art noveau. Il Liberty si diffonde in ritardo e solo nelle principali città ma tende presto a scomparire avvicinandosi sempre più alle geometrie monumentali. - infine lo strutturalismo, il verticalismo, il progresso tecnologico espresso nel Futurismo di A. Sant’Elia(1888-1916) che per breve tempo riuscì a farsi spazio in Italia, come avanguardia intellettuale di una nuova tecnologia di cui abbiamo meno tracce nella realtà.13 Conl’instaurazione del regime, l’architettura e l’urbanistica diventano strumento ordinatore del nuovo potere. T ra le opere espressive di questa fase politica troviamo il “Lingotto” della FIAT, progettata da Mattè T urco, a T orino del 1926, che EdoardoPersico (1900-1936) descrisse come: «Una costruzione incompatibile di forme chiusa che nella semplicità dell’aspetto, esprime il principio dell’ordine. (…) gli operai attendono sotto i muri ciclopici e cavi. Nonparlano, non si muovono, attendono: ogni cosa è già stata ordinata, non possono mutare nulla … Hanno bisogno più di ordine che di pane.» 14
J.J.P. Oud: Woningente Hoek van Holland (1924-1927)
Casa sperimentale Stoccarda. 1927
Domus - rivista architettura. XI maggio n. 65 anno 1933 39
T ra i gruppi che portarono alla nascita di un movimento di Architetturamoderna, in Italia, che riescono ad avere un certo peso nel razionalismo italiano, troviamo il Gruppo7 (1926), che raccolse alcuni linguaggi internazionali per affermare un’idea innovativa ma al contempo nazionalista, che esprimeva l’idea di ordine attraverso l’essenziale, la forma pura ed il funzionalismo, rompendo con la tradizione accademica. «Da noi esiste un tale substrato classico e lo spirito della tradizione (non le forme le quali sono ben diversa cosa) è così profondo in Italia, che evidentemente e quasi meccanicamente la nuova architettura non potrà non conservare una tipica impronta nostra»15 . Il Gruppo7, formato inizialmente da CarloEnrico Rava, Luigi Figini, Guido Frette, Sebastiano Larco, Gino Pollini, Giuseppe T erragni, e AdalbertoLibera fondò nel 1928 il MIAR(Movimento Italiano Architettura Razionale). Durante la seconda esposizione inaugurata dallo stesso Mussolini, vi fu un forte scontro i cui gli esponenti più vicini al movimento moderno, esposero una feroce critica al quello più accademico e neoclassico guidato da Gustavo Giovannoni (1873-1947) e Marcello Piacentici (18811960). In questo scenario, il sindacato degli architetti fascista provò a mediare i toni tra contenuti e forma in nome di un unico stile più nazionalista formando il RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani), ma l’esperimento non ebbe vita lunga, al contrario il neoclassicismo continuò a prendere ampio spazio sia nelle singole architetture sia nei piani urbanistici affermandosi come stile di Stat o. Gustavo Giovannoni, si affermò come figura chiave e poliedrica di questo periodo, in primo luogo come storico dell’architettura ed in particolare ebbe un ruolo di spicco nella sensibilizzazione e legislazione del restauro dei beni culturali; come architetto realizzò alcune opere prediligendo generalmente il neo barocche. Nell’ambito urbanistico, Giovannoni scrollò il dibattito nazionale ammettendo un incapacità strutturale, delle passate amministrazioni, a far fronte alla rapida urbanizzazione disorganizzata che si ebbe a seguito del periodo industriale. Adifferenza di altre grandi capitali europee come Bruxelles, Berlino e Parigi, che erano riuscite a tracciare un disegno urbano preciso in anticipo, pianificando lo sviluppo edilizio, economico e delle vie di comunicazione, Giovannoni ricorda nostalgicamente che in Italia il maggiore intervento di rilievo urbano, di cui era utile recuperare la memoria organizzativa fu l’opera di SistoV nella Roma del 1500. La sua posizione, di architetto neoclassico e nazionalista, era esplicita, ma non rappresentò una limitazione nei suoi interventi, che presentavano una lettura realistica precorrendo ed anticipando molti interventi del suo tempo . «Il grandioso fenomeno dell’urbanesimo, che ha affollato le città con enormi e rapidissimi aumenti di popolazione, si è sviluppato prima che maturassero, non solo lo studio e l’esperienza, ma perfi-
Palazzo Braschi. 1934
“Lingotto” della FIAT. Mattè Turco 1926
Minnucci Gaetano La casa Gil a Monte Sacro 1935
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no la coscienza dei grandi problemi che esso coinvolgeva nei riguardi del passato, del presente e dell’avvenire delle agglomerazioni cittadine.»16 La necessità di riorganizzare le principali città italiane, valorizzando le loro arti, integrando nuovi quartieri nel tessuto antico e agendo in maniera chirurgica nel rintracciare le giuste arterie viarie è un compito arduo ma necessario. «Édunque il momento di intensificare gli studi e gli sforzi, e forse sotto questo riguardo è provvido l’attuale ristagno nella fabbricazione da parte dell’industria privata. Molto ancora può essere salvato nelle nostre città, molti errori possono ripararsi o con provvedimenti organici o con efficaci espedienti; poiché la maggior portata dei mezzi, specialmente dei mezzi meccanici di comunicazione, può raggiungere ora soluzioni di un ordine più vasto di quelle che qualche decennio fa, se pure fossero state comprese, difficilmente avrebbero potuto attuarsi. Ma occorre che non si giunga tardi quando tutto sia compromesso! »17 Casa del Fascio 1932, Giuseppe Terragni
Rivista del Sindacato Nazionale Fascista Architetti. Diretta da Marcello Piacentini. Settembre 1940 41
Il dibattito urbanis IL DIBATTITO URBANISTICO A NAPOLI TRA LE DUE GUERRE: IL PIANO DEL 39’
L’idea della “grande Napoli” fu un naturale esito del dibattito sulla città che aveva per-so il ruolo di capitale e sulla “questione meridionale”.18 Tale idea mirava ad organizzare le ri-sorse e le politiche del territorio in modo che avessero una struttura più moderna e pro-duttiva per il rilancio delle attività economiche. In quest’ottica l’aggregazione dei casali di Barra, San Giovanni a Teduccio, S. Pietro a Patierno, Secondigliano, Chiaiano, Pianura, Soccavo e Nisida, servirono a ricercare nuovi spazi vitali per i problemi di sovraccarico della città di Napoli.19 Nel 1926, Gustavo Giovannoni fu incaricato di guidare una commissione per la redazione di un Piano Regolatore per Napoli, che fu considerato uno dei migliori esempi di interventi urbani-stici del tempo. Il piano fu pensato cercando di sintetizzare le varie proposte avanzate nel di-battito intellettuale partenopeo sull’organizzazione della città. L’obbiettivo principale fu quel-lo di fermare lo sventramento indiscriminato della città storica, dovuto al Piano di Risanamento del 1886. Gli interventi programmati erano distribuiti in maniera spersa sul territorio e si andava-no ad inserire nella struttura urbana già formata, per migliorarne la fruibilità o per rivalutare al-cuni scorci di importanza storica o monumentale. Le infrastrutture erano pensate soprattut-to per servire ai nuovi quartieri industriali e residenziali insediati ad est e ad ovest della città. Il piano non venne approvato, ma la sua organica progettualità fu richiamata in altri momenti della storia urbanistica della città. Alcuni interventi, tuttavia, vennero realizzati come quello nel rione Carità,affidato all’ing. AlessandroCarnelli,che servì ad unire le due importanti arterie di Via Tole -do e CorsoUmberto. Per quanto riguarda il centro storico l’obbiettivo resta quello di consolidare il carattere monumentale dei quartieri storici e concentrare in quelle zone l’apparato politico e dire-zionale. L’operazione comportò lo smantellamento del tessuto storico che comprendeva: il Teatro dei Fiorentini, costruito nel ‘600, la chiesa ed il chiostro di S. Tommaso d’Aquino, progettati da fra’ Nuvolo ed altri edifici di notevole interesse. Le nuove costruzioni, vennero realizzate in breve tempo tra il 33’ ed il 38’. Il Palazzo delle Poste, realizzato da Giuseppe Vaccaro (1896-1970) che con la sua
Il Piano Regolatore commissione Roma dal palazzo Palazzo Caffarelli in Campidoglio. Giovannoni appare nella foto in basso a destraPiacentini. Settembre 1940
Napoli Lavori di scavo nel rione Carità di fronte al Palazzo delle Regie Poste e Telegrafi 42
pianta parabolica rispecchia uno stile sperimentale ed internazionale, mentre gli altri edifici rispondevano ad un linguaggio tipicamente nazionalista, neorinascimentale, si tratta della Casa del Mutilato, l’edificio delle Finanze dell’INA e della Previdenza sociale. Nel1936 sotto l’incoraggiamento dell’Unione industriale di Napolie della Fondazione politecnica per il Mezzogiorno fu istituito un nuovo gruppo per la realizzazione di un Piano Regolatore per Napoli, capeggiato, questa volta, da Luigi Piccinato (1899-1983)19 . Il Piano, che partì dagli studi del precedente lavoro di Giovannoni, aveva come scopo “il risanamento ed il conseguente ampliamento della città”, venne organizzato in maniera razionale e con una metodologia programmatica che si avvaleva di proposte ed osservazioni che potessero realmente controllare lo sviluppo urbano nei vari aspetti territoriali, sociali ed economici. L’aspetto più innovativo era rappresentato dal ragionamento sul rapporto tra città, regione e capitale e sullo sviluppo satellitare dei nuovi centri residenziali ed industriali. Gli studi che miravano ad una accurata zonizzazione, partirono dalla consultazione di notizie statistiche con previsioni fino a 50 anni, per individuare le nuove aree di sviluppo, quelle residenziali e più nello specifico il numero di vani necessari da costruire per risolvere lo storico problema del sovraffollamento. L’edilizia era un tema preponderante soprattutto per i ceti operai, artigiani ed agricoli, il piano prevedeva di riorganizzare la distribuzione residenziale da verticale a orizzontale, con la costruzione di nuovi quartieri.20 Il potenziamento della viabilità e delle infrastrutture si riferiva in prima istanza alla rete ferroviaria e marittima, inoltre, fu progettata una nuova organizzazione viaria che si distingueva in tre tipi che consentivano di spingere il traffico sulle cinture esterne, evitando zone di attraversamento interne ai centri. L’aspetto culturale fu sopportato dalla logica per lo sviluppo turistico e paesaggistico affinchè si ripristinasse un adeguata “prospettiva” alle opere d’arte che “giacciono nascosti, sconosciuti, introvabili”21 . Finalmente il piano venne approvato con la legge n° 1208 del 29 maggio del 1939. La sua attuazione si limitò prevalentemente alla parte sulla zonizzazione generale e ai regolamenti edilizi dimensionali in merito alle altezze e alle dimensioni della strada da rispettare, in conformità al precedente regolamento del ’35. La città veniva divisa in nove zone: zona intensiva (comprendente: vecchio centro; quartiere degli affari; esterna)
Sventramento Rione Carità. 1930
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zona semintensiva (a fronte unito oppure a palazzine) zona estensiva per casette a schiera; zona estensiva a villini; zona estensiva per ville signorili; zona destinata ad aree e parchi pubblici; zona di rispetto e panoramica di primo grado; zona agricola; zona industriale. Piccinato sosteneva che per un giusto sviluppo urbanistico della città bisognasse prima di tutto decentrare la popolazione con la costruzione di nuova case popolari e contemporaneamente sottolineava la necessità di rivedere il regolamento edilizio del 1935, poiché così com’era, rischiava di ricreare nuove condizioni di sovraffollamento. Il Regolamento Edilizio non venne modificato probabilmente per permettere maggiore libertà operativa alle bonifiche e agli sventramenti, incoraggiando una maggiore operatività all’industria edile, senza un adeguato controllo amministrativo. L’esortazione che concludeva la relazione al Piano era di puntare prima di tutto alla struttura urbana di Napoli, già troppe volte trascurata, per rilanciare Napoli e la nazione, come capitale del Mediterraneo. La realtà sociale nel periodo tra le due guerre, a Napoli risultava particolarmente degradante, con picchi particolarmente gravi di disoccupazione ed analfabetismo. L’alto commissariato per la provincia di Napoli, era un ente istituzionale nominato per occuparsi del settore delle opere pubbliche e durò fino al 1936. Oltre l’aspetto dei piani urbanistici che dimostrano una notevole attenzione nazionale allo sviluppo della città, le scelte urbanistiche durante il ventennio fascista seguivano grosso modo quelle del piano del 1885, con una maggiore attenzione all’espansione verso i nuovi quartieri. L’attività edilizia fu notevole e diede le basi per l’urbanizzazione di nuove aree, come quelle degli ex comuni autonomi annessi alla città di Napoli nel ’26. Le zone di Napoli Est e Bagnoli furono quelle su cui si concentrò maggiormente attenzione, e furono individuate come quelle dove era possibile un rilancio industriale per lo sviluppo economico. Il nuovo quartiere di Fuorigrotta fu invece quello che vide la maggior espressività di interventi volti allo sviluppo urbano della città moderna. Fu incentivata una grande costruzione per la “Mostra Triennale delle Terre d’Oltremare”, voluta ed inaugurata personalmente da Mussolini. I progetti per lo stadio e la zona universitaria favorirono la risistemazione di tutta l’area e la costruzione di numerosi nuclei residenziali.
Piano Regolatore di Napoli 1939
PRG ’39. Area Carmine, Mercato, Borgo Loreto
PRG ’39. Nuovo quartiere Est Stato iniziale 44
Gli insediamenti furono divisi secondo due criteri di abitazioni, una zona prevedeva case economi che su impianto reticolare, l’altra con grandi isolati ad edificazione permanente e cortili aperti.22 I quartieri principali che vennero più rapidamente realizzati, e che sancirono l’utilizzo residenziale di alcune zone della città, furono quelli borghesi come Posillipo e Mergellina, vennero realizzati tramite ingenti finanziamenti statali che ricevettero diverse società convenzionate come la SPEME (società partenopea edilizia moderna), l’Istituto per le CaseEconomichedei CampiFlegrei o come la SCIS e la SAIVA che costruirono l’intero rione di Materdei. 23 Nel periodo che va dal 18’ al 35’ il dibattito sulla casa popolare si accese in tutta Europa come naturale conseguenza dei grandi mutamenti urbani e dello sviluppo industriale; in particolare con la fine della prima guerra mondiale si registrò un aumento della necessità di abitazioni a basso costo. In base alle possibilità economiche e alle condizioni politiche di ogni nazione fu possibile sperimentare nuove esperienze progettuali dell’abitazione popolare.
PRG ’39. Nuovo quartiere Est Prima fase
PRG ’39. Nuovo quartiere Est Seconda fase
PRG ’39. Nuovo quartiere Sud-Est 45
NASCITA DELL’IACP ED NASCITA DELL’IACP ED I PRIMI QUARTIERI POPOLARI NELL’ARIA ORIENTALE DURANTE IL FASCISMO
Gli Istituti per le case popolari furono fondati in tutta Italia a partire dall’emanazione della legge Luttazzi(1903), che incentivava, in un ambito di provvedimenti sociali, le iniziative filantropiche a seguito delle grandi pestilenze dovute al sovraffollamento dei centri urbani per le grosse migrazioni che comportò la rivoluzione industriale. La norma facilitava prevalentemente le operazioni di credito legate ai mutui per l’acquisto di terreni e la costruzione di immobili, legando responsabilità comunali e regionali all’iniziativa di privati e banche. La possibilità da parte degli enti comunali di espropriare i terreni per pubblica utilità e a basso costo era già stata prescritta dalla legge per il Risanamento di Napoli del 1865. La legge Luttazzi fu importante poiché definì la formazione di un nuovo ente autonomo, con lo scopo preciso di costruire edifici residenziali per migliorare le condizioni di vita della popolazione urbana. «Questo principio della solidarietà e della giustizia sociale emergeva chiaramente dalla lettura dell’art. 22 della legge n. 251 dei 31/05/1903, che improntava l’iniziativa degli Istituti Autonomi:non un interesse prettamente economico o esigenze di profitto, ma una precisa volontà di intervenire nel sistema sociale, avendo di mira solo esclusivamente il “bene Casa”.»24 Nei primi tempi l’attività edilizia fu amministrata a partire da strutture già operative, come i comuni che stabilivano i lavori in base ad altri enti municipali. Nel 1937 con il T.U.1165 l’iniziativa venne direttamente gestita dagli enti autonomi che si occupavano esclusivamente di edilizia popolare, così ai comuni restò il compito di fornire i terreni e disporre i finanziamenti. La gestione immobiliare fu scissa in tre organismi: Istituti di Credito (mutuanti), gli I.A.C.P.(mutuatari) e lo Stato (sovventore) 25 . Il primo Istituto per le Case Popolari nacque a Roma, pochi giorni dopo l’emanazione della legge del 1903. A Napoli, apparve invece nel 1908, sotto la direzione del direttore del Banco di Napoli, Nicola Miraglia, prima di allora la società che, quasi in esclusiva si era occupata per decenni della ricostruzione, era stata la Società per il Risanamento. Quest’ultima insieme al Comune,dopo anni di sventramenti e ricostruzioni si ritrovarono una città ancora in emergenza nonostante la Società aveva
Distribuzione delle costruzioni eseguite e da costruire. Istituto Fascista autonomo per le case popolari della provincia di Napoli : [1935-XIV / 1939XVIII], S.A. Richter & C., Napoli 1940
Rione Luca D’Aosta, Napoli Fuorigrotta. Cerimonia inaugurale 20 maggio 1925
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costruito in passato più case popolari di quelle stabilite dai progetti iniziali. Dei 180.000 mq stabiliti, ne vennero costruiti 352.000 mq. Le “caserme d’affitto”26 erano state subito riempite, con una den-sità abitativa di 5 abitanti per vano, e con condizioni igieniche non ancora sufficienti a garantire la salubrità degli spazi, infine le proteste ed il malcontento dei senza casa e contro l’aumento continuo di affitti e sfratti non aveva trovato riscontri adeguati nonostante i vari interventi. Molti intellettuali del tempo valutarono la formazione degli ICP come un ulteriore pericolo ad una cattiva gestione della questione delle abitazioni. Non vi era ancora un’adeguata regolamentazione per la collocazione dei nuovi quartieri popolari, ma soprattutto era criticata la maggiore attenzione che queste società investivano per i quartieri borghesi come quelli del Vomero e di Posillipo, mentre, le fasce più basse della popolazione, vivevano un’evidente ghettizzazione nei nuovi quartieri più periferici ed industriali, dove i lotti erano edificati con povertà di servizi e disattenzione agli spazi collettivi e alle infrastrutture. . Per capire meglio la situazione di emergenza che la popolazione napoletana viveva prima della guer-ra basti pensare che nel 1914, abitavano 53.000 persone nei “bassi” e per rientrare dall’emergenza erano necessario costruire ancora case per circa 200.000 persone27 . La questione più spinosa riguar-dava gli sfratti e gli abbattimenti indiscriminati, che producevano molti più “nomadi” di quanti vani venivano costruiti, gli affitti, inoltre, erano sempre più costosi, e le proteste riuscirono nel 1910 ad ob-bligare la Società per il Risanamento ad abbassare il costo degli affitti .28 In alcuni casi, le famiglie che riuscirono a ritornare nelle vecchie abitazioni sfollate, nei quartieri di appartenenza, subaffittando la casa popolare assegnatagli nei nuovi quartieri. Dal tra il ’25 ed il ‘36, vennero proclamate delle ordinanze per chiudere tutti i bassi, obbligando gli abitanti a spostarsi nelle nuove costruzioni della cintura periferica, ma ancora una volta, nonostante la notevole produzione edile, delle 2770 famiglie sgomberate solo 104 trovarono sistemazione . nelle case popolari assegnate.29 L’Istituto AutonomoCasePopolari divenne subito operativo grazie ad alcuni suoli che furono do-nati dalla Banca d’Italia. Nei primi anni, che vanno dal 1910 al 1925 vennero realizzati 1.152 alloggi. Con l’avvento del fascismo il nome mutò in “Istituto Fascista Autonomoper le CasePopolari”, e dal 1026 al 1936 realizzò circa 3.000 alloggi. Le costruzioni dell’istituto contribuirono ad allargare i vecchi confini della città, a partire dalle zone già dotate di infrastrutture. I primi quartieri industriali con alloggi moderni furono edificati a ridosso dei vecchi casali, dove gran parte della popolazione viveva ancora ammassata nelle abitazioni rurali. I problemi stilistici furono lasciati in secondo piano
Rione Principe di Piemonte 1935
Il Principe di Piemonte inaugura i fabbricati. 1935
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rispetto a quelli tecnici, l’obbiettivo fu quello di ottimizzare i costi e gli spazi, assicurando migliori condizioni igieniche ed un minimo di servizi. L’alloggio era calcolato come la somma dei vani (che l’ICP stimava di 16mq) 30. Come “vani” erano intese soltanto le stanze da letto, durante il fascismo, furono distinti i “vani accessori”, cioè gli spazi di servizio come cucina, scantinato e “latrina”; e i “vani utili”, composti da soggiorno e stanze da letto. Nel dopoguerra saranno distinti anche i corridoi, ingresso e ballatoio, infine solo dopo gli anni 60’ il conteggio verrà fatto in base ai metri quadri. La tipologia più ricorrente per le case popolari era costituita da: un isolato senza cortili, piano terra rialzato, come retaggio estetico del piano nobile, scantinato e tetto piano. Per evitare il rinnovamento dei fenomeni di sovraffollamento, il numero dei piani è abbassato da cinque a quattro, mentre la larghezza delle strade intermedie resta quella che va dai 10 agli 8 metri. L’ingegner Domenico Primicerio, capo dell’ufficio tecnico dell’ICPNapoli studiò, per i primi quartieri, una soluzione in conformità con i manuali del tempo, composta da quattro fabbricati con doppia scala che servivano quattro alloggi per piano. L’alloggio composto da 2 o 3 vani utili, con una media di 3 abitanti per vano si sviluppava attorno ad una loggetta dove affacciavano la sala da pranzo, la nicchia con la latrina e quella con la cucina. Queste soluzioni interne furono abbandonata per la soluzione a corridoio, per le quali era più semplice eseguire i computi, già dalla fase progettuale. Sono nelle facciate esterne e negli androni, venivano conservati i caratteri neoclassici, utilizzati nei quartieri borghesi e per gli edifici pubblici. Nei revival erano mantenuti alcuni caratteri tipici come: il primo piano nobile, marcapiano ed in alcuni casi le lesene laterali. I primi quartieri operai vennero costruiti verso Est.Il Rione Vittorio Emanuele(1910-33) fu costruito nella zona di Poggioreale, a ridosso dei quartieri popolari costruiti dalla Società per il Risanamento. Il “Principe di Piemonte” (1928-30) fu invece costruito nella zona dei granili, in prossimità dell’area paludosa, dove la Direzione Igiene e Sanità Pubblica del Comune,con l’IACPoperarono il risanamento della zona, bonificando gran parte dei canali ed il Fiume Sebeto, «storico di nome ma di portata indegna, recando esso al mare i residui delle lavorazioni di conceria» .31 Il Rione venne costruito sulle spoglie del Fondaco dei Granili nella zona delle ex-concerie. I fondaci erano delle tipologie abitative miste, molto diffuse nel ‘700 napoletano a causa del vertiginoso aumento della popolazione, sono stati riscontrati in molte città mercantili del mediterraneo.
Bonifiche del Sebeto 1935Piacentini. Settembre 1940
Mercato ittico. Foto
Mercato Ittico. Sezione 48
Questi edifici, con corte centrale, erano sempre accessibili dalla strada, ospitavano famiglie, forestieri, animali e merci; spesso versavano nel degrado in condizioni igienico-sanitarie molto precarie. L’abbattimento dei fondaci e lo sgombero dei bassi, con la ricostruzione dei quartieri popolari ed operai, furono immagini ricche di senso simbolico. Le residenze spontanee storiche del popolo cittadino furono riprogettate dall’alto, riconfigurando “a tavolino” una nuova immagine del tessuto urbano popolare. A differenza dei primi quartieri popolari costruiti durante il risanamento, i quartieri fascisti degli anni trenta si avvicinano agli “impianti autonomi”, che saranno propri dei quartieri del secondo dopoguerra. Gli insediamenti erano progettati con attrezzature sportive ed istituti per l’infanzia, in alcuni casi si denotò la presenza di aiuole e verde urbano. In alcuni quartieri, vennero restaurate le chiese preesistenti, così da ripristinare un carattere monumentale ed aggregativo nella zona. Il potenziamento verso la “cintura” della periferia est era volto a valorizzare l’immagine più industriale e commerciale della città. Nell’ambito della risistemazione del quartiere Porto fu commissionata un importante opere eseguita dall’ architetto Luigi Cosenza. La costruzione emblematica è il Mercato Ittico costruito tra il ’29 ed il ’35, nel borgo Loreto, in corrispondenza della Porta del Carmine. Il Mercato si affermò come prima opera del razionalismo napoletano. L’edificio, per la sua collocazione e per le sue forme avanguardistiche, fu interpretata come una nuova porta d’ingresso alla città. La superficie copriva 300 mq, la distribuzione, su tre livelli, fu pensata in maniera funzionale, e gli ambienti interni vennero disposti in maniera asimmetrica. La struttura, in travi reticolari in ferro, con alcuni elementi in vetrocemento, non lasciava spazio per decorazioni superflue. Le aperture rettangolari sui lati e tutta la copertura era formata da una grande volta a botte a richiamare alcuni codici classicisti tanto reclamati in quel periodo. Le sperimentazioni architettoniche nei differenti progetti per la Mostra d’Oltremare, nonché le numerose opere razionaliste che vennero eseguite da Luigi Cosenza in diversi luoghi della città, dimostrano che, nonostante l’aspro clima culturale che si viveva in Italia, a Napoli vi fu una particolare apertura all’architettura moderna.
Stazione Marittima Napoli 1933. Cesare Bazzani
Fontane luminose, Mostra d’Oltremare. Napoli 1939. Luigi Piccinato 49
Note: 1
Renato DE FUSCO, Storia dell’architettura contemporanea , Laterza, Roma‐ Bari 2000
2
LE CORBUSIER,Verso un'architettura, a cura di Pierluigi Cerri e Pierluigi Nicolini, Longanesi, Milano 1973
3
Le Corbusier, cfr. Teresa GRANATO, Tesi: Lo spazio della casa, , Univ. Degli studi di Camerino, rel. Rafafele
Mennella 4
Walter GROPIUS, Programma del Bauhaus statale di Weimar, Bauhaus Statale, Weimar 1919, cfr. Hans M. WINGLER , Il
Bauhaus : Weimar Dessau Berlino, 1919‐1933 , Feltrinelli, Milano 1972 . p.63 5
Giulio Carlo ARGAN, L’arte moderna, Sansoni, Firenze 1970. p.324‐325
6
L'appartamento per il livello di sussistenza: sulla base dei risultati del II Congresso Internazionale di Architettura Moderna, e organizzato dal Dipartimento Comunale Building di Francoforte mostra itinerante; centinaia di planimetrie con lezioni esplicative / di Victor Bourgeois ... Le Corbusier ... Walter Gropius, Englert & Schlosser, Frankfurt am Main 1930 7
Paolo BERDINI, Walter Gropius , Zanichelli, Bologna 1987
8
Walter GROPIUS, Baukasten Im Grossen, 1923
M. BAFFA e A. ROSSARI, Alexander Klein. Lo studio delle piantee la progettazione degli spazi negli alloggi minimi. Scritti e progetti dal 1906 al 1957, ed.Gabriele Mazzotta, Milano 1975 9
10
Giuseppe SAMONÀ, La casa popolare negli anni '30, Marsilio, Padova 1975. P.
11
Idem. P. Idem
12
13
Mario MANIERI‐ELIA, La situazione italiana al 1935 e Giuseppe Samonà, in Giuseppe SAMONÀ, La casa
popolare negli anni '30, Marsilio, Padova 1975. P. 14
Bruno ZEVI , Storia dell’architettura moderna , Einaudi, Torino 1975
50
15
Gustavo GIOVANNONI, Questioni Urbanistiche (1928), in Fabbrizio BOTTINI, WWW.Mall.it, 2006
16
Ibidem
17
Romano LANINI, Guglielmo TRUPIANO, Città, innovazione, trasformazione , F.lli Fiorentino, Napoli 1988
18
Carlo COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958 , a cura della Società pel Risanamento di Napoli,
1961 19
PICCINATO, Luigi. ‐ nato a Legnago il 30 ottobre 1899. Ha dedicato la maggior parte della sua attività allo studio teorico e pratico dell'urbanistica; è professore di urbanistica nella facoltà di architettura di Napoli. Dal 1927 in poi ha partecipato ai concorsi per le sistemazioni edilizie e per i piani regolatori generali o parziali di Brescia, Padova, Arezzo, Pisa, Perugia, Catania, Palermo, Sabaudia. Per incarico diretto ha studiato piani per Assisi, La Spezia, Benevento, Napoli, Treviso, Ivrea, Sorrento, Roma (zona dall'Esposizione al mare), Campobasso, Civitavecchia, Legnago, Pescara. Nel campo edilizio, ha realizzato numerose case d'abitazione ed edifici pubblici (scuole, teatri). È autore di numerose pubblicazioni su problemi generali e particolari di urbanistica e di architettura. (da Giulio Carlo Argan, Enciclopedia Italiana, 1949) 20
Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993
21
Luigi PICCINATO,Piano Regolatore: testo al Sindaco, 1939
22
Alessandro CASTAGNARO, Architettura del Novecento a Napoli : il noto e l’inedito, Edizioni
scientifiche italiane, Napoli 1998 23
Sergio STENTI, Op. Cit.
