STATICITA’ E DINAMISMO
DELLA FOTOGRAFIA Indice Introduzione
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CAPITOLO UNO
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La camera obscura Schematizzazione di una camera obscura Niepce Daguerre Talbot
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CAPITOLO DUE L’evoluzione La fotografia moderna
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CAPITOLO TRE Cronfronto tra pellicola e digitale L’arrivo del digitale Dal 2000 ad oggi
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CAPITOLO QUATTRO Stop Motion Utilizzo nel cinema La fotografia in movimento e trasformazione in video Spot pubblicitario
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CONCLUSIONI
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Bibliografia e sitografia
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INTRODUZIONE
Anche nel ‘’Problemata Physica’’ Aristotele fa riferimento allo stesso principio, questa volta relativo ad un’eclissi. Aristotele osservò l’eclissi da una stanza buia con un foro rettangolare su di una parete dal quale filtravano i raggi del sole. Si rese conto che al distanziarsi del foro dalla superficie di osservazione, il diametro dell’immagine “disegnata” dai raggi del sole tendeva ad aumentare.
La parola fotografia deriva dal greco antico ed è composta dai due termini phôs, pronuncia fos e graphè, pronuncia grafé. Il primo significa luce mentre il secondo si traduce in scrittura o disegno: ovvero la scrittura eseguita con la luce (Scrivere con la luce). La storia della fotografia è ben più antica di quanto si possa immaginare ed affonda le proprie radici molto indietro nella storia dell’uomo. La prima volta, per esempio, che si descrive il processo della camera oscura, risale al V secolo a.C. ad opera del filosofo cinese Mo-Ti (Mo.tzu; Micius): il quale in un’opera, riassumente il suo pensiero, fece riferimento al principio della camera oscura, parlando di “ un luogo di raccolta”, di una “stanza del tesoro sotto chiave”, nel quale si sarebbe formata un’immagine capovolta rappresentata su di una parete di una stanza buia a causa dei raggi del sole passati attraverso un foro posto nella parete di fronte.
Successivamente fu la volta di Euclide (IV secolo a.C.) che nel suo trattato ‘’l’Ottica’’ descrisse una rudimentale camera oscura. Facciamo quindi un salto di parecchi anni e passiamo alla seconda metà del novecento: in questo periodo fu il filosofo, medico, matematico ed astronomo arabo Alhazen a descrivere in dettaglio la camera oscura nonché il fenomeno del ribaltamento delle immagini. Inoltre, durante il Medioevo gli alchimisti crearono casualmente il cloro (scaldando del cloruro di sodio – il sale) e si resero conto, sempre per caso, che combinando il cloro con l’argento si creava una sostanza (il cloruro di argento) bianca al buio e viola scuro alla luce diretta del sole. Avevano insomma scoperto il primo composto fotosensibile.
Anche il filosofo Aristotele (IV Secolo a.C.) descrisse la futura camera oscura nel suo “De re publica”. Nell’opera viene descritta la creazione di ombre tramite un fuoco posto alle spalle degli spettatori.
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CAPITOLO UNO
immagini presenti nel campo visivo da destra a sinistra o per descrivere il funzionamento di alcune funzioni visive quali l’apertura della pupilla, tecnicamente simile all’apertura del foro stenopeico. Fu infine il matematico olandese Rainer Gemma Frisio a disegnare per primo la camera oscura (1544).
1. La camera obscura Il termine camera obscura (in italiano camera oscura) fu coniato da Giovanni Keplero (fece cenno a questo nome nella sua opera ‘’ad Vitellionem Paralipomena’’) ed indicava un ambiente buio dalle differenti dimensioni (poteva essere una scatola o anche una stanza), in cui, su una parete, era praticato un foro stenopeico (dal greco stenòs, stretto, e opé, foro). Attraverso il foro stenopeico i raggi luminosi provenienti da oggetti esterni si incrociano proiettando sulla parete opposta un’immagine capovolta degli stessi oggetti. Tanto più piccolo è il foro stenopeico tanto più nitida è l’immagine proiettata, il tutto però a scapito della luminosità (che al contrario aumenta con l’aumentare della luce).
La camera obscura ha successivamente interessato svariati personaggi in giro per il mondo e tantissimi modelli, dalle forme anche bizzarre, hanno visto la luce. La forma più classica è quella di una scatola di legno, rettangolare, con un foro stenopeico su di un lato ed una lastra dalla parte opposta dove osservare l’immagine. L’immagine in questione appariva capovolta ed è stata utilizzata, come già detto in precedenza, da più di un pittore per catturare su tela dei panorami nella maniera più fedele possibile.
La camera oscura venne impiegata principalmente per osservare la luce e studiarne il comportamento. Troviamo inoltre riferimenti alla camera oscura nei lavori di Ruggero Bacone (XII secolo), Guglielmo di SaintCloud (XIII secolo) ma soprattutto in quelli di Leonardo da Vinci (1452-1519) che utilizzò la camera oscura per descrivere e spiegare alcuni fenomeni ottici quali l’inversione delle
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2. Schematizzazione di una camera obscura
Nel 1646 il gesuita Kircher ,l’inventore di uno dei primi proiettori, realizzò una camera oscura dalle enormi dimensioni (vedi il disegno sopra riportato), tale da poter ospitare al suo interno comodamente più di una persona. Infine, nel 1657 fu il gesuita Schott ad inventare la camera oscura dotata di messa a fuoco: realizzò in pratica due scatole di cui una scorrevole dentro la prima. Muovendo avanti ed indietro la seconda, era possibile modificare la messa a fuoco dell’immagine.
La camera obscura subì svariate modifiche nel corso degli anni: nella metà del XVI secolo (e più precisamente nel 1550) Girolamo Cardano applicò per primo una lente biconvessa dinanzi al foro stenopeico per rendere l’immagine più nitida. Successivamente, nel 1569, un altro italiano di nome Daniele Barbaro introdusse un diaframma dalla dimensione inferiore a quella della lente al fine di migliorare ulteriormente la qualità dell’immagine riflessa. Nel 1951 Giovanni Battista della Porta descrisse un apparecchio munito di lente in grado di rendere le immagini più nitide. All’interno di questo apparecchio era anche descritto uno specchio concavo al fine di “raddrizzare” le immagini: si tratta, più o meno, di quanto accade nelle moderne reflex dove grazie ad un vetro smerigliato è possibile vedere l’immagine diritta attraverso il mirino.
Nel 1685 fu concettualizzata la macchina fotografica Reflex. Il tedesco Johann Zahn, infatti, applicò nella camera oscura uno specchio posizionato a 45° dinanzi alla parete opposta al buco stenopeico. Sulla sommità della camera oscura posizionò un vetro smerigliato che riceveva l’immagine ribaltata dallo specchio di prima. Questa invenzione permise ai pittori di disegnare i panorami stando comodamente seduti ed appoggiando le tele al di sopra di questo vetro.
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Colpito da questa diventava rosso scuro (come contenitore utilizzò una banalissima bottiglia a cui applicò delle sagome di cartone per coprire le zone che non voleva fossero colpite dalla luce). La sostanza fu chiamata Scotophorus (Portatrice di tenebre). Ovviamente, non essendo “fissata”, le immagini restavano visibili solo temporaneamente in quanto, durante l’osservazione delle stesse, assorbivano luce solare annerendosi a loro volta. Fu comunque il fisico Italiano Giovanni Battista Beccaria a provare scientificamente che il fenomeno dell’annerimento era dovuto alla presenza di sali d’argento, un materiale sensibile alla luce del sole. Alla fine del 1700 il ceramista Thomas Wedgwood, inventò la prima “pellicola fotosensibile”. Immerse dei fogli di carta nel nitrato d’argento e si rese conto che, coprendo una parte con degli oggetti ed esponendolo alla luce del sole, il foglio riportava la forma dell’oggetto su di esso posto. Peccato che, una volta tolto l’oggetto, in poco tempo tutto il foglio si scuriva, tant’è che le immagini catturate potevano essere osservate solo alla fioca luce di una candela. Thomas Wedgwood non potè perfezionare la sua scoperta in quanto gravemente malato (e successivamente morì). Nel 1819 John Frederick William Herschel, astronomo, matematico e chimico inglese scoprì che il tiosolfato di sodio può fissare definitivamente un’immagine catturata da un foglio imbevuto di nitrato d’argento. Il Tiosolfato di sodio infatti “elimina” tutto l’argento che non ha reagito alla luce, evitando quindi che il foglio si scurisca una volta lasciato alla luce del sole. Così dunque nasce la fotografia.
