S T O R I A D E L L A M U S I C A I II III
L' origine e storia della musica Funzioni sociali della Musica Musica come linguaggio
COMUNICARECONSUONO&FORMA
Il senso della Musica: IV V VI L
Suono o rumore ? Paesaggio sonoro Forma nella Musica '
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Teoria del colore: VII VIII
Psicofisica del colore Simbolismo del colore
Teoria della percezione: IX X
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La scuola della Gestalt I testi illeggibili di David Carson
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XI XII XIII XIV
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NICK MASON: Interstellare per caso BILL LASWELL: Dietro le quinte della musica JON HASSELL: Suono, musica e realismo magico JEAN-MICHEL JARRE: L' ambasciatore elettronico
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OLARUF ARNALDS: polistrumentista JUSTINE VERNON: Folk-Rock RYUICHI SAKAMOTO: perimentatore, poeta + + ALVA NOTO Paul Kalkbrenner: il capofila ipnotico Berlin Calling
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Prima di affrontare l’ argomento specifico ritengo opportuni alcuni accenni sull’ origine e la storia della musica nonchè alle sue relazioni con gli altri linguaggi ed espressioni grafiche. La prima musica nacque nella improvvisazione della voce o di qualche strumento. Non c’ erano “note” ma “suoni”. L’ apparente tautologia proposta dal Koechlin ( La Musica è l’ arte che si esprime per mezzo di suoni ) implica l ‘unicità dell’ arte. Infatti, per quanto riguarda l’ origine del termine, si vuole risalire al greco “musa” ( nome generico di ciascuna delle nove mitiche protettrici delle arti ) da cui in un primo tempo derivò il termine “musica” come aggettivo, con cui si indicavano tutte quelle attività sacre alle Muse ( anche la poesia, la danza, etc ). Solo molto più tardi il termine “musica” assunse valore di sostantivo per indicare la teoria acustica e musicale. Scienziati dell’ antichità ne ravvisarono la natura essenzialmente matematica e l’ accostarono al mondo ideale dei numeri e dei pianeti ( armonie delle sfere ). Questa teoria fu elaborata dalla scuola pitagorica verso la metà del V secolo a. C. e variamente trattata da pensatori greci e latini ( Platone, Cicerone, Plinio, etc ). A Boerio si deve una nuova classificazione della Musica a cui fece riferimento tutta la trattatistica medievale. Boerio distinse la musica “mondana”, ossia “l’ armonia delle sfere” dalla Musica “humana” cioè l’ armonia psichica, la musica dell’ anima. Cassiodoro propose la divisione della musica in scienza armonica, ritmica e metrica. Con l’ Umanesimo la nuova tendenza è di assumere a modello le opere musicali per studiarne le strutture e desumerne le leggi fondamentali. Come scienza la Musica viene accostato non tanto alla Matematica, quanto piuttosto alla Medicina, poichè il medico oltre che della terapia del corpo, deve occuparsi anche dell’ equilibrio spirituale del paziente. Nel Rinascimento si considerò il fenomeno acustico, connesso ai suoi riflessi psicologici, con un atteggiamento naturalista. Nel primo Rinascimento in poi, si attribuisce un’ importanza fondamentale nell’ attività compositiva. Tale attività fu detta “poetica”, ben distinta da quella “teorica” e da quella “pratica”. Nella seconda metà del Cinquecento la musica poetica s’ irrigidì a canone scolastico, dando origine ad una specie di manierismo musicale.
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Nel 1552 Adriams Codicus introdusse il concetto di Musica “reservata”, per indicare un genere di musica raffinata, celebrale, contrapposta a quella “comune” di più facile comprensione. Nel sec. XVII la Musica “reservata” si evolse nella cosiddetta “Teoria degli affetti” cioè di un rapporto diretto tra Musica e animo umano. Nell’ Illuminismo la “Teoria degli affetti” si arricchì del concetto di “gusto” e giunse fino alla soglia del Romanticismo, determinando la nascita dei una sorta di retorica musicale che individua gli strumenti tecnico-linguistici atti a suscitare sentimenti e emozioni nell’ ascoltare. La retorica musicale ebbe nella musica di J. S. Bach, la più perfetta applicazione. Il razionalismo sei-settecentesco orientò il pensiero scientifico e filosofico in senso matematico e meccanistico. Il concetto di Musica assunse a poco a poco caratteri definitivi: si diede maggior rilievo all’aspetto scientifico, mentre nasceva una vera e propria filosofia dell’ arte musicale, non limitandosi gli studiosi a considerare la sola estetica. Fra l’ Ottocento e il Novecento il suddetto concetto di Musica, non si è sostanzialmente mutato ma, piuttosto, si è arricchito di implicazioni culturali, pratiche, anche sociali e politiche.
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Capire la musica è un’ operazione attiva dell’ intelligenza e della memoria attentissima l’ una a cogliere e l’ altra a ricordare tutti inessi e i rapporti che legano nel tempo le labili apparizioni sonore. E’ una collaborazione attiva, che implica necessariamente una tensione mentale e quindi una fatica diversamente dall’ antica opinione che la musica sia un godimento passivo una distensione e un abbandono alla fantasticheria irresponsabile. In verità la musica non produce sol tanto un effetto calmante, ma molti altri, come ben sapevano i Greci che li avevano accuratamente vagliati e catalogati, distinguendo nella musica. Il carattere eroico, eccitante, quello snervante, paralizzatore della volontà e quello inebriante, estatico. Sembra che questa efficacia attiva della musica sulla volontà e sui centri nervosi dell’ uomo sia diminuita nei tempi moderni, in confronto ai racconti stupefacenti che ne tramandarono i Greci. Tuttavia, si dice che alla prima esecuzione del poema sinfonico di Strauss, “Vita d’ eroe” il grandioso episodio che rappresenta una battaglia, abbia comunicato agli ascoltatori una tale eccitazione, che molti balzarono in piedi, brandendo i loro ombrelli e poco mancò che si azzuffassero gli uni con gli altri. Questa facoltà della musica di produrre impressioni in chi l’ ascolta, fantasticherie e magari determinazioni della volontà è una realtà che non si può negare, ma è una realtà accessoria e accidentale che non ha nulla a vedere con la natura artistica della musica. Di detta attitudine della musica, tengono il debito conto coloro che hanno interesse a valersi della musica per fini pratici, anzichè per gusto dell’ arte e da qui discendono le varie funzioni sociali della musica: nelle chiese ci si vale di preludi d’ organo e armonie vocali, atti a indurre nello spirito dei fedeli una disposizione al devoto raccoglimento; negli eserciti si sperimenta sempre l’ efficacia di una vivace marcia a rialzare il morale e rinvigorire il portamento dei soldati affaticati per una lunga marcia; nei locali notturni si suonano e cantano musiche, i cui caratteri ritmici, melodici e strumentali sono indirizzati a promuovere il consumo degli alcolici. Da tali funzioni sociali della musica atti a produrre determinati effetti sulla disposizione psicologica dell’ uomo, risulta evidente la differenza di comportamento in chi ascolta la musica per se stessa, attento ai valori artistici che essa racchiude. L’ atteggiamento passivo, di chi abbandona alla vaga produzione d’ immagini piacevoli suggerite dai suoni, non è l’ atteggiamento del buon ascoltatore, ma è l’ atteggiamento del consumatore di musica nella sua funzione sociale; l’ atteggiamento del devoto che dai suoni si lascia indirizzare il pensiero verso un pio raccoglimento, del soldato che allunga il passo, raddrizza la schiena e spinge in fuori il busto, quando la banda attacca il suo ottimistico repertorio, del nottambulo a cui le canzonette e bullabili servono da eccitante. A nessuno di costoro interessa la musica per se stessa, come valore, ma tutti chiedono alla musica qualcosa che la oltrepassa, che sta dopo e fuori di lei; e la musica subisce come una specie di sortilegio senza nessun contributo attivo del loro spirito.