24 25
www.iacp.it/origini
Ibidem
26
Matilde SERAO, Il ventre di Napoli, Treves, Milano 1884
27
Sergio STENTI, Op. Cit.
51
28
29
Giovanni RUSSO, Napoli come città, WSI, Napoli 1966
L. GUIDI, Napoli: interventi edilizi ed urbanistici tra le due guerre, in “storia Urbana”, n°6, 1978.
30
Sergio STENTI, Op. Cit.
31
Istituto Fascista autonomo per le case popolari della provincia di Napoli : [1935‐XIV / 1939‐XVIII], S.A.
Richter & C., Napoli 1940
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Piano regolatore del ‘39 53
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PRG ’39. Nuovo quartiere Sud-Est 3
PRG ’39. Nuovo quartiere Est Prima fase 4
PRG ’39. Nuovo quartiere Est Seconda fase
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RIONE VITTORIO EMANUELE RIONE LUZZATTI RIONE PRINCIPE DI PIEMONTE RIONE DUCA DEGLI ABBRUZZI Opere Trattate
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RIONE VITTORIO EMANUELE
scheda
Collocazione geografica: Napoli, Arenaccia, Via Nuova Poggioreale Progettista: Domenico Primicerio Anno costruzione: 1910-1933 Informazioni tipologiche: isolato tipo a blocco Ente costruttore: Istituto Fascista Case Popolari Dati dimensionali: Area 6597 mq; 18 edifici, 518 alloggi; 1818 vani - 3128 ab
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Da: Istituto Fascista autonomo per le case popolari della provincia di Napoli : [1935-XIV / 1939-XVIII], S.A. Richter & C., Napoli 1940
I primi quartieri operai vennero costruiti verso Est. Il Rione Vittorio Emanuele, il Principe di Piemonte, rione Luttazzi e Rione Duca degli Abruzzi. I quartieri furono ricostruiti a seguito di bonifiche, abbattimento di edifici degradati e sgombero dei bassi. L’Istituto per le Case Popolari divenne subito operativo grazie ad alcuni suoli che furono donati dalla Banca d’Italia. Nei primi anni, che vanno dal 1910 al 1925 vennero realizzati 1.152 alloggi. Con l’avvento del fascismo il nome mutò in “Istituto Fascista Autonomo per le Case Popolari”, e dal 1026 al 1936 realizzò circa 3.000 alloggi. Le costruzioni dell’istituto contribuirono ad allargare i vecchi confini della città, a partire dalle zone già dotate di infrastrutture. I primi quartieri industriali con alloggi moderni furono edificati a ridosso dei vecchi casali, dove gran parte della popolazione viveva ancora ammassata nelle abitazioni rurali. I problemi stilistici furono lasciati in secondo piano rispetto a quelli tecnici, l’obbiettivo fu quello di ottimizzare i costi e gli spazi, assicurando migliori condizioni igieniche ed un minimo di servizi. Nel 1914, abitavano 56
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Progetto dell’insediamento residenziale nell’insula
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Fabbricato nel quale nei primi due piani aveva sede la maternità / I nuovi fabbricati dell’ampliamento col campo
53.000 persone nei “bassi” e per rientrare dall’emergenza erano necessario costruire ancora case per circa 200.000 persone. La questione più spinosa riguardava gli sfratti e gli abbattimenti indiscriminati, che producevano molti più “nomadi” di quanti vani venivano costruiti. Dal tra il ’25 ed il ‘36, vennero proclamate delle ordinanze per chiudere tutti i bassi, obbligando gli abitanti a spostarsi nelle nuove costruzioni della cintura periferica, ma ancora una volta, nonostante la notevole produzione edile, delle 2770 famiglie sgomberate solo 104 trovarono sistemazione nelle case popolari assegnate. La tipologia più ricorrente per le case popolari era costituita da: un isolato senza cortili, piano terra rialzato, come retaggio estetico del piano nobile, scantinato e tetto piano. Per evitare il rinnovamento dei fenomeni di sovraffollamento, il numero dei piani è abbassato da cinque a quattro, mentre la larghezza delle strade intermedie resta quella che va dai 10 agli 8 metri. L’ingegner Domenico Primicerio, capo dell’ufficio tecnico dell’ICP Napoli studiò, per i primi quartieri, una soluzione in conformità con i manuali del tempo, composta da quattro fabbricati con doppia scala che servivano quattro alloggi per piano. L’alloggio composto da 2 o 3 vani utili, con una media di 3 abitanti per vano si sviluppava attorno ad una loggetta dove affacciavano la sala da pranzo, la nicchia con la latrina e quella con la cucina. Queste soluzioni interne furono abbandonata per la soluzione a corridoio, per le quali era più semplice eseguire i computi, già dalla fase progettuale. L’alloggio era calcolato come la somma dei vani (che l’ICP stimava di 16mq). Come “vani” erano intese soltanto le stanze da letto, durante il fascismo, furono distinti i “vani accessori”, cioè gli spazi di servizio come cucina, scantinato e “latrina”; e i “vani utili”, composti da soggiorno e stanze da letto. Nel dopoguerra saranno distinti anche i corridoi, ingresso e ballatoio, infine solo dopo gli anni 60’ il conteggio verrà fatto in base ai metri quadri. Sono nelle facciate esterne e negli androni, venivano conservati i caratteri neoclassici, utilizzati nei quartieri borghesi e per gli edifici pubblici. Nei revival erano mantenuti alcuni caratteri tipici come: il primo 57
2
Rozzol Melara Trieste di Carlo Celli
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piano nobile, marcapiano ed in alcuni casi le lesene laterali. Rione Vittorio Emanuele III Fu il primo costruito dall’Istituto nella zona industriale orientale. In mancanza di un piano Regolatore, il rione fu costruito nella zona di Poggioreale, a ridosso dei quartieri popolari costruiti dalla Società per il Risanamento. Agli isolati residenziali vennero annesse delle botteghe ai piani inferiori e l’asilo infanzia “S. Francesco d’Assisi”, gestito dal Comune per 250 bambini, in seguito furono annessi a completamento anche dei campi da gioco. Tra i vari isolati a corte rettangolari vi erano degli slarghi con aiuole centrali, che disegnavano geometrie semplici e scandivano il ritmo planimetrico evitando un eccessivo concentramento edilizio. A differenza dei vecchi quartieri del Risanamento, l’affollamento previsto era di tre abitanti per vano mentre l’altezza media di ogni isolato era di 4 piani. Il reticolo stradale disegnato dagli edifici era largo 10 mt. L’isolato a blocco comprendeva due tipi edilizi a palazzina e due in linea, distanziati dalle strade e chiusi da cancelletti lungo il perimetro. I corpi scala centrali servivano quattro abitazioni per piano. Gli alloggi, senza corridoio, presentavano una stanza per il pranzo pluriuso, che portava nei servizi e nelle camere da letto. I servizi, composti da cucina e latrina affacciavano su una loggetta esterna, che favoriva la ventilazione e si prestava esternamente, in aiuto agli spazi di servizio. Le facciate esterne presentavano degli elementi decorativi molto poveri con basamento a fasce orizzontali e cornici marcapiano e lesene su tutta la lunghezza. Nel 1918 durante il fascismo l’area ottenne per esproprio un piccolo ampliamento funzionale alla costruzione di bagni pubblici ad un lavatoio e alla realizzazione di un panificio. Queste scelte sottolineavano la volontà di rendere sempre più autonomi tali quartieri. Un secondo ampliamento fu realizzato con l’obiettivo di migliorare l’immagine del quartiere attraverso una operazione di marcato restyling storicistico, nella quale il fronte strada giocava un ruolo essenziale di cortina urbanistica in funzione della strada.
Rozzol Melara Trieste di Carlo Celli 58
RIONE LUTTAZZI
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scheda
Collocazione geografica: Napoli , Via Taddeo Sessa Progettista: Domenico Primicerio Anno costruzione: 1914-1929 Informazioni tipologiche: corte racchiusa da sei edifici perimetrali Caratteristiche costruttive: fabbrica in tufo Ente costruttore: Istituto Fascista Case Popolari Dati dimensionali: Area 42.460 mq; 39 edifici, 834 alloggi; 2074 vani utili- 3128 ab
Progetto dell’insediamento residenziale nell’insula.
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Foto dell’epoca 1940
Fu tra i rioni costruiti sui primi suoli concessi dalla Banca d’Italia al ICP, che vennero bonificati per permettere la realizzazione dell’opera. Il quartiere, alle spalle della stazione centrale, distaccandosi dal centro della città, si affacciava alla zona industriale non ancora urbanizzata. Questa zona, chiamata dai napoletani “il Pascone” era un luogo molto depresso: d’inverno invaso da acque piovane e stagnanti, d’estate infestato da erbacce e sterpaglie con pascolo di cavalli allo stato brado (di qui la denominazione citata). Una prima opera di bonifica era stata iniziata su idea di Emanuele Gianturco con un rialzo di 4 metri dai Granili fino ai piedi di Poggioreale, ma un vero e proprio risanamento fu attuato dall’ICP che dal 1914 fino al 1929 realizzò ben 39 edifici costituenti il Rione Luzzatti comprendenti 834 alloggi oltre ad una scuola per 1200 alunni ed una piccola chiesa. 59
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Assonometria di un insula del progetto iniziale
Il progetto rappresentava il primo tentativo dell’ICP verso una disposizione razionalista ed autonoma. Nonostante gli schemi siano intensivi e molto semplici, si dimostra il tentativo, da parte del progettista, di ordinare un area urbana, organizzando gli spazi verdi intensificando le relazioni tra gli isolati. Questi ultimi erano composti da otto edifici che si collegavano a degli edifici più bassi lungo tutto il perimetro. Di tutto l’impianto, due isolati, quadrati, furono dedicati quasi interamente ai servizi collettivi, quali: l’asilo, attrezzature sportive, lavatoi ecc. I primi isolati, sul lato interno, presentavano un alta densità edilizia per questo con la costruzione degli altri isolati si andò privilegiarono un modello con grosse corti interne, occupate da aiuole. Questo cambiamento si rivelò funzionale a garantire alloggi con migliori qualità abitative e alla propaganda del regime. L’ultimo ampliamento che si registrerà per il rione è tra il 1926 ed il 1929, contemporaneamente al rione Vittorio Emanule III di fronte al Carcere di Poggioreale. L’intervento vide la costruzione di una piazza con giardini vista come elemento di chiusura del reticolo urbano.
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Planimetria interna edificio principale con soluzione 60
RIONE PRINCIPE DI PIEMONTE
scheda
Collocazione geografica: Napoli, Borgo Loreto Progettista: Domenico Primicerio Anno costruzione: 1931-1935 Informazioni tipologiche: isolato tipo a blocco Ente costruttore: Istituto Fascista Case Popolari Caratteristiche costruttive: Edifici 11 ; 501 alloggi; 1620 vani 1
Il Principe di Piemonte alla cerimonia di inaugurazione. 1935
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Foto dell’epoca, Piazzale con verde attrezzato.
Il Rione fu costruito sulle spoglie del fondaco dei Granili nella zona delle ex-concerie, sulla “via per la Reggia di Portici”.I fondaci erano delle tipologie abitative miste, molto diffuse nel ‘700 napoletano. L’opera, si affacciava alla zona del porto e si estendeva su un importante arteria della città, puntando a rinvigorire l’area di interesse commerciale ed industriale, dove poco dopo venne costruito anche il Mercato Ittico, importante opera di Luigi Cosenza. Il risanamento fu eseguito dall’ICP e dalla direzione igiene e sanità pubblica del Comune. I nuovi edifici erano differenziati per ceto, e differivano per altezza di piani e dettagli stilistici. Gli edifici, di quattro e cinque piani, decorati da basamento e lesene , affacciavano su uno slargo comune. Questi edifici, con corte centrale, erano sempre accessibili dalla strada, ospitavano famiglie, forestieri, animali e merci; spesso versavano nel degrado in condizioni igienico-sanitarie molto precarie. 61
RIONE DUCA DEGLI ABRUZZI
scheda
Collocazione geografica: Napoli, Borgo Loreto Progettista: Domenico Primicerio Anno costruzione: 1931-1935 Informazioni tipologiche: isolato tipo a blocco Ente costruttore: Istituto Fascista Case Popolari Caratteristiche costruttive: Area 42.460 mq; 39 edifici, 834 alloggi; 2074 vani utili- 3128 ab 1
Risanamento Sebeto. Servizi interni.
Il rione, a carattere popolare, determinò la copertura del fiume Sebeto, «storico di nome ma di portata indegna, recando esso al mare i residui delle lavorazioni di conceria». L’avanzamento che si evidenzia nella realizzazione di queste abitazioni, è sul piano tecnologico e funzionalista. Le decorazioni in facciata furono ridotte all’osso, evidenziate solo da differenti colorazioni sul basamento. Oltre ai lavori di bonifica del territorio, l’ufficio tecnico realizzò per la prima volta le docce disponibili in ogni appartamento, riscaldate dal’adiacente fornello della cucina. Queste sperimentazioni produssero ottimi risultati, e le soluzioni vennero riproposte nelle successive realizzazioni. 2
Foto dell’epoca 1940. 62
Bibliografia essenziale: Istituto Fascista autonomo per le case popolari della provincia di Napoli : [1935‐XIV / 1939‐XVIII], S.A. Richter & C., Napoli 1940 G. Daria, Storia di una capitale, Napoli 1935 Roberto PANE, Architettura del Rinascimento in Napoli, E.P.S.A. Napoli 1937 Giuseppe Ceci, Bibliografia per la storia delle arti figurative nell'Italia meridionale, Napoli 1937 P. CONCA, Una sintesi statistica dei primi cinquant’anni di vita dell’Istituto Case popolari di Napoli, “Edilizia popolare”, n°17, 1957 Luigi MILONE, L’istituto per le case popolari della provincia di Napoli. 1956 Giuseppe RUSSO, Il Rinascimento e l’ampliamento della città di Napoli , Società pel Risanamento, Napoli 1960 Carlo COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958 , a cura della Società pel Risanamento di Napoli, Napoli 1961 Luigi PICCINATO, Scritti vari, 1925‐1974, Roma 1977 A. LA STELLA, L’Edilizia popolare a Napoli dalla Legge Luttazzi ad oggi, “La voce della Campania”, n° 10, 1980 M. FUNARI, Quartieri periferici ed abitazioni signorili. L’attività dell’IACP a Napoli fra le guerre, “ArQ” 3, 1990 Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993 Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO, Napoli architettura e urbanistica del Novecento, Editori Laterza, Roma , Bari 1994
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Renato DE FUSCO, Napoli nel Novecento, Electa, Napoli 1994 Alessandro CASTAGNARO, Architettura del Novecento a Napoli : il noto e l’inedito, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1998
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3. Il ragazzo della via Gluck La CITTA’ MODERNA NEL DOPOGUERRA La grande
ricostruzione della Napoli post-bellica
Esperienze di edilizia sociale: la casa popolare tra Barra e S.Giovanni a Teduccio
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CITTa’ MODERNA NEL CITTÀ MODERNA NEL DOPOGUERRA
La celebre canzone autobiografica di Adriano Celentano, “il ragazzo della via Gluck” (quartiere a nord di Milano), scalò le vette delle classifiche italiane negli anni ’60. 1 Il disagio generazionale che visse dei forti stravolgimenti territoriali dovuti alla rapidissima espansione urbana verso periferie e campagne, fu narrato in numerosi testi dei gruppi musicali emergenti che rappresentarono la più radicale avanguardia tra i linguaggi artistici di quegli anni. «Questa è la storia/di uno di noi,/ anche lui nato per caso in via Gluck, /in una casa, fuori città, /gente tranquilla, che lavorava. /Là dove c’era l’erba ora c’è /una città.»2 L’esodo dalle campagne verso le città partì dalla rivoluzione industriale ottocentesca, e si definì negli anni 50-60, in cui la forma urbana della città moderna fu plasmata dalla grande quantità di edilizia residenziale, avvicinandosi ad una forma più vicina a quella contemporanea. Fu un momento molto complesso, in cui le principali questioni costitutive della storia del novecento influenzarono tutti i campi artistici. Le nuove tendenze che si istituirono, in particolare in campo architettonico, furono dovute: «a) al periodo storico-politico entro il quale sorse e si sviluppò- fine della seconda guerra mondiale, divisione del mondo in blocchi, era atomica, avvento della cultura di massa; b) al nuovo rapporto fra architettura e società; c) alla crisi del Movimento Moderno; d) al passaggio tra le cosiddette condizioni moderna e post-moderna.»3 Ogni nazione poteva riscontrare una base comune di sperimentazione architettonica, sintetizzata dall’international style, che si era diffusa e radicata come patrimonio collettivo della “modernità” nel periodo tra le due guerre. Per quanto le tecniche ed i codici linguistici fossero distaccati rispetto alle tradizioni locali, i progetti per le architetture popolari riscontrarono scelte tipologiche e programmazioni urbane differenti in ogni nazione, caratterizzate a partire dalle differenti caratteristiche climatiche, culturali e politicoeconomiche.
Immagine di copertina. Baracche a via Marina, anni’60
Adriano Celentano. “Il ragazzo della via Gluk”. 1966 66
Gli stati in cui tradizionalmente si riscontrava una tradizione architettonica legata ad un tipo di abitazione monofamiliare, privilegiarono il tipo a schiera, soprattutto se la nazione disponeva una maggiore disponibilità finanziaria e di suolo rispetto alla densità di abitanti da collocare. Questa tipologia fu utilizzata prevalentemente nei quartieri popolari olandesi, fino a raggiungere il 90% delle abitazioni a basso costo, ma fu molto diffusa anche in Inghilterra, Svizzera e Belgio. In Italia, Francia ed Austria, invece, si preferirono tipologie a blocco, perché più simili ai sistemi costruttivi tradizionali, nonché alle caratteristiche del contesto urbano preesistente. I blocchi a corte interna permettevano un maggiore sfruttamento di superficie del suolo, e garantivano una migliore disposizione dei servizi igienici nei sistemi distributivi a carattere intensivo. Nel dopoguerra, tuttavia, in continuità con le precedenti motivazioni e con l’intensificarsi dell’uso del cemento armato, i paesi sud europei tesero a intensificare l’utilizzo della tipologia a torre o a ballatoio. Durante il periodo, che va dagli anni ’50 ai ’60, le tendenze che ambivano ad un architettura universale cedono il passo ad un nuovo spirito, coltivato nella “Resistenza” e stimolato dalla grande ricostruzione postbellica. La ricerca compositiva internazionale, che rinnegava la storia e si appellava all’ existenzimunimun per fornire un funzionalismo rigoroso come base per ogni progetto, fu superata . Sul piano internazionale la tendenza fu quella di unire ai trascorsi linguaggi del “movimento moderno” dei nuovi stimoli che provenivano dalle reinterpretazioni di architetture storiche. La storia e le differenti specificità culturali, a cui gli uomini si sentivano di appartenere, furono reinserite nel dibattito e nelle sperimentazioni architettoniche. Tale tendenza consentì di liberare le forme progettuali a partire delle profonde peculiarità, proprie alle differenti condizioni e culture locali. L’Inghilterra, ad esempio, in questa fase assunse un ruolo guida sia dal punto di vista urbanistico, promuovendo accurate riforme di pianificazione per le industrie e per gli insediamenti residenziali; sia dal punto di vista architettonico. Con il contributo di rinomati maestri dell’architettura europea, rifugiatisi in Inghilterra durante l’inasprimento del conflitto mondiale, che spaziavano dal razionalismo al costruttivismo russo, la giovane avanguardia britannica riuscì a trovare una sua dimensione attraverso il “new brutalism”. L’osservazione d’insieme dello spazio urbano e la rivisitazione delle tipiche architetture inglesi erano i primi aspetti per una progettazione che esprimeva la dignità sincera degli elementi architettonici. Il linguaggio comunicativo nelle grafiche e nei disegni testimoniava una realtà tangibile e moderna, poetica e critica di una cultura urbana.
Dopoguerra Seconda guerra mondiale. Ricostruzione Brigate Garibaldine
Immigrazione meridionale. Anni ’50.
The greater London Plan 1944 67
In Italia i valori popolari legati alla Resistenza segnarono il punto di partenza per una nuova cultura nazionale, le arti si uniscono nella ricerca di un nuovo linguaggio popolare. La ricerca, condusse ad un esperienza condotta nazionalmente attraverso il “neorealismo” che nella letteratura, l’arte e il cinema riuscì a rendersi comprensibile dalle masse. Tali innovazioni linguistiche trovarono degli sbocchi proficui applicate nella storiografia ed nel disegno industriale. L’architettura italiana si distingueva in tre grandi gruppi di avanguardia, l’APAO a Roma (fondato da Bruno Zevi(1918-2000)) , il MSA a Milano (di cui facevano parte F: Albini, G: De Carlo, Belgiojoso ecc) e il gruppo Pagano a Torino. Le differenze si evidenziavano non tanto sul piano ideologico ma più su quello pratico, dove le esperienze erano legate agli studi e alle personalità delle scuole locali. La nuova architettura rinnegava la “banalità” di in funzionalismo integrale, provando a proporre un funzionalismo sensibile, umano.4 Il legame con alcune forme tradizioni non fu finalizzato, come nello Storicismo, a ritrovare un unità monumentale riconosciuta come nazionale. Alcuni elementi decorati-vi e materici furono recuperati da riferimenti culturali e profondi. «Non si può essere architetti senza aver provato ad essere uomini.»5 Con queste parole il Metron (organo di stampa dell’APAO) comme-morava la morte di Beltrami, Lamò, Pagano e Banfi, immaginando l’inizio di un nuovo atteggiamento umano verso l’ architettura che partiva da un percorso “spirituale”. L’architettura neorealista, nasce dalla corrente promossa da Bruno Zevi, legata all’architettura organica. Alcuni quartieri popolari progettati dal gruppo Ridolfi e Quaroni, si ispirarono alle aggregazioni residenziali dei borghi rurali, cercando di riprodurre un immagine di “casa qualunque”. Gli spazi erano ragionai in modo da favorire i rapporti umani tra gli abitanti, e le funzioni primarie si intrecciavano a spazi aggregativi, commerciali e culturali. I riferimenti rintracciavano un gusto spontaneo, legato alla cultura artigiana producendo dei fabbricati di forme semplici. Questa ricerca è un tentativo da parte dell’architettura del tempo di riuscire realmente a comunicare con un linguaggio comprensibile alle masse, obbiettivo ,che non sempre in architettura venne raggiunto. Alcune delle prime opere più significative furono il Quartiere Tiburtino e le case INA di viale Etiopia, a Roma, ed il Borgo Martella a Matera. A Milano l’architettura popolare fu intesa come momento di riscatto di classe. Si sviluppano dei codici moderni influenzati dallo stile Liberty, che fu rivalutato e ricomposto per essere ripreso nel gusto com-positivo delle geometrie, e nello studio del dettaglio che vede il suo massimo splendore nei progetti di Carlo Scarpa(1906-1978) dando luogo al fenomeno qualche anno dopo fu definito “Italian Style”6.
BBPR. Torre Velasca, Milano 1958
Frank Lloyd Wrighte Bruno Zevi 1951 Venezia organic 68
L’architettura, più libera ed aperta nella ricerca di nuove soluzione per la città “post industriale”, fu tagliata fuori dall’organizzazione a grande scala che segnò una rapidissima crescita edilizia assaltando i centri storici ed inurbando rapidamente le periferie di ogni città. Lo sviluppo urbano non avvenne in maniera controllata. Istituti e privati operarono in piena autonomia nella ricostruzione di intere città. Dei 736 comuni italiani chiamati a formare un piano regolatore conforme alla Legge Urbanistica del ’42, solo 23 vengono definitivamente approvati. Il primo Congresso per la Ricostruzione Edilizia fu convocato nel 1945, dove dibatterono alcune associazioni tra le quali l’Apao, L’inu, il Msa ed altre; non fu trovata una sintesi che potesse trovare riscontro in un intervento immediato. Nel 1945 fu emanato il “Piano per la Ricostruzione”, un nuovo strumento urbanistico che fu completato nel 1949 dal decreto chiamato “Piano Fanfani” che supportò con ingenti finanziamenti pubblici gli interventi di ricostruzione. Lo stato, l’INA Casa e GESCAL si occuparono di coprire i finanziamenti per gli IACP che avevano il compito esclusivo di gestire le costruzioni e che fino ad allora si erano basati su finanziamenti di creditori. Tra le manovre di incoraggiamento all’industria edilizia il Consiglio di Stato regolamentò che i Piani Regolatori non dovessero dare imposizioni di vincolo su beni privati, invalidando, in tal modo, anche la Legge Urbanistica del ’42, che era stata riconosciuta come un utile ed avanzato strumento giuridico prodotto dal fascismo italiano . Il7 “miracolo economico” italiano degli anni ’50 fu possibile grazie ad una ripresa delle industrie, in particolare nel settore meccanico e siderurgico che iniziò ad svilupparsi in Toscana, in Emilia, nel Veneto ma anche in alcune città della Sicilia. La tendenza che si ebbe nei confronti dell’Italia meridionale, fu quella di incrementare, con i finanziamenti pubblici, il settore edilizio. Il consumo del suolo e l’inquinamento dei territori dovuto alla massiccia urbanizzazione ed industrializzazione, furono fenomeni che marcarono una caratteristica peculiare delle città metropolitane moderne, rispetto agli storici modelli urbani. La cementificazione dei suoli, la diffusione dei servizi igienici ed elettrici che vennero forniti a tutte le case, nonché il potenziamento delle reti infrastrutturali registrarono un forte impatto ambientale. Lo sviluppo portò ad un nuovo utilizzo delle risorse naturali, prima d’ora mai immaginato. «In modo sommario, ma eloquente, possiamo ricordare la pressione esercitata sul suolo, attraverso l’estrazione di materiali da costruzione (la produzione delle cave passò da circa 38 milioni di tonnellate nel 1951 a oltre 221 milioni di tonnellate nel 1971); attraverso la sua copertura per realizzare infrastrutture e soprattutto edificare nuove abitazioni (nel periodo considerato i vani passano da 37 a 71 milioni e la superficie urbana aumentò da tre a dieci volte) e attraverso la industrializzazione dell’agricoltura (confermata dal raddoppio della produzione agricola).