Proprio a proposito dei pittori, bisogna dire che la camera oscura ebbe anche un ulteriore campo di applicazione: la pittura. Tantissimi pittori infatti usarono la camera oscura per riprodurre fedelmente i paesaggi proiettati sulla tela tramite il foro stenopeico, tra cui anche nomi altisonanti quali il Canaletto, Raffaello e Caravaggio. Proprio riguardo a quest’ultimo ci sono prove piuttosto importanti riguardo all’uso della camera obscura: l’assenza di schizzi e bozzetti, il fatto che buona parte dei suoi soggetti fossero mancini (l’immagine ribaltata). Lo stesso Caravaggio sembra abbia usato alcune sostanze chimiche per “fissare” l’immagine sulla tela per qualche minuto, al fine di poter abbozzare il disegno stesso al fine di concluderlo “diritto” ed un ambiente differente. Ovviamente in parallelo allo sviluppo della camera oscura si lavorò tantissimo anche sul modo di fissare in maniera indelebile le immagini proiettate all’interno della camera stessa (come detto, già Caravaggio trovò un modo per fissarle per alcuni minuti). Tornando al processo chimico relativo alla fotografia, nel XVI secolo, l’inglese Boyle notò come il clorato d’argento reagiva alla luce (scurendosi) mentre nel secolo successivo (XVII) l’italiano Angelo Sala scoprì che anche la polvere di nitrato d’argento veniva annerita dal sole. Stesso fenomeno osservato su ioduro d’argento e bromuro d’argento. Bisogna però attendere il 1727 quando il tedesco Johann Heinrich Schulze creò un composto a base di carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico e argento che reagiva alla luce solare.
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3. Niepce
4. Daguerre
Nel 1827 venne scattata ad opera di Joseph Nicéphore Niépce la più antica fotografia mai giuntaci. La veduta dalla sua finestra della casa di campagna. La prima foto della storia. Joseph Nicéphore Niépce nacque nel 1765 nella cittadina di Chalonsur-Saône da famiglia borghese e benestante. Fece una brillante carriera come inventore (dopo aver più volte pensato a prendere i voti e dopo aver militato nelle armate rivoluzionarie). A lui dobbiamo infatti un primo prototipo di motore a combustione interna, vari prototipi per la propulsione di navi ed imbarcazioni, nonché per il pompaggio delle acque. L’interesse per l’interazione della luce nella camera oscura (ed in senso lato per la fotografia) arrivò nel 1816 e dieci anni dopo, nel 1826, riuscì a riprodurre la sua prima immagine “automatica”, ovvero non disegnata dalla mano dell’uomo. Niépce catturò l’immagine utilizzando una lastra fotografica di sua invenzione: spalmò su di una lastra di rame ricoperta di argento una soluzione fotosensibile composta da del bitume di Giudea polverizzato e dell’essenza di lavanda. Successivamente all’asciugatura della lastra (il negativo). Questa venne esposta, in una camera oscura, per alcune ore. Quindi lavata in un bagno alla lavanda (serviva per disciogliere le parti che non avevano ricevuto luce) ed asciugata. Per il positivo Niépce utilizzò dei cristalli di iodio, precipitati in ioduro d’argento al contatto con la lastra. Successivamente “lavò” via la vernice (con alcool) dalla lastra stessa, al fine di ottenere la trasformazione del negativo in positivo (in pratica ha scoperto la eliografia).
Nel 1832 il brasiliano Hercules Florence riesce ad ottenere a sua volta delle fotografie stabilizzando del nitrato di argento sulla carta con un procedimento del tutto simile a quello realizzato da Niépce e soprattutto da Daguerre: sarà quest’ultimo ad imporre il processo fotografico grazie all’interessamento del governo francese che acquistò il brevetto e lo rese libero. Era il 1839 : Nasce la fotografia commerciale. Daguerre, da sempre innamorato della pittura, cominciò la sua carriera lavorativa in un freddo ufficio delle imposte dirette, per volere del padre. Fuggito da questa specie di “carcere”, il giovane Daguerre si trasferì a Parigi, dove divenne allievo di un celebre scenografo del tempo. Proprio questa collaborazione permise a Daguerre di divenire, in brevissimo tempo, uno degli scenografi più ricercati di Parigi, grazie alla sua perizia nonché immaginazione nella creazione di quinte e fondali. Nel 1832 il brasiliano Hercules Florence riesce ad ottenere a sua volta delle fotografie stabilizzando del nitrato di argento sulla carta con un procedimento del tutto simile a quello realizzato da Niépce e soprattutto da Daguerre: sarà quest’ultimo ad imporre il processo fotografico grazie all’interessamento del governo francese che acquistò il brevetto e lo rese libero. Era il 1839 : Nasce la fotografia commerciale. Daguerre, da sempre innamorato della pittura, cominciò la sua carriera lavorativa in un freddo ufficio delle imposte dirette, per volere del padre. Fuggito da questa specie di “carcere”, il giovane
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Daguerre si trasferì a Parigi, dove divenne allievo di un celebre scenografo del tempo. Proprio questa collaborazione permise a Daguerre di divenire, in brevissimo tempo, uno degli scenografi più ricercati di Parigi, grazie alla sua perizia nonché immaginazione nella creazione di quinte e fondali. Facciamo un passo indietro e andiamo a vedere cosa Daguerre e il suo collega Niépce hanno fatto. L’idea era quella di fissare le immagini che apparivano all’interno della camera obscura. Niépce e Daguerre entrarono in contatto nel 1829 a Chalon-sur-Saòne, firmando un contratto di associazione, al fine di sviluppare ulteriormente l’idea dello stesso Niepce. Daguerre apportò immediatamente delle migliorie sostituendo il bitume con della resina ottenuta disciogliendo la lavanda in alcool. Quindi, prima del lavaggio della lastra stessa, la espose a vapori d’olio di petrolio. I vapori in questione condensavano sulle parti della lastra non colpite dalla luce, sciogliendo la resina e rendendo quelle zone trasparenti. Al contrario, le zone esposte alla luce non venivano toccate dai vapori. Sempre Daguerre, nel 1831, si accorse che lo ioduro d’argento era sensibile alla luce. Ma ancor più importante, riuscì a fissare l’immagine latente (da Wikipedia: L’immagine latente è un’alterazione nella superficie esterna delle particelle degli alogenuri d’argento contenuti nella pellicola, causata dalla luce. Un giorno, dopo aver esposto una lastra trattata con vapori di sodio senza successo, ripose questa in un armadio insieme a parecchi materiali chimici. Dopo qualche giorno,
andò per prendere nuovamente la lastra per ritrattala e si accorse che si di essa era comparsa un’immagine ovvero quella che avrebbe voluto catturare. Daguerre dovette fare non pochi tentativi per individuare quale sostanza chimica avesse realizzato il miracolo e dopo parecchi giorni e lastre, individuò il colpevole nei vapori di mercurio (fuoriuscite da un termometro che si era rotto). Questa però non era la soluzione: alla luce diretta del sole l’immagine scompariva. Daguerre quindi seguì la via del cloruro d’argento (che al contrario tendeva a trasformare la lastra in una lastra nera se tenuta alla luce del sole) e dopo vari tentativi, nel 1837, giunse alla soluzione finale, ovvero definì il processo che si chiamò dagherrotipo. Prima di giungere al dagherrotipo, però, dobbiamo tornare di qualche anno indietro e capire che fine ha fatto Niepce: Daguerre, di 34 anni più giovane del collega Niepce cominciò a considerarsi come l’unico inventore di questa nuova “arte”. Cosa però impossibile dal punto di vista legale a causa del contratto firmato, che appunto legava la scoperta, anche in caso di morte di uno dei due, ad entrambi i nomi. Morte che sopraggiunge, per Niepce, nel 1833. Il posto di Niepce, nella società, fu preso dal figlio, decisamente più ingenuo del padre, al punto di firmare un nuovo contratto con Daguerre proprio nel momento in cui lo stesso inventore definì il dagherrotipo. Ecco un estratto del contratto: “Io sottoscritto dichiaro con il presente scritto, che il signor Louis Jacques-Mandé Daguerre mi ha fatto conoscere un procedimento di cui è inventore,
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questo nuovo mezzo ha il vantaggio di riprodurre gli oggetti dieci o venti volte più rapidamente di quello inventato dal signor Joseph-Nicéphore Niepce, mio padre”. Infine: “In seguito alla comunicazione che mi ha fatto, il signor Daguerre acconsente ad abbandonare alla società il nuovo procedimento di cui è inventore e che egli ha perfezionato, a condizione che questo nuovo procedimento porti solo il nome dì Daguerre”. Insomma, Daguerre è ufficialmente diventato l’inventore della moderna fotografia, cancellando di fatto Niepce.
cedente e rendendo in questo modo l’immagine permanente e definitiva. Il risultato fu eccelso: ecco una foto ottenuta con questo procedimento. Ovviamente, per rendere il tutto più comodo, Daguerre introdusse la sua lastra dentro una camera obscura. Era la prima macchina fotografica. Per rendere chiaro quanto il dagherrotipo divenne popolare e quanto Daguerre divenne ricco, pensate che a Parigi, nel 1847, furono vendute qualcosa come 2000 macchine fotografiche e mezzo milione di lastre fotografiche. La dagherrotipia fu una vera rivoluzione, non solo dal punto di vista dell’innovazione tecnologica, ma anche culturale: furono tantissimi i pittori che abbandonarono i pennelli per passare alla macchina fotografica, attratti dal nuovo modo di catturare le immagini molto più somigliante alla realtà di quanto potessero fare a mano. Ci fu un proliferare di ritrattisti che, forti della novità (e soprattutto all’uso di lastre dorate che riproducevano, più o meno, il colore della pelle), riuscivano a vendere centinaia di ritratti a prezzi altissimi (in Inghilterra si parla di 5 sterline a fotografia, un salasso per quel periodo).