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Il legame, direi quasi ancestrale, tra suono e linguaggio è l’ onomatopea, cioè la formazione di una parola che imiti un suono o ne evochi il significato. Persino le deplorevoli “parolacce”, che oggi sono sulla bocca di tanti giovani (e anche meno giovani) hanno il suono aspro e stridente della ribbellione, della contestazione, del male di vivere. A questo punto il discorso si allarga e investe il campo della sociologia. La musica è spesso l’espressione, forse la più genuina di uno stato d’ animo di avversione e di rifiuto delle nostre istituzioni, del nostro stesso modo di pensare e di comportarci. Le ragioni della predilezione dei giovani per la musica leggere ( rock, pop e folk ) debbano ricercarsi nel fatto che questa musica, spesso creata da compositori non di professione, ma dai giovani stessi, rispecchia nel modo più immediato, fuori d’ ogni impegno artistico, le inquietudini, le velleità, le aspirazioni confuse della gioventù. Ricordiamo quando 200.000 giovani “beat” d’ ogni paese d’ Europa e America sono convenuti nell’ isola di Wight in Inghilterra per partecipare ad un festival di musica leggera in cui ha cantato il loro idolo Bob Dylan. Di questa è anche di tante altre manifestazioni giovanili, la musica è solo una componente ma non così spregevole come certi censori vanno predicando. Ascoltando alcune canzoni dei Beatles, che possono ormai considerarsi “classici” nel loro genere, non si può non rimanerne colpiti. Essa è, senza dubbio, una forma minore di musica che attiene all’ arte popolare, ma che pure ha un suo valore e un suo significato. Se si ascoltano i complessi musicali più noti si giunge alla conclusione che i Beatles, come compositori ed esecutori, sono di gran lunga i migliori di tutti, Inglesi e Americani. Soltanto Dylan può essere paragonato ai Beatles per il modo in cui combina le proprie doti di compositore, poeta ed esecutore. In questo rapporto tra musica e linguaggio, non sono da sottovalutare i parolieri. Essi danno un apporto paritetico a quello dei musicisti.
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uando ascoltiamo o produciamo musica in realtĂ stiamo mettendo in gioco la nostra identitĂ , fatta di gusti, vissuti, pratiche. Un ascolto musicale diventa occasione per ricordare, per provare emozioni, per muoversi, per provare sensazioni o per evocare immagini.
el 1986 il famoso psicologo M. Imberty individua 3 assi portanti nell' interpretazione musicale: un' asse cinetico, legato alla sollecitazione di stati propriocettividi movimento, uno iconico, connesso alla suggestione di immagine e uno relativo agli stati di integrazione/disintegrazione dell' io legato ai contenuti emotivi, cosĂŹ all' ascolto. n adattamento di tale modello utilizzato in una ricerca sui gusti musicali degli adolescenti ci permette di distinguere tra differenti stili di ascolto ricavati dall' individuazione delle relazioni esistenti tra le sensazioni veicolate dall' ascolto e quelle che vengono considerate essere per l' ascoltatore i tratti strutturali prevalenti, mettendo in luce come la nostra relazione con la musica venga vissuta con il corpo, con il cuore, con la mente.
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Ascoltare è un' attività umana importante proprio perché crea una connessione intima con le attività dinamiche della vita, sia umane che naturali. Infatti, da un punto di vista psicologico, noi non ascoltiamo tanto il suono per percepire un' evento sonoro in sé, con i suoni noi trasportiamo gli eventi della nostra coscienza. Apri una finestra e senza guardare fuori ascolta i suoni che provengono dalla strada. Passano in motorino e due automobili (uguali o diverse?), una porta sbatte, un cane abbaia passando sotto la finestra, due persone parlano. "Suono" significa "eventi che accadono": tutti i suoni sono il risultato di un' azione dinamica. Nell' istante in cui li percepiamo
i suoni, che cogliamo nella loro globalità, provocano in noi reazioni emotive: ciò che ascoltiamo può risultarci gradevole o sgradevole, possiamo riconoscere le voce o l' automobile di una persona cara e gioire nel dedurre che sta arrivando, o viceversa sentirci oppressi della quantità e dall' intensità degli eventi sonori, o ancora essere disturbati da un' interferenza che ci impedisce la
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Quando gli eventi sonori ci risultano fastidiosi li chiamiamo "rumori", mentre per contrasto tendiamo a definire "suoni" quelli che ci piacciono. La distinzione "suonorumore" è dunque soggettiva e lo stesso evento sonoro può ricadere nell' una o nell' altra categoria: il motore dell' automobile di una persona che aspettiamo, appunto, ci è gradito, ma se un' altra automobile passa sotto le nostre finestre svegliandoci non ne siamo felici; un' esecuzione pianistica può incantarci quando la ascoltiamo in concerto ma apparirci un rumore se il nostro vicino suona a notte fonda.
Le distinzioni distintive di suono e rumore non sono né scientifiche né oggettive. "Il suono è il risultato di una vibrazione regolare, il rumore di una vibrazione irregolare". Sul piano fisicoautistico la distinzione basata sulla regolarità/ irregolarità della forma dell' onda sonora è superata, in quanto ciascuna onda contiene fenomeni regolari e irregolari, anche se in misura diversa. "I suoni sono quelli musicali, tutto ciò che non è musica è rumore". Gli eventi sonori che in una cultura vengono considerati musicali, diventano rumori per un' altra:
basti pensare che nelle culture Africane per "abbellire" il suono si aggiungono ronzii attraverso sonagli fissati ai tamburi, mentre noi preferiamo suoni più puri e dal timbro uniforme.
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Fin dai primi momenti di vita e addirittura della nascita siamo immersi in ambienti acustici, che sicaratterizzano non tanto p e r “qu a l i” o “qu ant i” eventi sonori sono presenti, ma piuttosto per quella particolare configurazione sonora che è la risultante della loro organizzazione spaziotemporale. Nei primi mesi di vita si impara a
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costruire oggetti sonori in base all’ esperienza, attraverso un processo di categorizzazione che fa riferimento a l “gesto s o n o r o ”, o s s i a al processo fisico di produzione degli stimoli acustici (FONTE¹: Zanarini, 2002). La costruzione dell’ oggetto sonoro è un passaggio fondamentale verso la parola: basti pensare al caso molto frequente in cui un bambino indica un animale imitando il suo verso (“bao” al posto d i “c ane” ) . L’ a t t e n z i o n e e l’ esercizio influenzano le modalità della percezione: ciò che a un ascolto spontaneo si presenta in modo globale come un oggetto unitario e
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stabile può venire percepito in modo analitico come una miscela di elementi con evoluzioni temporali diverse. Murray Schafer (1985) ha inventato il neologismo “soundscape” per indicare la “v it a s onora” di quell’ insieme di oggetti per il quale usiamo comunemente il termine “paesaggio” quando scattiamo una fotografia. In italiano il termine è stato tradotto con l’ espressione “paesaggio s o n o r o ”. Automobili, ciclomotori, stormire delle fronde possono caratterizzare sia una strada di campagna che di città, ma la qualità dei due paesaggi sonori èsostanzialmente diversa: nella prima gli
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sono diradati nel tempo e raramente sovrapposti, mentre nella seconda sono frequenti e spesso simultanei, fino a fondersi in fasce così dense da rendere impercettibili i suoni più deboli, come ad esempio lo stormire delle fronde.