Carlo Scarpa Casa Veritti, Udine, 1955-1961
Edificio Ina Casa Matera 1947 69
Quanto all’aria, basta ricordare che il numero degli autoveicoli crebbe da circa 340.000 nel 1950 a oltre 10 milioni nel 1970, mentre nel solo quinquennio 1966-1971 le emissioni di scarico degli autoveicoli aumentarono del 46% e il consumo di combustibili per riscaldamento raddoppiò, per non parlare degli scarichi industriali. Infine, si registrò un massiccio incremento nell’utilizzo delle acque, provocato congiuntamente dalla crescita degli usi domestici (favorito dalla estensione della rete degli acquedotti e delle fognature: dal 1963 al 1974 i comuni dotati di acquedotto passarono dal 69% all’85% del totale), di quelli industriali e di quelli agricoli.» 8
Torino. Vetture Fiat 600 sulla pista di collaudo di Mirafiori. 1955
Archigram (1961-1964) Walking city 70
LA GRANDE RICOSTRUZIONE DELLA NAPOLI POST-BELLICA Dopo anni di dittatura fascista, guerre e miseria, il popolo napoletano ridotto sul lastrico si rivoltò riuscendo a liberare la città dall’esercito tedesco. La rivolta popolare ricordata come “le Quattro Giornate di Napoli” fu l’apice di un lungo anno di fermento, partita dalla Masseria Pagliarone, nel quartiere Vomero, dilagò a macchia d’olio in tuta la città sostenuta e partecipata da tutta la popolazione civile. Napoli, Medaglia d’oro al valore, fu una delle principali città italiane a liberarsi dal nazifascismo consegnando, di fatto, una città già liberata, alle truppe alleate Americane. Il prezzo da pagare fu alto, i bombardamenti, perpetrati sia dai tedeschi che dalle forze alleate furono violenti e mirati a distruggere il valore culturale ma anche economico di Napoli e di molte città campane. Strade, ospedali, palazzi istituzionali e più di 70 chiese furono colpiti «nel 1945, con le distruzioni operate dalla guerra (1.000 alloggi distrutti, 5.000 alloggi non abitabili, per un totale di 45.000 vani perduti) si arrivò a circa 100.000 vani da risanare, con densità abitative superiori a quelle dell’anteguerra e gravi nei comuni della periferia, dove 40.000 napoletani si erano insediati, con densità che raggiungevano 6 abitanti per vano a Ponticelli.» 9 La zona est fu quella più ferita e in particolare le industrie e il porto furono rase al suolo, come le centrali idroelettriche e gli acquedotti. Finita la guerra, la voglia di riscatto ed i cambiamenti geo-politici segnarono l’inizio di un nuovo periodo storico in tutti i campi artistici e scientifici che guidarono il processo di ricostruzione. La rinascita intellettuale contro la dura repressione del regime rimette in circolo una nuova energia di ispirazione internazionale ed antifascista, l’architettura legata al movimento moderno, divenne baluardo di democrazia indirizzata verso nuove forme che si distaccarono dal funzionalismo arido per affacciarsi sulle linee dell’architettura organica. Davanti c’era un mondo da ricostruire ed un terribile passato da non replicare. Venne rifondato l’Ordine degli Architetti di Napoli con presidente Roberto Pane(1897-1987), e quello degli ingegneri l’antifascismo. I gruppi nazionali di affinità critica vicini al “neo-realismo” letterario, ebbero seguito anche a Napoli, in particolare l’APAO, a cui aderirono anche Pane e Cosenza10
Napoli durante i bombardamenti dell’agosto 1943
Barricate su via Santa Teresa degli Sclazi. 1943
Via Marina. Foto 1943 71
L’impegno sociale e politico si riscontrava in ogni disciplina e come conseguenza naturale l’urbanistica ed l’avvenire della città divennero la questione centrale per tutti gli architetti e gli ingegneri della “rinascita”.11 La ricostruzione delle maggiori città italiane diede molto spazio all’edilizia pubblica, così si svilupparono nuovi studi architettonici di sperimentazione per l’edilizia sociale, avendo finalmente la possibilità di metterli in pratica. Nel 1944, l’assessore De Liguoro propose di elaborare un nuovo piano regolatore per la città di Napoli. A seguito di tale proposta, ma ancora prima di aver garantito l’attuazione, fu invalidato il Piano Regolatore vigente del ’39. La disciplina urbanistica ed il nuovo linguaggio moderno furono avvertiti come una possibilità di riscatto per garantire migliore vivibilità a tutta la popolazione cittadina. Nel ’45 si formò una redazione correlata da Luigi Cosenza e partecipata da Roberto Pane, Felice Ippolito, Adriano Galli, Ferdinando Isabella, Amedeo Maiuri, che lavorò nove mesi alla stesura del Nuovo Piano Regolatore. Il piano “Cosenza”, si incentrava prevalentemente sullo sviluppo economico e sull’incremento dell’edilizia residenziale per la ricostruzione. Il progetto di ispirazione “razionalista”, proponeva la realizzazione dei nuovi quartieri in prossimità delle zone industriali, le nuove fabbricazioni non dovevano essere pensate in continuità stilistica e formale con quelle preesistenti, ma la città nuova doveva rinascere sulle nuove esigenze con nuove dimensioni e relazioni spaziali tra verde, residenza e fabbrica. I quartieri erano considerati ancora in maniera subordinata e dipendente alla città; concepiti prevalentemente come luogo di riposo dalle attività lavorative. La ricostruzione della Via Marittima, fu pensata come asse di rilancio della città. Il progetto tendeva a riqualificare la morfologia e la tradizione dei luoghi della strada che affacciava sul mare, attraverso uno skyline regolare che avrebbe dato una particolare immagine alla città vista dal mare. I nuovi edifici avrebbero dovuto ospitare prevalentemente attività terziarie e commerciali, mentre alcuni canali univano la città alla zona portuale e industriale ad Est.12 Altri zone industriali satellite dovevano essere sparsi nelle altre periferie, nord e soprattutto ovest. L’ampliamento previsto si allargava in ogni direzione ma in maniera controllata, il parametro principale da rispettare era quello dell’estensione panoramica, artificio concettuale per sfruttare la potenzialità estetica dei luoghi e sancirne una sorta di tutela paesaggistica. Incoraggiando la ripresa a partire dalle macerie dei bombardamenti bellici, fu riconosciuta la possibilità di ricostruire lì dove era stata distrutta la propria abitazione o industria.
La posta Centrale. Foto 1943
Sedi nazionali APAO. Anni ‘40
Luigi Cosenza (1905-1984) 72
Il Piano Cosenza venne consegnato nel ’46, ma il percorso per la sua attuazione fu molto travagliato e finì, dopo pochi anni, con il ritiro definitivo, sancito dall’Amministrazione Lauro. La ricostruzione si estese in ogni direzione, ogni quartiere era un esperienza progettuale a sé, e la mancanza di un Piano si evidenziava dall’insufficienza di infrastrutture, spazi verdi e servizi adatti. Gli ex casali vennero progressivamente assorbiti dalla cementificazione diffusa, svilendo il ruolo potenziale dei piccoli centri storici, che invece, era stato colto nell’idea di “urbanizzazione stellare” contenuta dal “Piano Piccinato”. Il Piano del 39’, fu letto come uno strumento vecchio e non adatto alle nuove esigenze della società che andava costituendosi col dopoguerra. Venne rispolverato il Regolamento Edilizio del ’35, conservando le dimensioni massime per la costruzione delle fabbriche e le tre zonizzazioni orientative (centrale, semiestensiva ed estensiva) indubbiamente meno vincolanti, accontentando le varie clientele dell’imprenditoria edile, e lasciando una città in ricostruzione, in preda all’ingovernabilità urbanistica. T ale emendamento, già Piccinato aveva messo in guardia le competenze comunali, disapprovandolo in un articolo nel 1938. Il regolamento del ’35, era considerato uno strumento urbanistico non adeguato allo sfoltimento dei quartieri, bensì forniva le basi per nuovi addensamenti popolari. Ed ancora Cocchia, nel 61’ ammetterà che effettivamente, il regolamento del ’35 fu lo strumento che permise la tragica «epidemia edilizia»13 del dopoguerra. L’unico principio su cui tutte le parti si trovarono in ac-cordo, fu quello del decentramento verso e sulla necessità di accontentare la domanda per l’edilizia economica e popolare. «Così ebbe inizio quella tragica storia urbanistica ed edilizia che, a partire dal 1944 al 1972 avrà come motivo dominante e come falso problema la “urgente” necessità di dotare la città di Napoli di un nuovo piano regolatore.»14 Nel 51 la destra e la monarchia con una netta maggioranza si attestano il Governo della città di Napoli, con sindaco, Achille Lauro, figlio di una nota famiglia di armatori e fondatore della Flotta Lauro. Nel ’52 viene ritirato dalla giunta il piano in vigore per elaborarne uno nuovo. La città restò per sei anni senza Piano Urbanistico finché nel ’58, alla fine del secondo mandato laurino, fu elaborato un piano per avallare le manovre urbane eseguite dall’amministrazione di quegli anni. Il Piano serviva in prima istanza a regolamentare tutte le “acquisizioni” ossia tutti gli illeciti e gli abusi e continuava ad incoraggiare il modello speculativo, in maniera, questa volta ufficiale. T utte le zone agricole ed anche quelle che erano state destinate come zone verdi furono ricoperte di edifici, la popolazione si spostò soprattutto nei nuovi quartieri del Vomero e Fuori Grotta che nel censimento nel ’71 raggiunse un incremento del 60%.
Achille Lauro. Sindaco di Napoli 1952-
“Le mani sulla città” Film Francesco Rosi 19631963 73
«Nei due settenni dellINA-Casa, fino al subentro della Gescal nel 1963 (legge 14/2/63 n.60), furono realizzati insediamenti in Napoli e provincia per un totale di 10.316 alloggi e 58.208 vani compresi accessori; nella sola città di Napoli n. 8.458 alloggi per n. 48.918 vani.»15 Si consumò in questi anni quella che Vezio de Lucia definì «la fase paleocapitalistica della speculazio-ne fondiaria ed edilizia»16 All’indomani della caduta dell’amministrazione Lauro, Roberto Pane convocò un convegno dove si espresse la classe professionale del tempo, si dichiarò che i livelli di compromissione con il prodotto speculativo finale, erano stati molteplici e si riscontrò un diffuso sentimento di amarezza che figurava nel ruolo dell’intellettuale inesaudito, incapace di gestire gli eventi. Nonostante le difficoltà, ci si rese conto che le emergenze non sarebbero finite con il tramonto dell’amministrazione democristiana, bisognava continuare a ricercare risposte. Finalmente nel 1962 il Consiglio Superiore dei lavori pubblici bloccò il piano del ‘58, per insufficienza di studi sul traffico e di un adeguato inquadramento urbanistico, inoltre per l’eccessiva densità costruttiva, ma restano valenti ancora due varianti che consentono nella zona collinare e in quella di Fuorigrotta l’ampliamento dei fabbricati di 18 mq e di 26 metri di altezza. T utta la vicenda della falsificazione dei piani regolatori e dei documenti ufficiali, restò impunita con prove a carico di ignoti, a dimostrazione del fatto che la pratica della falsificazione era diventata una faccenda semplice e ordinaria. Non essendo strutturata in maniera organica, l’attività edilizia di questi anni non stravolse la forma urbana generale, piuttosto ne venne incrementata notevolmente la massa edilizia. Come spiega Belfiore, la città è mutata nel tempo senza mai assumere una precisa forma legata ad un idea unitaria «in oltre venticinque secoli di storia Napoli ha avuto tre soli momenti programmatori di grande rilievo: la città di fondazione in età grecoromana, il piano il piano vicereale e il risanamento ottocentesco.»17 Ma il rammarico di quei tempi fu quello di non riuscire, con la nuova architettura a dare una risposta all’altezza dello sviluppo della città. E non riuscì a trovare un armonia che legasse l’uomo con il suo nuovo habitat circostante. La pianificazione italiana restò ancorata agli interessi dominanti. La proposta Sullo, che aveva segnato un’apertura verso il dibattito sulla pianificazione, fu revocata nel 63. La speculazione continuava ad essere considerata come “sistema” ordinario. Nel 1966 il tragico evento della “frana di Agrigento” riuscì a rimettere al centro dall’opinione pubblica, non soltanto la questione economica, ma soprattutto la gestione dell’edilizia residenziale nazionale.
Napoli, collina Vomero Foto di Giorgio Sommer (1834-1914)
Collina Vomero inizio anni ’90. 74
Da qui si apre un nuovo periodo a partire dalla Legge 167/62 e poi la Legge Ponte (765/1967) che riprenderà il percorso abbandonato dopo la legge urbanistica del 1942. In questi anni si riaccesero nuove speranze verso un dibattito che portò in alcune delle principali città come Firenze, Roma, Venezia, Palermo ad adottare i primi piani regolatori. A Napoli una nuova commissione composta da Piccinato, Cosenza e Bordiga ricominciò a ragionare sulla città. Partendo da un rapporto tra infrastrutture e densità abitativa si comprese che l’alto livello di congestionamento doveva disgregarsi a partire dalla riformulazione di una “struttura” della città. A partire dai contorni periferici ed estendendosi verso i territori provinciali si poteva collegare la città formando una nuova rete interna, che decongestionasse quella costiera affacciandosi verso i 96 comuni della regione campana, a partire dalla costruzione delle autostrade e della tangenziale.
“L’onorevole Angelina” film di Luigi Zampa 1947
“Le mani sulla città” Film Francesco Rosi 1963 75
ESPERIENZE DI EDILIZIA SOCIALE TRA BARRA E S.GIOVANNI A TEDUCCIO La zona orientale della città fu quella più distrutta dagli accaniti bombardamenti del secondo conflitto bellico. Gli assalti conclusivi mirarono a distruggere il tessuto infrastrutturale ed industriale delle città. Gli abitanti di queste aree, durante la Guerra, furono infatti sfollati verso i comuni vesuviani e verso l’aerea nord, che mantenevano ancora un impianto rurale e più autonomo dal capoluogo. Nel dopoguerra le prime costruzioni a carattere residenziale si intensificarono proprio nelle zone limitrofe alla città, che accolsero i nuovi affollamenti dovuti alle migrazioni interne. Il progetto del Piano Cosenza del 1946 si concentrò prima di tutto sulla ripresa economica dell’area orientale, dalla costa all’entro terra. Il disegno avrebbe rappresentato una nuova vitalità della città, dove le dinamiche di espansione edilizia si sarebbero sviluppate proprio a ridosso delle aree produttive risanate. La struttura urbana di questa zona, al di là dei controversi avvenimenti dei Piani si ripristinò a partire tre aspetti, che coesistono insieme tuttora, come maglie diverse, sovrapponendosi nell’area ma senza accavallarsi. In primo luogo si conservarono le strade, le ville e i casali storici situati sulla “via che portava alla Reggia di Portici”, poi vi erano le infrastrutture a garantire i collegamenti interni con la città e con le industrie che caratterizzavano il terzo aspetto, determinando l’andamento del tessuto urbano. «Come le grandi insule conventuali nel centro antico, si sono in alcuni periodi progressivamente allargate fino a definire intere parti urbane, così le cittadelle industriali si sono consolidate in vere e proprie “sacche”, macroisolati urbani circondati dalle infrastrutture, dotate di una relativa autonomia nel sistema, in grado di assumere connotazioni molto precise.»18 T ra le aree storiche, le sacche industriali e le infrastrutture si svilupparono i nuovi insediamenti residenziali, destinati prevalentemente ad un utenza di carattere tipicamente operaio, connotando il carattere sociale e politico dell’area Est di Napoli.Le prime esperienze di case minime degli anni ‘30, in particolare con tipologie a corte o a schiera furono fondamentali per gli studi più maturi sulle case popolari, soprattutto per quanto riguarda le distribuzioni interne e l’esposizione.
Piano Cosenza. Skyline 1946
Carlo Cocchia- stazione Piazza Garibaldi
Carlo Cocchia. G. De Luca, F. Della Sala Napoli Corso A. Lucci, Via A. Vespucci 76
Esistono però degli esempi, documentati prevalentemente dalla memoria collettiva degli abitanti del luogo, che attestano la presenza di alcune case a schiera nell’’area di San Giovanni a T educcio. Le abitazioni, che sarebbero state abbattute subito dopo o durante la guerra, sorgevano nella zona dell’attuale Rione Luigi Settembrini, ed erano chiamate “E’ ccase ‘è musullino” (Le case di Mussolini)19 . Queste abitazioni a schiera, ad uso bifamiliare, si sviluppavano su due livelli, con tetti a spiovente ed un piccolo orto privato che insisteva davanti alle abitazioni. Un’altra produzione interessante, che non fu prodotta da alcun illustre progettista del tempo, ma si mostra molto vicina ad un gusto scarno e popolare, con dei chiari rimandi all’architettura italiana degli anni ’30, è situata tuttora sul Corso Nicolangelo Protopisani. Le tre minute stecche, furono costruite intono agli anni ’50, per ospitare delle residenze per alcune famiglie di finanzieri. Fu utilizzata la tipologia a schiera, su uno e due livelli, l’accesso era progettato sui due lati corti, il primo sul giardino/orto, in affaccio sul fronte strada; l’ac-cesso era situato sul retro, presentando una piccola rampa di accesso scandita per ogni abitazione. Le cornici lungo le finestre che seguivano una trama di composizione verticale. A Napoli, la situazione di “permissivismo”, spinta dal governo centrale democristiano, provocò una crescita disordinata e smisurata dell’edilizia residenziale, sfruttando una condizione speciale di urgenza abitativa. Questo mercato speculativo produsse un enorme quantità di case, e contribuì in buona parte alla ripresa economica, i cui costi furono versati per il 75% circa, dalla “legge per la ricostruzione” del 1947.20 Oltre all’aspetto speculativo, che generalmente viene ricordato, questo periodo storico presentò le condizioni per esercitare importanti sperimentazioni architettoniche. La progettazione di numerosi quartieri, infatti fu affidata ai maggiori esponenti dell’architettura e dell’ingegneria napoletana. La quantità e la libertà compositiva delle nuove case diede la possibilità di testare un vero e proprio laboratorio linguistico dell’abitare e dell’abitazione, anche se, su scala urbana ci furono notevoli arretramenti e la ricerca progettuale per vivibilità del contesto esterno alle abitazioni fu notevolmente trascurata dai servizi e dalle responsabilità amministrative. La quantità di materiale architettonico ritracciabile nell’area orientale, dimostrò i molteplici approcci possibili che si ebbero rispetto alla questione della residenza popolare, a partire dalle stesse richieste e possibilità da parte dell’utenza e delle commissioni. I quartieri progettati dagli studi professionali del tempo furono numerosi, tra cui, solo nell’area orienale: Rione Cesare Battisti A Poggio Reale(1946), Rione Stela Polare (1951), Unità Di Abitazione Ai Granili(1952), Rione Flavio Gioia A S Giovanni (1947), Rione Colombo
Carlo Cocchia. G. De Luca, F. Della Sala
Case popolari al rione Cesare Battisti Napoli, 1946-1947 Via Stadera Concorso
Case popolari al rione Cesare Battisti lotto3 Napoli, 1945-1948 Via Stadera Ezio De Felice
77
(1949), Rione Oberdan (1954), Il Quartiere Ina Casa Di Ponticelli(1951), Rione Santa Rosa (1957) Rione De Gasperi (1952).21 Il nucleo dei casali rimase riconoscibile e funzionò come centro aggregativo per la popolazione locale, conservando il legame storico con i luoghi. Fino alla metà degli anni ’60 fu riscon-trabile, in questi luoghi, una maggiore attenzione delle logiche insediative, più vicine al dibattito del “movimento moderno”, rispetto alle politiche dell’INA Casa che divennero trainanti nella costruzio-ne in grandi quantità di “edilizia abitativa”.22 In generale si differenziarono due periodi principali, uno che va dal ’46 al ’52, dove fu possibile riscontrare un omogeneità con il piano urbanistico Cosenza; ed un secondo periodo tra il ’52 ed il ’56 dove si affermò principalmente un disinteresse delle politiche costruttive, portate avanti dall’ dell’INA Casa, che mirarono a riempire quantità edilizie lì dove era possibile.23 Al primo periodo possiamo attribuire gli interventi che furono effettuati nel quartiere resi-denziale a Barra tra via delle Repubbliche Marinare e Via Chiaromonte, nel grande lotto attraversato da via Figurelle. Luigi Cosenza considerava la crisi dell’architettura, in prima istanza, una crisi culturale e dei modelli. L’uomo nei secoli aveva costruito case, in base alle proprie e collettive esigenze. Col passare dei secoli la figura dell’architetto si discostò da quella dell’artigiano, mettendosi alle dipendenze delle classi dirigenti di ogni epoca. «La differenza tra architettura aulica ed architettura minore, i limiti dell’analisi storica ed estetica dell’abitazione sono tra le cause della sua involuzione, dell’accentuarsi di tutte le deficienze e contraddizioni capaci di affrettarne nei secoli il decadimento. (…) Dalla fine dell’epoca dello stato selvaggio e della barbarie lo sviluppo dei rapporti di produzione, cioè dei rapporti fra gli uomini per realizzare la produzione, il modo di distribuzione sociale, hanno determinato una scelta tra casa dell’uomo libero e alloggi per gli schiavi, tra “domus” e “falasterio”. (…) Soltanto le masse degli uomini semplici allorchè riuscivano a conservare parte della loro libertà economica e spirituale, hanno portato avanti un filone di coerenza e di spontaneità capace di inserirsi con orgogliosa mode-stia in ogni ambiente.»24 Cosenza proponeva di utilizzare i casi limite della disgregazione che viveva la città di Napoli, durante il dopoguerra, come principi di sperimentazione e soprattutto di analisi. La crisi dell’abitazione in prima istanza sarebbe dovuta reinserirsi all’interno del processo creativo architettonico. A partire dalla lotta di classe, risorgeva la speranza dell’architetto ingabbiato dalle logiche dimensionali e spaziali delle committenze del potere.
Luciano Abenante.C. Cocchia, C. Coen, L. Cosenza, M. Corbi, F. Della Sala, G. De Luca, F. Di Salvo, G. Limoncelli, T. Papale, R. Salvatori Napoli Calata Capodichino, Ferrovia Piedimonte d’Alife, Via U. Masoni 1949 1950
Progetto Cosenza. Quartiere residenziale Barra
78
I nuovi quartieri, in una idea di città moderna, avrebbero rivisitato il classico immaginario paesaggistico Napoletano, inserendo le “bianche stecche razionaliste” all’interno del paesaggio vesuviano, rispettando i rapporti di forma e di composizione con le zone verdi e quelle produttive. L’insediamento residenziale a Barra, contestualizzato all’interno di un Piano a grande scala, era pensato in continuità spaziale con l’espansione ottocentesca di Barra, protendendo verso nord-Est, questa continuità che formalmente veniva spezzata dalle forme razionali e scatolari proseguiva con l’istallazione di zone di servizio ed aree sportive. La composizione dell’impianto fu integrata da tre rioni realizzati in diversi momenti su progetti di diversa paternità: il Rione D’Azzeglio(1946-48, Cosenza e Della Sala), Il Rione Cavour(1947-48, Di Salvo), ed il Rione INA-Casa(1951-52, Carlo Cocchia). L’impianto era da identificarsi come unitario, infatti fu mantenuta l’uniformità dell’idea introduttiva fu caratterizzata dall’orizzontalità dell’immagine complessiva, dalla ritmica tra edifici e spazi verdi, nonché dal carattere funzionale che si evidenziava. Tra il 1952 e il ’56, di fronte all’asse viario a scorrimento veloce, fu realizzato un altro insediamento, appartenente al secondo periodo dei quartieri costruiti dall’Ina Casa. Sorto nella zona del vecchio casale di Villa a San Giovanni, il rione faceva parte di un Piano statale di edilizia a forte densità, per case popolarissime e con attrezzature. Il progetto fu commissionato attraverso un concorso nazionale che vinse il gruppo Chiarini, M. Girelli, S. Lenci, C. Melograni, F. Vandone guidato da Carlo Aymonino (1926-2010) della scuola neorealista romana.Il Quartiere di Nuova Villa, fu progettato in mancanza di un progetto urbano d’insieme, le richieste della committenza riguardavano l’area, l’altezza degli edifici, la densità abitativa, e la presenza di alcuni servizi comuni. Il progetto consisteva, quindi, in un “quartiere autonomo” seppure integrato all’interno di un reticolo urbano preesistente e ben radicato a cui il progettista dedicò notevole attenzione. La vasta area si estendeva longitudinalmente tra la Ferrovia, la via delle Repubbliche Marinare e la strada comunale Nuova Villa caratterizzandosi compositivamente in una “sinuosità mistilinea” che ne determinò l’andamento. I tracciati furono studiati in maniera da consentire la massima attraversabilità del quartiere migliorando la viabilità tra i nuclei storici di S.Giovanni a Teduccio, Barra e Villa, ma la realizzazione non rispettò questo tema del progetto .25
Rione Nuova Villa. Schizzo. Aymonino
Quartiere Tiburtino Roma. 1949 Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni 79
Dopo la legge Fanfani e con l’inizio delle politiche costruttive guidate dall’Ina casa, all’interno dell’APAO si evidenziarono due correnti. Da una parte l’ala più intellettuale guidata da Zevi, sosteneva la necessità di una lotta critica senza compromessi, dall’altra l’ala legata a Quaroni e Ridolfi, preferì continuare la sperimentazione architettonica, preoccupata di rinchiudersi in un atteggiamento idealista ed estraneo al piano operativo di quegli anni. La scuola ridolfiana partì dall’osservazione dell’architettura “spontanea”, rintracciandone sia gli aspetti funzionali che quelli estetici appartenenti ad una cultura arcaica e rurale. Il distacco deciso dall’architettura del Ventennio, prese le distanze dalla ricerca neobarocca giovannoniana, anche se le differenze furono più evidenti sul piano intellettuale che su quello formale. Aymonino inserì una frammentarietà fintamente casuale delle planimetria generale, le fabbricazioni e a progettazione dei vialetti e del verde testimoniavano il tentativo di reinterpretare scorci e decorazioni, archetipi di una cultura popolare italiana. Il progetto, meno ambizioso e più economico del Quartiere Tiburtino, tese a rintracciare gli aspetti più sensibili e vicina alla convivenza umana. Ampia attenzione vi fu nell’immaginare le zone di passeggio e i rapporti tra vicinato. Anche la chiesa e la scuola servirono nella progettazione a determinare gli assi principali di viabilità interna, ma non furono rappresentati in maniera monumentale, discostandosi dalle prospettive degli scorci centrali. La giovane collaborazione con i grandi maestri Ridolfi e Quaroni fu per Aymonino un esperienza che formò il suo essere architetto, lontana dalla mitizzazione dogmatica. L’esperimento del Tiburtino provò ad inserire tutti i contenuti ideologici, politici e culturali, acquisiti nei dibattiti del’’APAO e a costituirli in forme per abitare. L’architettura di Aymonino fu messa in crisi dalla delusione della Ricostruzione, le sue posizioni tesero a rendersi sempre più autonome, avvicinandosi alle posizioni dell’amico Aldo Rossi (1931-1997) ed incrementando il suo percorso da militante nel PCI. Dopo i piani dell’INA Casa l’area impegnata nei grandi dibattiti architettonici inizia a soffrire un forte isolamento sul piano operativo, di una politica e di una imprenditoria insensibile, alle questioni del rinnovamento popolare post resistenza, che invece era stata la carica per la ricerca carica critica ed originale verso nuove forme dello spazio urbano. La “cristallizzazione del linguaggio” recintò le numerose esperienze in una lettura di “stile”, tanto lontana dalle aspirazioni iniziali. L’energia di architetti che provarono a dare una differente impostazione alla costruzione delle nuove città, per un nuovo modello di vita, dopo la guerra, fu svilita, disciolta, nella speculazione imprenditoriale, che riprese alcuni modelli senza mai approfondirne il contenuto:
Cinema e architettura. I Soliti ignoti Le case a torre Iacp al Tufello
Cinema e architettura. Ladri di biciclette, case popolari Val Melaina al Tufello 80
« Da una parte è Luigi Cosenza, ha abbandonato tutto- lavoro, università, INU- per protesta estrema contro la situazione attuale: dall’altra è Nervi, che accetta tutto pur di realizzare sempre più vaste superfici coperte, che non ci sentiamo di definire spazi. Da una parte, anni fa, fu Ridolfi che visse a Cerignola in tempo per comprendere e interpretare la vita dei braccianti che avrebbero usato le sue case, dall’altra siamo stati noi, concorren-ti del CEP di Venezia, che in un mese abbiamo dovuto disegnare la vita di sessantamila abitanti.»26
81
Note: 1
Federica MANENTI, Il ragazzo della via Gluck, in Millennio Urbano.it, gennaio 2014.
2
Luciano BERETTA, Adriano CELENTANO, Il ragazzo della via Gluck, trac.1, 1966
3
Renato DE FUSCO, Storia dell’architettura contemporanea , Laterza, Roma‐ Bari 1974 p.333
4
5
Claudia CONFORTI, Carlo Aymonino. L’architettura non è un mito, Officina edizioni, Roma 1980
F.Beltrami, G. Labò, G. Pagano, G.L. Banfi (commemorazione), in Metron, n. 1, p. 13, Roma
1945. 1 Carlo SCARPA, Carlo Scarpa: Opera completa, Electa, Milano 1984 6
Vezio DE LUCIA ‐ Antonio IANNELLO, L’urbanistica a Napoli dal dopoguerra ad oggi, di “Urbanistica” n. 65, Napoli 1976 7
European Society for Environmental History cfr Simone NERI SERNERI, Urbanizzazione e ambiente
nell’Italia contemporanea, 1950‐1970 da Eddyburg.it , 12.03.2005 8
Relazione al Piano Regolatore di Napoli, 1946.
9
Benedetto GRAVAGNUOLO. L’ architettura della ricostruzione Tra continuità e sperimentazione. architetture dal 1945 a oggi a Napoli e provincia. Facoltà di Architettura Seconda Università degli Studi di Napoli Federico II 2004 ‐ 2005 10
Pasquale BELFIORE, Frammenti di qualità architettonica: percorsi dell’età post‐ moderna, 1958‐2000. In:
AA.VV.. Napoli e la Campania nel Novecento. Diario di un secolo. Edizioni Millennio, Napoli 2005 11
Relazione al Piano Regolatore 1946
13
Carlo COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958 , a cura della Società pel Risanamento di Napoli, Napoli
1961
82
14
Vezio DE LUCIA ‐ Antonio IANNELLO, L’urbanistica a Napoli dal dopoguerra ad oggi, in “Urbanistica” n. 65, Napoli 1976 15 L’ IACP Di Napoli Tra Storia E Futuro, in www.federcasa.it 16
Vezio DE LUCIA ‐ Antonio IANNELLO, L’urbanistica a Napoli dal dopoguerra ad oggi, 65 di “Urbanistica”, n.