Torniamo ora al procedimento che Daguerre chiamò con il nome di Dagherrotipo e vediamo come funziona: - Preparazione di una lastra di rame argentata tramite elettrolisi e quindi pulita utilizzando acqua ed un abrasivo molto fine. - Sensibilizzazione della lastra esponendola ai vapori di iodio fin quando questa non era completamente ricoperta di uno strato giallastro di ioduro d’argento. - Esposizione della lastra alla luce del sole per circa 20 minuti. - Sviluppo dell’immagine esponendo la lastra a vapori di mercurio riscaldato a 60º (tramite fiamma ad alcol). Il mercurio si lega allo ioduro di argento creando uno strato biancastro in corrispondenza delle luci. - Stabilizzazione dell’immagine lavando la lastra in una soluzione calda di cloruro di sodio concentrato che andava a togliere lo iodio ec-
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5. Talbot
ruro di sodio e quindi sensibilizzato con lo ioduro d’argento, sostituito poi dal trisolfato di iodio. L’effetto finale era migliore per il tipo di supporto impiegato (carta invece di lastra) come si può vedere nella foto di seguito. Il grandissimo vantaggio della calotipia è che era basato sul dualismo negativo-positivo e non sul negativo trasformato in positivo. Ciò significa che, partendo da un negativo, era possibile ricavare più positivi. In pratica, Talbot fotografava la scena usando la carta che fungeva da negativo. Successivamente fotografava il negativo al fine di invertire l’immagine, rendendola di conseguenza un positivo. Nel fare ciò, il negativo non veniva più toccato ma poteva essere usato all’infinito come fonte delle fotografie. Inoltre, proprio per la scissione fisica tra negativo e positivo, era anche possibile ingrandire il negativo e quindi ottenere delle fotografie “zoomate”. Il problema delle foto di Talbot rispetto a quelle di Daguerre, però, era la sensazione di colore: il dagherrotipo permetteva di fotografare su “lastre”, mentre la calotipia su carta. Nel secondo caso il colore era dato principalmente dal tipo di carta impiegato, quindi molto più piatto di quanto non si potesse ottenere con la dagherrotipia. Di contro, però, le fotografie realizzate con la tecnica della calotipia erano colorabili a mano (era carta), una tecnica usata spessissimo dai pittori che passarono alla fotografia abbandonando “parzialmente” i pennelli.
Passiamo adesso al 1841 dove in Inghilterra William Henry Fox Talbot creò il metodo chiamato Calotipia, una tecnica basata sull’utilizzo di un negativo di carta: in questo modo, partendo da una sola matrice era possibile creare moltissime copie. Nasce la fotografia analogica attuale. La Calotipia di Talbot, ad essere precisi, nacque come idea già nel 1833, quando l’inglese era in vacanza in Italia, sul lago di Como, e fu folgorato da un’idea mentre realizzava disegni con l’ausilio di una camera oscura. Come successivamente raccontò: “Riflettevo sull’immutabile bellezza dei quadri che la Natura offre e che le lenti della camera oscura riproducono sulla carta. Quadri favolosi che però si dissolvono in un baleno. Fu facendo questi pensieri che mi venne in mente come sarebbe stato bello fare in modo che le immagini naturali si imprimessero da sole sulla carta rimanendovi fissate per sempre“. Gli ci vollero 6 anni per trasformare l’idea in qualcosa di tangibile e nel 1839 (lo stesso anno del dagherrotipo) rese noti i suoi studi ed il suo metodo, nominato Talbotype, successivamente migliorato e chiamato, appunto nel 1841, Calotipia. Il sistema non era tanto dissimile da quello di Daguerre: il foglio di carta per il positivo e quello per il negativo erano imbevuti di clo-
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CAPITOLO DUE 1. L’evoluzione Tra il 1841 ed il 1851 si utilizzano i due procedimenti (Dagherrotipia e calotipia) affinandoli e migliorando la qualità soprattutto delle sostanze fotosensibili. Nel 1851 arriva un forte salto di qualità grazie a Frederick Scott Archer che inventò la tecnica del collodio umido. In questa tecnica, la lastra viene sensibilizzata poco prima del suo uso. Il che significa usarla quando è ancora umida (da cui il nome). Il risultato è talmente buono da spazzare via le soluzioni basate sul dagherrotipo e calotipia.
Prima foto a colori della storia.
2. La fotografia moderna Il 1883 è la data storica per tutta la fotografia. Una piccola azienda americana mette in vendita una fotocamere in grado di separare nel tempo i processi di preparazione, ripresa, sviluppo della foto e stampa della stessa. Quella ditta era la Kodak (morta poi nel 2012) e quella fotocamera (inventata dal grandissimo George Eastman) era la prima vera macchina fotografica. Al suo interno vi era un rullo di carta speciale (il primo rullino in pratica, inventato sempre da Eastman ovvero la prima pellicola flessibile mai realizzata in serie) che, muovendosi, permetteva di scattare fino a 100 foto. I fotografi potevano in questo modo scattare 100 pose e quindi, a fine rullo,
Nel 1861 il James Clerk Maxwell sviluppò quella che potremmo definire l’antenato del sensore fotografico “analogico”, o meglio dell’RGB. In pratica effettuava tre fotografie dello stesso soggetto su tre differenti lastre attraverso tre filtri di colore blu, verde e rosso. Le tre lastre venivano quindi sviluppate in tre diapositive che venivano proiettate per “sovrapposizione” tramite tre proiettori a cui erano applicati i medesimi filtri: il risultato era un’immagine a colori dell’oggetto fotografato. Nasce la fotografia a colori.
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riportare la macchina alla Kodak. Gli esperti dell’azienda ricaricavano la macchina con un nuovo rullo e sviluppavano le fotografie fatte con quello usato. Il modello in questione, commercializzato nel 1888, venne chiamato semplicemente Box Kodak, venduto a circa 25 dollari e fu pubblicizzata con uno slogan tra i più famosi in assoluto: ‘’You press the button, we do the rest’’. Il costo di sviluppo era pari a 10 dollari e comprendeva anche la stampa del negativo nonché l’inserimento di un nuovo rullo da 100 esposizioni e la spedizione a casa del cliente, operazione che poteva richiedere da 5 a 10 giorni, a seconda degli agenti atmosferici (come era fedelmente riportato sul libretto delle istruzioni della Box Kodak).
proprio bassissimo vendettero tantissimi apparecchi, tanto da avere problemi nello smaltire le richieste di “ricarica”). A tal scopo fu introdotto una sorta di involucro esterno in grado di preservare la pellicola alla luce. Da questo momento era quindi possibile sostituire le pellicole alla luce del sole.
Il 1888 è quindi l’anno della svolta, l’anno della democratizzazione della fotografia, l’anno in cui tutti, ma proprio tutti, possono acquistare un apparecchio fotografico e scattare in totale autonomia quante fotografie volevano.
Ogni raggio di luce catturato impressiona in modo differente la lastra, in funzione della lunghezza d’onda del raggio di luce stesso.
Nello stesso anno(1891) un fisico francese, Gabriel Jonas Lippmann, realizzò la prima vera fotografia a colori da singolo scatto (cosa che gli valse addirittura un Nobel per la fisica, conferitogli nel 1908). Lippmann realizzò una lastra a colori utilizzando l’interferenza delle onde dell’immagine con la loro stessa riflessione su uno specchio di mercurio posto dietro l’emulsione sensibile.
Altra data storica da ricordare è quella del 1895: i fratelli Lumière inventano il cinematografo. La caratteristica più importante del cinematografo, oltre ovviamente alla possibilità di registrare immagini in rapida sequenza, è quella di operare su pellicole dalla dimensione “ridotta”: 35mm. Da questo momento, proprio grazie al cinema, il 35mm diventerà lo standard per la fotografia.
Mentre nel 1890 venne commercializzato il primo obiettivo anastigmatico (un Protar con f/7,5), nel 1891 Kodak lavorò sui rulli fotografici, cercando di renderli ancora più pratici, al punto da mettere in condizioni chiunque di sostituirli negli apparecchi fotografici (nonostante il prezzo della Box Kodak non fosse
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Nel 1900 e nel 1902 vennero commercializzate due macchine fotografiche che hanno fatto la storia della fotografia: rispettivamente Kodak introdusse sul mercato la prima macchina fotografica entry level (la Brownie costava solo 1 dollaro e 15 centesimi una pellicola) e Zeiss la Graflex, una reflex monoobiettivo che per decenni è stata la macchina fotografica utilizzata dai giornalisti americani. Arriviamo al 1904: la data della seconda rivoluzione fotografica. Furono i celeberrimi fratelli Auguste e Louis Lumière ad inventare l’autocromo.
gine positiva. L’inversione veniva generalmente ottenuta dapprima eliminando le zone esposte dell’emulsione (quelle che dopo lo sviluppo apparivano nere), poi riesponendo la lastra, stavolta dal lato dell’emulsione, in modo da impressionare l’emulsione rimasta, e infine sviluppando di nuovo. L’immagine ottenuta, osservata da vicino, appariva come un quadro puntinista in cui i colori erano ottenuti per sintesi additiva spaziale dai tre primari verde, blu-violetto e arancione. L’autocromia, nonostante il complicato processo di sviluppo e il costo particolarmente elevato, ebbe un successo enorme (fu usato per la realizzazione di scatti a colori durante la prima guerra mondiale).