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“L’ aspetto di un oggetto, sufficiente a caratterizzarlo esteriormente”. É
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attraverso
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Noi qui ci occupiamo di come possa essere colta la forma di una musica, di qualcosa cioè che recepiamo attraverso l’ udito, anche se la metafora visiva resta comunque latente: ad esempio per la filosofa Susanne Langer (1965) la stessa essenza della musica può essere definita come un movimento di forme, non visibili, offerte all’ udito invece che alla vista. In musica, per forma s’ intende la divisione di un brano per parti e l’ organizzazione dei rapporti tra queste parti: un organismo unitario che rappresenta qualcosa di più che la somma delle sue parti, in quanto dà coerenza e logica al discorso musicale. Il concetto di forma risulta così funzionale, sia nelle attività di fruizione, intese come capacità di comprendere all’ ascolto il funzionamento di un brano, sia a quelle di invenzione ed esecuzione, attraverso una più consapevole scelta tra le diverse opzioni progettuali e interpretative. La percezione della forma ha luogo nel tempo, un tempo che nell’ esperienza risulta irreversibile e unidirezionale, colto mettendo in gioco processi legati all’ attenzione, alla discriminazione, alla memoria, ma anche all’ esperienza e alla familiarità con i generi ascoltati. Deriu (2004) prova a sintetizzare così le principali componenti della nostra capacità di dare senso alla forma: saper segmentare così da poter individuare elementi fondamentali come temi o ritmi rapporti tra strumenti e riconoscere il loro rappresentarsi; saper identificare le funzioni svolte dalle diverse parti individuate all’ interno del discorso musicale come ad esempio l’ introduzione o la coda, la presentazione di un nuovo elemento oppure lo sviluppo, esplicitandone le strategie retoriche ed espressive; saper collocare un brano nel contesto socioculturale di produzione, l’ epoca o lo stile, nel loro attuale contesto d’ uso. Salvatore Sciarrino (1998) parla di figure della musica, istituendo così parallelismi tra comunicazione visiva e musicale: Quando ascoltiamo con attenzione, il nostro orecchio segue i suoni nel loro aggregarsi. Ci colpiscono alcuni raggruppamenti più caratteristici: tutte le volte che ritornano li riconosciamo e distinguiamo varie zone nel corso di una composizione, anche a un primo ascolto.
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al medesimo grado di rifrangibilità appartiene sempre il medesimo colore e al medesimo colore appartiene sempre il medesimo grado di rifrangibilità. I raggi minimamente rifrangibili sono tutti atti ad esibire il colore rosso e, inversamente quei raggi che sono atti ad esibire il colore rosso sono tutti minimamente rifrangibili. Analogamente, i raggi massimamente rifrangibili sono tutti atti ad esibire un tale colore violetto cupo e, inversamente quelli atti ad esibireun tale colore violetto sono tutti massimamente rifrangibili. Allo stesso modo, ai colori intermedi disposti in una serie continua appartengono gradi intermedi di rifrangibilità. E questa teoria tra colori e rifrangibilità è assolutamente esatta e rigida.
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Nella definizione del colore, bisogna considerare fattori di tre ordini: ordine fisico, in relazione alle caratteristiche delle radiazioni luminose ed alla natura dei corpi, di ordine fisiologico, in relazione alle caratteristiche ed alla modalità processuali del sistema visivo ed infine di ordine psicologico in relazione a quella che potremmo definire esperienza del Colore in senso lato. Sono diversi i parametri che vengono abitualmente impiegati nella lettura del fenomeno cromatico, parametri che in genere vengono applicati indistintamente sia agli aspetti fisici sia a quelli fenomenici del colore: tonalità (la vicinanza al colore puro), saturazione (la distanza dalla massima luminosità del colore), luminosità (capacità di riflettere la luce). É inevitabile che quanto più si approfondiscono determinati aspetti in sede di applicazioni, tanto più il discorso si specializza a livello di specifici campi disciplinari. Oggi abbiamo a disposizione una quantità di mezzi a luce soffusa legati alle tecnologie elettroniche. Effettivamente esiste una tradizione ancora limitata di studi sui "nuovi colori" dell' elettronica; dovremmo soprattutto considerare che la tradizione di impiego dei colori, codificata ormai a livello simbolico, fa riferimento a una storia fatta per la stragrande maggioranza di colori a luce riflessa, realizzati con pigmenti. La differenza è comunque sostanziale: lavorare coi pigmenti significa lavorare con tinte a luce riflessa, che assorbono tutti i colori riflettendo solo quello che caratterizza la loro superficie. Per questo si parla di sintesi sottrattiva: perché il pigmento sottrae tutte le gamme cromatiche ecceto quella che riflette. I colori primari, in questo caso, sono rosso, blu e giallo. La loro somma da il nero o, più realisticamente, il grigio scuro. La sintesi additiva riguarda invece le mescolanze di luci colorate: si chiama additiva proprio perché in questo casi si assiste a una sommatoria delle emissioni luminose. In tale sintesi i colori fondamentali sono rosso, blu, con il verde al posto del giallo; mentre la somma dei colori da il bianco a evidente conferma della teoria di Newton. Infatti, aveva già mostrato come la luce solare passando attraverso un prisma si scomponesse nei raggi colorati all' inverso nel prisma si riotteneva la radiazione bianca. Ma per riottenere il bianco non è necessario impiegare tutti i colori dello spettro; in realtà sono sufficienti al massimo tre lunghezze d' onda lontane tra loro (bassa, media e alta) particolarmente nella gamma dei rossi, dei verdi, dei blu. Con opportune miscele da questi colori, variando anche l' ampiezza dell' onda, si possono ottenere tutti gli altri. Tra i diversi colori dello spettro e le rifrattività dei raggi che le producono c’è una stretta relazione così esposta da Newton:
È logico che i due sistemi debbano trovare una forma di integrazione, per permettere ad esempio una corretta azione nel campo della progettazione visiva, della grafica in una parola, dove alla fase progettuale scandita dai colori del computer segue spesso una fase produttiva basata sulla sintesi sottrattiva. Sono le schede grafiche a gestire queste relazioni, supportate da un codice di riferimento, il codice dettato dalla ditta statunitense Pantone, ormai monopolista nella gestione delle tinte cromatiche per l' industria tipografica; e il riferimento a sigle internazionalmente codificate permette di utilizzare colori che risultano invero profondamente mutati nella loro lettura a schermo, rispetto alla loro risoluzione su carta. Si vuole dire che sullo schermo, televisivo o del computer, il colore pensato per la luce riflessa subisce una forte deformazione in quanto indice in maniera diversa sull' occhio umano. In particolare, nota Ettore Sottsass, i colori dell' elettronica presentano una dominante azzurrina che di fatto li trasforma in nuovi colori, tinte inedite la cui letteratura e ancora tutta da identificare e così scrivere.