65, p. Napoli 1976 17
Giuseppe SAMONÀ, Considerazioni, in “Casabella” n°205, p. 36, 1959 cfr Pasquale BELFIORE, Fuori
dall’ombra : nuove tendenze nelle arti a Napoli dal’45 al ’65 , Elio De Rosa editore, Napoli 1991 18
Pasquale MIANO, La trasformazione urbana delle aree ex industriali di Napoli, in Marella SANTANGELO e Federica VISCONTI, La trasformazione delle aree periferiche nella dimensione metropolitana della città : il caso‐studio di Napoli Est , Edizioni scientifiche italiane , Napoli 2006 P. 33. 19
Cristoforo LUCARELLA, San Giovanni a Teduccio : ...storia di una borgata napoletana, , Arti Grafiche Meridionali MASI, Napoli 1992. P.761 20
Benedetto GRAVAGNUOLO. L’ architettura della ricostruzione Tra continuità e sperimentazione. architetture dal 1945 a oggi a Napoli e provincia. Facoltà di Architettura Seconda Università degli Studi di Napoli Federico II 2004 – 2005 21
Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001
22
Elio DE ROSA, Fuori dall’ombra : nuove tendenze nelle arti a Napoli dal’45 al ’65 , Napoli 1991
23
Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993
24
25
Luigi COSENZA, Storia dell'abitazione, Vangelista, Milano 1974. p.11
Lilia PAGANO. Op. Cit.
26
Carlo AYMONINO, Leonardo BENEVOLO, Architettura italiana. 6 domande. In Casabella‐continuità, p. 4,
n°251, 1961
83
1
Piano Regolatore del ‘58 2
Piano ricostruzione dei quartieri porto, mercato e pendino, Cosenza Luigi 1946 3
Piano Porto del ‘46
1 3
2 84
rione d’azeglio rione cavour rione ina casa quartiere nuova villa Opere Trattate Altre Opere tra il ‘45 e il ’66
85
RIONE D’AZEGLIO
scheda
Collocazione geografica: Napoli , Via Figurelle, via Alveo Artificiale Progettista: Luigi Cosenza, Francesco Della Sala, C. Coen Anno costruzione: 1946-1948 formazioni tipologiche: tipologia a ballatoio - IACP Caratteristiche costruttive: struttura in calcestruzzo armato Dati dimensionali: 9 edifici; 180 alloggi; 720 vani
1
Progetto assonometrico dell’insediamento.
L’insediamento residenziale a Barra, contestualizzato all’interno del Piano Cosenza, a grande scala, era pensato in continuità spaziale con l’espansione ottocentesca di Barra, protendendo verso nord-Est, questa continuità che formalmente veniva spezzata dalle forme razionali e scatolari proseguiva con l’istallazione di zone di servizio ed aree sportive. I nuovi quartieri, in una idea di città moderna, avrebbero rivisitato il classico immaginario paesaggistico Napoletano, inserendo le “bianche stecche razionaliste” all’interno del paesaggio vesuviano, rispettando i rapporti di forma e di composizione con le zone verdi e quelle produttive. La composizione dell’impianto fu integrata da tre rioni realizzati in diversi momenti su progetti di diversa paternità: il Rione D’Azzeglio(1946-48, Cosenza e Della Sala), Il Rione Cavour(1947-48, Di Salvo), ed il Rione INA-Casa(1951-52, Carlo Cocchia). L’impianto era da identificarsi come unitario, infatti fu mantenuta l’uniformità dell’idea introduttiva fu caratterizzata 86
2
Vista aerea d’insieme
3
Facciata giorno, balconate
dall’orizzontalità dell’immagine complessiva dalla ritmica tra edifici e spazi verdi, nonché dal carattere funzionale che si evidenziava. Nel 1946, per il progetto del Rione D’Azeglio fu utilizzato dall’IACP un sito dove erano già state realizzate delle fondazioni, sospese per l’inizio della guerra, di un complesso edilizio. La preesistenza determina la scelta tipologica dell’architetto della casa a ballatoio. La tipologia degli edifici riprende il cosiddetto stile “nordico” ottenendo di fatto con questa scelta la linearità e la purezza geometrica dei singoli volumi (vedi cellula ballatoio di Gropius al Damerstock) ma anche un lavoro di ricerca sulla balconata napoletana rivisitata in un ottica razionalista. Cosenza in particolare approfondisce lo studio degli elementi della tradizione contadina meridionale per esprimere l’importanza funzionale dell’elemento tradizionale integrato nel progetto stesso. La metodologia progettuale razionalista si evidenzia nella scelta di il “letto come parametro del valore dell’alloggio”. Il modulo di partenza diventa la camera da letto. La casa risponde per questo pienamente alle sue caratteristiche funzionali e formali. Furono realizzate alla fine delle stecche, in cemento armato, su 4 file e tre colonne per un totale di 9 edifici su 4 piani, ognuno ospitante 5 alloggi per un totale di 180 alloggi. Le scale esterne a ballatoio definirono i tre fronti. L’edificio viene progettato con una scala aperta che conduce ad un largo ballatoio che serve le cinque abitazione del piano. La disposizione interna di ogni edificio fu ripetuta, disponendo verso nord tutti i servizi, e a meridione le camere ed il soggiorno. Le due facciate lunghe furono composte in maniera differente: da una parte i lunghi ballatoi, che affacciano sul lato nord e che evidenziano una forte orizzontalità formata da linee uniche e continue, dall’altra al contrario il lato sud, filari verticali di pieni e vuoti che corrispondono ai terrazzi dei soggiorni. Gli alloggi al piano terra prevedono l’utilizzo privato di giardini a schiera, ma questi spazi, ben presto cambiano destinazione d’uso: da giardini privati passano a giardini condominiali per essere trasformati alla fine in parcheggi di auto. Nonostante il forte influsso del razionalismo tedesco a cui fa ampiamente 87
riferimento, e la consacrazione del successo edilizio per Cosenza nella realizzazione di questo rione, non verranno costruite similari quartieri in tutto il sud Italia.La struttura in muratura portante con muro a spina determina scelte formali tradizionali.
Bibliografia essenziale: Luigi COSENZA, Esperienze di Architettura, Macchiaroli, Napoli 1950 Carlo COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958 , a cura della Società pel Risanamento di Napoli, Napoli 1961
Gianni COSENZA, Francesco Domenico MOCCIA, Luigi Cosenza l'opera completa, Electa, Napoli 1987 4
Facciata servizi con logge
Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993 Renato DE FUSCO, Napoli nel Novecento, Electa, Napoli 1994 Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO, Napoli architettura e urbanistica del Novecento, Editori Laterza, Roma , Bari 1994 Alessandro CASTAGNARO, Architettura del Novecento a Napoli : il noto e l’inedito, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1998 Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001
5
Planimetrie interne alloggi. 88
RIONE cavour
scheda
Collocazione geografica: Napoli , Via Velotti ferrovia Napoli-Ottaviano Progettista: Luciano Abenante, Franz Di Salvo, G.Papale Anno costruzione: 1947-1948 formazioni tipologiche: IACP Caratteristiche costruttive: struttura in muratura portante con muro di spina Dati dimensionali: 8 edifici; 289 alloggi; 1362 vani; 1,8ab./ vano
1
Disegno di progetto
Nel 1946 viene bandito un concorso dall’IACP per completare 7 edifici, di cui prima della guerra erano state già predisposte le fondazioni e la struttura del pianterreno. Vinse il concorso per la costruzione del Rione Cavour il gruppo di progetto formato dagli architetti L. Abenante, F. Di Salvo, G.Papale. Il progetto iniziale si sviluppava su pilastri in calcestruzzo armato, sfruttando un sistema esterno di travi rovesce per appoggiare i corpi scala, così da liberare il nucleo strutturale e sfruttare meglio la superficie per un maggiore numero di alloggi. La scarsità di cemento sul mercato determinò l’utilizzo di blocchi in tufo, che implicarono anche il riadattamento del progetto alla nuova tecnica costruttiva. La plasticità fu affidata ai balconi e alla loggia continua del piano attico che, nella sua composizione lievemente arretrata, conferisce all’intero edificio una dissimmetria di facciata. Le scale vennero inserite al centro tra due appartamenti distribuendosi in maniera speculare. Questo motivo fu ripetuto durante tutti i 70 metri di 89
di fabbrica, fornendo 8 abitazioni per piano. Entrambe le facciate, est ed ovest furono scandite ritmicamente da coppie di terrazzini aggettanti protetti da ringhiere e da logge, poste sempre in maniera speculare ai lati. All’ultimo piano nel loggiato leggermente aggettante furono posti lavatoi e stenditoi. A quest’ambiente è stato sottratto ulteriore spazio in luogo di poterlo arretrare di un modulo strutturale per altri alloggi da una sola stanza; ci si arriva per delle scale che son ruotate rispetto alla stanza scale. Al piano terra furono previsti dei giardini condominiali che con gli anni diventeranno parcheggi per auto.
Bibliografia essenziale: 2
Planimetrie interne
Carlo COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958 , a cura della Società pel Risanamento di Napoli, Napoli 1961 Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993 Renato DE FUSCO, Napoli nel Novecento, Electa, Napoli 1994 Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO, Napoli architettura e urbanistica del Novecento, Editori Laterza, Roma , Bari 1994 Alessandro CASTAGNARO, Architettura del Novecento a Napoli : il noto e l’inedito, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1998 Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001
3
Gaetano FUSCO, Francesco Di Salvo. Opere e progetti, Clean Edizioni, Napoli, 2003
Foto attuale 90
RIONE
INA-CASA
scheda
Collocazione geografica: Napoli , Via Figurelle, ferrovia Napoli-Ottaviano Progettista: Carlo Cocchia Anno costruzione: 1951-1952 formazioni tipologiche: INA - Casa Dati dimensionali: area 28.361mq; 12 edifici ( 9 in linea e 3 edifici a torre); 210 alloggi 1027 vani; 330ab./ha
1
Disegno di progetto
Il nucleo del quartiere Barra era incluso nella zona del piano Cosenza datato 45 /46 e indicato come zona di ricostruzione. Tra il ’51 ed il ’52 viene affidato all’architetto Carlo Cocchia l’incarico di terminare il progetto del quartiere di via Figurelle, sotto la commissione dell’INA Casa. La metodologia progettuale è di tipo neorazionalista. Il progetto complessivamente migliora la qualità morfologica del quartiere inserendo i singoli edifici nel verde e orientando gli appartamenti verso il panorama. Negli anni ’60 nel parco viene realizzato un asilo nido e due campi da giochi a completamento dell’intervento. L’alloggio si discosta dalle caratteristiche che determinano quello popolare per avvicinarsi ad un alloggio civile. Si introduce il vano ingresso, la doppia entrata per il soggiorno e una grande apertura, sempre nel soggiorno, rivolta verso il panorama, si introducono le tapparelle con avvolgibile interno al muro. Complessivamente su di un’area di 28.361 mq, furono realizzati 9 edifici in linea e 3 a torre, in tutto210 alloggi, 1027 stanze legali e due campi da gioco. 91
2
Planimetrie interne
L’architetto pensò ad un gruppo regolare di lotti in linea molto bassi, con un ampia spaziatura di verde. A dividerli, in armonia compositiva dispose tre torri particolarmente alte per spezzare la monotonia acquisendo, secondo l’idea dell’architetto, «la funzione estetica del cipresso nel giardino». Ad interrompere la serie di elementi paralleli a tre piani e a definire gli spazi liberi, sono stati i tre elementi-torre a otto piani. Nella zona di Barra, piatta e bassa, i tre elementi rappresentano una nota armonica di tono più elevato, acquistando la funzione estetica del cipresso nel giardino”( C. Cocchia) Le torri hanno un corpo scala centrale che distribuisce 2 abitazioni per piano. Rispondendo ai criteri di esposizione solare la facciata occidentale rafforza il tema della verticalità compositiva distribuendo lo spazio in un terzo ai terrazzini del soggiorno, un terzo alle finestre dei servizi e l’ultima parte cieca. Al contrario i lotti a tre piani sviluppano il tema dell’orizzontalità utilizzando degli ampi loggiati a sbalzo che si sviluppano per la lunghezza di più vani. Le palazzine dispongono alloggi dai 2 e 4 vani. Le altre palazzine sempre longitudinali e su tre livelli dispongono di alloggi a tre vani riportando loggiati incassati tra i vani, giocando tra pieni e vuoti. Gli elementi in verticale sono costituiti da tre torri, ad otto piani ciascuna, agganciate al suolo senza un’apparente disposizione del territorio.
Bibliografia essenziale: Carlo COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958 , a cura della Società pel Risanamento di Napoli, Napoli 1961 Attilio BELLI, Carlo Cocchia: cinquant’anni di architettura 1937‐ 1987, Saigep, Genova 1987 Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993 Renato DE FUSCO, Napoli nel Novecento, Electa, Napoli 1994 3
Foto attuale
Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO, Napoli architettura e urbanistica del Novecento, Editori Laterza, Roma , Bari 1994 Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001 92
RIONE NUOVA VILLA
scheda
Collcazione geografica: Via delle Repubbliche Marinare, Strada Comunale Nuova Villa Progettista: Carlo Aymonino,C. Chiarini, M. Girelli, S. Lenci, C. Melograni, F. Vandone Anno costruzione: 1952- 1956 Formazioni tipologiche: tipi in linea per i fabbricati di quattro piani, case torri per quelli di nove Dati dimensionali: area: 11ha c.a.; 27 edifici in linea a quattro e cinque piani; 1 casa-torre a 9 piani; 620 alloggi; 3013 vani; 2 ab./vano
1
Disegno di progetto
Sorto nella zona del vecchio casale di Villa a San Giovanni, il rione faceva parte di un Piano statale di edilizia a forte densità, per case popolarissime e con attrezzature. Il progetto fu commissionato attraverso un concorso nazionale che vinse il gruppo Chiarini, M. Girelli, S. Lenci, C. Melograni, F. Vandone guidato da Carlo Aymonino (1926-2010) della scuola neorealista romana. Il Quartiere di Nuova Villa, fu progettato in mancanza di un progetto urbano d’insieme, le richieste della committenza riguardavano l’area, l’altezza degli edifici, la densità abitativa, e la presenza di alcuni servizi comuni. Il progetto consisteva, quindi, in un “quartiere autonomo” seppure integrato all’interno di un reticolo urbano preesistente e ben radicato a cui il progettista dedicò notevole attenzione. La vasta area si estendeva longitudinalmente tra la Ferrovia, la via delle Repubbliche Marinare e la strada comunale Nuova Villa caratterizzandosi compositivamente in una “sinuosità mistilinea” che ne determinò l’andamento. I tracciati furono studiati in maniera da consentire la massima attraversabilità del quartiere 93
migliorando la viabilità tra i nuclei storici di S.Giovanni a Teduccio, Barra e Villa, ma la realizzazione non rispettò questo tema del progetto .
Bibliografia essenziale: Casabella, C. Aymonino, Storia e cronaca del quartiere tiburtino, 1955, novembre, n. 215 (pp. 18‐43) Bruno ZEVI, Case di lusso per proletari, L’Espresso, 1974, 5 maggio 2
Planimetrie interne
Claudia CONFORTI, Carlo Aymonino. L’architettura non è un mito, Officina edizioni, Roma 1980 Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993 Renato DE FUSCO, Napoli nel Novecento, Electa, Napoli 1994 Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO, Napoli architettura e urbanistica del Novecento, Editori Laterza, Roma , Bari 1994
Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001
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Foto attuale 94
4. La deindustrializzazione dell’area orientale. Verso una “periferia residenziale� (1966-1988) Lotta per la casa e abitazioni di massa in Italia Una nuova stagione urbanistica nel territorio napoletano La metropoli dopo il sisma del 1980
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lotta per la casa e LOTTA PER LA CASA E ABITAZIONI DI MASSA IN ITALIA
Con l’espressione “Cultura di massa” intendiamo definire, in senso antropologico, lo specifico contesto di tale cultura. La rappresentazione dell’architettura come “mass medium”,fu un fenomeno che si sviluppò durante il periodo della ricostruzione urbana postbellica e dei grandi quartieri moderni residenziali.1 I nuovi “linguaggi di massa”, legati alle logiche della produzione industriale e soprattutto ai processi commerciale, innovano la quotidianità delle popolazioni urbane, in cui l’architettura stessa era presentata come un “prodotto” da consumare. Alcuni importanti aspetti su cui influivano i “mass medium” erano quelli di ridurre al minimo il rapporto culturale con la storia, cercando di dare importanza al presente, vissuto, consumato e valorizzato. Il confort, gli arredi il tempo libero, diventava così, tutti prodotti di un linguaggio comune, proveniente “dal basso”, riproposto e commercializzato nel consumo dei territori, delle coste, della quotidianità. “L’architettura da un lato è una comunicazione in quanto composta di disegni che determinano un comportamento, mentre dall’altro, coi suoi modelli ripetuti e inflazionati, non consente un vero rapporto comunicativo, costituisce un linguaggio il cui senso è totalmente scontato. (…) è decisivo per una sana evoluzione dell’architettura moderna che essa “si sematizzi” ossia che giustifichi ogni sua nuova creazione attraverso l’adozione di forme che siano semantiche.”2 Le stesse case per la piccola borghesia furono concepite sul modello intensivo a torre delle case popolari, anche se nella distribuzione interna degli appartamenti la planimetria ricordano in piccolo le funzioni e gli spazi delle abitazioni borghesi per le case “individuali”. Gli errori nella ricostruzione delle città portarono a delle deficienze che si riscontarono prevalente mente su scala urbana. Fu necessario integrare, in zone già ricoperte dall’edilizia residenziale, infrastrutture, mezzi di trasporto pubblici e privati, strutture di servizio, distinguendo una differenza di
Dismissione dell’Ilva di Bagnoli
RENATO DE FUSCO, Architettura come mass medium : note per una semiologia architettonica 96
classe sociale tra abitanti che vivevano in centro in quartieri autonomi, dove l’accessibilità ai servizi era rintracciabile a misura d’uomo,e abitanti delle periferie dei quartieri dormitorio, dove era neces-sario effettuare numerosi spostamenti per accedere ai servizi. 3 «Il questo disegno si evidenziava ancora una volta la doppia istanza speculativa, non solo nell’edilizia ma anche nei consumi legati ai mezzi di trasporto e al valore immobiliare. Tutto il modello si basava sulla privatizzazione del consumo e sulla espansione massima, per esempio, del settore dell’auto e degli elettrodomestici.»4 La presa di coscienza collettiva delle masse ed in particolare della classe operaia predispose un atteggiamento critico rispetto alle questioni urbane. Il miglioramento del tenore di vita a seguito del boom economico portò le rivendicazioni di massa da una sfera di bisogni minimi alla richiesta di una migliore qualità dell’abitare intesa come accessibilità ai servizi, al tempo libero e a migliori condizioni lavorative e alla liberazione dei ritmi di fabbrica. La generalizzazione del movimento, tra il ’67 3 ’68, da quello studentesco a quello operaio mise in luce gli aspetti centrali che determinavano il disagio. Si intensificò la lotta sul fronte internazionale accomunato da analisi che partivano dalla lotta alla repressione all’imperialismo. Partendo quindi da una riflessione teorica di più ampio respiro politico, la critica al modello borghese nel ’69, riprese dalla conquista di alcuni diritti più urgenti e pratici come: la casa, l’accessibilità ai servizi scolatici e sanitari. Lo stesso anno si tenne in ogni città un grande sciopero generale, “Contro il caro affitti e per la casa”, in cui si fermò la produzione nell’intera nazione. Le cifre indicavano che il fabbisogno di case in Italia si spostava dai 30 milioni nel 1975 ai 40 milioni nel 1981 di vani necessari per assicurare che ogni cittadino lo spazio necessario per la sua abitazione.5 Nonostante le grandi quantità edilizie realizzate negli anni ’50, la questione delle abitazioni non si era risolta, in particolare nelle città del nord Italia dove un grosso flusso migratorio intorno agli anni ’60 costrinse le famiglie a lasciare le campagne al nord e le città al sud in cerca di fortuna. In molti casi, invece, dove le quantità edilizie erano disponibili, gli affitti erano troppo alti per il proletariato. Non a caso, le mobilitazioni sulla questione “casa” partirono da Milano e Torino, capoluoghi dell’industria e dell’immigrazione proletaria. Le prime proteste sul caro affitti erano partecipate prevalentemente dagli inquilini stessi, appoggiati, talvolta, dai sindacati e dai partiti, ma non portavano ancora delle rivendicazioni critiche rispetto al modello di habitat urbano. Le cose cambiarono quando alla protesta per il caro affitti si aggiunsero le rivendicazioni della classe operaia, acquisendo il tutto una connotazione più specifica “di classe” e iniziando a rivendicare un
Ugo Mulas. Manifesto Pubblicitario Pirelli anni ’60.
Testate giornalistiche dopo lo sciopero generale del novembre 1969 97
equo rapporto tra salario e affitto, non superiore al 10%. 6 Sono gli anni dell’indagine sociale, delle baraccopoli romane, sono gli anni in cui anche parte del mondo accademico e intellettuale lavorano sulle masse come soggetti di riferimento, mirando al cambiamento. «Le istituzioni e le abitudini si sostengono a vicenda e formano un sistema ben chiaro: servono a perpetuare un tipo di organizzazione della città e del territorio nato nella seconda metà dell’800 e basato su una combinazione di interessi fra amministrazione pubblica e proprietà privata: la città neo-conservatrice o post-liberarle, com’è stata chiamata.»7 Le proteste aspiravano ad una migliore gestione statale nell’assegnazione delle abitazioni, e criticavano fortemente i criteri di ghettizzazione classista operati dalle varie GESCAL e IACP in cui era evidente la formazione di zone periferiche con edilizia di scarsa qualità. «è stato proprio l’intervento pubblico, in particolare a Milano, a segregare le classi subalterne nei quartieri dormitori periferici, favorendo così, fra l’altro, il gonfiamento delle rendite delle aree privilegiate centrali.(…) le discriminazioni, attraverso le assegnazioni IACP, sono estremamente sottili, relative agli immigrati, all’anzianità dei nuclei familiari ecc; le famiglie giovani con prole numerosa vengono relegate più lontano.(…) Enzo Mingione8 riconnette l’attività dell’IACP di Milano ad una delle più generali funzioni dell’uso capitalistico del territorio, cioè quella del controllo sociale degli stati subalterni attraverso una gerarchia dei quartieri residenziali.»9 La vertenza sulla casa, che coinvolse, varie strutture politiche a partire dai comitati di quartiere, fino alle fabbriche e alle università si divise in due anime, una più riformista, incentrata sulla questione degli alloggi, portata avanti dalle sigle sindacali e partiti, l’altra, di più ampio respiro, di critica alla città borghese nei suoi molteplici aspetti. Quest’ultima portata avanti dalle realtà autonome e territoriali,sperimentava nuovi modelli di collettività. La base comune che sintetizzava le differenti analisi, riscontrava una reale mancanza di alloggi a basso costo e un progressivo peggioramento delle condizioni di vita quotidiane. Le contestazioni per la questione della casa, misero in discussione qualcosa di più profondo, ovvero il modello di città. Le richieste puntavano ad una “casa migliore e più economica” ma il dibattito iniziava ad interrogarsi su conservazione o rifiuto della città post libe-rale.10 Viene rigettato dalle utenze il concetto di “macchina per abitare” e l’asservimento alla “mac-china della produzione”. «Gli imprenditori hanno in comune l’interesse a conservare uno degli strumenti più importanti del predominio borghese, che è il meccanismo distribuivo della città attuale. Esso si basa su una combi-
Tano D’Amico. Scontri per la casa, Casalbrucia¬to, Roma 1975
Tano D’Amico. Casa [Roma, 1974]
Spazio e Società, aprile 1978, n° 2, aprile 1978. In copertina incendio al padiglione dell’”expò ‘67”
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fra potere burocratico e la proprietà: l’intervento pubblico sostiene e razionalizza l’insieme degli interessi fondiari privati, e questi ammettono le limitazioni occorrenti perché la città possa funzionare, ma producono un ambiente in cui le difficoltà di vita sono inversamente proporzionali alle possibilità economiche delle classi, cioè pesano di più sulle classi più povere e meno difese; così la città diventa un grande apparato discriminatorio, importantissimo per la sua persuasiva stabilità (tutti stanno male, ma ogni cambiamento immediato li farebbe stare ancora peggio) e per l’apparente mancanza di alternative. Ma la combinazione fra potere e proprietà è originariamente squilibrata, perché lo spazio dell’intervento pubblico tende ad essere il minimo richiesto dalle circostanze; lo squilibrio si manifesta nel funzionamento della città (mancano le case, mancano i servizi, il traffico è congestionato, l’ambiente è oppressivo) e nel finanziamento le opere pubbliche, che non diventano investimenti produttivi perché non arrivano mai a controllare tutto il ciclo di produzione del bene casa o del bene città; ecco quindi i disavanzi delle amministrazioni comunali, e la loro dipendenza dal credito; per attenuare questi squilibri occorrono continui ritocchi alle leggi o interventi straorinari che correggono la frontiera fra pubblico e privato.»11 A Milano le proteste si intensificarono nel 1971, a seguito di varie battaglia cittadina, tra fratti, picchetti e occupazioni.12 La mobilitazione cresceva e trovò pieno appoggio nel movimento studen-tesco fino a radicarsi nel dibattito accademico sull’architettura dei grandi quartieri. Lo stesso anno, alcune famiglie senzatetto furono ospitate nella facoltà di Architettura, che venero occupate con il beneplacito di alcuni docenti e del docenti e preside. La risposta repressiva non si fece attendere, e durante il violento sgombero un bambino di sette mesi perse la vita. 13 Le proteste e le pressioni sociali trovarono voce in una proposta di legge avanzata dai sindacati che fu bocciata al parlamento. Nel ’71 i sindacati affermarono che la proposta di legge sulla casa, varata dal Governo, non rispecchiava gli accordi e non permetteva una reale agevolazione agli alloggi popolari. Le proteste furono cavalcate, anche dalla politica democristiana e della destra parlamentare, che speravano in un ritorno dell’attività edilizia che stava entrando in crisi. Dalla loro prospettiva, le imprese edili andavano incentivate, producendo nuove occupazioni nel settore ed in oltre salvaguardando un diritto costituzionale, legato alla famiglia, che andava salvaguardato. Fu emanata la cosiddetta “Legge per la Casa”. La gestione restò affidata alla Gescal e Iacp, furono bloccati gli affitti ed inserite alcune norme sugli espropri dei terreni, ma la maggior parte dei finanziamenti statali vennero utilizzati dalla Gescal a ricolmare i debiti passati. In questo clima di mobilitazione la Facoltà di Architettura assumeva una posizione interessante, in
Uliano Lucas. Murales a Milano
Uliano Lucas. Sgombero alla Statale di Milano1971 99
In questo clima di mobilitazione la Facoltà di Architettura assumeva una posizione interessante, in quanto poteva fornire aiuto su due fronti:quello dell’alloggio momentaneo, per garantire un tetto fino ad una migliore sistemazione, nelle strutture occupate, e quello legato ad un contributo di tipo specifico “intellettuale”, in cui si cercavano soluzioni, a partire da nuove idee sul concetto di abitare la città. Il modello didattico, diviso tra estetica e tecnica e legato ancora ai modelli urbani ottocenteschi, venne messo in crisi. La nuova tendenza d’avanguardia rispetto al dibattito architettonico si sviluppò prevalente mente su un piano politico e richiese una migliore competenza per comprendere e lavorare sulla città moderna, nelle sue contraddizioni. “Spesso anche la critica di sinistra ha ristretto il problema della “questione urbana”per la classe operaia e a basso reddito, alla “questione delle abitazioni”. Ciò non è possibile. La questione delle abitazioni investe tutti i problemi della città e non è risolvibile che a questa scala, e anche a scala maggiore come abbiamo visto.”14 È chiaro quindi che una casa perfettamente funzionale e ben distri-buita al suo interno non determina una migliore qualità della vita se inserita in un pessimo contesto urbano. Nei progetti del primo dopoguerra il disegno si basava sul paesaggio d’insieme, la cultura di massa portò la prospettiva architettonica a focalizzarsi sui “blocchi edilizi” e sui rapporti tra pieni e vuoti delle facciate e dei nuovi “sistemi edilizi” intesi come “infrastrutture per abitare” mentre i criteri riguardanti la distribuzione interna sembravano essere già stati acquisiti negli standard familiari. I temi architettonici si rivolsero alla grande scala, sintetizzandosi in una molteplicità di sperimentazioni formali con un disagio avvertito da alcuni architetti che si ritrovarono a progettare delle grandi quantità di abitazioni per un’utenza, legata alla classe operaia, che stava cambiando, le cui abitudini culturali e le cui “necessità oggettive” non potevano più essere rintracciate nella solita omologazione degli “spazi minimi”.15 Le nuove tipologie intensive furono immaginate su vaste aree già provviste di servizi ed infrastrutture ben collegate alla città e agli apparati industriali, il rapporto col verde diventò parte integrante del progetto, si distaccò dall’idea di orto privato e si trasformò in servizio pubblico, parco. I grandi quartieri periferici in tutta Italia rappresentarono un grande banco di prova per gli architetti che si trovarono a progettare forme e dimensioni completamente nuovi, in contesti di cui non avevano controllo,dalle “abitazioni di massa” si passò alle “masse di abitazione”. I principali esempi
Unione Inquilini, costituisce nel 1968 a Milano per iniziativa di grossi comitati di base delle case popolari che si battono per il risanamento dei loro quartieri e per un canone sociale ridotto.