Il principio su cui si basava l’autocromia era quello della sintesi additiva spaziale, poiché i colori che apparivano sulla lastra autocroma erano ottenuti grazie a un mosaico di piccolissimi filtri costituiti da granelli di fecola di patate colorati in verde, blu-violetto e arancione. Questi granelli venivano stesi su un supporto di vetro in uno strato sottilissimo, in modo che non si sovrapponessero. Gli interstizi venivano poi riempiti con nerofumo. Sullo strato di granelli di fecola veniva poi stesa un’emulsione fotografica in bianco e nero. La lastra veniva esposta dal lato del supporto e sviluppata. Poiché l’immagine così ottenuta era un negativo a colori complementari, la lastra veniva poi sottoposta a un procedimento d’inversione, in modo da ottenere un’imma-
Quattro anni dopo, nel 1908, il francese Louis Dufay brevettò il Dufaycolor, un processo fotografico per ottenere immagini a colori. Basato sul processo dei fratelli Lumière, di fatto ne semplificava lo sviluppo, rendendo il procedimento ed i materiali più semplice, economico ed alla portata di un pubblico più vasto. Nel 1912 è la volta di un’altra invenzione che farà la storia della fotografia, firmata dal tedesco Friedrich Deckle: l’otturatore Compur. Questo particolare otturatore divenne talmente comune da equipaggiare quasi tutti i
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modelli di macchine fotografiche prodotte fino agli anni cinquanta.
tati: mantenne simile il formato (passò da 4:3 a 2:3) ma ottenne il doppio dello spazio in larghezza, più che sufficiente per le fotografie. Peccato che la Prima Guerra Mondiale non permise alla Leica di sfruttare immediatamente l’invenzione, rimandata di ben 11 anni.
Sempre nel 1912 vennero introdotte sul mercato la Speed Graphic (famosa per essere stata la macchina fotografica dei fotoreporter americani fino agli anni cinquanta) e la Kodak Vest Pocket. Quest’ultimo modello rendeva ancora più semplice l’avvicinamento alla fotografia: il soffietto era infatti reso rigido dalla presenza di stecche in metallo che ne riducevano di fatto l’escursione laterale, velocizzando e non di poco la preparazione alla fotografia.
Nel 1914 la Kodak realizzò una nuova pellicola a colori: verrà poi chiamata Kodachrome nel 1935 e commercializzata l’anno successivo e sarà la pellicola più longeva in assoluto, uscita di produzione nel 2010 quando la fotografia analogica arrivò praticamente al capolinea a causa dell’avvento del digitale.
Il 1913 vide la reale standardizzazione del 35mm, ad opera dell’ingegnere Oskar Barnack (un dipendente di una piccola azienda fotografica tedesca di nome Leica). Questi lavorò su un modello tascabile di macchina fotografica compatibile con il formato della pellicola cinematografica (35mm per l’appunto), molto più piccolo dei modelli fino a questo punto in vendita. Al fine di ottenere un buon compromesso tra dimensione finale dell’immagine e quella dell’apparecchio, dovette però scartare il formato cinematografico dove le pellicole erano 18x24mm (troppo strette), adottando un più consono 24x36m (in pratica raddoppiò il lato corto e ribaltò la pellicola). In questo modo ottenne due risul-
Durante gli anni della Grande Guerra, poche furono le invenzioni relative alla fotografia ma nacquero tre aziende che in futuro (compresi i giorni nostri) domineranno il mercato: nel 1917 la Nippon Kogaku K.K. (successivamente ribattezzata con il più semplice nome di Nikon), nel 1918 la Olympus e la Panasonic e nel 1919 la Pentax. Anche l’Italia vide la nascita di uno dei più famosi produttori di pellicole fotografiche, la Ferrania (1920, nata con il nome di “Film”). Anche in Germania, comunque, il mondo della fotografia non rimase a guardare. Carl Zeiss fuse sotto un solo nome (Zeiss Ikon, 1919) parecchie piccole realtà locali (destinate al
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Nel 1925 finalmente la Leica potè dare seguito a quanto inventato dal Barnack e fu immessa sul mercato la prima vera macchina fotografica con pellicola da 35mm, chiamata semplicemente Leica I. Gli anni successivi segnarono l’inizio della grande ‘’guerra” tra i produttori tedeschi: nel 1929 venne infatti commercializzata la prima macchina fotografica della Rollei, chiamata Rolleiflex, mentre nel 1932 la Zeiss immise sul mercato la Contax I.
cal Instruments Laboratory (fondata dall’imprenditore Tashima Kazuo) che, con l’aiuto di Nikon, produsse il primo prototipo di fotocamera con telemetro 35mm, chiamato Hansa Kwanon. L’anno successivo, quando questo prototipo vide la luce, fu registrato il marchio Canon (1935). Nel 1936, come accennato precedentemente, venne commercializzata la pellicola a colori Kodachrome sia a 16 che 36mm. Stesso anno ma azienda diversa: Agfa lanciò l’Agfacolor. Ma il 1936 è famoso per un altro oggetto commercializzato a Dresda dalla Ihagee: la Kine-Exakta è la prima macchina Reflex della storia, con mirino a pozzetto (anche se dopo la caduta del muro di Berlino si scoprì come in Russia esisteva già dal 1934 la Sport, una macchina fotografica Reflex che non arrivò mai nei paesi occidentali).
Il 1932 fu anche l’anno del suicidio di Mister Kodak: George Eastman infatti si tolse la vita lasciando un semplice, laconico messaggio: ai miei amici: il mio lavoro è compiuto. Perché attendere?
Nel 1937 vide i natali a Milano la ICAF (poi rinominata Bencini). Nel 1938 la Ducati produsse una delle prime macchine fotografiche commerciali ad ottiche intercambiabili (ma in formato ridotto 18x24mm) e nello stesso anno (1938) arrivò sul mercato la Kodak SiperSix-20, caratterizzata a dall’esposizione automatica. Nel 1941 fu fondata la Hasselblad in Svezia. Caratteristica strana, nacque come società
Nel frattempo, ricordiamo come nel 1928 fu fondata la Minolta mentre nel 1932 furono commercializzati i primi obiettivi giapponesi della Nippon Jogaku, chiamati Nikkor. Anno importante fu anche il 1934: nel paese del Sol Levante vide i natali la Precision Opti-
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di commercio, passata poi alla fotografia durante la seconda guerra mondiale al fine di permettere all’aeronautica svedese di effettuare riprese aeree.
Nikon I. Nello stesso anno Carl Zeiss presentò la Contax S con innesto a vite per gli obiettivi e pentaprisma. Fino a questo punto, la guerra fotografica fra oriente ed occidente (o meglio tra Germania e Giappone) era tutta a favore della Germania, dove i prodotti delle varie Rollei, Zeiss, Agfa, Exakta e Leitz erano considerati inarrivabili dalle macchine realizzate in Giappone (più spesso considerate delle brutte copie).
Kodak, nel 1942, commercializzò il proprio negativo a colori (Kodacolor), in ritardo di un anno (era il 1941) rispetto ad Agfa e Ansco. Nel 1946 la Nippon Kogaku cambia nome e diviene Nikon. Nello stesso anno venne fondata la Sony e la Casio.
La storia però cominciò a cambiare, soprattutto perché nel 1950 la Nikon divenne una sorta di eccellenza nell’ambito delle ottiche: il fotografo americano David D. Duncan infatti ebbe l’idea di montare obiettivi Nikkor su fotocamere Leica. Il risultato fu straordinario in quanto a resa dell’apparecchio ibrido. Sempre nel 1950 vide la luce la più importante (tutt’ora) fiera della fotografia: il Photokina. Nacque inoltre la Tamron.
Nel 1948 la Fuji presentò il proprio modello di pellicola negativa a colori, un anno prima dell’italiana Ferraniacolor. Nello stesso anno, come anticipato poco sopra, venne prodotta la prima Polaroid Modello 95. Sempre nel 1948 Victor Hasselblad presentò quella che probabilmente è stata la fotocamera reflex medio formato più famosa del mondo: la Hasselblad 1600F. Ed ancora, a Dresda, vide la luce un’altra pietra miliare della fotografia: la prima macchina fotografica con innesto a vite per gli obiettivi, la Praktireflex (ad opera della ditta Praktica).
Nei successivi 8 anni ci furono parecchie migliorie apportate sia alle macchine fotografiche che alle ottiche e alle pellicole ma nessuna vera e propria rivoluzione. Possiamo ricordare per esempio la Exakta Varex (reflex a mirini intercambiabili)
L’anno successivo, il 1949, vide i natali della reflex a telemetro di casa Nikon, chiamata
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la Praktina FX (attacco a baionetta, mirini intercambiabili e spazio per una pellicola lunga 17 metri),
macchina fotografica subacquea (Nikonos). Nel 1961 nasce la Sigma. Il 1962 vide la prima reflex ad andare nello spazio: si trattava di una Minolta Hi-Matic (per la cronaca fu rimarcata Ansco in quanto prodotto non americano) che accompagnò John H. Glenn.
la Hasselblad 500C (famosa per essere stata usata dalla NASA durante le sue missioni spaziali), la nascita delle ottiche grandangolari (ad opera del francese Pierre Agnenieux) nonché di una grandissima varietà di pellicole a differenti ISO, in grado di catturare immagini anche in presenza di poca luce.