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Per quanto il colore sia percepito da tutti alla stessa maniera, all’ interno delle diverse culture esistono differenziazioni nelle preferenze cromatiche che in un certo qual modo costituiscono anche una conferma di stereotipi culturali affibbiati ai vari popoli. Il colore é d’ altronde uno dei settori nel quale meglio si applica l’ immediata traduzione in elementi simbolici (e quindi culturali) di questioni direttamente collegate alla nostra percezione. Con il colore cioè si nota comela nostra conoscenza, e i codici che impieghiamo per declinarla, abbiano origine nelle attitudini interpretative dei nostri sensi. Il rosso è il colore dotato della frequenza più alta del nostro spettro ottico: dopo di lui ci sono gli infrarossi. È un colore che colpisce con un certo impatto l’ occhio umano, provocando una stimolazione che si traduce in un aumento del battito cardiaco e della circolazione sanguigna, il che determina una sensazione di calore. Il rosso, dunque, eccita e si presta benissimo a essere il colore dell’ amore. Ma è anche il colore usato per avvertire con rapidità di un pericolo incombente, appunto per l’ eccitazione che esso provoca nella percezione visiva.
Così le segnaletiche stradali di pericolo e divieto sono tutte caratterizzate da quel colore, come nei nostri semafori ove il giallo assume valore di attenzione e il verde al contrario di permesso. Sono molti i simbolismi cromatici che ancora oggi permangono stabilmente nella cultura occidentale: peresempio, alla rosa rossa, che significa passione, si affianca quella gialla, che significa gelosiaTale attribuzione ha origini lontane: a ben vedere, nella pittura classica (da Giotto in poi) questo è il colore del mantello di Giuda. La scelta non è da attribuire alla somiglianza fra il giallo e il colore dell’ oro, che porterebbe a impiega lo stesso colore per esprimere il tradimento consumato da Giuda per trenta denari: la pittura gotica e rinascimentale abbonda in realtàdi fondi e particolari realizzati con la foglia d’ oro, che al contrario rappresentano proprio l’ espressione della gloria e della maestà divina. Non a caso, tre sono le rose che caratterizzano la Vergine Maria: quella rossa, che significa la passione di Cristo;quella bianca che sta per purezza e quella d’ oro, espressione della gloria della Madonna assunta in cielo. In realtà, il giallo possiede una caratteristica peculiare: è il colore che riflette maggiormente la luce, e da questo punto di vista è quindi quello maggiormente influenzabile col contesto che lo circonda; al mutare delle condizioni di luminosità, esso infatti tenderà a modificarsi. Questa caratteristica di instabilità “a seconda del vento che tira” può facilmente essere sfruttata come sinonimo di incostanza, e quindi di tradimento. Si tratta insomma di uno sfruttamento ironico di simbolismi tradizionali: rosso passione, giallo tradimento, blu purezza. La purezza del blu, che rimane ancora da spiegare, nasce dalla freddezza, dal distacco di quel colore: ed è sintomatico che mentre al giallo Itten attribuiscela forma triangolare, forma evidentemente dinamica, e al rosso quella quadrata (simbolo della terra), al blu collega il cerchio (simbolo del cielo: le sfere celesti).
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+ + + \ \ In tedesco, Gestalt significa forma: la scuola della Gestalt, o scuola di Berlino, in nome di questa definizione propose negli anni Venti una piccola rivoluzione nel modo di intendere l' attività percettiva umana. Da che mondo è mondo prima i filosofi, poi gli psicologi, si sono chiesti come avvenisse quel fondamentale meccanismo che permette all' uomo di introiettare dati dall' esterno attraverso i suoi sensi. Nel campo della psicologia sperimentale la situazione di inizio secolo, sulla quale si affaccia la teoria della forma, prevede un' impostazione atomistica-connessionista indotta dal rapporto tra stimolo-risposta patrocinato dai comportamentisti. La novità proposta da Koffka, Köhler e Wertheimer è sostanziale: essi ritengono che i sensi siano già capaci di svolgere un ruolo attivo, un ruolo che si esplica nell' interpretazione precategoriale della realtà e che fisicamente ha la sua zona di attuazione a livello di corteccia celebrale. I sensi hanno dunque delle propensioni, seguono delle leggi, rilevano in definitiva delle qualità formali all' interno del percepito: la "buona forma" che troverà un corrispettivo progettuale nel campo del basic design bauhausiano e ulmiano. Lo psicologo italiano Gaetano Kanizsa enumera una serie di "leggi" che permettono la percezione di una forma: la somiglianza, la vicinanza, la continuità di direzione, la direzionalità e l' orientamento, la chiusura; terminando con quel "principio della pregnanza" stabilito da Wertheimer che in pratica ci riporta al concetto di qualità, intesa come coerenza strutturale. Oltretutto, rivela Kanizsa, i diversi sensi seguono sostanzialmente le stesse leggi, magari in un diverso ordine di propensione: per esempio, per il tatto la buona continuazione è più importante della somiglianza, per la vista viceversa. È abbastanza logico però che molti studi si siano orientati soprattutto sulla vista, che fra tutti i nostri sensi è quello più potent, quello che arriva a distanza maggiore: seguono poi l' udito, l' odorato, il tatto e il gusto. Ma, in realtà, la stessa definizione di Gestaltqualität proposta da von Ehrenfels, nasce dall' osservazione di una qualità dell' udito. Notava infatti lo studioso che se all' interno di un motivo musicale mutiamo la chiave di esecuzione, il motivo non cambia e non perde la sua riconoscibilità. Lo sappiamo che ognuno di noi può canticchiare con la sua voce, cioè con un timbro e una chiave diversa, senza che per questo si perda il riconoscimento della medesima; Ma cambiare la chiave significa cambiare le note: quindi i costituenti elementari del brano. Se esso non muta allora vuol dire che l' elemento chiave per la percezione non sta tanto nei singoli elementi che la compongono quanto nelle relazioni fra gli stessi, cioè in una struttura nascosta che rappresenta una qualità, non una quantità: G
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La cosa più evidente nel suo lavoro è la rottura con le regole tradizionali della grafica, questo più che influenzare lavori azzardati o degenerati, dice Blackwell, può rendere i giovani grafici consapevoli del campo di sperimentazione che c' è fuori dalle vecchie griglie e conferirgli quel potere di cambiare le cose, perché il grafico è un creativo e in quanto tale crea e rigenera le cose. Blackwell osserva anche il fattore sociale dalle resistenze alle innovazioni, egli individua nell' uomo una naturale resistenza ai cambiamenti, l' uomo non accetta le innovazioni perchè ne ha paura, e infatti dietro le innovazioni c' è sempre lo sviluppo di massa, la nostra evoluzione. Nella grafica delle pagine di Beach Culture e Ray Gun Carson tenta di trovare un nuovo modo per consegnare l' informazione, cerca di coinvolgere il linguaggio grafico del video e del web e sperimenta una nuova forma di impiego del testo, facendolo diventare immagine. Sarebbe troppo facile definire Carson solo per i giochi di stile che ha utilizzato: cambiamento del corpo e dei caratteri, font insolite e personalizzate, ritagli e collages di pagine, errori, assenza di griglia. Nel tentativo di sconvolgere i rapporti tra gli elementi della pagina, con l' inserimento di questi disturbi visivi, egli non fa altro che portare nell' equazione editoriale le influenze del video e della comunicazione di massa, gli stimoli provenienti
dalla televisione, dai film, dalla pubblicità, dalla musica e dalle sottoculture all' interno delle quali egli stesso ha lavorato. Per questo il suo lavoro non si può ridurre solo ad un discorso di stile; se si trattasse semplicemente di applicare uno stile all' impaginazione, il significato e il contenuto svanirebbero,
invece il concetto che c' è dietro si rifà a un tipo di comunicazione che lascia degli spazi aperti al lettore. La differenza che c' è tra questo tipo di grafica e approcci di tipo più nazionalista è la stessa che ci può essere tra un dipinto astratto ed il diagramma di un
impianto elettrico: possono essere due immagini molto simili graficamente, ma una ha dei significati ben precisi, l' altra si apre a molte più possibilità di interpretazione. Probabilmente la coerenza del suo stile è il messaggio, allora dovremmo chiederci quale relazione esiste tra linguaggio visivo e quello verbale.