Lucas Iuliano. 68. Un anno di confine
Uliano Lucas Periferie legge 1671
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presenti sul territorio nazionale sono: lo ZEN(Zona Espansione Nord) di Palermo (1969) progettato da Vittorio Gregotti per ospitare 16.000 abitanti, doveva ospitare il nuovo sviluppo della città a dimensione umana, un quartiere basato sui rapporti di vicinato e con un ampia predisposizione ai servizi; Il Corviale (1972) a Roma composto da 1200 appartamenti, progettato da Mario Fiorentino ;Rozzol Melara (1969) a Trieste di Carlo Celli un quartiere di 11 ettari per 2.500 abitanti è un edificio immaginato come una grande “macchina” della celebrazione periferica; Biscione (Forte Quezi – 1968) progettato da un gruppo coordinato da Luigi Carlo Daneri e Eugenio Fuselli per 9.283 abitanti, le 5 “strisce” di abitazioni, lunghe circa 300 metri ognuna si articolano sui terrazzamenti della collina, seguendo le curve di livello; le Vele di Scampia a Napoli, progettate da Franz Di Salvo nel 1962, in fine il Laurentino (1978), a Roma progettato da Pietro Barucci per 30.000 abitanti. «Questo nuovo stile contro le opposizioni schematiche tra “ragione” e “disordine”, norma e licenza , scientificità ed empiria dell’intenzione di riaffermare la legittimità di un rapporto con i materiali dell’architettura che muova, in un certo senso, dalla “descrizione” di un manufatto finito, collocato in un posto preciso e abitato più che dallo sviluppo delle categorie “interne” dell’architettura. Immaginare un organismo già vissuto nei suoi dettagli segnati dalle intemperie, modificato dall’uso, accettato o respinto dalla città, “visto” in ogni sua parte, può rendere “figura” anche il riferimento alla storia e , dentro questa, alla storia dell’architettura. l’immaginazione realistica, e ciò non è una contraddizione, è il solo modo per introdurre nella progettazione la dimensione quotidiana e renderla organica. Per questo il “dettaglio” è infinitamente importate.»16 Già dall’esperienza neo-realista di Ludovico Quaroni, avevamo visto,come era evidente la necessità di stabilire un contatto diretto con l’utenza, attraverso l’osservazione delle abitudini quotidiane e dei luoghi prima di fissare il progetto. 17 L’aspetto di reale avanzamento è posto da Giancarlo De Carlo(1919-2005), durante gli anni ’60 e riguarda proprio il rapporto con l’utenza, questo si materializza in un processo progettuale che verrà chiamato “architettura partecipata”. Questo metodo è un tentativo di rovesciare un ruolo “paternalista” dell’architetto intellettuale che immagina astrattamente le esigenze e le specificità della classe operaia per cui progetta le case,re instaurando un rapporto diretto tra architetto e committente. La progettazione partecipata era una tendenza minoritaria ma presente in Italia e che vide realizzate alcune opere architettoniche felici, tuttora è una tendenza in sperimentazione, che si lega anche all’urbanistica e alla pianificazione.18
Convegno nazionale 11ottobre2013 Napoli. La dimensione insostenibile dell’architettura. I grandi quartieri italiani 1960-1980
Uliano Lucas Periferie legge 1671 101
Giancarlo De Carlo criticava in prima istanza il concetto stesso di “alloggio popolare”, che in senso classista escludeva la possibilità di un abitazione uguale per tutti, incastrando il ragionamento sulla città in un bilancio economico. I progetti dovevano sempre partire dall’analisi del territorio, senza rinchiudersi nell’idea di quartiere autonomo e tendevano a rapportarsi in maniera diretta con il resto della città. La storia e la cultura vennero di nuovo incluse nella progettazione, a patto che non rappresentassero un motivo stilistico o eclettismo, ma una conservazione identitaria di fatti, pensieri, spunti acquisiti dalla gente.19 “Uno spazio non diventa mai un luogo finchè non ci sono degli esseri umani che lo esplicitano, che lo cambiano, che lo modificano. Il Villaggio Matteotti, costruito tra il ’69-’75, a Roma, si trova nell'immediata periferia di Terni, dove, negli anni 1934-1938, secondo i canoni del regime, era stato concepito e progettato per gli operai delle acciaierie il preesistente villaggio "Italo Balbo". L'idea iniziale è quella di una radicale trasformazione del vecchio villaggio inadeguato, in un quartiere moderno: con maggiore numero di alloggi e a misura d'uomo. L'intervento di ricostruzione fu commissionato dalla Società Terni, con finanziamento della Ceca-Gescal.20 Giancarlo De Carlo accettò di progettare le nuove case, solo se gli avessero permesso di utilizzare il metodo partecipativo. Il metodo prevedeva alcuni incontri collettivi e personali con gli architetti. Attraverso alcune mostre in cui erano mostrati diversi progetti di abitazione, anche l’utenza riuscì ad acquisire una padronanza di giudizio dellospazio. «Per fare la partecipazione ci vuol tempo, ci vuole buon volontà, la gente è abituata a non essere coinvolta. Gli artefici ed i destinatari passano attraverso un sistema dialogante che porta a scoprire la ragione di quello che si sta facendo.»21 Il disegno discontinuo delle case, nei vialetti verdi, con terrazze aggettanti mostrava una moltitudine armoniosa di volumi, che rendevano i luoghi differenti da ogni prospettiva. La costruzione del quartiere fu interrotta, a seguito di numerose disapprovazioni. Le critiche da “sinistra” accusavano l’architetto di aver strumentalizzato la causa, costruendo case di una buona qualità architettonica, che i privati avrebbero usato per fini speculativi; mentre le critiche “da destra” lo accusavano di aver “fatto politica”, e di aver incitato al comunismo con la scusa della progettazione. 22 Ad oggi la qualità dell’abitare, ed il sentimento collettivo di appartenenza al progetto architettonica è riscontrabile dalla cura degli ambienti, e soprattutto si evince, da parte dell’utenza una distinguibile comprensione dell’utilizzo degli spazi a disposizione. “Gli architetti hanno quasi sempre avuto bisogno di dare una veste ideologica ai loro obiettivi. E così
Uliano Lucas Periferie legge 1671
Giancarlo De Carlo 102
il problema dell’abitazione è stato rivestito di una sacralità che lo ha reso non soltanto un modo per gli architetti di essere presenti sulla scena della costruzione, ma anche di dar loro la possibilità di identificarsi in un ruolo; ricostruendo l’abitazione a grande scala avrebbero avuto la possibilità di avere un ruolo importante. Ricostruivano la città. Cioè ricostruivano il mondo.”23
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Biscione Genova 2
Rozzol Melara Trieste di Carlo Celli 3
Laurentino Roma
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Corviale 5
ZEN(Zona Espansione Nord) Palermo 6
Vele di Scampia a Napoli
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UNA NUOVA STAGIONE UNA NUOVA STAGIONE URBANISTICA NEL TERRITORIO NAPOLETANO
Nel primo decennio della ricostruzione post bellica, la funzione principale dello Stato fu di incrementare la ripresa, favorendo un supporto prevalentemente finanziario, senza preoccuparsi troppo di esercitare un controllo sulle modalità dello sviluppo urbano. Gli anni ’60 aprirono di fatto una nuova stagione urbanistica nazionale, non solo negli ambienti intellettuali ma anche amministrativi. Il dibattito sulla a pianificazione iniziò a concretizzarsi in più iniziative che col passare degli anni formarono un corpo giuridico più adatto alla dimensione metropolitana e alle peculiarità storiche e paesaggisti-che dei territori Italiani.24 La nuova “stagione”, si aprì con la Legge Ponte, all’indomani della frana di Agrigento, che avviò un nuovo processo di regolamentazione pubblica a partire dalla lotta alla specu-lazione. Questa Legge, in raccordo alla Legge Urbanistica del ’42 sanciva delle importanti limitazioni in quanto vietava la lottizzazione dei terreni prima di aver approvato il PRG. La regolamentazione obbligava, inoltre, i privati a farsi carico delle spese infrastrutturali, nonché di seguire gli standard urbanistici ed edilizi; infine prevedeva sanzioni per gli abusi. Tali fenomeni abusivi tesero a limitarsi, ma non a scomparire, essendo ancora strutturali nel sistema di gestione del territorio, a causa di una politica storicamente clientelare negli appalti e negli affari pubblici. Nel 1962 Il ministro Fiorentino Sullo fece approvare la Legge 167,per una nuova regolamentazione e lo sviluppo dell’edilizia pubblica. Tale legge obbligava i comuni con una popolazione maggiore di 50.000 abitanti a dotarsi di un PEEP (piano per l’edilizia pubblica e popolare).Dai quartieri operai di dimensione controllate, con insediamenti di 7-9000 abitanti, si passò a progetti che fondevano l’opera architettonica a quella urbanistica raggiungendo numeri di 60-80.000 abitanti per quartiere.25 A Napoli questo periodo coincise con la fine dell’amministrazione Lauro. Il piano del ’58, rimase in vigore per pochi anni. In questo periodo presero corpo alcune delle prime importanti esperienze architettoniche a grande scala, che divennero nuove zone di decompressione della città. Nel 1962 fu finalmente bocciato il piano Lauro, il sindaco in carica, Vincenzo Palmieri, nominò una nuova commissione presieduta da Luigi Piccinato, a cui succedette, dopo tre anni, il Preside della
Processo di appello per la frana di Agrigento. 1970 Archivio de L’Unità
Fiorentino Sullo. Autore della proposta che risolve alla radice il problema della rendita fondiaria urbana, ministro democristiano dei Lavori pubblici dal febbraio del 1962. 106
Facoltà di Architettura, Francesco Jossa, con l’incarico di elaborare un nuovo Piano Regolatore. In pochi anni furono emanati una serie di provvedimenti giuridici per ristrutturare il sistema urbanistico: nel ’65 nasce il CRPE (comitato regionale per la programmazione economica), nel ’66 venne elaborato il piano per lo sviluppo industriale; nel ’70 furono istituite le regioni a statuto ordinario e quindi nacque la Regione Campania a cui nel ’72 venne trasferita la trasferita parte dell’autonomia ur-banistica, lo stesso anno fu approvato il piano.26 La base ideologica su cui si concretizzava il nuovo piano regolatore, era di dotare la città di Napoli di una struttura urbana capace di rafforzarne ed organizzarne il carattere “metropolitano”. «L’ideologia “metropolitana” prodotta in quegli anni dal centro sinistra; una ideologia fondamentalmente ottimistica, che individuava una organica connessione fra Napoli e l’area su essa gravitante basata sulla funzione di grande metropoli di servizi da far assumere al capoluo-go dello sviluppo urbano e produttivo dell’ hinterland da mettere facilmente in moto mediante alcune grosse opere infrastrutturali e la concentrazione di fattori agglomerativi in alcune zone strategiche.»27 A seguito delle lotte dei movimenti operai e studenteschi urbani nazionali, le nuove teorie critiche rispetto alla città si radicarono, in maniera più diffusa anche negli ambiti istituzionali. L’idea di “effetto urbano positivo” era intesa come un valore da ridistribuire in tutta la superficie comunale, a partire dalle zone subalterne, nei quartieri periferici. Ogni zona urbana doveva possedere delle attrazioni e delle funzionalità valide per tutti, integrando il quartiere all’interno di una “funzione” necessaria all’abitare. L’uomo che lottava per liberarsi dalla macchina reclamava un’abitazione non limitata la concetto di funzionalità, legato ai tempi di fabbrica. Gli spazi incompiuti, tra industria-residenza-campagna-città non dovevano più ripresentarsi in una nuovo concetto di “tutto finito” che liberava la vita dell’uomo dalla presenza dell’industria. Tra l’Inghilterra , la Francia e l’Italia si sperimentarono alcuni esempi la cui progettazione partiva da queste basi: «La città risulta strettamente compatta ed accoglie solo un minimo di spazi aperti dove si inquadra il paesaggio. Le industrie – non più centro focalizzatore sociale – sono dislocate ai limiti della città, dove esistono buone comunicazioni non oberate del traffico cittadino interno. Le zone residenziali sono cellule pedonali delimitate dalle arterie del traffico; e all’interno delle singole cellule, si trovano scuole, campi da gioco, per ragazzi e una rete di piccoli viali, i quali collegano l’uno all’altro i cortili interni che costituiscono il tessuto stesso di una comunità pedonale, il cui livello medio di vita va via via innalzandosi, sicchè le ore da dedicare allo svago sono sempre in maggior numero e più complesse.»28
Maurizio Valenzi. 1° giugno 1975: Il comizio d’apertura della campagna elettorale del 1975 in piazza Plebiscito con Enrico Berlinguer
PRG 1972
Dismissione definitiva Ilva di Bagnoli 1985 107
I fenomeni che si andarono a verificare a seguito della prima rivoluzione industriale determinano dei mutamenti che costrinsero a rivedere il concetto di “città”, risultato incompleto. Il termine “città” era ormai usato principalmente per spiegare quel qualcosa che non era la campagna. Il concetto di “area metropolitana” si affermava sempre più, nell’evolversi della pianificazione delle leggi, norme, urbanistiche territoriali e socio-economiche. «E’ sembrato che il temine “sistema urbano” – intendendo con esso un armatura di attrezzature, servizi, infrastrutture continuamente mobile e mutevole, che si articola su più poli urbani con differenti livelli di potenziale economico e sociale – fosse il più idoneo a definire ed a descrivere l’attuale fase ed il relativo modello della trasformazione della stanzialità dell’uomo in questo momento di passaggio dalla società industriale a quella postindustriale.»29
Il nuovo piano regolatore di Napoli fu approvato nel ’72. Il territorio venne ripensato in base ad una ristrutturazione che osservava nuovi canoni spaziali e funzionali, in rapporto ai settori di attività su cui andava riorganizzata la struttura urbana. Centro direzionale, città terziaria, periferia urbana, area metropolitana industrializzata e hinterland agricolo erano settori da cui ripartire per poter immaginare una struttura piramidale ed organica da poter integrare nella Napoli esistente.30 Lo sviluppo del terziario, l’inizio del processo di dislocazione industriale e lo sviluppo di un “economia sommersa” tra piccola imprenditorie ed artigianato, furono tutti fattori che incisero notevolmente sulle mutazioni del tessuto urbano delle periferie. Le vecchie industrie furono abbandonate o riutilizzate come depositi. L’affollamento edilizio prodotto dai gradi fenomeni abusivi dei decenni precedenti aveva contribuito ad uno sviluppo di un “modello a spirale”31 della città, in cui le quantità residenziali che erano state costruite ai margini, si ritrovavano isolate in deserti di cemento, inur-bati da quartieri dormitorio. I grandi investimenti finanziari si spostarono sulle “grandi opere” come le infrastrutture viarie ed edilizie. Nel ’67, appellandosi a delle varianti del vecchio Piano sulla viabilità fu possibile costruire, con l’intervento dell’Infrasud, la Tangenziale di Napoli, che si collocava nell’area nord da Pozzuoli a Capodichino riqualificando l’entità residenziale di alcuni quartieri, prima mal collegati. Sempre legate all’ammodernamento del trasporto, furono fondamentali, all’istaurarsi dell’aspetto metropolitano, le nuove linee su rotaie del tram, che collegavano Soccavo, Fuorigrotta, piazza Municipio, San Giovanni a Teduccio e Ponticelli, ripristinando il collegamento della linea di costa; e la Metropolitana Linea 1, che collegava il centro storico alla zona collinare.
Operai dell’ilva di Bagnoli in corteo. 1988
Tangenziale di Napoli 1972.
Maurizio Valenzi, sindaco di Napoli, insieme all’onorevole Luigi Buccico alla posa della prima pietra della metropolitana collinare, avvenuta il 22 dicembre 1976 in Piazza Medaglie d’Oro 108
La progettazione dell’area fu prima affidata a Giulio De Luca, che si occupò della stesura di un primo plani volumetrico. L’opera doveva proporsi come nuovo centro propulsore metropolitano, unificando l’area orientale al centro della città, e servire come polo attrattivo al terziario, all’amministrazio-ne e al consumo .31 La Mededil, (Società di Edilizia Mediterranea) che aveva l’incarico di costruire la grande opera, riaf-fidò il progetto urbanistico ad un grande nome, come Kenzo Tange33. Approvato nel 1984, il progetto si estendeva su una superficie di 110 ettari, di cui circa la metà destinati al verde e alle strade pedo-nali, mentre un 30% fu destinato alle abitazioni.34 La progettazione dei singoli edifici fu affidata ad architetti napoletani, la circolazione dei veicoli era predisposta in trincea ventilata ed il livello pedo-nale superiore si estendeva lungo tre assi; le torri erano di tre differenti altezze: basse (20 m), medie (50.70 m) e alte (90 – 100 m). Il progetto subì notevoli critiche tanto da essere interrotto prima che si realizzasse il secondo lotto. Le residenze erano progettate sul lato sud, su terreni comunali e pre-vedevano delle grosse torri, ben collegate con la stazione vesuviane e metropolitana. Il progetto non riuscì a legarsi al contesto territoriale, ma “replicava inesorabilmente un modello in-ternazionale di centro direzionale”35, il cui accesso dal resto della città non era agevolato, ed i grandi palazzi contrastavano violentemente il normale svolgimento del tessuto urbano rendendo l’area un “isola deserta” di uffici e grattacieli. Napoli era diventata una metropoli post-industriale. In senso urbanistico questo rappresentò una diffusa diminuzione della produzione industriale sui territori e degli stabilimenti, l’incremento del terziario con determinate strutture ed un maggiore interesse nel settore dei servizi; una società più legata alle tecnologie ed al concetto di “ecologia”. Le infrastrutture si concentrano nel trasposto di “capitale umano” e la conformazione di “vuoti urbani” ed un maggiore incremento di luoghi dedicati ai consumi denotano mutamenti ancora in corso nelle aree metropolitane. Il mutamento in questi anni si denotò anche nella composizione dell’utenza . per i grandi impianti residenziali.36 Il nuovo modello urbano provò ad invertire il vecchio modello partendo da un uso moderno degli spazi della città consolidata. . Finalmente Roberto Pane e Roberto Di Stefano individuarono con un accurata ricerca storica le pe-culiarità storico-scientifiche che portarono ad identificare una precisa delimitazione del centro sto-rico. Un nucleo più antico e ristretto comprendente l’impianto della città greco romana delimita-va il “centro antico”, mentre il resto dell’area più estesa, delimitava l’intero “centro storico".37
Kenzo Tange (1913-2005)
Napoli, Vista Centro Direzionale 109
Il lavoro venne inserito all’interno del PRG del ’72 e gli elaborati furono racchiusi in tre volumi “AAVV. il centro antico di Napoli, restauro urbanistico e piano d’intervento, 1971.” A tale carattere conservativo, seguì un progressivo svuotamento demografico al centro storico che portò ad un decremento di 45.000 abitanti tra il 71’ e l’81, in cui le giovani famiglie si spostarono verso i nuovi quartieri periferici.38
Il nuovo PRG ebbe come importante obbiettivo quello di uniformare tutte le aree “limitrofe”, degli ex casali ed ex-comuni, alla metropoli. La rete di infrastrutture e servizi fu immaginata secondo gli standard urbanistici legati all’intera città e non più in riferimento ai singoli quartieri. Rispetto alle abitazioni, furono istituiti dei P.E.E.P. in base alla legge 167 in cui venivano istituite un certo numero di abitazioni per il fabbisogno reale e per quello in previsione. «In tal modo, si predispone una delle condizioni essenziali per l’integrazione, che risulta finanziariamente indispensabile, ma anche politicamente e socialmente opportuna, tra intervento pubblico ed iniziativa privata nella pratica del recupero. È questo uno degli aspetti più significativamente innovativi del “piano delle periferie”, che per la prima volta, su una scala così vasta (circa 6000 alloggi nei PEEP 167, e circa 5.800 ai piani di recupero) propone il ricorso ai piani di zona per la riqualificazione di tessuti urbani preesistenti e contemporaneamente, ipotizza il loro organico intreccio con la pianificata promozione dell’inter-vento dei privati.»38 L’immaginario dei quartieri a grande scala si era articolato sulla base di un utenza che andava disgregandosi, era quella della classe operaia, una realtà economicamente disagiata ma con dei valori cooperativi, sociali e culturali ben radicati nella vita quotidiana di quartiere. L’utenza che andava ad abitare i nuovi quartieri era mista, tra sottoproletariato, proletariato ed altre categorie, ma soprattutto mancava quella coesione sociale che era stata protagonista nei decenni precedenti, mutando verso modelli sociali più autonomi e competitivi .39 Tra i primi quartieri costruiti, a “dimensione urbana”, troviamo il CEP Cinzia, (quartiere Traiano), per ospitare 30.000 persone. Fu un progetto di notevole ricerca architettonica coordinato da Marcello Canino40(1895-1970). I riferimenti progettuali riprendevano i quartieri scandinavi e di Stoccol-ma, legati all’organicismo di Alvar Aalto(1898-1976), ed i park-way californiani. L’intero impianto fu concepito con una strada-parco che supportava 7 palazzi, mentre nel nucleo centrale venivano predisposte le attrezzature pubbliche e le piazze.41
Gianluigi Gargiulo. Giugno 1974 - Demolizioni a S.Erasmo per la realizzazione della nuova Via Marina
Roberto Pane (1897-1987) 110
La 167 di Secondigliano, che prese il nome dalla legge, progettata nel ’65 seguiva le linee progettuali legate ai nuovi criteri di architettura residenziale a basso costo. Il piano progettuale della volumetria è strettamente legata all’intervento urbanistico scandito dalla zonizzazione, dagli indici di fabbricazione e dalla richiesta di un numero di alloggi che definiva le dimensioni. I complessi furono immaginati come grandi infrastrutture residenziali con la funzione di “dormitori” per contenere l’emergenza demografica popolare, che esplodeva nel centro storico. La zonizzazione, così organizzata, divideva la città per compartimenti, rivolgendosi all’entroterra, per uno sviluppo proiettato verso un nuovo hinterland .42 Il progetto delle Vele (1962-75) a Scampia, univa l’evasione figurativa di un architettura moderna, legata alle nuove sperimentazioni residenziali, ad una nuova ricerca antropologica sul territorio popolare napoletano progettate da Franz Di Salvo(1913-1977) nel 1966. I terrazzamenti componevano una forma intrigante nell’immagine paesaggistica e permettevano di utilizzare diverse pro-spettive di affaccio per le abitazioni.43 La parte centrale era dedicata agli accessi riproducendo in verticale la dinamica conviviale del vicolo napoletano, dove le relazione col vicinato e la adiacenza dei servizi, che erano predisposti nella zona sottostante, intercettavano la quotidianità della vita collettiva nel quartiere.44 Ma una cattiva esecuzione, articolata dai continui cambiamenti in fase di realizzazione, ed una fallace organizzazione pubblica rispetto all’attivazione di adeguati servizi de-cretò presto la sconfitta urbanistica del progetto, producendo gravi ripercussioni sociali che ad oggi destano gravi preoccupazioni, arrivando alla denuncia dello storico comitato di abitanti che da anni ne chiede l’abbattimento.
Nel 1980 il comune adottò il Piano per le periferie. Collocato nel progetto più ampio di sviluppo metropolitano messo in campo dal PRG del ’72, l’integrazione di nuovi servizi e residenze nel suburbio diventa una risposta concreta ai piani di riequilibrio demografico dei comuni dell’hinterland e della città storica. Il piano intendeva riqualificare i nuclei storici degli ex-casali, “conferendo a quei nuclei, qualità funzionali e morfologiche di livello urbano, utilizzando in modo coordinato strumenti diversi”. L’aspetto più significativo incarnato dal piano delle periferie fu il nuovo atteggiamento verso la politica urbanistica. All’aspetto critico legato ad una prospettiva strettamente progettuale e legata
Gianluigi Gargiulo. Novembre 1970 - Scritte sui muretti della Cumana al Rione Traiano
CEP traiano-cintia. Plasico 1957
Francesco Di Salvo Opere e Progetti, Vele
111
ad una prospettiva strettamente progettuale e legata ad una visione architettonica della città si contrappone un modello più operativo che prova a praticare sui territori delle alternative organiche agli sviluppi economici e culturali. In articolare, con la legge 10/1997 si sancì il principio di connessione tra pianificazione urbanistica ed impiego delle risorse finanziarie; mentre l’anno dopo con la legge 457 si acquisiva l’utilizzo di politiche di recupero urbano, coinvolgendo l’aspetto sociale ed economico dei territori preesistenti. I cambiamenti che si provavano a produrre nei tessuti urbani mirarono in primo luogo ad un possibile miglioramento della “qualità della vita”.45 “I casali così come i quartieri popolari, come le strade commerciali della edilizia abusiva, sono i tanti frammenti della periferia: ognuno con proprie regole, tipi e spazi, da integrarsi con realismo, e forse senza gerarchia di valori. I quartieri popolari rappresentano nella periferia napoletana la struttura portante di una nuova morfologia, sia per le qualità realizzate sia perché hanno strutturato anche l’edilizia privata che si è andata costruendo intorno. Essi sono una parte specializzata, monouso ed a basso ventaglio sociale, omogenea per tipologie in linea ed alloggi standard.” 46
Vela Gialla, Sacmpia. Striscione comitato
Gian Luigi Gargiulo “NAPOLI - S. ERASMO AI GRANILI 1972-1974” in collaborazione con il Comitato di Quartiere
Mimmo Iodice. Le periferie di Napoli, aprile 1980 Immagini dal piano per le periferie 112
La metropoli dopo LA METROPOLI DOPO IL SISMA
Nel 1980 e ’81 il grave terremoto dell’Irpinia, mise in evidenza tutte le arretratezze storiche della città, a cui si andarono a sovrapporre i nuovi danni dovuti la sisma. La tragedia divenne anche “l’occasione” per ripensare una ricostruzione delle periferie, basata su una rilettura dei modelli morfologici e tipologici. Gli interventi rappresentano un avanzamento nel campo dell’edilizia residenziale.47 Nel maggio ’81 fu approvata la legge 219, dichiarando «di premiante interesse nazionale la realizzazione di un programma straordinario di edilizia residenziale per la costruzione dell’area metropolitana di Napoli di ventimila alloggi e delle relative opere di urbanizzazione»48 I consulenti ed esperti no-minati dall’ufficio tecnico del sindaco erano: D.Benedetti, L. Benevolo, S. Bonamico, Felicia Bottino, G. Campos Venuti, G. Cerami, C. Cosenza, A. Del Piaz, C. De Seta, G. Gambirario, T. Giura, E. Longo, V. Gregretti, A Iannello, I. Insolera, P.M. Lugli, L.Mendia, N. Pagliara, N. Polese, A. Realfonso, M. Rosi, B. Secchi, O. Sifola, V. Silvestrini, R. Sparacio, G. Trebbi, E. Vittoria ( ed inoltre CRESME, Informatica Campania e ISPREDIL).49 Il programma che si integrò al PEEP fu sviluppato da un gruppo di tecnici guidato da Vezio De Lucia, sotto al giunta Valenzi. Divenne il PSER (Programma Straordinario di Edilizia Residenziale). Gli interventi furono immaginati a più livelli, restauri, ristrutturazioni, completamenti e cercarono un puntuale riscontro nei programmi urbani. Gli ingenti finanziamenti nazionali resero praticabile il tentativo di mutamento metropolitano dell’intera città, ma l’amministrazione di tali somme e la dimensione degli interventi poteva rivelarsi un ulteriore occasione di “speculazione autorizzata”, in una città che si andava appena riprendendo dai violenti fenomeni abusivi degli anni ’50. La rapidità degli interventi, e la precisione della pianificazione furono determinanti in questa fase. Nella descrizione operata da Leonardo Benevolo, durante il primo periodo dei lavori, si evince che il recupero inteso dall’amministrazione, trascendeva da una questione tecnica e si estendeva verso un recupero politico e sociale della città, distinguendo simbolicamente cinque fasi del recupero. 113
Il “recupero della legalità”, primo indice da seguire, anche a modello per tutte le altre grandi città d’Italia che avevano seguito lo stesso infelice sviluppo nel dopoguerra. Nel prendere accordi trasparenti don le ditte appaltatrici e con gli studi architettonici fu ostacolato l’ingresso diretto alla gestione da parte della camorra, le uniche vie d’accesso restavano legate alla vendita dei materiali e alla gestione della manodopera, provando a ripristinare un “recupero della correttezza”. “Il recupero dell’efficienza pubblica” partiva da una necessità di organizzare un gruppo stabile di lavoro sulle questioni pubbliche. Il lavoro a causa dei tempi ristretti fu integrato a quello di alcuni gruppi professionali di specialisti. Tema centrale e notevolmente dibattuto dell’intervento era il “recupero della congruenza dei luoghi”. La contrapposizione tra nuovo e vecchio era stata letta spesso in criticamente, ma secondo il gruppo tecnico del programma, questa convivenza avrebbe dovuto rinforzare ciò che di buono era rimasto dell’antico tessuto, riconosciuto anche socialmente come luogo di appartenenza culturale del territorio, ed inoltre avrebbe dato un identità progettuale alle nuove costruzioni. L’ultimo “recupero che viene annunciato da Benevolo, nel suo dossier riguarda “la continuità e la gestione urbana”. La difficoltà di affiancare emergenza e pianificazione, nonché la necessità di scegliere un area così complessa di intervento come la cintura interna, necessitava l’acquisizione di un metodo capace di tenere dentro tutte le pretese. Partendo dal lavoro già svolto per il Piano per le Periferie, del 1980, il programma straordinario divenne un acceleratore possibile dei processi già previsti, in atto. Il metodo che si sviluppa pone in prima istanza attenzione sul centro storico individuato, che figurava essere il più grande d’Europa, e la cintura periferica, di notevoli dimensioni e caratterizzata da una cospicua densità demografica. L’intreccio di questi tessuti testimoniava una tale complessità che si preferì adottare dei modelli metropolitani di ampia scala con forme di integrazione amministrativa.50 Il soggetto principale in questa grande opera di ricostruzione residenziale fu tutta l’antica “corona dei casali” che per la prima volta vide affiancata un ingente lavoro di recupero urbano. Gli interventi quindi si svilupparono su due scale, strettamente connesse, una urbanistica l’altra architettonica. Nella prima, il Piano Speciale servì a rimodellare il frammentato tessuto urbano a partire dalla ricomposizione degli elementi caratteristici e storicizzati; nella seconda scala, la fase esecutiva dei blocchi edilizi mise in luce le difficoltà del rapporto architettonico tra “modernità” e tradizione. La ricerca tipologica legata all’idea della grande scala fu rigidamente rispettata, ma nel rigoroso uso di elementi tecnologici prefabbricati, fu difficile rintracciare, all’interno dell’alta domanda di quantità residenziali, forme architettoniche che ben si integrassero al territorio.