Nel 1963 la Kodak rilasciò Instamatic, un sistema che semplificava il caricamento dei rullini negli apparecchi (tutt’ora usato, basato su un rullino fotografico inserito in una cartuccia). Sempre nel 1963 nacque la pellicola a sviluppo immediato Placolor (poi usata, ovviamente, nelle Polaroid). Venne inoltre commercializzata la prima reflex 35mm con esposimetro TTL: la TopCon RE Super (ancora dal Giappone). Nikon (Nikkor) inventò l’obiettivo fisheye e Olympus mise sul mercato la Pen F, una Reflex in grado di produrre immagini mezzo formato su pellicola 35mm sia in modalità manuale che semiautomatica in priorità dei tempi.
Il 1959 fu un anno fondamentale per la fotografia. Fu infatti presentata la Nikon F : una reflex professionale dotata di mirini intercambiabili, ottiche intercambiabili con innesto a baionetta Nikkor, motore elettrico per il trascinamento della pellicola ed un prezzo decisamente più basso della concorrenza tedesca. Forte della notorietà delle ottiche Nikkor sul mercato americano, la Nikon F fu più di un successo (tanto che finì anche in un film di Antonioni, Blow Up), tanto da decretare la fine della supremazia europea (o meglio tedesca) nell’ambito Reflex. Nel 1960 vide la luce la R2000, una reflex Canon che si prese il titolo di macchina più veloce del mondo: poteva scattare ad una velocità di 1/2000 secondi, un’enormità per quel periodo. Sempre nel 1960 nacque la prima
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CAPITOLO TRE
Quando una quantità sufficiente di luce viene assorbita dai cristalli di alogenuro d’argento (i componenti sensibili alla luce, sospesi in una gelatina sistemata sopra una striscia di plastica – la pellicola), su questi si viene a formare un’immagine latente (invisibile). Quest’immagine è successivamente resa visibile da un processo di amplificazione chimica chiamata comunemente sviluppo che converte i cristalli di alogenuro d’argento esposti alla luce in argento metallico lasciando i cristalli non esposti praticamente inalterati. Il processo è completato da una fase di fissaggio che dissolve i cristalli non colpiti dalla luce (e quindi non sviluppati) rimuovendoli del tutto dalla superficie della pellicola. Ma perché proprio gli alogenuri di argento sono stati scelti quale materiale per “catturare” le immagini? Gli alogenuri di argento, hanno delle caratteristiche in alcuni casi ancora superiori al digitale.
1. Confronto tra pellicola e digitale Foto scattata in digitale
Foto scattata in analogico
Ovviamente, per quanto l’analogico sia tutt’ora in grado di competere in quanto a qualità con il digitale, è stato soppiantato da quest’ultimo per l’immediatezza, la rapidità, la facilità del digitale stesso rispetto all’analogico. In primis la possibilità di “sbagliare” senza pensieri: nel digitale cancelli e scatti di nuovo, nell’analogico se non ti rendi conto di aver commesso un errore, devi attendere lo sviluppo (e non puoi scattare nuovamente la stessa scena).
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Il procedimento fotografico analogico utilizza delle superfici plastiche rivestite di composti d’argento sensibili alla luce, chiamati alogenuri d’argento, per la memorizzazione delle immagini. Questo sistema di memorizzazione è in uso da oltre cento anni e, nonostante l’arrivo dell’era digitale, difficilmente scomparirà del tutto, anche se magari verrà relegata ad un settore di nicchia. Il digitale, o meglio la cattura e memorizzazione delle immagini su supporti digitali, non è molto dissimile da quanto accade nel processo analogico, tanto che è possibile schematizzare un“parallelo” tra i due processi:
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2. L’arrivo del digitale
Nello stesso anno arrivarono anche la Pentax Electro Spotmatic (la prima reflex automatica a priorità di diaframmi, equipaggiata con un un otturatore a controllo elettronico) e la Olympus OM-1 (famosa per essere, in quel periodo, la reflex più compatta mai prodotta).
Nel 1969 cominciò la rivoluzione digitale (almeno in senso lato): fu infatti inventato il CCD da parte dei fisici Willard S. Boyle e George E. Smith. Il dispositivo ad accoppiamento di carica, sigla CCD (dall’inglese Charge-Coupled Device) oppure DAC, consiste in un circuito integrato formato da una riga, o da una griglia, di elementi semiconduttori (photosite) in grado di accumulare una carica elettrica (charge) proporzionale all’intensità della radiazione elettromagnetica che li colpisce. Questi elementi sono accoppiati (coupled) in modo che ognuno di essi, sollecitato da un impulso elettrico, possa trasferire la propria carica ad un altro elemento adiacente. Inviando al dispositivo (device) una sequenza temporizzata d’impulsi, si ottiene in uscita un segnale elettrico grazie al quale è possibile ricostruire la matrice dei pixel che compongono l’immagine proiettata sulla superficie del CCD stesso.
Nello stesso anno anche Kodak mise sul mercato probabilmente il suo prodotto di maggior successo; la Pocket Instamatic, capace di vendere, nel suo ciclo vitale, più di un miliardo di esemplari. Anche Polaroid mise sul mercato una propria reflex, chiamata SX-70 (era pieghevole). 1975: Ancora Kodak fece parlare di se. Steven Sasson effettuò la prima fotografia digitale della storia (nella foto a destra). Peccato che la Kodak decise di congelare il progetto e di secretare l’invenzione (di cui non si seppe nulla fino al 2005), per paura che la vendita delle pellicole e delle macchine fotografiche analogiche ne potesse risentire (cosa che poi accadde). La macchina fotografica realizzata (sempre nella foto a destra) era dotata di un sensore CCD da 0,01 Megapixel e catturò un’immagine in bianco e nero, impiegando qualcosa come 23 secondi per salvare l’immagine su una cassetta.
Nel 1972 cominciò a svilupparvi la battaglia Canon/Nikon: la prima presentò la Canon F-1 (la prima vera reflex professionale di casa Canon) mentre la Nikon rispose con la Nikon F2, che andò a bissare il successo della progenitrice F.
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Nel 1976 Canon presentò uno dei suoi modelli più famosi, la AE-1 (ne vendette 8 milioni di pezzi), caratterizzata dall’elettronica molto spinta. Nel 1980 Nikon presentò la F3 quale risposta alla Canon AE-1, anch’essa ricchissima di elettronica. La Nikon F3 gode tutt’ora di un record: fu prodotta per circa 20 anni, fino al 2000). Nel 1987 fu la volta della prima Nikon con avanzamento della pellicola automatico, la F501. Al contempo, Kodak entrò nel mondo dei video con ben 7 differenti prodotti in grado di coprire tutte le fasce di attività, dalla registrazione alla memorizzazione, dalla trasmissione alla stampa di immagini e video. Contemporaneamente Adobe presentò il suo programma di punta per il video editing, Photoshop. Nel 1992 venne presentata la prima reflex subacquea a firma Nikon, chiamata Nikonos RS e nasce la Lomografia (grazie al rinvenimento di una vecchia Lomo, una macchina russa, non perfettamente impermeabile alla luce esterna).
Il 1996 fu l’anno del grande flop firmato da 5 produttori, ovvero Kodak, Minolta, Canon, Nikon e Fuji: il sistema APS (Advanced Photo System). Il sistema APS nacque come “successore” del 35mm analogico e si basava su dei negativi che si interfacciavano da una parte con la fotocamera (magneticamente) e dall’altra con il laboratorio di stampa. Il vantaggio dell’APS era la possibilità di ottenere 3 differenti formati di stampa dallo stesso negativo, purtroppo fu immesso sul mercato nel momento peggiore, ovvero quando il digitale stava prepotentemente prendendo il sopravvento sull’analogico. In contemporanea, proprio a sottolineare la problematica sopravvivenza dell’analogico, Casio mise sul mercato la QV-10, la prima fotocamera compatta dotata di schermo LCD: era ora possibile vedere immediatamente le fotografie scattate, la fotografia è sempre più vicino alle grandi masse.
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4. Dal 2000 ad oggi
Sono macchine totalmente smontabili e Obiettivi intercambiabili. Funzionamento: quando si scatta si alza lo specchio, si chiude il diaframma, si apre la tendina, si impressiona la pellicola, si richiude la tendina, si riabbassa lo specchio. Il pentaprisma permette all’immagini di essere come la vediamo noi, cioè raddrizza la destra con la sinistra e lo specchio raddrizza l’alto con il basso. Senza queste due componenti vedremmo l’immagine capovolta e invertita. La luce passa attraverso le lenti dell’obbiettivo, viene riflessa dallo specchio e viene proiettata sullo schermo opaco di messa a fuoco. Attraverso una lente di condensazione e le riflessioni interne al pentaprisma l’immagine appare nel mirino. Quando il fotografo scatta, lo specchio si muove dal basso verso l’alto, l’otturatore si apre e l’immagine è proiettata sulla pellicola o sul sensore.