Noi siamo convinti di poter gestire il nostro linguaggio verbale in maniera del tutto trasparente, siamo consapevoli della conoscenza della nostra propria lingua e spesso non facciamo attenzione a come una cosa, a seconda di come ci viene detta può assumere molti
più significati di quelli espressi dalle parole. Sentirsi dire una cosa da una persona piuttosto che da un' altra, in un modo o in un contesto piuttosto che altri, influisce moltissimo sul concetto espresso, è la tipografia del linguaggio verbale. L' interprete del messaggio nella comunicazione, non fa altro che vestire ulteriormente le parole. Il designer può dunque essere a sua volta considerato l' interprete del messaggio scritto. Nel caso di Carson lo stile assume rilevanza nel concetto espresso, perché oltre a fornire l' informazione catalizza l' attenzione su come è presentata, sollecita il lavoro intellettuale del lettore fino a raggiungere una certa interattività comunicativa nella quale la cosa, più che semplicemente detta arriva arriva ad essere condivisa. Il suo lavoro ha sollevato critiche che lo definiscono illeggibile e lo incolpano di comunicare esclusivamente col suo target senza tener conto del fatto che l' informazione dovrebbe essere comprensibile per tutti. Diciamo che qui si può parlare anche di una questione di "scelta" da parte del lettore, perchè la comunicazione nel design non può mai essere del tutto assente, è comunicazione in qualsiasi modo essa si presenti e comunica effettivamente con tutti nel momento in cui viene visualizzata, al lettore resta la scelta di fermarsi a osservare, di farla propria e recepire il messaggio fermandosi proprio dove vuole lui. X
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Tra i gruppi musicali più prestigiosi, mi piace ricordare quello dei Pink Floyd, gruppo pop inglese vocale e strumentale, formato da Roger Waters (1944, basso e voce), Roger (Syd) Barrett (1946, chitarra), sostituito da David Gilmour (1944, chitarra e voce), Richard Wright (1945, tastiera e voce), Nick Mason (1945, batterista). A questo punto mi chiedo: al di là dell’ affinità musicale, cosa ha portato questi musicisti a costruire un gruppo che ha rappresentato uno dei capitoli più importanti della storia della pop-music ? Tante domande mi si affollano nella mente, tante curiosità che restano irrisolte. Nick Mason, il batterista del gruppo, in una intervista di alcuni anni fà, attribuisce a misteriose traiettorie astrali l’ incrocio del loro destino. In detta intervista, che voglio riportare integralmente, Mason non parla di musica, ma di come tutto è nato, chiudendo gli occhi e cercando di ricordare anche i più piccoli particolari.
Roger Waters si degnò di rivolgermi la parola solo dopo che avevamo studiato insieme al college per quasi un semestre. Un pomeriggio, mentre ero concentrato su di un disegno tecnico, cercando di estraniarmi dal brusio di una quarantina di miei compagni di architettura, l’ombra lunga e inconfondibile di Roger si proiettò sul mio tavolo da disegno. Sebbene avesse intenzionalmente ignorato la mia esistenza fino a quel momento,Roger aveva finalmente riconosciuto in me uno spirito musicale affine al suo, intrappolato nel corpo di un architetto in erba. Le traiettorie astrali della Vergine e dell’Acquario si erano incrociate segnando il nostro destino e spingendo Roger a cercare un modo per unire i nostri spiriti in una grande avventura creativa. L’istituto di architettura si trovava in un edificio che ospitava anche altri corsi collegati, ed era diventato un’istituzione molto rispettata dove l’insegnamento seguiva ancora metodi piuttosto tradizionali. Il docente di Storia dell’Architettura entrava in classe e disegnava alla lavagna una perfetta riproduzione della pianta del Tempio di Khons, a Karnak, e noi studenti dovevamo copiarla fedelmente, come si era sempre fatto da trent’anni. Malgrado ciò, la scuola aveva introdotto di recente la formula degli insegnanti “itineranti” invitando alcuni tra gli architetti più all’avanguardia, tra cui Eldred Evans, Norman Foster e Richard Rodgers. Chiaramente la facoltà era molto attenta alle convenzioni. Ero arrivato in quella scuola senza grandi ambizioni. Di certo ero interessato alla materia, ma non mi entusiasmava particolarmente l’idea di diventare architetto. Lo consideravo un modo come un altro per guadagnarsi da vivere. Ma, del resto, non passavo certo il mio tempo al college sognando di diventare musicista. Qualunque aspirazione adolescenziale al riguardo era stata messa in secondo piano con l’arrivo della mia patente di guida. Malgrado non fossi divorato dall’ambizione, il corso comprendeva numerose discipline, tra cui belle arti, grafica e tecnologia, che seppero fornirmi un’educazione piuttosto completa. Questo spiega forse il motivo per cui Roger, Rick e io abbiamo condiviso, chi più chi meno, lo stesso entusiasmo per le potenzialità offerte dalla tecnologia e dagli effetti visuali. Negli anni seguenti ci saremmo occupati di tutto ciò che ruotava intorno alla nostra musica, dalla costruzione delle impalcature per le luci alla grafica delle copertine degli album, fino alla progettazione dello studio e del palcoscenico. La nostra preparazione tecnica ci permetteva di intervenire con osservazioni abbastanza pertinenti parlando con gli esperti. Per chi sia interessato alle connessioni più sottili, probabilmente questo interesse per l’unione di elementi tecnici e visuali lo devo a mio padre, Bill, regista di documentari.