Fotografie realizzate per il Commissariato straordinario di Governo, conservate presso l’Archivio “Casa della città”
Dossier, Edilizia Popolare, Napoli Terremoto, n° 166 Maggio-giugno 1982 114
Una maggiore organicità di interventi si riscontrò nell’area nord di Napoli, in particolare tra: Miano, Secondigliano, e S. Pietro a Patierno.51 “Il programma prevede tre modalità di intervento la conser-vazione, la sostituzione / completamento e la nuova edificazione - da attuarsi in 12 grandi comparti alle periferie nord, est e ovest della città per un totale di oltre 13.000 alloggi e un considerevole numero di piccole e grandi attrezzature pubbliche. Altri 7.000 alloggi sono localizzati all’esterno della città lungo la direzione per Nola. Per l’area centrale sono previsti interventi puntiformi per la realizzazione di alloggi e attrezzature. Parchi urbani e aree verdi sono localizzati a Taverna del Ferro, Ponticelli, Pianura, Secondigliano, S.Antonio ai Monti e in altre zone per un totale di circa 90 ettari. Nell’ambito della conservazione - cui hanno fornito contributi di metodo ed idee, tra gli altri, Benevolo, De Seta, Insolera, Gresleri, Giura Longo, Dal Piaz e Gianfranco Caniggia per gli studi tipologici - vanno segnalati i recuperi dei tessuti storici in via Napoli a Ponticelli, del piccolo casale di Soccavo tra via Monti e piazza S. Pietro e di via Napoli a Marianella. Più articolato il capitolo della sostituzione/completamento che non sempre ha prodotto risultati convincenti ma nel quale vanno positivamente discriminati i progetti di Via Ciccarelli e Corso Sirena a Barra coordinati da Barucci, del Comparto di Piscinola coordinato da Pica Ciamarra, dei Vichi Ponte a Miano di Capobianco e Zagaria, delle Sette corti quadrate di Dardi e Carreras sempre a Miano, dei Censi a Secondigliano di Pisciotti e Lavaggi, di Via Palazziello e Via Monti a Soccavo di Barbati e Gorini, della Torre residen-ziale di Riccardo Dalisi a . Ponticelli, delle Corti di via Napoli a Pianura di Sergio Stenti.”52 La periferia orientale, storicamente più legata alle trasformazioni urbane della città, già aveva visto realizzati alcuni interventi legati ad una pianificazione urbana più omogenea. I disagi del terremoto si riscontarono particolarmente nella periferia orientale, dove, sotto la spin-ta del consiglio circoscrizionale, con storica maggioranza del Partito Comunista Italiano, ricevette molti contributi per gli aiuti umanitari, le perizie e l’assistenza, trovando il sostegno di importanti personalità politiche come Enrico Berlinguer che con visite e promesse, si impegnarono per favori-re la ricostruzione. Il PSER divenne un occasione per recuperare, con abbattimenti, dismissioni e ricostruzioni buona parte del territorio di San Giovanni a Teduccio che sino ad ora era stato gestita prevalentemente con iniziative frammentate, da parte di imprenditori e IACP. «Due sono le scelte culturali ed urbanistiche di carattere strategico elaborate dai comunisti di S.Giovanni per costruire un avvenire diverso nel quartiere: a) il recupero dei vecchi centri (o bor-ghi) di villa e e Pazzigno con la dotazione di servizi e di infrastrutture a scala di quartiere (progetto
PSER comparto 9 Ponticelli
PSER comparto 10 Barra/ S. Giovanni a Teduccio
Pietro Barucci. Intervista in RepubblicaTV.it, Barucci, l’architetto del Laurentino 38: “Hanno tradito il mio progetto”. 15lu115
avviato con i poteri del Sindaco Commissario); b) il recupero della linea di costa da Pietrarsa a Vigliena. Mentre prosegue la realizzazione del museo FF.SS. nel restaurando storico opificio di Pietrarsa, il Sindaco Valenzi nella sua qualità di Commissario ha deliberato l’esproprio dell’area dell’ex Corradini, un altro complesso estremamente significativo dal punto di vista dei valori di archeologia industriale. Ha preso così le mosse l’episodio urbanistico di rilievo nazionale, più importante che sia mai stato pensato ad oriente della città e che ne seguirà prepotentemente il futuro. Una nuova colmata a mare, da realizzarsi con i materiali di risulta delle demolizioni degli edifici investiti dalla ricostruzione e sulla quale si realizzerà la seconda villa comunale.»53 Le grandi mobilitazioni popolari nazionali sulla questione casa, anche a Napoli avevano visto un ampio coinvolgimento di studenti, operai, disoccupati e sottoproletariato urbano. L’attenzione alle tematiche urbanistiche restava alta, questo spiega anche l’impegno che alcuni partiti, come il PCI di San Giovanni, investirono per la ricostruzione evocando lo slogan: “più città meno periferia”. L’obbiettivo nei nuovi progetti fu quella di uscire definitivamente dall’idea di “quartiere industriale con residenze dormitorio” e di aprirsi, ripartendo dalle antire radici, alla Napoli metropolitana. Gli interventi deliberati riguardarono: a San Giovanni a Teduccio e Villa, residenze, asilo nido e scuola materna, scuola elementare e media, parco urbano, centro anziani, verde attrezzato, sede USL, caserma dei carabinieri, polizia di stato, centro circoscrizionale, centro culturale, palazzetto dello sport, parco di quartiere, sala polifunzionale, pretura e centro commerciale; a Barra, residenze, un asilo nido e scuola materna, day hospital, ufficio postale, verde attrezzato, un museo ed un centro commerciale; infine a Pazzigno residenze, laboratori per l’artigianato, attrezzature sportive, parco di quartiere, asilo nido, scuola materna ed elementare e chiesa.54 Il progetto per il grande impianto residenziale a San Giovanni a Teduccio fu affidato a Pietro Barucci, che ai tempi era considerato “architetto delle periferie” a causa dei numerosi interventi di edilizia a grande scala di cui si era occupato in tutta Italia. Con un totale di oltre 1.800 alloggi, gli ambiti includevano: Taverna del Ferro, l’antico Casale di Barra, e di Pazzigno dove, in quest’ultimo, venne progettata e realizzata anche la chiesa parrocchiale. Si tratta di un impegno di lavoro che durerà dodici anni, centrale tanto per questo decennio quanto per il prossimo. Il progetto che prevedeva due “lame” di residenze (lunghe oltre 300 metri, prendendo ad esempio i Granili di Ferdinando Fuga) e negozi e servizi distribuiti lungo i ballatoi ai primi piani, collegati da ponti. Ponti poi demoliti (per decisione prefettizia), per evitare che fornissero facili vie
L’Unità,30 dicembre1996
116
di fuga ai delinquenti una volta che gli edifici in questione divennero fortino dei clan della zona - o che favorissero scambi nelle attività illegali. Lo studio Barucci espose il progetto per il PSER dopo coche settimane e rispose precisamente a tutti i canoni richiesti dalla committenza e fu acclamato con grande entusiasmo. Le caratteristiche dei suoi progetti erano legate alla tecnica contemporanea, alla capacità di modellare e rispondere alla domanda della grande scala con efficace risolutezza. L’uso di prefabbricati lo rese particolarmente caro alla sinistra istituzionale che riconduceva questo tipo di tecnica ad un elogio all’universo operaio e della fabbrica.
Pietro Barucci si formò come allievo di Arnaldo Foschini55, sia nella formazione accademica che nella continuazione della sua carriera. Tra tecnica e tipologie seppe rafforzare pronunciare il carattere architettonico più adatto rispetto al progetto. La sua esperienza di architettocostruttore si mani-festa nelle numerose opere di Roma, Livorno ma troviamo importanti interventi anche a Torino, Pistoia, Foggia Napoli ecc. L’esperienza con l’INA casa segna presto la sua carriera già a partire dalla fine degli anni ’50, seguendo in questo percorso il suo maestro, e raccogliendo importanti influssi della scuola Moderna romana, come Ridolfi e dell’ultimo Moretti. I grandi quartieri progettati da Pietro Barucci, rispondono sempre alle richieste della committenza riuscendo ad integrare il progetto urbanistico con quello architettonico, con le notevoli difficoltà dei team organizzativi; tuttavia, il bilancio per la maggior parte degli interventi ha dimostrato un bilan-cio assolutamente negativo per quanto riguarda le ricadute sociali che hanno reso questi quartieri, ma anche molti altri costruiti in quel periodo, degli agglomerati di emergenze sociali. . Nelle numerose interviste di accusa al Movimento Moderno come causa del disagio sociale, l’architetto si è sempre dimostrato preoccupato, ma raramente colpevole.56 Additando le responsabilità principalmente alle istituzioni e alla politica che furono incapaci di gestire i processi urbani di cui si fecero carico, abbandonando tutti quei “metri cubi” che erano stati destinati ai servizi necessari alla collettività, permettendo dopo l’abbandono di questi locali, la progressiva occupazione.57 Tra le esperienze architettoniche residenziali del PSER, troviamo un tipo di esperienza architettonica dif-ferente, proposta nella Torre Residenziale di Ponticelli, progettata dall’architetto Riccardo Dalisi, un po’ più a nord di San Giovanni a Teduccio e Barra, nell’area di Ponticelli. In questo casale, negli anni precedenti, l’architetto aveva avviato dei laboratori all’interno dei cortili, in cui si studenti dell’uni-versità ed abitanti grandi e piccoli, si cimentavano nell’esperienza del disegno libero come pratica di auto espressione artistica.
L’Unità,30 dicembre1996.
Riccardo Dalisi, animazione con gli studenti del Gruppo Vicolo a Ponticelli, Napoli, 1975
Riccardo Dalisi luglio 2013
117
Gli elaborati si finalizzarono in progetti di design e architettonici per la rimodellazione degli spazi residenziali e collettivi. L’esperienza partecipativa, dei laboratori di Dalisi seppe reinterpretare l’uso degli spazi ed il ruolo professionale accademico dell’architetto a partire dalle esperienze di Rione Traiano, Salerno, Ponticelli, nelle case occupate e nei sobborghi popolari. I movimenti dei senza tetto, legati ai baraccati dimostrano una forte realtà antiurbana, in cui gli spazi cambiano notevolmente l’uso per cui erano stati preposti, integrandosi in una reale appropriazione alternativa che si verifica prevalentemente dei “quartieri dormitorio” del sud Italia, dove la disoccupazione è maggiore, e la composizione più legata al sottoproletariato. La rigenerazione creativa degli spazi, avviene attraverso un processo partecipato a cui prendono parte gli abitanti, gli studenti e gli architetti, volto in prima istanza al recupero dell’autoespressione.58 Quello su cui ci si soffermò ancor prima della forma e del progetto fu il metodo. La funzione non è più il principio generatore della forma al contrario, diventa un paramento già acquisito. La forma viene fuori dalla “geometria generativa”, progetto conclusivo di un percorso di geometrie accoglienti, inclusive, mutabili, poliforme. Il legame con Giancarlo De Carlo avvenne sulla base del metodo, appunto, di partecipazione, in cui il progetto veniva fuori dalla collaborazione dei laboratori in cui partecipavano gli abitanti dei rioni, ed in particolare le donne e i bambini, che vivevano quotidianamente e facevano propri i luoghi esterni e collettivi dei quartieri del sottoproletariato. L’architettura radicale fu una corrente che accomunò alcune principi operativi ed affinità concettuali riconducibili ai lavori di: Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Ugo La Pietra ecc. tra i punti chiave troviamo: la rottura tipologica, la diluzione della forma architettonica, le tipologie ribaltate, la rottura con l’unità morfologica nel rapporto intenso con le preesistenze, l’idea che la forma si modifica nel tempo, l’architettura scultura e la “tecnica povera” che prevedeva l’uso della manualità e delle tecniche artigiane sperimentato ed ideato da Dalisi. Dopo il terremoto, Riccardo Dalisi progettò a Ponticelli la Torre residenziale e la Torre del Municipio, che assieme al campanile rappresentavano i “tre totem” che dalla terra, indirizzavano gli occhi dell’uomo verso le stelle. Oltre al menir, il grande tema della torre residenziale viene espresso dalla scala, rivolta ad Est verso il Vesuvio a forma di albero. In questo caso il tema del cortile viene trasposto il verticale sul disegno della scala. Su ogni piano vi sono 4 appartamenti.
Riccardo Dalisi “Architettura d’animazione” Editore Carucci, Napoli 1975
Dopo la Rivoluzione azioni e protagonisti dell’architettura radicale italiana 1963-1973 118
Ogni appartamento dispone di un terrazzo che è pensato per le dimensioni e per il legame con l’alloggio una stanza dell’appartamento all’aperto, ricavata dalle percentuali da rispettare per la parte dell’edificio non residenziale. Il passato medioevale ritornava simbolicamente, in cui la torre residenziale, con un altezza di 56 mt, rappresentava il simbolo sociale conquistato dal Movimento Moderno con la “casa per tutti”.59 L’emergenza abitativa, già grave prima, esplose dopo il terremoto. Le graduatorie per le assegnazioni delle nuove case seguivano lunghi processi burocratici ed inoltre il numero per le famiglie senzatetto risultavano maggiori di quelle che dovevano avere l’assegnazione. La reazione naturale degli sfollati dopo il sisma fu quella di andare ad occupare le numerose palazzine sfitte nella periferia nord-est. Le prime ondate di occupazioni furono mosse da movimenti spontanei, dettate dalle gravi condizioni di emergenza, molti degli alloggi occupati, infatti, erano ancora in fase di costruzione. Col passare del tempo e con l’appoggio dei movimenti di lotta come i disoccupati di Banchi Nuovi, Cim(centro iniziativa marxista), nda(dei sindacati di base) ed altre sigle, molte occupazioni divennero più organizzate e si caratterizzarono con rivendicazioni politiche antifasciste ed anticamorristiche volte al miglioramento della rete dei servizi sui territori. Simbolo della resistenza per il diritto alla casa, divenne la Vela Gialla, a Scampia, il cui comitato tuttora esistente, si organizzò con una gestione assembleare, ed orizzontale che prevedeva incontri settimanali. I tentativi di sgombero non furono frequenti, proprio perché a tali atti di forza sarebbero dovute seguire alternative logistiche, che non si era in grado di fornire. I movimenti di occupazione negli anni settanta e ottanta riscontarono un grande appoggio nei numerosi cortei e nelle iniziative popolari e dimostrarono finalmente le rivendicazioni delle utenze dei quartieri popolari. Tra l’81 e l’82’ i movimenti lanciarono la campagna per la requisizione delle case sfitte, che si muoveva su una base di conoscenza capillare del territorio in cui si mostrò la contraddizione di una città in emergenza abitativa, che però riscontrava circa 30.000 vani sfitti.60 A dimostrazione che quindi il primo problema delle popo-lazioni urbane non stava nella costruzione di quantità edilizie ma nella gestione dei territori e delle proprietà immobiliari. Gian Luigi Gargiulo. Gennaio 1975 - Tazebao sull’autoriduzione a Montesanto 119
Note: 1
Umberto ECO, Apocalittici e ingrati, Bompiani, Milano 1964
2
Renato DE FUSCO, Architettura e cultura di massa, in Op. Cit, n° 3, maggio 1965 . p.18
3
JANE JACOBS Vita e morte delle grandi città, Giulio Einaudi, Torino 1969
4
5
NELLA GINATEMPO, La casa in Italia: Abitazioni e crisi del capitale, Marzotta, Milano 1975, P. 119
ROBERTO GUIDUCCI, La città dei cittadini: un urbanistica per tutti. Rizzoli, Milano 1976
6
N. GINATEMPO, op. cit.
7
LEONARDO BENEVOLO, Le avventure della città, Laterza, Roma ‐ Bari 1973 P.16.
8
Enzo Mingione (Milano, 1947) è un sociologo e accademico italiano. Professore ordinario di Sociologia
presso l'Università di Milano Bicocca. 9
N. GINATEMPO, op. cit., p. 122
10
L. BENEVOLO, op.cit. 1973
11
L. BENEVOLO, op.cit. p.158
12
UNIONE INQUILINI, Giornale dell’Unione inquilini, Milano 1971.
13
N. GINATEMPO, op. cit
14
R. GUIDUCCI, op.cit., p220.
15
ROMANO LANINI, GUGLIELMO TRUPIANO, Città, innovazione, trasformazione,Fiorentino, Napoli 1988
16
FRANCO PURINI, Luogo e progetto, Magma, Roma 1976 p. 11
120
17
Francesco ERBANI, Quando L' Architettura Era Ottimista Ludovico Quaroni, Così Si Disegna La Città.in
“Repubblica” 03/12/2011 18Manfredo TAFURI, Ludovico Quaroni e lo sviluppo dell'architettura moderna in Italia, Edizioni di Comunità,
Milano 1964 19
COLIN WARD, Anarchy in Action, Allen & Unwin 1973, (trad. it.: Anarchia come organizzazione, Antistato,
Milano, 1976) 20
GIANCARLO DE CARLO, Gli spiriti dell'architettura, Editori Riuniti, Roma 1992
21
GIANCARLO DE CARLO. Inventario analitico dell'archivio ‐ Archivio Progetti, a cura di F. Samassa, Il Poligrafo,
Padova 2004. 22
Video intervista, Il Villaggio Matteotti,
23
Ibidem.
24
GIANCARLO DE CARLO: le ragioni dell'architettura : 1. giugno‐18 settembre 2005, MAXXI, Museo nazionale
delle arti del 21. secolo / a cura di Margherita Guccione, DARC : MAXXI, Roma 2005. Estratti 25
Alessandra BARRESI, Tesi: Le questioni dell’urbanistica in Italia dal ’42 al ’90, Facoltà di Architettura,
Università degli studi di Reggio Calabria, 2009 26
Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993
27
Alessandro CASTAGNARO, Architettura del Novecento a Napoli : il noto e l’inedito, Edizioni scientifiche
italiane, Napoli 1998 28
Alessandro DAL PIAZ, Dossier, Edilizia Popolare, Napoli Terremoto, n° 166 Maggio‐giugno 1982. Pubblicato
in Comunedi Napoli.it, Dipartimento pianificazione urbanistica ‐ Casa della città 29
Roberto GUIDUCCI, La città dei cittadini: un urbanistica per tutti. Rizzoli, Milano 1976, P.313
30
Romano LANINI, GUGLIELMO TRUPIANO, Città, innovazione, trasformazione,Fiorentino, Napoli 1988 P. 77 121
31
Alessandro DAL PIAZ, Relazione al PRG 1970, Comune di Napoli.
32
Alessandro DAL PIAZ, Dossier, Edilizia Popolare, Napoli Terremoto. Op. Cit.
33
A. CASTAGNARO, op, cit. Pag. 203
34
Antonio LAVAGGI, L’occasione del progetto, F. Fiorentino, Napoli 1990
35
Tange, Kenzo. ‐ (Imabari 1913 ‐ Tokyo 2005). Tra i più noti protagonisti dell'architettura contemporanea, svolse una intensa attività a livello internazionale, che lo vide presente con numerose realizzazioni sia in Giappone sia in Italia, Stati Uniti, Australia, Arabia, Asia e Singapore. In Italia progettò diverse opere tra cui l'urbanizzazione di Librino, Catania (dal 1970), il piano per la Fiera di Bologna (1971‐74), il Centro direzionale di Napoli (dal 1982) e i quartieri S. Francesco e Affari a San Donato Milanese (dal 1991). Da Treccani Enciclopedia. 36
A. CASTAGNARO, op. cit.
37
Pasquale BELFIORE Frammenti di qualità architettonica: percorsi dell’età post‐ moderna, 1958‐2000. In: AA.VV.. Napoli e la Campania nel Novecento. Diario di un secolo. Edizioni Millennio, Napoli 2005 38
39
Romano LANINI, Guglielmo TRUPIANO, Città, innovazione, trasformazione , F.lli Fiorentino, Napoli 1988
Stella CASIELLO, in ICOMOS, Indirizzi per il restauro del centro storico di Napoli, 1982
40
A. DAL PIAZ, Dossier, Edilizia Popolare, Napoli Terremoto. Op. Cit.
41
Ibidem
42
Convegno nazionale 11ottobre2013 Napoli. La dimensione insostenibile dell’architettura. I grandi quartieri italiani 1960‐1980 43
Marcello Canino,. ‐ Architetto italiano (Napoli 1895 ‐ ivi 1970); prof. di composizione architettonica all'univ. di Napoli (1936‐1965). Ha eseguito studî sull'architettura napoletana e ha progettato, tra l'altro, il complesso della Mostra d'Oltremare, il palazzo INA, la sede della Banca d'Italia a Napoli, le Terme di Castellammare di Stabia. 122
44
45
S. STENTI, op. cit.
G. DE LUCA , La 167 come strumento di una politica urbanistica per Napoli, in “Casabella”, n° 44 195, pag 118
46
Pasquale BELFIORE Frammenti di qualità architettonica: percorsi dell’età post‐ moderna, 1958‐2000. In:
AA.VV.. Napoli e la Campania nel Novecento. Diario di un secolo. Edizioni Millennio, Napoli 2005 47
Giorgio BOCCA, Napoli siamo noi. Il dramma di una città nell’indifferenza dell’Italia. Feltrinelli Editore,
Napoli 2006. 48
49
50
A. DAL PIAZ, Dossier, Edilizia Popolare, Napoli Terremoto. Op. Cit.
S. STENTI, op. cit. p. 44
Sergio STENTI, Napoli moderna : città e case popolari : 1868‐1980 , CLEAN, Napoli 1993
51
Titolo VIII, Legge n° 219‐ 14.05.1981.
52
Edilizia Popolare, Napoli Terremoto,, n° 166 Maggio‐giugno 1982. Pubblicato in Comunedi Napoli.it,
Dipartimento pianificazione urbanistica ‐ Casa della città 53
Leonard BENEVOLO, Dossier, Edilizia Popolare, Napoli Terremoto, n° 166 Maggio‐giugno 1982. Pubblicato in
Comunedi Napoli.it, Dipartimento pianificazione urbanistica ‐ Casa della città 54 55
Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001
P. Belfiore, op. cit.
56
Dossier n° 2, S.Giovanni a Teduccio: dall’emergenza verso la rinascita, a cura delle sezioni del PCI di San
Giovanni, novembre 1983 57
L. PAGANO, Op. Cit.
58
Foschini, Arnaldo. ‐ Architetto italiano (Roma 1884 ‐ ivi 1968), prof. di composizione architettonica alla
facoltà di architettura dell'univ. di Roma (1926‐54); presidente dell'INA‐Casa dal 1948, contribuì 123
all'attuazione dell'edilizia popolare del piano Fanfani. Sue opere a Roma: palazzo dell'Istituto d'igiene e ingresso della Città Universitaria (1932); corso Rinascimento (1935); chiesa dei SS. Pietro e Paolo all'EUR (1939). 59
PIETRO BARUCCI, Scritti di architettura 1987‐2012, Clean, Napoli 2010
60
RUGGERO LENCI, Pietro Barucci architetto, Electa, 2009
Riccardo DALISI, Traiano e Ponticelli (Napoli): il ricupero dell’autoespressione, in Spazio e società, Anno 1, n° 2,
61
aprile 1978 62
Riccardo DALISI, Radicalmente, Edizioni Kappa, Roma 2004
63
Giuseppe MANZO – Ciro PELLEGRINO, Le mani nella città, Round Robin, Roma 2013
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PROGETTO DI RECUPERO PARTECIPATO DEI CORTILI DI PONTICELLI
TORRE RESIDENZIALE PONTICELLI complesso residenziale TAVERNA DEL FERRO
Opere Trattate Altre Opere Trattate dal 1969 al 1988
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COMPLESSO RESIDENZIALE TAVERNA DEL FERRO
scheda
Collocazione geografica: Napoli - San Giovanni a Teduccio - Via Villa a San Giovanni, via Alveo Artificiale. via Taverna del Ferro, Progettista: Studio Pietro Barucci Anno costruzione: 1982-1993 Informazioni tipologiche: edilizia abitativa popolare - PSER (Piano Straordinario di Edilizia Residenziale) Caratteristiche costruttive: C.A. prefabbricato, struttura metallica 1
PSER - Intervento Taverna del Ferro
Le caratteristiche dei progetti di Pietro Barucci erano legate alla tecnica contemporanea, alla capacità di modellare e rispondere alla domanda della grande scala con efficace risolutezza. Il suo approccio generalmente tendeva a privilegiare le capacità tecniche e l’uso di prefabbricati motivo che lo rese particolarmente caro alla sinistra istituzionale che riconduceva questo tipo di tecnica veniva visto come un elogio all’universo operaio e della fabbrica. Lo studio Barucci espose il progetto per il PSER di San Giovanni a Teduccio dopo poche settimane di intenso lavoro, rispondendo precisamente a tutti i canoni richiesti dalla committenza e fu acclamato con grande entusiasmo. Il Piano Straordinario di Edilizia Residenziale a Napoli , PSER, commissionò all’architetto progetti, per un totale di oltre 1.800 alloggi. Gli ambiti includevano Taverna del Ferro, l’antico Casale di Barra e di Pazzi126
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Immagini aeree durante la realizzazione.