Fotocamere a Pellicola tradizionali “catturano” la luce su una pellicola fotografica o su una lastra fotografica; quelle Digitali sono basate su elementi sensibili elettronici a tecnologia digitale ormai di diversificate caratteristiche, dalle minuscole apparecchiature di pochi centimetri, a apparati da studio ad alta risoluzione con sensori linear array. Poche, limitate a settori specifici e generalmente superate le tecnologie elettroniche analogiche. Le fotocamere Digitali utilizzano, al posto dei supporti tradizionali, un CCD o CMOS, per catturare le immagini che possono poi essere trasferite o archiviate in un dispositivo removibile o nella memoria interna della fotocamera per un utilizzo successivo o per effettuare operazioni di fotoritocco. Alcune fotocamere digitali possono riprendere, oltre a immagini ferme, anche filmati. Fotocamera DSLR (Digital Single Lens Reflex) o Reflex: L’occhio vede attraverso un sistema di: -
Obiettivo Specchio a 45° Vetro Smerigliato Pentaprisma
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La fotocamera compatta: è una fotocamera non modulare e quindi con obiettivo non intercambiabile (sia zoom, che a focale fissa), spesso di dimensioni ridotte, quindi più facilmente portatile, ma costituite generalmente da una dotazione accessoria più completa (custodia, flash, mirino, ecc). Il termine “compatta” deriva dal termine inglese compact e anche se la traduzione può condurre a “piccola”, “stretta”, “in miniatura”, ecc, il vero significato di compatta rappresenta tutte le fotocamere con l’obiettivo che non può essere sostituito,in quanto costruite in un blocco unico compatto e che dispongono di tutte le funzioni fotografiche possibili, in un unico sistema.
impressionata, la carta necessitava di essere estratta manualmente dalla fotocamera ed in seguito (trascorso un intervallo di circa 60 secondi) veniva separata dal foglio contenente il reagente, lasciando una immagine impressa direttamente in positivo (eliminando il passaggio del negativo, che richiedeva l’uso di una camera oscura per lo sviluppo fotografico). La fotocamera a telemetro: è una macchina fotografica che incorpora un telemetro per la messa a fuoco. Il funzionamento è basato sulla collimazione tra l’angolazione del prisma ottico del telemetro ed il meccanismo di messa a fuoco dell’obiettivo. In pratica, guardando attraverso il mirino del telemetro, il fotografo vede il soggetto “sdoppiato”. Agendo sulla regolazione della messa a fuoco, le due immagini si allontaneranno o si avvicineranno, fino a sovrapporsi. A quel punto il soggetto risulterà perfettamente a fuoco. Questo meccanismo è stato in uso per anni fino all’avvento delle reflex, anche se alcuni fotografi continuano a preferire in determinate circostanze l’utilizzo del telemetro, per esempio quando vogliono evitare i seppur minimi effetti causati dal movimento dello specchio di una reflex.
La fotografia istantanea (comunemente detta istantanea o Polaroid): è un tipo di stampa fotografica che permette di ottenere fotografie in tempo relativamente breve (dell’ordine di secondi o minuti) a seguito di uno scatto. Le più popolari macchine fotografiche in grado di eseguire questa tecnica erano prodotte dalla Polaroid Corporation.Il brevetto della Polaroid consisteva in una particolare fotocamera in grado di contenere una cartuccia contenente una serie di fogli fotosensibili, coperti singolarmente da una pellicola impregnata dal lato a contatto con il foglio stesso di una sostanza reagente. Una volta
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Il banco ottico: è una speciale fotocamera professionale, dotata di speciali funzioni assenti nelle fotocamere portatili, che utilizza pellicola piana nella fotografia tradizionale, o sensori ad alta definizione nella fotografia digitale. Viene per lo più impiegata nello studio fotografico per la realizzazione di still life o in esterni nella fotografia architettonica. Le diverse parti sono montate su una rotaia e la parte anteriore è collegata con la posteriore da un soffietto, in modo che si possa variare la geometria della macchina per ottimizzare la messa a fuoco o correggere le distorsioni prospettiche dell’immagine. Tutti i movimenti sono controllati mediante dispositivi micrometrici, in modo da ottenere la massima precisione negli spostamenti.
uno specchio per riflettere la luce nel mirino, le mirrorless sono prive di specchio e mi rino ottico e sono più piccole. Invece di comporre l’immagine via mirino ottico, le fotocamere mirrorless consentono di visualizzare un’anteprima sullo schermo LCD della fotocamera o via mirino elettronico. Fotocamera bridge, chiamata anche megazoom o superzoom, è una fotocamera con la praticità della compatta e le impostazioni, funzionalità avanzate, qualità della reflex, da cui la denominazione bridge (in inglese ponte), perché questa categoria di macchina vuole idealmente collegare il mondo delle reflex con quello delle compatte. Sono molto popolari nel settore di mercato dei prosumer. La prima fotocamera bridge commercializzata è stata la Olympus IS 1000 nel 1990. Questo tipo di fotocamere ha come caratteristica primaria lo zoom che da grandangolare o normale può arrivare facilmente alle dimensioni di un medio teleobiettivo o di un super teleobiettivo, fino a circa 500 mm di distanza focale ed in alcuni casi da 24 fino a 1000 mm (Nikon P510) e la Canon SX50 addirittura fino a 1200 mm. Un’altra caratteristica che le differenzia dalle compatte è la disponibilità di utilizzo delle principali modalità di esposizione (manuale, priorità di diaframma, priorità di otturatore, automatica), il controllo della profondità di campo, potendosi variare anche l’apertura del diaframma la gamma di valori iso particolarmente estesa.
Fotocamera Mirrorless: Sono delle fotocamere compatte ma estremamente avanzate sia sotto l’aspetto della qualità dell’immagine che come disponibilità di ottiche si può riassumere come un sistema fotografico che racchiude la versatilità di una fotocamera compatta e leggera con la qualità di una fotocamera DSRL (Reflex) professionale. A differenza delle reflex, che usano
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CAPITOLO QUATTRO 1. Stop Motion Il tassello mancante per arrivare ad una fotografia dinamica (Video) è la Stop Motion. Viene chiamata anche Tecnica Passo uno. La stop motion è una tecnica di animazione che usa, in alternativa al disegno eseguito a mano, oggetti inanimati mossi progressivamente, spostati e fotografati a ogni cambio di posizione. La proiezione in sequenza delle immagini dà l’illusione di movimento: esattamente come accade nel cinema con gli esseri umani. Questa tecnica si effettua attraverso scatti fotografici. Ciò che la differenzia da un normale video è la sua natura, una stop-motion diviene video solo in fase di montaggio, prima di allora rimane ancora una serie di scatti fotografici. Alcuni esempi di Film/cartoni famosi girati in Stop Motion : - Galline in fuga - Coraline - The nightmare before Christmas - Wallace & Gromit - Pingu
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realizzata con dei fotogrammi ritraenti dei piccoli ritagli colorati, soprattutto di giornale o di tessuto. Come non citare, inoltre, la suggestiva Pixilation, che fa davvero riflettere su come la tecnica di Stop Motion Animation possa rivelarsi avvincente sul piano visivo. Nella Pixilation, per comporre i vari fotogrammi non sono utilizzati degli oggetti, ma bensì degli attori che si prestano alla realizzazione di questo particolare tipo di filmato, facendosi ritrarre appunto in differenti pose. Insomma, la Stop Motion Animation è davvero un qualcosa di molto interessante per chi ama realizzare video di ogni genere, e un indiscusso punto di forza di questa tecnica è proprio legato alla sua grande semplicità di realizzazione. A differenza di altre tecniche, le quali richiedono dei programmi informatici avanzati e soprattutto una profonda conoscenza, la Stop Motion Animation può essere facilmente realizzata anche a livello amatoriale: con gli strumenti giusti chiunque può divertirsi a realizzare un video con la Stop Motion Animation e magari condividerlo in rete.
Ma anche alcuni cortometraggi e film sui Lego sono girati in Stop Motion con l’aggiunta di effetti speciali.