Questo il percorso, attraverso il quale Nick Mason è arrivato a far parte dei Pink Floyd; simili o diversi i percorsi degli altri musicisti del gruppo, ma tutti determinanti, con l’ apporto dei loro talenti, alla creazione dell’ incredibile successo dei Pink Floyd. Costituitisi nel 1966, si distinsero, sin dai primi 45 giorni, per un ricerca musicale che li collocò al di fuori dei canoni dei gruppi di quell’ epoca. Tra i loro primi LP “The piper of the gates of Down” (1967) e A Saucerful of Segretets (1968) furono influenzati dalla personalità innovativa ma mentalmente instabile di R. Barrett, che uscì dal gruppo già nel 1968 e fu sostituito da D. Gilmour. Con Atom Heart Mother (1970) camniarono progressivamente rotta. Quella che fu definitiva dalla critica “musica cosmica” diventa più fluida ma sempre meno sperimentale, più attenta alla vendita dei dischi, ma meno originale. In questo periodo scrissero diversse colonne sonore per film. Essi stessi interpretarono un film per la TV, un concerto senza pubblico, seducente e terribile tra le rovine di Pompei (P. At Pompei, 1971). Il successo mondiale giunse con “The Dark Side of the Moon” nel 1973, un disco in perfetto equilibrio tra esigenze commerciali e raffinati brani pop. Sul finire degli anni settanta, il disco “The Wall” (1979) si dimostrò un lavoro meticoloso con tutte le caratteristiche “floydiane”, sebbene lo sperimentalismo puro sia ormai concluso. I testi trattano l’ incomunicabilità, la follia, le paure dell’ umanità. Nel decennio seguente è rilevante l’ abbandono di R. Waters che proseguirà una carriera solista. I Pink Floyd continuano con lavori sempre ineccepibili dal punto di vista tecnico, tuttavia la programmazione e la razionalità anno preso il posto di una vena creativa forse irrimediabilmente perduta. Hanno, tuttavia, uno dei capitoli più importanti della storia della pop-music.Pionieri della tecnologia applicata alla musica (verso la fine degli anni sessanta, usarono impianti quadrifonici nei loro concerti) e dell’ uso di effetti visivi e scenografici, i Pink Floyd sono anche maestri nella registrazione dei dischi. La loro musica ha fuso, in maniera magistrale beat, psichedelia e avanguardia con un uso sapiente dell’ elettronica e un senso di inquietudine presenti in molti brani; il gruppo ha saputo creare nel tempo un vero e proprio stile personale e inconfondibile.
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Dal funk al dub, dall' hiphop a l w o r l d b e a t, daisuoni acustici aquelli elettronici con alla base il jazz e un sano senso di spiazzante imprevedibilità confermano le qualità sonore del bassista Bill Laswell. La sua disponibilità ad assumere ri schi non ha eguali nel mondo della musica, è soprattutto la sua capacità ad unire voci apparentemente differenti a renderlo u n' a v a n g u a r d i s t a dell' improvvisazione. R i m i s s a r e, s m o n t a r e, r i c o s t r u i r e, d e c o s t r u i r e . Q u e s t o è i l l a v o r o d i Bill Laswell. P e r q u a l u n q u e m u s i c i s t a, poter getta re un occh io diet ro le quinte della musica p i ù r e c e n t e, m e t t e n d o mano ai nastri originali delle registrazioni di Bob Marley
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Nel lontano 1977 Hassell pubblica Vernal Equinox, opera superba che già mostra la grandiosità della sua creatività. La tromba è arcaica, l’elettronica è sfavillante, le percussioni sono meditative. Toucan Ocean apre all’insegna di una danza antica e moderna, tribale e naturale, che parla come potrebbe una spiaggia sull’oceano. L’album cresce lentamente, giungendo pian piano a vertici qualitativi impressionante. L’opener è solo un assaggio, poco dopo Viva Shona è un insieme di versi anlimaeschi mimati dalla tromba, percussioni soffuse, cinguettii e scampanellii. Una palude malarica, un caldo afoso, un insieme di grilli, mosche, miraggi, antichi riti avvolge Hex, sei minuti e mezzo di visioni allucinate, dove la tromba di Hassel è mutante, si lamenta e si contorce, lentamente, dimessamente, protagonista ma mai invasiva, mentre un destrutturato Funk da jungla prende forma, ambientale ed atmosferico. Più dilatato, arcaico e misterioso è il capolavoro Blues Nile, dieci minuti di silenzi e droni soffusi, di lamenti di tromba, di lento svolgersi del tempo. Sembra di ascoltare il suono dell’eternità, attraverso il racconto di altri mondi, lontanissimi, misteriosi, invenzione della mente ed eco di antenati ormai sepolti nelle sabbie, consumati dal caldo, mummificati nelle tombe. In uno splendido crescendo qualitativo, l’opera con la title-track giunge ad un maestoso canto di 22 minuti per sintetizzatore, tromba e percussioni: un viaggio arcano, dove il sintetizzatore si muove lentissimo, eterno e cosmico, mentre la tromba blatera, balbetta, si lamenta e le percussioni sempre discrete, appena percettibili, colorano lo sfondo, richiamano l’idea di umanità, di tempo che scorre. Il tempo eterno, il tempo dei mortali e lo struggimento costante, sono le tre componenti di questo capolavoro che racconta l’umanità in modo magnifico, con religiosità, misticismo, mistero, eleganza. Eterno, mortale, emotivo si fondono come dinanzi ad una ammirazione divina, seppure in Hassel permangano mistero, malinconia ed una sottile inquietudine. Hassell è uno dei grandi maestri della tromba, strumento che rese adatto a trasmettere lamenti, riprodurre versi di animali, capace con lui di tessere trame arcane, remote di realtà frutto della fervida imaginazione dell’uomo, con il suo clima misterioso e una porta sempre aperta alla fantasia dell’ascoltatore rendono Hassell un pittore della musica, la tromba come penello per delineare spazi immaginari ma coinvolgenti. Storicamente, riuscì in una fusione di tradizioni differenti: il raga indiano, la musica percussiva, il Jazz più visionario, la musica Classica (soprattutto il minimalismo). Ma, sicuramente fece largo uso delle avanguardie della musica elettronica, aumentando la modernità e l’originalità della sua musica e giungendo spesso a sonorità che anticipavano di qualche lustro i più beceri imitatori. Jon Hassel è stato uno dei massimi esponenti della musica statunitense degli anni ’70 ed ’80. A cavallo di queste due decadi ha perfezionato un linguaggio musicale che è progenitore della world music ma che è in definitiva, più che una ispirazione a diverse realtà musicali e geografiche, una musica di mondi possibili, immaginari, fantasiosi, dove le varie tradizioni si uniscono in modo fantastico, in un “realismo magico”, citando il titolo di un album del 1983. ORNITORINCONANO
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piccolo lionese che si affacciava sul balcone di casa al passaggio delle orchestre circensi; l'imberbe pittore che si lambiccava con campiture stese su tele silenziose sognando i colori di onde musicali; l'acerbo chitarrista militante in un'improbabile rock band di liceali non lasciava certo presagire quel destino di nume tutelare del synth-pop, fenomeno musicale di massa che avrebbe segnato gli ultimi decenni del ventesimo secolo, al quale il suo
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++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++ ++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++ ++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++ ++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++ ++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++ Contaminato dagli effluvi sonori dei vicoli lionesi, traboccanti di fanfare orchestral-jazz, trascorre l’infanzia giocando con i ferri elettrizzanti di un primitivo mixer. Sono questi gli anni in cui trasporta l’idea di una musica descrittiva di per sé, senza l’utilizzo di parti vocali, nel lavoro più importante della sua vita: "Oxygene". Scomposto in sei parti, il mood contemplativo e tediato domina qualsiasi spiraglio di solarità, narrativa acustica e sprizzante. Miscelando paesaggi a tratti naturali e atmosfere spazio-centriche, Jarre semplifica e sintetizza melodia ed orchestralità, senza spingersi in quell’atonalità di matrice tedesca. Il suo gusto ricercato ma non elitario, gli permette di farsi ricordare come un ambasciatore della musica elettronica.