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Riferimento progettuale. Granili di A.Fuga
gno dove, in quest’ultimo, fu progettata e realizzata anche la chiesa parrocchiale. Si trattò di un impegno di lavoro che durò dodici anni. Una particolarità è che i due imponenti edifici abitativi di Taverna del Ferro e di Pazzigno furono posti in perfetto allineamento tra loro. Di 240 metri di lunghezza il primo e di 120 il secondo, essi si sviluppano secondo la medesima sezione. Ciò fu dovuto al fatto che si voleva sottolineare il carattere unitario e qualificante della ricostruzione, facendo sì che dal mare si potesse percepire la presenza di un volume virtuale tratteggiato dai due interventi distanti tra loro circa 900 metri, che dovevano svettare sul vasto quartiere di San Giovanni. L’intervento di Taverna del Ferro fu il primo ad essere progettato e vide la collaborazione di Vittorio De Feo (1928-2002). L’impianto era chiaro ed ordinato e segnava il contrasto con le caotiche espressioni precedenti. Il complesso residenziale fu organizzato su due linee parallele, la grandezza lineare citavano l’esempio dei Granili di Ferdinando Fuga, con un lunghezza di oltre 300 metri. Le morfologie residenziali erano di due tipi: le prime di quattro piani definiva il margine territoriale dell’intervento, il secondo di nove rielaborava l’immagine del vicolo napoletano. Una barra ideale con il compito di ricucire, quasi a proteggere e rafforzare, tutto il quartiere stesso. Il progetto che prevedeva due "lame" di residenze e negozi e servizi distribuiti lungo i ballatoi ai primi piani, collegati da ponti. Ponti poi demoliti (per decisione prefettizia), per evitare che fornissero facili vie di fuga ai delinquenti una volta che gli edifici in questione divennero fortino dei clan della zona - o che favorissero scambi nelle attività illegali. Barucci fu allievo di Arnaldo Foschini(1884-1968), sia nella formazione accademica che nel legame nella sua carriera con l’INA casa. Tra tecnica e tipologie seppe rafforzare pronunciare il carattere architettonico più adatto rispetto al progetto. La sua esperienza di architetto-costruttore si manifestò nelle numerose opere di Roma, Livorno, Torino, Pistoia, Foggia Napoli ecc. L’esperienza con l’INA casa segna presto la sua carriera già a partire dalla fine degli anni ’50, 127
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Planimetrie alloggi interni
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sezione
seguendo in questo percorso il suo maestro, e raccogliendo influssi di importanti maestri della scuola Moderna romana, come Ridolfi e l’ultimo Moretti. I grandi quartieri progettati da Pietro Barucci, rispondono sempre alle richieste della committenza riuscendo ad integrare il progetto urbanistico con quello architettonico, con le notevoli difficoltà dei gruppi politici e tecnici organizzativi. Tuttavia, per la maggior parte degli interventi si è riscontrato un bilancio assolutamente negativo per quanto riguarda le ricadute sociali che hanno reso questi quartieri, ma anche molti altri costruiti in quel periodo, degli agglomerati di emergenze sociali. Secondo le numerose dichiarazioni dell’architetto le responsabilità vanno ricercate nell’incapacità dalla politica di gestire tutti quei “metri cubi” che erano stati destinati ai servizi necessari alla collettività, permettendo dopo l’abbandono di questi locali, la progressiva occupazione a scopi spesso malavitosi. «Quella della città pubblica fu una breve ma luminosa stagione dell’urbanistica e dell’architettura italiana della seconda metà del secolo scorso. Secondo me durò poco più di tre lustri, a partire dai grandi movimenti di lotta per la casa alla fine degli anni Sessanta (il grande sciopero generale per la casa e l’urbanistica avvenne il 19 novembre 1969). Furono disposti allora nuovi cospicui finanziamenti, nuove leggi, nuovi sistemi di governo del settore nel clima di riforma e rinnovamento che in quei maledetti anni Settanta attraversava ogni settore della società italiana. Penso di poter sostenere che fu allora risolto, o quasi tutto risolto, il problema del fabbisogno abitativo. Di quella stagione Barucci fu un autorevole protagonista. Un protagonista perplesso, non un ortodosso esecutore. Sono nette le sue critiche alla legge 167 e ai piani di edilizia economica e popolare prigionieri della logica del ghetto che i progettisti cercarono inutilmente di riscattare con invenzioni morfologiche. In alternativa cita gli esperimenti “misconosciuti” dell’IBA di Berlino e della ricostruzione di Napoli.» 128
Bibliografia essenziale: Carmen ANDRIANI, Un contributo italiano alla riqualificazione urbana : Napoli 1980‐1990 / Carmen Andriani. ‐ Tav. tem., fot. bn., planivol., planim., ass.. ‐ In AU : rivista dell'arredo e dell'ambiente urbano . ‐ N. 42‐43 (1991), p. 88‐96 Pietro BARUCCI , 'Taverna del Ferro', Napoli, un ambito di riqualificazione : i sogni e gli incubi della grande scala, L’Architettura, Venezia 1993 "Taverna del ferro", Napoli, un ambito di riqualificazione. ‐ Planim., foto c., plastico, sez., pianta. ‐ In L'architettura : cronache e storia . ‐ N. 10 (1993), p. 678‐693 Pietro BARUCCI, Dal Laurentino al Quartaccio ‐ In Spazio e società : rivista internazionale di architettura e urbanistica ‐ N. 44 (1988), p. 60‐64 Lilia PAGANO, Periferie di Napoli : la geografia, il quartiere, l’edilizia pubblica , Electa, Napoli 2001 Ruggero LENCI, Pietro Barucci architetto, Electa, Milano 2009 Vezio DE LUCIA. Prefazione in, Scritti di architettura 1987‐2012,a cura di Pietro BARUCCI Clean, Napoli 2010
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PROGETTO DI RECUPERO DI CORTILI A PONTICELLI
scheda
Collocazione geografica: Napoli - Ponticelli - Via Crisconio n° 51,59, e 71 Architetto coordinatore: Ricccardo Dalisi e collaboratori Periodo: 1981-1983 Informazioni tipologiche: Edifici a corte per abitazioni. Ristrutturazione Casali storici.
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Laboratori nei cortili
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Spazio di libero movimento dei bambini
La risposta accademica rispetto alle richieste dei senza tetto e delle grandi mobilitazioni per la casa prese differenti strade anche a Napoli. Con l’esperienze partecipativa, dei laboratori a Rione Traiano, e poi a Salerno, Ponticelli, nelle case occupate, l’architetto Riccardo Dalisi seppe reinterpretare l’uso degli spazi ed il ruolo professionale ed accademico dell’architetto. Durante le numerose lezioni che il professore decise di svolgere nei più degradati quartieri del sottoproletariato la ricerca architettonica partì da un nuovo soggetto, i bambini: «i bambini sono un autentico canale partecipativo, ove tutti i problemi dei quartieri corrono rapidamente e si svelano con una particolare nitidezza. Anche gli adulti sono stati coinvolti e, non ultimi (1975) gli anziani operai di Ponticelli. E tuttavia la disponibilità e la mobilità che distingue i bambini dagli adulti facilita e rende possibile i rapporti con tutte le esperienze del quartiere.» La collaborazione dei bambini permetteva attraverso i disegni e la libertà espressiva di penetrare nella lettura dei luoghi e delle esigenze attraverso l’espressione di una parte dell’utenza che viveva a pieno il suo tessuto urbano. I movimenti legati ai baraccati dimostrarono una forte realtà antiurbana, in cui gli spazi cambiavano notevolmente l’uso per cui erano stati preposti, integrandosi in una reale appropriazione alternativa che si verifi130
cava prevalentemente nei “quartieri dormitorio” del sud Italia, dove la disoccupazione era maggiore, e la composizione più legata al sottoproletariato. La rigenerazione creativa degli spazi, avviene attraverso un processo partecipato a cui prendono parte gli abitanti, gli studenti e gli architetti, volto in prima istanza al recupero dell’autoespressione. Il metodo attuato dai laboratori di Dalisi, partiva da un approccio spontaneo. Attraverso il linguaggio grafico era possibile stabilire con i soggetti un rapporto comunicativo e di fiducia attraverso i disegni e la scultura. Rotta l’ostilità verso l’altro e l’inibizione verso le proprie “opere”, il processo partecipativo era acquisito dai vari soggetti che partecipavano collettivamente all’autoespressione. Il Progetto di Recupero dei tre cortili a Ponticelli, corrispondeva ai contenuti del progetto urbanistico. Attraverso la raccolta delle tipologie e delle funzioni già in uso, fu possibile operare a partire dalla valutazione degli elementi da eliminare, conservare o potenziare. Le parti conservate andavano restaurate e modificate solo per aprire nuovi vani indispensabili. Le parti da rimuovere andavano sostituite per ricostruire nuove situazioni spaziali e tecnologiche. Delle superfetazioni, andava mantenuto quindi il concetto, inserendo delle “Superfetazioni di progetto”.. La fascia che si legava al confine del lotto fu integrata con un nuovi corpi, concepiti come “camere urbane”: quella al civico n° 51 dedicata agli artigiani, al n° 59 dedicata ad anziani e bambini, predisponendo uno spazio alberato; la erza al n°71 formava una piazzetta con 8 esercizi commerciali. Le tipologie d’alloggio tendevano a funzionalizzare gli spazi esistenti. “Alla domanda di oggettività formulata dal movimento moderno: razionalizzazione delle funzioni, dei comportamenti della modularità, si sostituisce la domanda di uno studio dei potenziali partecipativi. I diagrammi di Klein si sostituiscono con la diagnosi delle condizioni di modificabilità, coll’abbacco delle variazioni, con la legge delle stratificazioni. Alcune “invarianti” individuate da Zevi come tipiche conquiste del moderno colto, sono 131
del tutto paragonabili a una forma antica della cultura orale: l’elenco non è altro che l’accumulo nel popolare. La processualità e la spazio temporalità sono paragonabili alla sintesi percezione-uso che caratterizza il popolare.” L’esperienza partecipativa nei vecchi cortili stratificati di Ponticelli provò a trattare il tema della casa popolare a partire dagli usi degli spazi esistenti. Un tessuto urbano residenziale doveva prevedere più funzioni, i cortili erano adatti a soddisfare una molteplicità di esigenze collettive, dal teatro al pranzo, le residenze progettate provano a dialogare con l’esterno. Durante gli anni ’70 l’idea di professionalità fu messa in crisi, anche nel campo architettonico l’approfondimento teorico segnò un importante momento riflessivo rispetto a nuovi valori sociali ed antropologici, a partire dallo scambio tra cultura popolare ed universitaria, e dalla creatività povera ed evasiva dell’infanzia. Quello su cui ci si soffermò ancor prima della forma e del progetto fu il metodo. “dimmi come progetti e ti dirò chi sei! Ogni modo di progettare deriva da un modo di concepire l’architettura.” in tal modo ,la funzione non è più il principio generatore della forma al contrario, diventa un paramento già acquisito. La forma viene fuori dalla “geometria generativa”, progetto conclusivo di un percorso di geometrie accoglienti, inclusive, mutabili, poliforme. Il legame con Giancarlo De Carlo avvenne sulla base del metodo, appunto, di partecipazione, in cui il progetto veniva fuori dalla collaborazione dei laboratori in cui partecipavano gli abitanti dei rioni, ed in particolare le donne e i bambini, che vivevano quotidianamente e facevano propri i luoghi esterni e collettivi dei quartieri del sottoproletariato.L’architettura radicale fu una corrente che accomunò alcune principi operativi ed affinità concettuali riconducibili ai lavori di: Ettore Sottsass, Alessandro Mendini, Andrea Branzi, Ugo La Pietra ecc. tra i punti chiave troviamo: la rottura tipologica, la diluzione della forma architettonica, le tipologie ribaltate, la rottura con l’unità morfologica nel rapporto intenso con le preesistenze, l’idea che la forma si modifica nel tempo, l’architettura scultura e la “tecnica povera” che prevedeva l’uso della manualità e delle tecniche artigiane sperimentato ed ideato da Dalisi. 132
Bibliografia essenziale: Riccardo DALISI, Traiano e Ponticelli (Napoli): il ricupero dell’autoespressione, in Spazio e società, Anno 1, n° 2, aprile 1978 Stella CASIELLO, in ICOMOS, indirizzi per il restauro del centro storico di Napoli, 1982 Riccardo DALISI, Una proposta “diversa”, da il Quartiere, 1novembre 1981, n°19 U. Scognamiglio, Ponticello: Casale Regio napoletano, ‐cenni storico‐Preistorici, Eurografica, Napoli 1985 Riccardo DALISI, Recupero della città: Napoli, Università degli studi di Napoli, Facoltà di architettura, Napoli 1986 Riccardo DALISI, Radicalmente, Edizioni Kappa, Roma 2004
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TORRE RESIDENZIALE
scheda
Collocazione geografica: Napoli Via Toscano – Ponticelli Progettista: Riccardo Dalisi Anno costruzione: 1984 1988 Informazioni tipologiche: edilizia abitativa popolare - IACP Caratteristiche costruttive: C.A. prefabbricato, struttura metallica
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le tre torri
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Torre Municipio e Residenziale. Ponticelli
Durante le ricostruzioni dopo il terremoto, Riccardo Dalisi potè mettere in campo il lavoro svolto nei laboratori urbani di partecipazione. Il campo delle realizzazioni spaziava, dall’ideazione di metodi didattici alternativi, alle produzioni artistiche, passando tra il design e la progettazione architettonica integrata nei differenti tessuti urbani. I lavori eseguiti nei paesi campani terremotati, erano indirizzati verso il metodo della partecipazione e dell’autocostruzione. Le realizzazioni architettoniche erano rielaborate attraverso due tendenze: una che seguiva la tecnica povera nella rielaborazione in contemporanea di tecniche vecchie e nuove; l’altra era una rappresentazione libera, che pur partiva da influenze e valori locali, ma tendeva a reinterpretare lo spazio in maniera contemporanea. A questa seconda tendenza è possibile associare il progetto delle Torri a Ponticelli. La Torre Residenziale e la Torre del Municipio, assieme al campanile rappresentavano i “tre totem” urbani, che dalla terra, indirizzavano gli occhi dell’uomo verso le stelle. 134
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Torre Municipio
La torre del Municipio si ergeva sulle spoglie della precedente costruzione crollata. La sua altezza e le sue trasparenze articolavano la monotonia orizzontale del circondario. “Mi sollecita l'idea di poter intervenire con mano leggera, da esperto operatore estetico, da artista, che ricompletare l'opera menomata con una sensibilità che tenga conto di tutto e che si lasci suggestionare dall'antico [...]. Certo occorrono regole restrittive, che diano un riferimento continuo, soprattutto per la ricerca sperimentale, che segni anche il tempo, il percorso che si compie" La simbologie della torre medioevale o del totem ritornava attraverso i nuovi valori dell’uomo moderno, di cui la Torre Residenziale, con un altezza di 56 mt, rappresentava il simbolo sociale conquistato dal Movimento Moderno con la “casa per tutti” . Oltre al menir, il grande tema della torre residenziale viene espresso dalla scala, rivolta ad Est verso il Vesuvio a forma di albero. In questo caso il tema del cortile viene trasposto il verticale sul disegno della scala. Su ogni piano vi sono 4 appartamenti. Ogni appartamento dispone di un terrazzo che è pensato per le dimensioni e per il legame con l’alloggio una stanza dell’appartamento all’aperto, ricavata dalle percentuali da rispettare per la parte dell’edificio non residenziale. Le altre facciate alte propongono sui lati sud e nord sono delle facciate semplici, occupate solo dalle finestre quadrate delle camere da letto; ad ovest infine la facciata è scolpita dalle logge delle stanze da giorno intervallate da un taglio che permette il ricavo di ulteriori aperture, nonché la comunicazione tra le logge. L’intervento si compone, oltre che della torre, di altre abitazioni che si sviluppano orizzontalmente, con delle stecche basse di unità monofamiliari su due livelli. In questa parte del progetto si evidenziano i caratteri pervenuti dalle indagini sociali svolte con i laboratori creativi presso i cortili di Ponticelli, con gli studenti della Facoltà di Architettura e gli abitanti. Le ampie terrazze che affacciano sulla strada, segnano il legame tra abitazione privata e spazio aperto, e la bassa quota di questi edifici permette una 135
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Torre Residenziale, vista satellitare
stretta relazione con la strada, la piazza e gli altri edifici. La piazza presenta un una parte coperta rivestita di tegole metalliche che fa strada verso la torre. «Di giorno e nelle sere di luna, nelle notti quando brulicano le stelle non ci sarà bisogno di luce artificiale ad illuminare il percorso di disimpegno degli alloggi. E poi tutta la facciata che guarda alle corti sarà brulicante di presenza umana: una sorta di sintesi dell’attuale vita nei cortili di Ponticelli ribaltata su una facciata di 50 metri di altezza sullo sfondo del Vesuvio.» (Riccardo Dalisi, in Napoli architettura e urbanistica del Novecento, a cura di Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO,Editori Laterza, Roma , Bari 1994 p. 296)
Bibliografia essenziale: 4
Edifici bassi residenziali
La Torre residenziale di Ponticelli, “ArQ" n°6‐7, 1991 Torre residenziale, Ponticelli, "Bauwelt", n° 7‐8 1991 Pasquale BELFIORE, Benedetto GRAVAGNUOLO, Napoli architettura e urbanistica del Novecento, Editori Laterza, Roma , Bari 1994 Michele Costanzo, Riccardo Dalisi. Tre progetti per l’area campana, Metamorfosi N° 47, ottobre novembre dicembre, 2003 Riccardo DALISI, Radicalmente, Edizioni Kappa, Roma 2004
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Planimetrie interne Torre Residenziale 136
conclusione CONCLUSIONE
L’area orientale è rimasta per secoli una barriera naturale paludosa, che tra il Vesuvio ed il mare ha contenuto il disegno delle mura antiche della città di Napoli. Già nel 1839, dagli Appunti di Ferdinando II di Borbone, è riscontrabile un notevole interesse nel caratterizzare l’area con la costruzione di opifici, che la dinastia concretizzò, alla fine del secolo, realizzando numerosi interventi infrastrutturali e di bonifica.1 L’utilizzazione strategica dell’area orientale è stata curata nello studio dei principali piani urbanistici del napoletano, come: ll Piano regolatore del quartiere Industriale (1887), le Legge speciale pel Risorgimento economico della città di Napoli (1904), il Nuovo Piano di Risanamento e Ampliamento (1910), il Piano Cosenza (1946), ecc. Tuttavia la mancata realizzazione dei piani citati, non ha impedito una stratificazione di tendenze urbanistiche, riscontrabili negli interventi architettonici ed infrastrutturali che sono stati realizzati nei vari periodi storici, e che riprendono parte dei piani stessi. Lo sviluppo dell’area fino ad oggi è stato determinato, quindi, da uno “spontaneismo” di interventi, intendendo una moltitudine di processi economici, politici e sociali che hanno individuato in quell’area urbana una collocazione ideale per la loro realizzazione rispetto a delle circostanze non programmatiche. L’interesse si è sviluppato prima come zona industriale e di collegamento verso i comuni vesuviani, poi come area di decompressione residenziale, infine come area di “espansione metropolitana” che continua tutt’oggi a partire dai progetti legati al decentramento dei servizi e all’utilizzo di aree dismesse. «L’obbiettivo prefigurato dalla variante è riqualificare l’area di San Giovanni a Teduccio, alla periferia est di Napoli, ed in particolare la sua fascia litoranea costituendo un sistema di attrezzature di livello urbano e territoriale, oltre il quartiere, e recuperando il rapporto con il mare. Gli interventi riguardano: ‐ la costruzione di un Polo Universitario nelle ex aree industriali Corradini e Cirio; ‐ la costruzione di un porto turistico per 500 posti barca circa annesse attrezzature; ‐ la costruzione di 137
attrezzature per il quartiere e la città; ‐ la costruzione di una stazione della metropolitana con un area d’interscambio e il riassetto delle aree ferroviarie che saranno dismesse.»2 In un periodo fortemente caratterizzato da privatizzazioni e cessioni pubbliche, si riscontra che i principali interventi, legati alla riqualificazione di questa periferia si stanno realizzando grazie all’interesse di organismi privati. «Il piano prevede opere di urbanizzazione primaria: sottopassi, rete fognaria e interramento del tratto ferroviario a servizio del porto: in un'area da 35 ettari, con un costo di 300 milioni, a carico del Por. È parte del più ampio progetto di riqualificazione dell'area che fa perno principalmente su investimenti privati per 2,3 miliardi. A promuoverli il comitato Napoli Est – guidato da Marilù Faraone Mennella – a cui aderiscono una ventina di società, di imprenditori campani, ma anche colossi industriali del calibro di Eni e Kuwait Petroleum. Per realizzare progetti come Città del libro che coinvolge 26 piccole e medie aziende, il più grande Palaeventi d'Italia (12 mila posti) a Ponticelli, il completamento del Centro direzionale. E ancora: iniziative per la portualità (Vigliena e Terminal di levante) e la riqualificazione (rione Sant'Alfonso); il recupero di fabbriche dismesse (ex Mecfond a via Brin ed ex Intefan a San Giovanni a Teduccio). Dei 265 ettari, 90 saranno dedicati a un parco urbano e il 23% delle opere consisterà in nuove residenze.»3 L’inquinamento e la dispersione urbana, che si sta provando a ricucire, legata all’area dei gasdotti nella fascia est più prossima al centro storico di Napoli ha determinato una saldatura ai paesi vesuviani, determinata da un intensa quantità di edilizia residenziale. Nonostante i pericoli geologici legati alla vicinanza del vulcano, il comune di Portici (confinante con S.Giovanni a Teduccio, S.Giogio a Cremano, Ercolano) dopo gli anni ’80 diviene il secondo comune italiano per densità di popolazione (12.200 ab/km q). Le costruzioni a carattere residenziale riproducono i caratteri appartenenti all’immagine delle architetture moderne sperimentate per l’edilizia economica e popolare. La varietà di opere ritrovate durante il lavoro di tesi, all’interno dell’area di studio, è stata una chiave di lettura emblematica ideale per comprendere le vicende che hanno plasmato fisicamente la città che abitiamo. La domanda di abitazioni e la risposta del mercato immobiliare hanno stereotipizzato un modello abitativo. Il percorso ideologico dell’abitare moderno è stato caratterizzato dal rapporto costante tra progetto architettonico ed utenza. Tale rapporto varia negli anni, e si avvicina sempre più. Nelle prime sperimentazioni è riscontrabile un’attenzione filantropica, sviluppata dalla lettura di una necessità, non ancora 138
rappresentabile come questione architettonica; assume invece la sua centralità durante il movimento moderno, che tende però ad un idealizzazione funzionalista dell’urbanistica legando lo spazio della vita umana a quello della produzione industriale; infine gli studi sociologici ed antropologici sulla classe operaia vengono interpretati attraverso nuovi linguaggi formali che dimostrano una sensibilità coerente tra urbanistica e architettura. In queste ultime sperimentazioni, a grande scala il riscontro si è dimostrato negativo talvolta a causa di un mancato impegno delle istituzioni, talvolta a causa di una estraneità formale tra progetto e vivibilità, altre volte a causa dell’evolversi di differenti necessità dell’utenza popolare, più soggetta ai mutamenti delle condizioni sovrastrutturali. «la natura operaia, prevalente nell’articolazione delle classi sociali presenti sul territorio, ha rappresentato per decenni un elemento di forte aggregazione; il venire meno di questa, in seguito ai numerosi processi di ristrutturazione industriale, ha significato non solo la perdita di posti di lavoro con conseguente impoverimento del tessuto economico, ma anche la perdita di un’identità condivisa e fortemente radicata. Queste ragioni hanno nel tempo prodotto un impoverimento economico e culturale delle fasce più marginali del tessuto sociale, determinando un ambito in cui si sono facilmente incontrati fenomeni di devianza tipici delle realtà urbane, con quelli più specifici del contesto napoletano meridionale»4 D'altronde in una società densa di contraddizioni, è naturale che l’architettura non abbia dato risposte completamente soddisfacenti al “problema della casa”, nella loro complessità. Quello che va riconosciuto all’architettura è il legame tra la questione politica collettiva che si ripercuote immediatamente nella dimensione personale e domestica dell’individuo attraverso l’abitare. 5 La città ha assorbito ogni categoria di architettura. Il legame che intercorre tra progetto realizzato ed utenza è quello dell’uso e del consumo dello spazio. L’auto‐costruzione e la riappropriazione degli spazi attraverso nuovi usi, per il soddisfacimento dei bisogni degli abitanti, rappresentano oggi l’avanguardia del ridisegno metropolitano, di nuovo a partire dalle classi più povere della società. Effetti migliori si riscontrano quando la progettazione architettonica delle abitazioni avviene a seguito di processi di partecipazione. «la partecipazione è un fenomeno non programmabile, né sistematizzabile in una serie di canoni, perché la diversità dei partecipanti e dei moment partecipativi indica la peculiarità degli stessi. In oltre non è certo che la gente sa cosa vuole, altrimenti non ci sarebbero tanti problemi … la gente è alienata tanto quanto lo sono gli architetti. Il processo della partecipazione deve dunque coincidere in prima istanza con quello della 139
disalienazione. Bisogna ritornare alla radice dei problemi e non è facile in un momento in cui i bisogni sono tutti artificiali e continuamente i mass‐media pompano per creare nuovi problemi a tutti. Ritornare ai problemi reali e identificarli non è cosa semplice: richiede una partecipazione complessa.»6 Questa immagine complessa potrebbe integrarsi nel futuro della nostra area di come naturale evoluzione del rapporto tra l’uomo ed il suo habitat. 7 L’immagine di una città che “sfugge ai piani”8, lascia la possibilità di lasciare spazio ad un bilancio non ancora conclusivo, permettendo alla nostra area di studio di non caratterizzarsi formalmente attraverso uno specifico periodo storico, ma di recepire alcuni interventi di ogni piano, che rendono la ricerca storica stimolante sotto il profilo architettonico ed antropologico. La possibilità di un bilancio conclusivo, diviene più complessa, poiché nessun progetto urbano è giunto pienamente a conclusione ed i processi per la normalizzazione inseguono i tempi più rapidi dei cambiamenti della contemporaneità. La città continua a “non concedersi” a nessuna “soluzione definitiva”, rendendo ancora possibile, nel suo “disordine creativo”, una sovrabbondanza di ipotesi e di soluzioni, che i rapporti di forza indirizzeranno negli anni futuri. «Se il problema della “strutturazione dello spazio” può identificarsi con quello della “progettazione dei comportamenti”, le fughe nel passato (storia) o nel futuro (utopia) risultano quanto meno paradossali di fronte alla crisi generalizzata della città. (…) lavorare alla rifondazione di un discorso sullo spazio che scaturisca rigorosamente dalla progettazione di nuovi modelli comportamentali, immagine effettiva del “diritto alla città.»9 Forse nel senso di questa incompiutezza diffusa, possiamo riscontrare la speranza di un territorio che “libero” dalla pianificazione, può ancora diventare qualcosa che non conosciamo. Nello sfuggire ad un modello precostituito, ordinato, ma anche potenzialmente limitante possiamo trovare nel degrado dell’incompiutezza caotica delle possibilità da scoprire. Dove lo spazio della vita, può essere ancora immaginato. 1
Benedetto Gravagnuolo, in: Valeria PEZZA , La costa orientale di Napoli : il progetto e la costruzione del disegno urbano , Electa, Napoli 2002
2
Valeria PEZZA, Op. Cit. p 16
3
Vera VIOLA, Napoli scommette ancora sulle grandi riqualificazioni, in “il Sole 24 Ore”, 10 ottobre 2012
140
4
Ferdinando BALZANO , in Valeria PEZZA, Op. Cit. p.23
5
Francesco GAROFALO, Housing Italy L’italia cerca casa, Biennale di Venezia 2008, padiglione Italia. Cataloghi MaXXi, 2008
6
Giancarlo DE CARLO, Gli spiriti dell'architettura, Editori Riuniti, Roma 1992
7
World Urban Social, Manifesto conclusivo, 2012 Napoli
8
Giuseppe SAMONÀ, Considerazioni, in “Casabella” n°205, p. 36, 1959
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Aldo Loris ROSSI e Donatella MAZZOLENI, Spazio e comportamento, in Bruno ZEVI, Architettura. concetti di una controstoria, Netwon Compton editori, Roma 2006. p. 103
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REPORT FOTOGRAFICO
Taverna del Ferro Vista da Via Aubry
RIONE D’AZZEGLIO
VISTA DA VIA DELLE REPUBBLICHE MARINARE
Taverna del Ferro Vista da Viale 2 Giugno
NUOVA VILLA
VISTA DA VIA DELLE REPUBBLICHE MARINARE 142
Preesistenze Edifici Industriali Vista da Corso S. Giovanni
Preesistenze Edifici Industriali
Vista da Via Reggia di Portici
Preesistenze Edifici Settecenteschi Vista da Corso S. Giovanni
Edifici Residenziali Vista da Corso S. Giovanni 143
RAPPORTO OUTREACH -Il ermine Outreach di origine anglosassone che indica, nei processi di partecipazione, una metodologia che consiste “nell’andare a consultare le persone piuttosto che aspettare che esse vengano da noi”. Si tratta di una forma di consultazione informale, diretta, che si svolge nell’ambiente di vita delle persone che vengono incontrate per discutere ma anche per ascoltare i loro suggerimenti. Tale metodo è talvolta in grado di entrare in rapporto con soggetti altrimenti difficilmente coinvolgibili. Da, glossario partecipazione: http://osservatoriopartecipazionerer.ervet.it/ Rapporto finale indagine di outreach Restituzione degli esiti delle interviste, delle passeggiate di quartiere e dei capannelli d’ascolto effettuati nella fase di indagine ascolto Ottobre 2005
1. Obiettivi dell’indagine ascolto
L’indagine ascolto (outreach) non consiste in un’analisi sociologica sulle persone che vivono nei due ambiti territoriali del PIAU, ma in un lavoro di ascolto effettuato attraverso il coinvolgimento di testimoni privilegiati, ovvero di soggetti che detengono una conoscenza su aspetti cruciali per il processo partecipativo e che per questo motivo è fondamentale includere fin dall’inizio (non perché costituiscono un campione quantitativo rappresentativo in termini statistici). Gli ambiti di Mergellina e di San Giovanni, nella loro diversità, sono accomunati dal fatto che il tema dello spazio pubblico è centrale: nel primo caso in quanto numerosi soggetti se lo contendono, nel secondo perché lo spazio pubblico non esiste, è negato. I soggetti che esprimono degli interessi, che hanno delle “poste in gioco” nel quartiere, che contribuiscono alla vita sociale e economica sono numerosi. In questo contesto avviare un processo decisionale di tipo esclusivo, nel quale le decisioni vengono prese dall’alto secondo motivazioni di carattere prevalentemente tecnico, può consentire di pervenire all’elaborazione di un PUA, anche in tempi più rapidi. Tuttavia può essere poi molto più complicato garantire l’attuazione di scelte di trasformazione così rilevanti, che modificano gli assetti e gli equilibri esistenti sul territorio. Un processo inclusivo, basato sull’utilizzo di strumenti di progettazione partecipata, può invece consentire non solo di effettuare decisioni migliori, ma soprattutto maggiormente condivise, facilitando l’Amministrazione in fase di attuazione di quelle scelte, ed evitando che esse possano venire bloccate dall’opposizione di interessi più o meno forti. La progettazione partecipata degli interventi può consentire dunque di: 1) fare emergere e diminuire i conflitti, favorendo l’attuazione del progetto ed evitando che esso venga bloccato da eventuali oppositori in fase di realizzazione 2) effettuare scelte migliori: coinvolgere fin da subito i portatori di interesse consente generalmente di includere i diversi punti di vista, di anticipare le posizioni contrarie, di comprenderle e di pervenire a una maggiore condivisione 144
del progetto dalle varie parti sociali 3) incrementare la qualità del progetto: il coinvolgimento di altri attori è fondamentale perché essi detengono forme di conoscenza (dei problemi, delle soluzioni, delle aspettative) diverse da quelle possedute dai tecnici, che possono aiutare a fare scelte migliori in sede progettuale.