Ma in che cosa consiste, esattamente, la Stop Motion Animation? Questa tecnica per la realizzazione di video si basa sostanzialmente sulla realizzazione di una serie di fotografie, le quali fungeranno in seguito da veri e propri fotogrammi, che riproposte in rapida sequenza sul video danno l’effetto ottico di un movimento. Il principio di fondo, dunque, è il medesimo dei cartoni animati, con l’unica differenza che i fotogrammi ritraggono, appunto, oggetti assolutamente reali. Esistono davvero tantissime differenti tipologie della tecnica Stop Motion Animation, ed elencarle tutte è davvero complicato. Per fare alcuni esempi, possiamo ricordare la Claymation, un tipo di Stop Motion Animation molto utilizzata in alcuni cartoni animati e per dei filmati per bambini, che si basa sull’animazione di pupazzi di plastilina o di altre forme del medesimo materiale, la Model Animation, che consiste nell’inserimento di elementi animati in un comune film, la Cutout Animation, che viene
Come si può fare a creare un filmato con questa tecnica? Anzitutto, ovviamente, bisogna scegliere e procurarsi gli oggetti che saranno i protagonisti dei fotogrammi. Potenzialmente si può realizzare una Stop Motion Animation con qualsiasi oggetto, dunque ci si può davvero sbizzarrire con la fantasia. Il passo seguente è quello di utilizzare una buona fotocamera per la realizzazione dei fotogrammi. Anche in questo caso si può
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utilizzare qualsiasi tipo di fotocamera, che sia di un iPhone o di uno smartphone, di una comune macchinetta fotografica o anche di una Reflex di livello; ovviamente dalla qualità della fotocamera dipenderà in larga parte anche la qualità del video. Per realizzare dei fotogrammi è indispensabile l’uso di un treppiedi, che mantenga la fotocamera perfettamente immobile nella realizzazione delle varie fotografie: solo ed esclusivamente gli oggetti dovranno essere spostati. Si può ben immaginare come uno spostamento anche minimo della fotocamera possa compromettere completamente la qualità del video, ecco perché gli scatti non si possono realizzare nella maniera tradizionale, tenendo la fotocamera in mano. Il treppiedi può essere acquistato presso un negozio specializzato o anche comodamente online, ad un prezzo tutt’altro che proibitivo. Una volta realizzati i vari fotogrammi, si può passare all’elaborazione informatica. Ovviamente, uno Stop Motion Animation si può realizzare anche ponendo in sequenza tutte le immagini realizzate componendo un video, ma si tratta di un processo discretamente laborioso (e soprattutto noioso) che si può evitare utilizzando delle apposite applicazioni per la realizzazione di Stop Motion Animation. Se si ha un iPhone, ad esempio, può essere un’ottima idea quella di utilizzare la app “StopMotion HD Studio Pro”: questa applicazione consente di realizzare dei filmati senza dover scaricare i fotogrammi sul computer, ed offre la possibilità di aggiungere, in maniera molto semplice ed agevole, musiche ed
effetti audio. In questo modo, il video sarà subito disponibile sul proprio iPhone, e si potrà immediatamente condividere sul web. Insomma, con questa tecnica così semplice e divertente si possono realizzare dei filmati in maniera rapida, ottenendo un risultato di buon livello; ovviamente qualora ci si appassionasse allo Stop Motion Animation si possono facilmente reperire delle informazioni più approfondite, magari acquistando uno dei numerosi libri dedicati esclusivamente a questo tipo di produzione video.
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2. Utilizzo nel cinema
(1988) e “La sirenetta” (1989), e parallelamente l’animazione al computer continuò a fare passi da gigante. La tecnica stop motion però resistette, sostanzialmente per due ragioni, una artistica e una più funzionale ed era molto più economica delle lavorazioni in Computer-Generated Imagery (CGI).
L’animazione passo uno ha una storia lunghissima ed inizialmente venne adottata per mostrare oggetti che si muovevano come per magia. Il primissimo utilizzo della tecnica è da attribuire ad Albert E. Smith e J. Stuart Blackton per “The Humpty Dumpty Circus”, del 1898: nel film un circo giocattolo di acrobati ed animali prende vita. In quell’epoca la tecnica venne spesso adottata dal celebre regista francese Georges Méliès per realizzare effetti speciali e titoli dei suoi corti. Famosissimo il suo “Viaggio nella luna”, del 1902, continuamente citato e ripreso, come fecero anche gli Smashing Pumpkins per il loro videoclip di “Tonight, Tonight”.
Il campione di incassi del 1993 è “The Nightmare Before Christmas”, diretto da Henry Selick e prodotto da Tim Burton. I due continuarono poi a realizzare film in stop motion separatamente: di Selick possiamo ricordare “James e la pesca gigante” (1996) e “Coraline e la porta magica” (2009), di Burton “La sposa cadavere” (2005) e “Frankenweenie” (2012).
L’animazione passo uno prese via via sempre più piede nel corso degli anni ‘60, ‘70 ed ‘80. La Industrial Light & Magic usò spesso l’animazione stop motion di modellini per film come la trilogia originale di “Guerre stellari” (1977-1983), “I predatori dell’arca perduta” (1981), “Terminator” (1984) ed una sua variante, la cosiddetta go motion, per i primi due “Robocop” (1987, 1990). La fine degli anni ottanta segnò una rinascita dell’animazione tradizionale al cinema, con film come “Chi ha incastrato Roger Rabbit”
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3. La fotografia in movimento e trasformazione in video
Un altro maestro della clay animation sicuramente da citare è Nick Park, creatore dei personaggi Wallace and Gromit. Dopo una serie di corti pluripremiati si aggiudicò l’Oscar al miglior film d’animazione per “Wallace & Gromit – La maledizione del coniglio mannaro” nel 2005. È di Park anche il film in animazione stop motion che ha incassato di più in assoluto: “Galline in fuga”, del 2000. La tecnica è piuttosto economica e alla portata di tutti, ed è quindi letteralmente esplosa grazie all’avvento delle piattaforme di video-sharing come YouTube e Vimeo.
Dunque, abbiamo parlato di fotografia e di stop motion che è il tassello mancante tra fotografia stessa e il video. Lo stop motion è una tecnica di rappresentazione che in tempi passati, più o meno nel 1872, veniva chiamata semplicemente ‘’Fotografia in movimento’’ che è tutto sommato il trinomio perfetto con cui il cinema ha fondato le sue basi. Eadweard Muybridge (1830-1904) è conosciuto come l’inventore del movimento in fotografia. I suoi studi e le sue immagini sono stati fondamentali per l’evoluzione della tecnica fotografica, e hanno influenzato anche la pittura e la scultura, fino ad anticipare la nascita del cinema. Di origini britanniche, Muybridge si trasferì negli Stati Uniti dove, all’età di 30 anni, si avvicinò per la prima volta alla fotografia documentando il parco nazionale di Yosemite. Nel 1872 l’uomo d’affari e governatore della California Leland Stanford chiese a Muybridge di confermare una sua ipotesi, ovvero che durante il galoppo di un cavallo esiste un istante in cui tutte le zampe sono sollevate da terra. Nel 1878, Muybridge fotografò con
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successo un cavallo in corsa utilizzando 24 fotocamere, sistemate parallelamente lungo il tracciato. Ogni singola macchina veniva azionata da un filo colpito dagli zoccoli del cavallo. La sequenza di fotografie chiamate ‘’The Horse in motion’’ mostrò come gli zoccoli si sollevassero dal terreno contemporaneamente, ma non nella posizione di completa estensione, come era comunemente raffigurato. Era infatti convinzione comune che il cavallo si staccasse completamente da terra nella posizione di massima estensione, e questa situazione fu spesso raffigurata nei dipinti e disegni degli inizi del 1800, come nell’esempio di Théodore Géricault. I risultati di Muybridge sconvolsero questa visione e influenzarono pesantemente l’attività dei pittori, che si affidarono sempre più al mezzo fotografico per meglio riprodurre quello che l’occhio umano confonde. Molti pittori utilizzarono fotografie di figure umane per copiarle nei loro quadri e si arrivò anche alla pittura diretta su lastra fotografica. L’analisi forse più attenta del movimento catturato da Muybridge venne portata a termine da Edgar Degas, che studiò a fondo tutte le posizioni assunte dal cavallo.
«Le fotografie di Muybridge rivelano chiaramente gli errori in cui sono incorsi tutti gli scultori e i pittori quando hanno voluto rappresentare le diverse andature del cavallo» Paul Valéry.
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4. Spot pubblicitario
rivoluzione industriale, si ebbe un notevole sviluppo della pubblicità.
Oggi la cosiddetta ‘’Fotografia in movimento’’ esiste sotto forma di video, cinema, videoclip musicali, spot pubblicitari. Sicuramente ciò che accomuna il video al cinema al video clip musicale è sicuramente l’interesse che suscitano. Esce un nuovo film? Io regista, come posso far conoscere al mondo o comunque al mio pubblico che il mio film è pronto per essere mostrato? Tramite la pubblicità (nel caso del film parliamo di trailer). La pubblicità è entrata nelle nostre vite e continua ad essere presente in qualsiasi campo la si utilizzi. Sicuramente non esiste solamente la pubblicità visiva, ci sono anche spot alla radio che funzionano ma sicuramente questi non battono la concorrenza di uno spot pubblicitario alla tv o sottoforma di cartellone pubblicitario. Risulta impossibile individuare il momento in cui si è avuta la prima forma di pubblicità. Le insegne poste sopra le botteghe già all’epoca dei Greci e dei Romani, le descrizioni fatte dai venditori ambulanti, sono sicuramente esempi di comunicazione finalizzate alla promozione di beni e servizi. Ma è con l’invenzione della stampa a caratteri mobili realizzata da Gutenberg nel XV secolo, che nasce il presupposto della pubblicità moderna. Solamente dopo la metà del 1800 in concomitanza con l’espansione dell’economia determinata dalla
Il primo “spot” pubblicitario compare in tv nel 1941 negli Stati Uniti per pubblicizzare un noto orologio. Lo spot è della durata di 10 secondi. In Italia la pubblicità arrivò il 3 febbraio del 1957: l’idea fu quella di realizzare un’unica trasmissione serale della durata di 10 minuti, collocata tra il telegiornale e il programma di prima serata, chiamata Carosello. In totale furono trasmessi 7.261 episodi. Consisteva in una serie di filmati seguiti da messaggi pubblicitari. Carosello non era e non poteva essere solo un contenitore di messaggi pubblicitari: erano predeterminati il numero di secondi dedicati alla pubblicità, il numero di citazioni del nome del prodotto, il numero di secondi da dedicare allo “spettacolo”, la cui trama doveva essere di per sé estranea al prodotto. Per una legge allora vigente non era concesso fare della pubblicità all’interno di alcuno spettacolo televisivo serale e nemmeno prima di un intervallo di novanta secondi dall’inizio del medesimo. «Carosello è stato un momento altissimo nella storia della pubblicità - spiega Vicky Gitto, presidente e capo del settore creativo di Young & Rubicam Italia -. Quella trasmissione ha anticipato quello che oggi
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chiamiamo “Branded Content”, ovvero contenuti non pubblicitari ma nei quali i marchi rivestono comunque un certo ruolo».
uno spot. In definitiva maggiore è la quantità d’informazione presentata in un breve lasso di tempo e minore è la quantità di ricordo che ci si aspetta. Il ricordo di uno spot è determinato dalla sua posizione seriale.