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' a m b a s c i a t o r e l e t ro n i c o nome continua ancora oggi a essere associato, tanto in senso dispregiativo che laudativo.All'anagrafe, quella di Jean Michel Jarre sembrerebbe la tipica vita del figlio d'arte predestinato a calcare le orme paterne, se non fosse che Maurice Jarre l'avrebbe abbandonato all' età di cinque anni per seguire a Hollywood la sua carriera di compositore di colonne sonore e rifarsi una seconda famiglia. In qualche modo sarà l'assenza della figura paterna a evitare che Jarre ne assimili passivamente l'ascendente artistico, lasciandolo libero di avventurarsi in solitaria nei territori inesplorati delle avanguardie musicali così distanti dal sinfonismo classico delle più celebri partiture del genitore, e alimentando al contempo quella vena melanconica e mistericamente introspettiva che diventerà la chiave dominante della sua opera matura.
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Alessandro Fantini
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circolazione, Olafur Arnalds è a tutti gli effetti uno dei massimi esponenti della scena neo-classica contemporanea. Dal debutto di “Eulogy for Evolution” del 2007, tra album, EP e un tour con i più famosi Sigur Ros, sono ormai trascorsi 6 anni, nei quali il giovane artista islandese si è mostrato autore duttile ed elegante, capace di attingere da una grande varietà di fonti sonore, di riuscire sempre nella ricerca di nuove soluzioni musicali, mantenendo intatto il suo stile unico e personale. La sua musica è elettronica sperimentale, piena di atmosfere diverse, carica di emozioni. Lui stesso la definisce “musica classica per un pubblico pop” anche se è più semplice ascoltarla che descriverla. Lascia infatti l’ascoltatore libero di percepire le connessioni che preferisce e di farlo ciascuno con la propria personalità. Il suo paese d’orgine ha sicuramente influenzato la sua musica, dato che lui stesso parla di una scena musicale molto coesa che lo ha sempre ispirato molto.Le sue sono musiche così intense che sembrano davvero provenire da una realtà quasi parallela,distaccata da quella routine “in ritardo” che tutti viviamo, infatti lui stesso preferisce comporre le sue canzoni di notte quando attorno a lui c’è silenzio e calma. Un artista e un compositore prolifico che deve tutto alla sua passione ed ad uno spirito da vero lavoratore. “For now I am winter”, una frase che sembra quasi una sentenza, è questo il titolo del suo ultimo lavoro. Le melodie sono sempre malinconiche, nostalgiche, intrise di atmosfere intime e sospese. La sua musica è fortemente evocativa, è facile ascoltarla e trovarsi come in una realtà parallela, perdere il senso del presente e scivolare in un mondo di fantasia o di ricordi. Le sue melodie dipingono immagini nitide e vive nell’animo dell’ascoltatore.Si sente il vento della fredda ed affascinante Islanda. È difficile scindere l’ascolto di una singola track dato che sembra un lavoro nato per essere ascoltato per intero,senza pause come se fosse un’unica instancabile melodia oltre che un’esperienza quasi mistica. Una lunga notte d’inverno a guardare il cielo stellato; la netta sensazione di distacco e nostalgia da quello che si sta vivendo; un momento senza tempo. Giulia Vecchioli
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È un portatore sano di bellezza, Justin Vernon, alias Bon Iver, nuovo astro della musica alternativa, autorevole e denso come un navigatore di lunga storia, anche se ha all’attivo solo due dischi, il secondo dei quali, l’eponimo Bon Iver, ha vinto due Grammy e lo ha lanciato in un una delicata stratosfera di successo. Che impone una notevole responsabilità perché di questi tempi non è comune imbattersi in una musica così ispirata, acuminata e potente. Questi sono gli attimi della creazione di un mito, il congelamento di un preciso intervallo di tempo e di un luogo, un iper-cubo spazio-temporale che ha per lati le pareti di una baita fuori da Eau Claire, nel Wisconsin e i mesi dell’inverno del 2006-07. Come accesa da una scintilla primordiale, la mente collettiva americana, e poi mondiale, ha celebrato la comparsa di un nuovo tassello nel proprio pantheon, aggiungendovi un pezzo bizzarro per la sua apparenza insignificante: una capanna di legno. C’è bisogno di conoscere le vicende Walden-iane di Justin Vernon, per apprezzare For Emma, Forever Ago? Naturalmente no. Ma è altrettanto naturale che, nella storia della gestazione del disco, non del tutto legata a quel “buon inverno”,si condensino in modo esplicito e tangibile tanti cliché artistici, facendo dell’isolamento l’habitat preferito dell’ispirazione umana, cosa probabilmente vera, peraltro, ma qui evidente e perfettamente riproducibile. Allo stesso tempo, si culla forse l’illusione che bastino una chitarra e qualcosa di più o meno doloroso da raccontare per fare un’opera d’arte: il troppo spesso abusato equivoco della musica cantautorale egli ultimi anni.
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ERICA ABI WRIGHT L ’ altramet à Nata a Dallas nel 1971, cresce insieme a un fratello e a una sorella allevata dalla nonna materna. La madre è un’attrice teatrale che per mantenere la famiglia deve impegnarsi in continue tournée in giro per gli Stati Uniti e il padre l’ha conosciuto appena. È in questo mondo dominato da donne forti e indipendenti, in questo affettuoso e creativo matriarcato che Erykah abbraccia una morale ricorrente nella sua vita e nella sua musica: che gli uomini possono essere inaffidabili, che il distacco e il cambiamento, per quanto dolorosi, sono necessari e che, alla fine della fiera, si può solo contare su se stesse. È una bambina precoce: a quattro anni è già sul palco del Dallas Theatre Centre a cantare e a ballare insieme alla madre, alla scuola elementare si cimenta con la pittura, la danza e il canto, a 14 esplode l’hip-hop e lei se ne innamora, diventando dj e free-styler per una radio locale. Diplomatasi in arti visive, intenzionata a seguire le orme della madre, frequenta una scuola di teatro. Ancora non lo sa, ma sarà la musica il palcoscenico della sua vita. Quando irrompe sulla scena, verso la metà degli anni Novanta, l’ r’n’b sembra ormai appannaggio di dive “candeggiate” come Whitney Houston o Mariah Carey. E l’impatto di questa ventenne, che qualche anno prima, come tutti i grandi ribelli del passato da Elijah Muhammad a Malcom X, da Kareem Abdul-Jabbar a Muhammed Alì, ha cambiato il suo nome da nome da schiava in quello che conosciamo, sul pantheon clintoniano della correttezza politica è di quelli da non sottovalutare. Con cinque album all’attivo in quasi quindici anni di carriera, più una trasversale e ramificata genealogia di produzioni, partecipazioni