3.2. L’ambito territoriale di San Giovanni a Teduccio 3.2.1. Cosa è emerso complessivamente Per quanto riguarda il quartiere di San Giovanni a Teduccio, l’indagine di outreach ha evidenziato una realtà duale, caratterizzata da un lato da una serie di problematiche di tipo sociale e culturale piuttosto evidenti, dall’altro dall’esistenza di un tessuto socio-politico piuttosto coeso. Per quanto riguarda il primo aspetto, le condizioni socio-economiche dalla popolazione residente in questo ambito territoriale sono particolarmente problematiche e a questo si aggiunge una evidente separazione e difficoltà di connessione tra le diverse parti del quartiere. Tra i vari aspetti l’esistenza di una criminalità diffusa, il numero elevato di famiglie sotto la soglia della sopravvivenza, il numero elevato di minori a rischio, un atteggiamento culturale spesso orientato all’omertà e la percezione che le istituzioni che dovrebbero garantire ordine e controllo siano assenti sul territorio. Questi fenomeni si manifestano sul territorio anche sottoforma di abbandono dei luoghi, costruzione di barriere fisiche (es. recinzione degli spazi collettivi), presenza di aree intercluse e non accessibili, atti di vandalismo che danneggiano soprattutto le strutture pubbliche, uso improprio dei luoghi. Per quanto riguarda il secondo aspetto, esiste nel quartiere una rete di soggetti, laici ma anche religiosi, molto attiva che opera unitamente sul territorio: amministrazione locale, associazionismo, enti educativi e di formazione collaborano insieme sulle questioni che riguardano il territorio e contribuiscono alla definizione di un riconoscibile sistema di governance locale. Emerge chiaramente il senso di partecipazione alla vita del quartiere, alle iniziative sia materiali che immateriali. San Giovanni presenta una realtà socioculturale molto fertile capace di richiamare e coinvolgere la cittadinanza, organizzare eventi e manifestazioni. Le scuole sono tradizionalmente aperte al territorio, collaborano con le numerose associazioni di volontariato presenti sul territorio nonché con la circoscrizione e gli altri enti locali; le varie realtà educative e formative presenti cooperano tra loro abitualmente, si scambiano opinioni e condividono strategie e obiettivi. Filo conduttore di questa rete è una realtà circoscrizionale e politica tradizionalmente impegnata e presente nella vita del quartiere. L’amministrazione locale rappresenta un punto di riferimento forte e sicuro per la cittadinanza, sia in quanto promotore di azioni e interventi a scala locale, sia in quanto diffusore dell’informazione relativa ai suddetti interventi, al loro stato di avanzamento e alle loro potenzialità di sviluppo per il territorio. In qualche modo si può affermare che accanto ai “grandi interventi” di trasformazione urbana è presente il tentativo di costruire una strategia locale di riqualificazione integrata, finalizzata ad affiancare ad essi interventi di scala più minuta. Una evidente preoccupazione delle istituzioni locali è quella di “dare segnali concreti” di cambiamento, che confermino quelli che sono già stati avviati e in parte realizzati, come ad esempio la riqualificazione di piazza Pacichelli o la passeggiata a mare.
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L’attitudine a cooperare, a dialogare e a discutere congiuntamente, sfociata nell’istituzione della Consulta delle Associazioni, ha favorito l’emergere di un’immagine condivisa delle tematiche del quartiere, delle priorità, delle criticità e delle strategie di intervento sul territorio. L’esistenza di una rete consolidata e radicata sul territorio ha favorito la costruzione di un forte senso comune delle problematiche e di un’informazione diffusa delle iniziative avviate o programmate sul territorio. Tuttavia esistono realtà alternative che esprimono pareri e forze contrarie alla corrente politica predominante. Si tratta: (a) della classe sociale meno abbiente, che per priorità di tipo primario si disinteressa delle questioni relative allo sviluppo del quartiere, (b) del movimento disoccupati che vede alla riqualificazione soprattutto in termini di opportunità di lavoro e si oppone a tutte le iniziative che “non assicurano lavoro per i cittadini del quartiere”, (c) di una realtà politica più estrema (Partito dei comunisti italiani e Rete Uniti a Sinistra) che si oppone al porto turistico e appoggia i disoccupati. Si riscontra inoltre una diffusa coscienza riguardo alla necessità di accompagnare gli interventi di trasformazione fisica con adeguati interventi di tipo sociale, considerati quasi più importanti dei primi. L’integrazione tra azioni di tipo fisicoarchitettonico- urbanistico e di tipo socio-economico-culturale è un principio fondamentale di ogni processo inclusivo e partecipato, in quanto le esigenze dei cittadini non sono mai settoriali: il cittadino che viene ascoltato nell’ambito di un’indagine conoscitiva partecipata si rivolge infatti al suo interlocutore (tecnico) come se stesse parlando con il rappresentante politico della Città che promuove quel processo. Il suo interesse è quello di aumentare la qualità della vita complessiva del suo territorio, obiettivo raggiungibile solo integrando interventi di risistemazione degli spazi pubblici e di riuso delle attrezzature, con azioni tese a incrementare il senso di sicurezza, a rafforzare la coesione sociale, a favorire l’occupazione e così via. Rieducare la popolazione all’uso collettivo dei luoghi, limitando la percezione di insicurezza e favorendo l’accesso alle diverse aree del quartiere, sembra essere una priorità fondamentale. Dal punto di vista progettuale sembra dunque indispensabile attivare interventi che incrementino la fruibilità dei luoghi, in particolare della linea di costa, che restituiscano funzionalità alle strutture industriali dimesse, che garantiscano la percorribilità e permeabilità delle diverse parti del quartiere. La creazione della passeggiata a mare ha risposto infatti contemporaneamente a queste diverse esigenze. La rete locale dei soggetti presente a San Giovanni che occorre coinvolgere nel processo di progettazione partecipata è dunque meno articolata rispetto al caso di Mergellina e più facilmente individuabile: 1. Le istituzioni locali: i rappresentanti della Circoscrizione, le scuole, le parrocchie 2. La rete dell’associazionismo locale 3. Gli attori sovralocali: l’Università, Porto Fiorito, la Sovrintendenza
3.2.2. Le risorse e le criticità del quartiere
Attraverso le interviste di outreach, le interviste su base storia di vita e le passeggiate di quartiere è stato possibile conoscere la percezione che i cittadini e i soggetti attivi sul territorio hanno del proprio quartiere e ricostruire un quadro sostanzialmente condiviso delle principali risorse (punti di forza) e criticità (punti di debolezza) di San Giovanni.
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In particolare l’indagine ha cercato di individuare gli elementi materiali e immateriali che sono considerati dai cittadini come le principali risorse del quartiere e come le potenzialità su cui investire per promuovere lo sviluppo di San Giovanni.
I punti di forza La rete delle associazioni locali
Sul territorio esistono numerose associazioni e gruppi che collaborano spesso tra di loro, nella promozione di eventi e attività socio-culturali. In particolare esiste la Consulta delle associazioni, un organismo di consultazione del Consiglio di circoscrizione che monitora le attività programmate e ha come scopo la partecipazione dei cittadini alla vita amministrativa del quartiere e la sensibilizzazione della cittadinanza verso una cultura sociale di qualità. La rete delle associazioni si estende anche ad alcune istituzioni locali, come ad esempio le scuole, i Servizi SocioAssistenziali (es. il Sert) e le parrocchie. Da molti anni le scuole sono aperte al territorio, ospitano le attività di associazioni e gruppi locali, promuovono azioni di tipo sociale rivolte ai bambini e ai genitori, e più in generale alla cittadinanza (ne è un esempio l’iniziativa “adottare il forte di Vigliena e la spiaggia”). Anche la biblioteca è considerata una importante risorsa per il quartiere. Inoltre, tra gli abitanti del quartiere esistono tessuti di relazione consolidati14. Valore riconosciuto del mare Il mare è indubbiamente considerato una risorsa per il quartiere, da valorizzare attraverso interventi di recupero del litorale, in particolare verso quello di Portici. Tuttavia risulta difficile per i cittadini intervistati immaginare il futuro del litorale di San Giovanni sia perché si tratta di una realtà invisibile, nascosta dagli edifici, sia perché poco fruibile a causa dell’inquinamento e della linea ferrata che ne condiziona l’accesso. Uniche vie di accesso al mare i passaggi a livello e i sottopassi considerati “angusti e poco piacevoli da percorrere”.
Presenza di risorse architettoniche da riutilizzare
Fra queste gli intervistati hanno in particolare citato: il Fortino di Vigliena, la struttura per il pagamento del dazio, le ville vesuviane, la ex Corradini.
Punti di debolezza
Tessuto sociale molto complesso, realtà abitative dense e problematiche Tra le principali problematiche sociali del quartiere vengono enumerate la dispersione scolastica, la tossicodipendenza, la disoccupazione, il basso livello culturale e di istruzione, il senso di insicurezza, la solitudine degli anziani, il trasferimento dei giovani in altre parti della città. Il tessuto sociale di San Giovanni presenta caratteristiche e problematiche varie in relazione sia allo stato economico sia culturale degli abitanti, che sono spesso variabili connesse alla concentrazione abitativa. A Taverna del Ferro e Pazzigno esiste una concentrazione di famiglie disagiate e l’assenza di confronto e scambio con realtà diverse rende ancora più grave la situazione e più difficile il riscatto generazionale. La delinquenza è una realtà ancora molto forte e la fascia maggiormente a rischio è quella giovanile che non trovando alternativa alla strada diventa facile preda della criminalità. La presenza della camorra è considerata uno dei problemi più radicati e più difficilmente arginabile. Condizioni di grave precarietà abitativa e sovraffollamento caratterizzano anche altri luoghi, come ad esempio due edifici di corso San Giovanni (numeri civici 526 e 313) conosciuti come Cortina delle mosche e Cortina di Trezzigno.
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La chiusura delle industrie di San Giovanni ha comportato per il quartiere la perdita di un equilibrio territoriale, sociale e economico. Il livello di disoccupazione è piuttosto elevato, sul territorio le opportunità di sviluppo economico sono pressoché inesistenti. A questo si aggiunge il basso livello competitivo delle attività commerciali. La crisi economica e la mancanza di lavoro impediscono forme di sviluppo concrete e costringono gli abitanti ad abbandonarlo. Frammentazione e separatezza tra i diversi luoghi del quartiere Altro grave problema è l’isolamento per punti del quartiere: numerose aree del quartiere sono separate tra loro da barriere fisiche e/o simboliche e concettuali. I quartieri di Taverna del Ferro e di Pazzigno sono solo gli esempi più eclatanti, ma il quartiere si suddivide in una serie di altri subambiti chiusi in se stessi, in cui diversi gruppi informali si contendono il territorio15. Le principali realtà rionali sono: ‘Ncopp e terre: area Bernardino marinaro; Int ‘a villa: rione Villa; Aret ‘a villa: rione Nuova Villa; Bronx: Taverna del Ferro; Pazzign: Pazzigno; O’ Casal: VIA Bernardo Quaranta; Mappatell: spiaggia violetto Municipio; Abbash ‘omarjuol: spiaggia Vico I Marina. Questa percezione di frammentazione e separazione del quartiere in microaree riservate a particolari tipologie di persone, contribuisce alla scarsa fruizione degli spazi pubblici e collettivi: un esempio è rappresentato dal Parco Teodosia, considerato come il giardino rionale degli abitanti di Pazzigno e non come una risorsa per l’intero quartiere di San Giovanni. Anche la passeggiata a mare in qualche modo rispecchia questa tendenza alla separazione, in quanto ha solo due accessi e questo ne limita e condiziona l’uso, impedendo una reale apertura al mare16. Assenza di servizi ricreativi, culturali e sociali Gli intervistati lamentano la mancanza di servizi di vario tipo: - piscine e attrezzature per la balneazione - ristoranti, caffé letterari, gelaterie, - centri culturali e di svago - centro polifunzionale giovanile - pensioni e ostelli Alcuni esprimono l’esigenza di spazi di aggregazione non istituzionali, ma informali, in cui le energie del quartiere trovino uno spazio per esprimersi.
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DATI
GRAFICI “Aspetti economici della periferia napoletana” Prof. Claudio Quintano. Convegno Internazionale “Periferie d’Europa a confronto”, Napoli, 30 novembre – 1 dicembre 2007
Densità abitativa (abitanti /kmq) dei quartieri della città di Napoli, al Censimento della popolazione 2001(*).
Percentuali delle abitazioni occupate dalle persone residenti in proprietà e in
Percentuale della popolazione residente nei vari quartieri del Comune di Napoli di 6 anni laureata e analfabeta, al Censimento della popolazione 2001.
Tassi di attività e tassi di disoccupazione della popolazione residente nei quartieri del Comune di Napoli, da 15 anni in poi, al Censimento della popolazione 2001.
affitto nei vari quartieri napoletani, al Censimento della popolazione 2001(*).
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GRAFICI: “La questione casa in cifre” Fonte: Ministero dell’interno, Istat, Sindacato Inquilini. 2013
LE CASE
LE SPESE
GLI SFRATTI
IL PATRIMONIO EDILIZIO ITALIANO
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CRONOLOGIA LEGGI URBANISTICHE E PER LA CASA ANNO 1998 Decreto del Ministero delle Finanze 14 aprile 1998, n. 152 (G.U. n. 115 del 20/5/1998) Regolamento recante norme per l’individuazione della tipologia degli alloggi, dei criteri per l’assegnazione in concessione degli alloggi stessi, delle modalità di pagamento del canone, delle cause di cessazione dall’assegnazione e degli organi competenti ad emanare ordinanza amministrativa di rilascio dell’immobile ANNO 1987 Decreto Ministeriale 20 novembre 1987 (G.U. n. 285 del 5/12/1987 ‐ S.O.) Norme tecniche per la progettazione, esecuzione e collaudo degli edifici in muratura e per il loro consolidamento ANNO 1985 Legge 8 agosto 1985, n. 431 (LEGGE GALASSO: PTP) Obbligo per le Regioni di dotarsi dei Piani territoriali paesistici. Direttiva 85/337/Cee del 27 giugno 1985 Valutazione dell'Impatto Ambientale di determinati progetti pubblici e privati ‐ Testo vigente ANNO 1978 Legge 5 agosto 1978, n. 457 PIANO DECENNALE Introduzione di un nuovo strumento attuativo, il Piano di recupero ANNO 1977 LEGGE BUCALOSSI (norme per l’edificabilità dei suoli) Sostituzione della licenza edilizia con la concessione edilizia Introduzione di un nuovo strumento di programmazione, il Programma pluriennale di attuazione PPA
ANNO 1971 Legge 22 ottobre 1971, n. 865 (LEGGE SULLA CASA) Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale e pubblica. Nuove norme sull’esproprio per pubblica utilità ANNO 1968 Legge 19 dicembre 1968, n. 1187 Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica del 17 agosto del 1942, n. 1150 151
ANNO 1967 Legge 6 agosto 1967, n. 765 (Legge Ponte) Introduce tassativi limiti di edificabilità per i Comuni privi di strumento urbanistico generale. Il PdL. Modifica le norme sulle lottizzazioni introducendo il Piano di lottizzazione ANNO 1964 Legge 18 dicembre 1964, n. 1358 (G.U. n. 319 del 24/12/1964) Provvidenze per l’edilizia scolastica. Legge 29 settembre 1964, n. 847 (G.U. n. 248 del 8/10/1964) Autorizzazione ai Comuni e loro Consorzi a contrarre mutui per l’acquisizione delle aree ANNO 1962 Legge 18 aprile 1962, n. 167 Stabilisce l’obbligo per i Comuni con più di 50.000 abitanti di redigere un piano delle zone da destinare alla costruzione di alloggi a carattere economico e popolare. Si tratta del PEEP detto anche "Piano di zona" o "di 167". ANNO 1942 Legge 17 agosto 1942, n. 1150 LEGGE URBANISTICA Stabilisce i diversi livelli della pianificazione territoriale e urbanistica, indicando i relativi strumenti urbanistici ed il loro ambito ANNO 1939 Legge del 1939, n. 1497 Norme sulla protezione delle bellezze naturali Viene data la facoltà di predisporre Piani paesistici che riguardino le località sottoposte al vincolo di tutela paesaggistico. Legge 1 giugno 1939, n. 1089 Norme sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico ANNO 1885 Legge 15 gennaio 1885, n. 2892 Risanamento della città di Napoli ANNO 1865 Legge 25 giugno 1865, n. 2359 I Comuni con più di 10.000 abitanti hanno la facoltà di redigere un Piano regolatore delle aree già urbanizzate. La legge riconosce all’amministrazione pubblica il diritto di espropriare i terreni dei privati sui quali devono essere realizzate le opere di competenza degli enti pubblici: si tratta dell’esproprio per pubblica utilità. 152
CRONOLOGIA ESSENZIALE ‐ Lotta per la casa in Italia 1968‐ 1974 ANNO 1968 TORINO ‐ Corso Taranto, gli inquilini degli alloggi IACP occupano un’area per impedire la costruzione del primo degli 11 nuovi edifici e per rivendicare la realizzazione di servizi sociali . Autoriduzione, gestione collettiva delle forme di lotta. MILANO ‐ Nasce l’UNIONE INQUILINI, che organizza lo sciopero generale dell’affitto che dal’68 al ’72 vede l’adesione di 35.000 famiglie a tale iniziativa. ROMA ‐ Via Monte Massiccio, 15 famiglie di Pratorotondo occupano alloggi sfitti. Il risultato di tale occupazione è l’assegnazione a 1000 baraccati di Pratorotondo di nuove case alla Magliana. ANNO 1969 NAPOLI ‐ Al Rione Traiano 715 famiglie occupano appartamenti pubblici. Si applica l’autoriduzione dei fitti per la gestione dei servizi pubblici mancanti. ANNO 1971 MILANO ‐ Via Tibaldi, 40 famiglie operaie occupano appartamenti di lusso di proprietà dell’IACP. I nuclei familiari ben presto furonosgombrati e accolti nelle aule della facoltà di Architettura. ROMA ‐ Gli abitanti della Magliana si organizzano in un comitato di lotta. Viene praticata l’autoriduzione dei fitti fino al 75%.Vengono occupati dei terreni e realizzati su di essi un campo di calcio e uno spazio gioco per i bambini. NAPOLI ‐ Dopo il pubblico processo tenutosi al rione Traiano contro le autorità pubblichedel gennaio del ’70 nascono una serie di comitati di lotta per la casa a Bagnoli, Ercolano, S.Erasmo, Secondigliano, al rione Siberia. Applicheranno tutti in varie forme l’autoriduzione dei fitti. ANNO 1974 NAPOLI ‐ Al Rione Siberia dal 1971 al 1974la popolazione si organizza intorno ad un comitato di quartiere autoriducendosi l’affitto a zero, con l’obiettivodella costruzione di nuove case con un fitto legato al 10% del salario. Nell’aprile del ‘74 ottengono le case e si trasferiscono al rione Abbondanza nella periferia della città. Vengono occupati da 541 famiglie alloggi appartenenti all’IACP del Rione don Guanella a Secondigliano.
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DOCUMENTI STORICI
Documenti sui movimenti per la casa a Napoli. 1968‐ 1974
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DOCUMENTI ATTUALI
Documenti sui movimenti per l’abitare in Italia e a Napoli. 2012 ‐ 2013 Verso la sollevazione generale del 19 ottobre Martedì, 10 Settembre 2013
L'appello dei movimenti uscito dall'assemblea del 1 settembre a Venaus, in Val Susa. Di seguito, l'appuntamento di Roma a Metropoliz. Assemblea di movimento – sabato 28 settembre h 10 @ Università La Sapienza, Roma Ogni giorno, migliaia di persone lottano in questo paese. Per arrivare a fine mese, difendere il diritto ad un tetto, affermare la propria dignità, difendere territori e beni comuni da devastazioni e saccheggi. Si tratta, il più delle volte, di percorsi separati che non riescono a tradursi in un discorso generale. Intendiamo rovesciare l’isolamento delle singole lotte e la precarietà delle nostre esistenze, per dare vita a una giornata di lotta che rilanci un autunno di conflitto nel nostro paese, contro l’austerity e la precarietà impostaci dall’alto da una governance europea e mondiale sempre più asservita agli interessi feroci della finanza, delle banche, dei potenti. Il 19 ottobre vogliamo dare vita ad una sollevazione generale. Una giornata di lotta aperta, che si generalizzi incrociando i percorsi, mettendo fianco a fianco giovani precari ed esodati, sfrattati, occupanti, senza casa e migranti, studenti e rifugiati, no tav e cassintegrati, chiunque si batte per affermare i propri diritti e per la difesa dei territori. Uniti contro le prospettive di impoverimento e sfruttamento imbastite dalla troika e dall’obbedienza di un governo tecnico che, tra decreti del “Fare” e “Service Tax”, favorisce i ricchi per togliere ancora di più ai poveri: barattando l’Imu con nuovi tagli alla spesa ed una nuova aggressione al diritto alla casa e all’ abitare; favorendo la speculazione edilizia, il consumo di suolo e i processi di
valorizzazione utili alla rendita, mentre vi sono centinaia di migliaia di case sfitte; delegando i servizi e il welfare ad una governance locale che, per far quadrare i conti aumenterà le tasse e produrrà ancora tagli e privatizzazioni. Tutto questo mentre preparano una nuova guerra “umanitaria” dalle conseguenze incalcolabili. Contro questo orizzonte di miseria, intendiamo costruire una grande manifestazione di massa che ponga con forza la questione del reddito e del diritto all’abitare, per questo vogliamo l’immediato blocco degli sfratti, il recupero del patrimonio pubblico e la tutela della ricchezza collettiva e comune, anche per combattere la precarietà e la precarizzazione generale delle condizioni di vita e del lavoro che ci stanno sempre più imponendo. La manifestazione del 19 ottobre giungerà al culmine di una settimana di mobilitazioni, dentro e fuori il paese: il 12 ottobre, con una giornata di lotta a difesa dei territori, contro le privatizzazione dei servizi pubblici e la distruzione dei beni comuni e mobilitazioni diffuseper il diritto all'abitare; il 15, con azione dislocate nelle città per uno sciopero sociale indetto dall’agenda dei movimenti trans-nazionali; il 18 con una manifestazione congiunta dei sindacati di base e conflittuali. Vogliamo rovesciare il ricatto della precarietà e dell’austerity in processo di riappropriazione collettiva. Per rilanciare un movimento che affermi l’unica grande opera che ci interessa: casa, reddito e dignità per tutt*! Assemblea “Dalla valle alle metropoli” Venaus, campeggio di lotta no tav, 1 settembre 2013 156
La “notte bianca dell’occupazione” la protesta di studenti e precari
Quale città?
Occupata una palazzina universitaria al centro storico e l’ex deposito Anm di Bagnoli di ANNA LAURA DE ROSA
La necessità di un conflitto sociale metropolitano che si concretizzi attraverso l’occupazione di immobili, la resistenza agli sfratti e la riappropriazione di spazi urbani risponde a due fondamentali rivendicazioni. Una riguarda il diritto all’abitare: il problema dell’emergenza abitativa esiste e coinvolge, nella nostra città al momento circa 20.000 nuclei familiari in attesa di una casa e le vittime dei 1600 sfratti per I quali è stata data procedure esecutiva. Solo negli ultimi giorni di gennaio si sono verificati una media di 5 sfratti al giorno. Si prevede in oltre che nel 2013 46.000 famiglie non riusciranno a pagare il mutuo. Questa e “l’austerity” che riguarda l’abitare, politiche selvagge di smantellamento di un sistema di welfare gia precario che usa “l’emergenza crisi” per farne gravare i costi sulle spalle delle fasce deboli della società, in favore di pochi. Basti pensare che la proprietà immobiliare è concentrata nel 5% della popolazione mentre il 90% degli sfratti avviene per “morosità incolpevole” (dovuti cioè a reddito insufficiente). L’altra rivendicazione in atto riguarda il diritto alla città: lo spazio urbano così come si è conformato in anni di gestione neoliberista del territrio si affida alla logica degli immobiliaristi e soddisfa l’esclusiva esigenza del consumo privato, privilegia egoismo e segregazione invece che contatto e comunanza. Così il mercato di strada diventa via via meno attraente e “sicuro” del centro commerciale, il quartiere universitario si trasforma in campus chiuso e la vita di città diventa una struttura a due livelli, con I ricchi chiusi in territori protetti e I poveri cacciati dai centri storici ed confinati nei ghetti o nelle squallide baraccopoli periferiche. Oltre alle case è lo spazio pubblico ad essere negato, la concezione stessa di luogo collettivo ha subito un cambiamento radicale, diventando esclusivamente luogo del consumo sempre più orientato al controllo dei fruitori che alle sue caratteristiche fisiche. Le città sono disseminate di telecamere “amiche” collegate alle forze di polizia, pubblica o privata.
L’hanno chiamata la “Notte bianca delle occupazioni”: circa cento fra studenti e precari hanno occupato una palazzina universitaria che si trova al centro storico (chiusa dal 2009) e l’ex deposito Anm di Bagnoli. L’azione ha anticipato di qualche ora la notte d’arte in programma al centro antico e rivendica “il diritto all’abitare contro lo strozzinaggio degli affitti in nero”. “Basta essere spennati dagli affitti in nero: il diritto all’abitare é diritto allo studio” si legge sullo striscione affisso sulla palazzina occupata in via Luigi de Crecchio (incrocio tra via del Sole evia della Sapienza). Così precari e studenti lanciano una vera e propria campagna di occupazioni che si chiama “Magnammece ‘o pesone”, e che prende il via dalle mobilitazioni autunnali contro le politiche di austerity. L’edificio occupato al centro storico fa parte del complesso di Sant’Andrea alle Dame, era sede della Sun ed è chiuso dal 2009 per lavori di ristrutturazione. “I lavori dovevano terminare nel 2010 ma ad oggi sono stati ristrutturati solo due piani su quattro – protestano gli occupanti - La palazzina è in disuso come molti altri beni demaniali della zona. E’ assurdo per una città senza servizi e con una pressante emergenza abitativa: migliaia di studenti abitano in case fatiscenti e non a norma, senza alcun tipo di contratto e con affitti che arrivano fino a 400 euro per una sola stanza. Le università napoletane offrono la miseria di 200 posti letto a oltre 100 mila studenti, mentre la Regione aumenta del 126 per cento la tassa sul diritto allo studio senza offrire servizi”. L’obiettivo “è riconquistare una vita dignitosa per tutti partendo dal diritto all’abitare - fanno sapere gli studenti – A fronte delle inesistenti politiche sociali da parte dell’amministrazione comunale e del mancato investimento nel diritto allo studio da parte della Regione Campania, rispondiamo riprendendoci il nostro presente e riappropriandoci del diritto all’abitare. Oggi fra l’altro scade il contratto del Comune di Napoli con la Romeo Immobiliare per la parte relativa all’edilizia popolare, eppure la stessa Romeo gestisce e specula sulla svendita del patrimonio pubblico”. (15 dicembre 2012)
Pubblicato il 21/01/2013
Villa Lieto De Luca a Capodimonte, l’ANM e Villa Medusa finalmente restituite alla collettività rappresentano dei “blocchi” significativi perché edifici emblematici delle trasformazioni urbane in atto. Esempi di come le esigenze economiche siano solo un pretesto per mettere in atto una precisa strategia politica di privatizzazione. Infatti Dopo aver speso 100 mila euro di fondi pubblici per una parziale ristrutturazione, ed essere stata abbandonata per anni Villa De Luca è stata messa in Svendita per la cifra 2,5 milioni, mentre Villa Medusa compare alla ridicola cifra di 5 milioni di euro. La progressiva accelerazione delle politiche di privatizzazione del “cosiddetto” Bene Comune ha portato ad un processo di svendita tanto dei servizi essenziali (quali ospedali, trasporti, scuole, acqua, ecc.) tanto del patrimonio immobiliare pubblico,che anni di mala politica hanno ridotto in stato di abbandono e degrado. E’ così che gli spazi abbandonati, dimenticati da tutti, non possono essere visti come mere risorse economiche a cui attingere in tempo di crisi finanziaria, bensì rappresentano una possibilità di sviluppo, di cambiamento, possiedono un valore intrinseco, capace di modificare il tessuto urbano che li circonda, offrire dei servizi e delle risposte ad interi quartieri, sia che si tratti dei giganteschi dormitori di periferia sia che si tratti delle aree storiche ad altissima densità dove uno spazio vuoto acquista un potenziale inestimabile ; valore che quindi deve essere messo a servizio della collettività e non gettato nella fogna del “mercato libero” appannaggio dei vari speculatori di turno. Appoggiamo e siamo solidali con i percorsi che, dal basso, in maniera autorganizzata , stanno portando avanti queste esperienze di riappropriazione, di pronta risposta alle politiche nazionali di svendita del patrimonio immobiliare.
Collettivo Break_Out Architettura
Terzo_Piano_Autogestito 157
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Alla mia famiglia, ai miei nonni che hanno abitato questi luoghi, ai miei compagni di vita e alla vita che verrà.