Ma che cos’è di preciso lo spot pubblicitario? Lo spot pubblicitario rappresenta un messaggio della durata media di 90 secondi inteso a promuovere la vendita o il noleggio di un prodotto o di un servizio, a sostenere una causa o un’idea o a generare qualche altro effetto nei confronti dell’inserzionista. La durata può essere anche inferiore a quella media. La tecnica narrativa utilizzata è spesso quella del racconto, realizzato sia con tecnica elettronica che cinematografica. Più uno spot è lungo, più probabilità ha di essere appreso e quindi ricordato. Ciò è coerente con l’ipotesi del tempo totale secondo la quale l’ammontare di quanto appreso è una funzione diretta del tempo investito nell’apprendimento. Spot più lunghi hanno più opportunità di essere seguiti e di essere processati, aumentando quindi la possibilità di apprendimento da parte dello spettatore. Ma non si deve esagerare con la quantità di informazioni: una persona non può processare più di una limitata quantità di informazioni in quella che comunque rimane pur sempre una breve quantità di tempo, in special modo se questa persona non è molto interessata o non riesce a comprendere bene
Tale posizione seriale è definita a sua volta da due parametri: - La posizione seriale ordinale: spot posti all’inizio vengono ricordati meglio, perché subiscono solo un’interferenza retroattiva da parte del resto del blocco (effetto Primacy); spot posti alla fine vengono ricordati meglio, perché subiscono solo un’interferenza proattiva da parte del resto del blocco (effetto Recency); spot posti nel mezzo vengono ricordati peggio perché subiscono sia l’interferenza retroattiva sia quella proattiva; - La posizione seriale timelag (cioè il tempo trascorso dall’inizio dell’interruzione pubblicitaria): via via che trascorre il tempo diminuisce anche l’attenzione e conseguentemente la capacità di rammentare (teoria del decremento dell’attenzione) – questo effetto è particolarmente comune in condizioni naturali, poiché i telespettatori tendono ad essere più interessati ai programmi che non alla pubblicità. Il primo spot che riguardava la pubblicità di un’automobile mandato in onda in Italia
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dal Carosello fu quello della Fiat 500 del 1957.
memoria a lungo termine, e le ultime perché restano nella memoria a breve termine. Spot posti nel mezzo vengono ricordati peggio perché subiscono sia l’interferenza retroattiva sia quella proattiva;
Effetto Privacy : Nel 1946 lo psicologo di origine polacca Solomon Asch mise in pratica un famoso esperimento in cui presentava ai protagonisti dello studio la seguente lista di aggettivi: intelligente, intraprendente, impulsivo, critico, ostinato, invidioso. Questo elenco veniva letto alternativamente in quest’ordine oppure in quello opposto, e ai protagonisti dell’esperimento veniva successivamente chiesto di dare una valutazione di un immaginario individuo che rispondesse alle caratteristiche che avevano appena ascoltato. Le risposte evidenziarono che, quando i primi aggettivi ad essere letti erano quelli più positivi, la persona veniva valutata in maniera migliore rispetto a quando l’ordine di presentazione era quello inverso. Su questa base, Asch concluse che gli elementi presentati per primi risultavano essere più influenti degli altri nel determinare il giudizio complessivo.) Spot posti alla fine vengono ricordati meglio, perché subiscono solo un’interferenza proattiva da parte del resto del blocco (effetto Recency) ossia la tendenza a ricordare solo la parte finale di un discorso o di un elenco di elementi che ci vengono sottoposti. A livello psicologico, l’effetto recency si spiega con il permanere nella memoria a breve termine solo delle informazioni acquisite più recentemente. Ci ricordiamo quindi più facilmente le prime informazioni perché entrano a far parte della
Sicuramente al giorno d’oggi gli spot televisivi che sono più trasmessi sono quelli che riguardano la vendita di automobili. Questi spot sono inseriti ovunque, tra un tempo e l’altro di una partita di calcio, tra una trasmissione e l’altra, nella raccolta pubblicitaria che precede l’inizio di un film al cinema e ultimamente anche su YouTube o Vimeo. “Scattante, veloce, tiene la strada benissimo...”, il linguaggio dello spot sembra banale, ma alcune inquadrature, il modo di comunicare la praticità di un’utilitaria e i suoi spazi erano invece già rivolti al futuro e sicuramente hanno contribuito al successo di questa mitica quattro ruote. E proprio riguardo a questo proposito ho deciso di trattare nel progetto uno spot pubblicitario non a fini commerciali ma solo rappresentativi.
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CONCLUSIONI
strare che per la composizione di un video o un film, ci sarà sempre bisogno della fotografia, dall’inizio alla fine. L’una genera l’altro. Se il video fosse semplicemente fotografia in movimento, senza la fotografia stessa, il video non potrebbe esistere. Questo concetto inizia dalla creazione della fotografia, che crea nuove forme d’arte. Viene creata ed è essa stessa la creatrice: è tutto un susseguirsi. L’arte crea altra arte. Tuttavia, nel momento in cui l’arte viene usata a scopi commerciali perde il suo valore poetico, per esempio nello spot pubblicitario; ma, nella creazione di uno spot pubblicitario abbiamo comunque bisogno di un team, una location, riprese, ecc. tutto per andare a confluire in quel che è, o era prima di essere commercializzata, una grande forma d’arte: la fotografia. Quando guardando uno spot pubblicitario non rimane nulla allo spettatore, se non la natura del prodotto venduto, significa che il commerciante ha raggiunto il suo obiettivo, ma non l’artista. Il lavoro di un artista è stato soppiantato dalla dura legge del mercato. In conclusione, è possibile scorgere il vero significato della fotografia e aprire l’ermetica scatola in cui un’opera d’arte, un’espressione o un’immagine sono contenute solo grazie ad artisti che apprezzano questa arte così com’è, pura e semplice. Senza ulteriori fini o ambizioni. La fotografia, “ancella di tutte le arti” è l’arte per eccellenza.
Come potete vedere dall’impaginazione del mio elaborato, ho aggiunto due elementi alla parte scritta ovvero un colibrì e un particolare tipo di lepidottero appartenente alla famiglia Sphingidae, la sfinge del galio o in termine scientifico Macroglossum Stellatarum. A primo impatto può sembrare che questi disegni siano stati messi al solo scopo di riempire la pagina, per decorare o per coprire eventuali spazi vuoti. In realtà è una scelta mirata collegata perfettamente all’argomento e al titolo del mio elaborato. Che cos’hanno in comune la staticità e il dinamismo con un colibrì e con la sfinge del galio? I colibrì o meglio scientificamente parlando,i trochilidi sono una famiglia di uccelli dell’ordine Apodiformes, che comprende 342 specie. Hanno l’abilità di poter rimanere quasi immobili a mezz’aria, capacità garantita dal rapidissimo battito alare (dai 12 agli 80 battiti al secondo, a seconda della specie). Ecco : capacità di rimanere immobili ovvero nel loro dinamismo rimangono comunque statici. Staticità e Dinamismo nello stesso identico momento. Stesso discorso vale per la sfinge la quale batte velocemente le ali ad una frequenza di 70-80 volte al secondo. All’apparenza quindi
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BIBLIOGRAFIA
SITOGRAFIA
Corso Completo di Fotografia Vol. 2 - Tecniche Fotografiche
www.phototutorial.net www.fotochepassione.com
Corso Completo di Fotografia Vol. 3 - Paesaggi
www.fotografareindigitale.com
Corso Completo di Fotografia Vol. 4 I Ritratti
www.fotografareindigitale.com www.wikipedia.org
Corso Completo di Fotografia Vol. 5 Bianco e Nero
www.aranzulla.it
Susan Sontag Sulla Fotografia
www.pixelsquare.it www.tecnicafotografica.net
Giuseppe Marcenaro Fotografia come Letteratura
www.abfotografia.it
Manuale di Fotografia Digitale
www.fotografareindigitale.com Le foto provengono tutte da www.Wikipedia.com
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Ringrazio con sarcasmo chi non ci ha mai creduto, Col cuore sincero abbraccio chi mi ha sempre sostenuto.