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meglio nota come Erykah Badu, è una delle artiste black più rappresentative nella storia della musica d’autore contemporanea. Una cantante in grado di sintetizzare efficacemente lo scat malinconico, ebbro e irregolare di una Billie Holiday, l’acerba, conturbante, capricciosa sensualità d’una Diana Ross o quella più sfrontata di Chaka Khan, i vocalismi ibridi di una Aaliyah o d’una Lauryn Hill. Un’autrice capace di amalgamare mezzo secolo di musica nera attraverso gli standard jazz-blues degli anni Quaranta, il soul impegnato di Marvin Gaye, quello romantico ed elegante di Stevie Wonder, il funk impetuoso della blackexploitation, il nu-soul di D’Angelo e il rap strumentale dei Roots, fino alle contaminazioni con la musica dub, con quella psichedelica o ambientale. Un’icona che, malgrado gli stereotipi della black fashion imperanti su Mtv, battezza un modello estetico inedito e spregiudicato, costruito ull’espressività di un look tanto eccentrico quanto ricercato e lo sfoggio di una femminilità impellente e genuina che è l’efficace controparte del proprio stile musicale. A cominciare dal design cangiante e citazionista del suo abbigliamento: enormi turbanti, tuniche regali, fiammanti ed esotiche che omaggiano le sacerdotesse africane e la maestà di Nefertiti, i buffi completini alla Eartha Kitt o le spinte mìse da foxy mama anni Settanta. Per finire con una vita pubblica e privata votata all’indipendenza coniugale e sentimentale e sottolineata da un costante elogio alla maternità, Erykah Badu ha avuto tre figli da tre uomini diversi e senza essere mai stata sposata con nessuno dei tre. Simone Coacci
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“In testa, ho una specie di mappa culturale, che mi permette di trovare analogie tra mondi diversi. Per me, ad esempio, la musica pop giapponese suona come quella araba. E Bali è vicina a New York”. Nato nel 1952, Ryuichi Sakamoto è pianista, compositore, produttore discografico ed attore, vincitore di prestigiosi riconoscimenti, tra cui un Academy Award per la colonna sonora del film L’ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, un Grammy ed un Golden Globe. Completati gli studi di pianoforte e composizione presso l’Accademia delle Belle Arti di Tokyo, Sakamoto inizia ad appassionarsi alla musica elettronica ed etnica, ponendo sin dall’inizio una particolare attenzione alla musica tradizionale asiatica. Oggi come ieri, pochi come lui sono riusciti a spaziare tra generi diversi senza perdere la propria bussola artistica: dal pop alla dance, dall’ambient alla bossa nova, dall’etnica alla classica, così Ryuichi Sakamoto è considerato uno dei grandi pionieri delle contaminazioni tra musica tradizionale d’Oriente e avanguardie elettroniche occidentali. La sua forza creativa, scevra da compromessi, non ha mai cavalcato altresì le pulsioni intellettuali dei suoi contemporanei, conservando originalità e coerenza senza trasformarsi in cliché. Tutto ciò è sintetizzato in una lunga serie di rimarchevoli melodie che sono diventate familiari perché appartenevano al nostro immaginario e riposavano nell’attesa che qualcuno le suonasse, la sua musica, a volte, ha lambito anche la superficialità e la inconsistenza ma solo perché questo era parte del suo progetto stesso. Sakamoto viaggia attraverso i ritmi e le melodie, senza rinunciare al suo pianoforte raffinato e alle sue atmosfere estatiche, profumate d’Oriente. Negli anni, emerge come un compositore moderno, in grado di sfruttare al meglio le apparecchiature dello studio elettronico e di progettare scenari multimediali. La sua sterminata discografia spazia indifferentemente tra tentazioni di raffinato pop elettronico, classicheggianti colonne sonore e dischi di piano solo. I suoi album possono vantare una serie di collaborazioni prestigiose con artisti del valore di David Sylvian, Iggy Pop, David Bowie, Youssou N’Dour, Thomas Dolby, David Byrne, Hector Zazou.
Esploratore
sperimentatore
poeta
scanzonato vagabondo
senza fissa dimora.
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“Dall’essenzialità giapponese alla ricerca visionaria tedesca, la fragilità del passato viene contrapposta alla durezza del nuovo mondo”, ed è nell’attimo in cui le dita del musico danzano nell’aria, ed è nell’attimo in cui molteplici armonie si disgregano con delicato stupore, che si compie un rituale antico in chi ascolta, che si compie la possibilità implicita di ogni domanda. Perché quell’attimo, quel suono, quel tempio musicante, evocano ogni risposta e ogni vastità, perché quell’armonia è la terribile bellezza d’ogni primigenio silenzio. Di questi attimi, di queste armonie, di questi silenzi è composto un dialogo astrale, che Ryuichi Sakamoto & Alva Noto hanno il dono di saper testimoniare. Alva Noto, pseudonimo di Carsten Nicolai, è un artista tedesco attivo tanto nell’ambito delle arti sonore tanto in quelle visive e nelle intersezioni espressive generata dalla fusione dei due diversi approcci espressivi. Le composizioni musicali di Alva Noto sono accompagnate da una sua personale rappresentazione visiva del suono, in una istantanea traduzioni espressiva che coinvolge pienamente lo spettatore e proitetta l’immaginario dell’autore in compatte composizioni elettro-minimali, pienamente elettroniche, glitch, ambient e, quando non si hanno adeguati termini per definire il progetto artistico d’un essere umano e si sfocia in una lista di equivalenti, è necessario ammettere che si è davanti ad un “oltre”. Perché Alva Noto è oltre l’elettronica, in bilico tra vibrante tensione musicale e densa progettualità visuale. e le sue installazioni sono state ospitate nei più prestigiosi spazi espositivi di tutto il mondo, come ad esempio il Guggenheim Museum di New York, la galleria d’arte Tate Modern di Londra e la Biennale di Venezia. Nell’ambito musicale ha collaborato spesso con altri musicisti, anche di generi musicali differenti, come Blixa Bargeld, cantante e fondatore degli Einstürzende Neubauten, e Ryuichi Sakamoto, con il quale ha prodotto ben 5 album e condensato in apparizioni visual-musicanti un’epopea artistica che oggi torna a toccare di nuovo l’Italia e Chieti, che risponde presente con un sold out fulmineo che lascia intravedere tutto il potenziale che il duo riesce a sprigionare in dimensione live.
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Paul Kalkbrenner
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L a noia non t rova nem meno u no spirag lio. Fa re techno senz a scendere a compromessi e risu lta re contempora nea mente g rad it i a l le masse è a f fa re d if f ici le. L o sa bene Pau l Ka l kbrenner, che ha v isto soccombere a l la macchina dell 'appeal persino il più coraggioso fratello Fritz. Di suo, Pau l non è cer to l 'u ltimo arrivato, v isto l ' impor tante r uolo d i espor tatore del sempreverde mov i mento techno berli nese che ricopre da a l meno u na decade. Eppu re, a nche nel le sue opere più riuscite (le recent i "Berlin Calling " e "Icke Wieder", ma pu re i l duo "Zeit"-"Self "), i l produt tore tedesco è sempre sembrato i ndeciso f ra l 'ozio del la supersta r da top club e l 'a mbizione d i u na svolta più persona le e "sot terra nea".Nem meno la fonda zione, nel 20 09, del la sua et ichet ta persona le e i l conseg uente passagg io a l l 'autoprodu zione è riuscito a f uga re ta le dubbio: meg lio d iventa re u no status sy mbol del l 'elet t ronica clubbi ng più genu i na, o la ncia rsi nel ca lderone del la techno più u nderg rou nd, sempre resta ndo i n quel d i Berli no? Chiu nque si fosse i l luso - e Pau l stesso è probabi l mente i l capof i la - che questo "Guten Tag" potesse f i na l mente i nd ica re la st rada, è cost ret to a desistere e accontenta rsi del l 'ennesi ma prova d i maest ria tecnica. Già, perché questo è Ka l kbrenner e i l nuovo a lbu m ne
è forse i l più emblemat ico ma ni festo: techno accessibi le a chiu nque v i si vog lia but ta re, che non g ra f f ia e non morde, ma st rega e coi nvolge a suon d i loop nosta lg ici e melod ia. C ' è Berli no nei suoni e Det roit nel le st r ut t u re, la t rad izione a na log ica nel sa ng ue e l ' i ntel l ig henzia mi ni ma l nel la testa. Si prenda per esempio i l pri mo colosso rit mico, quel "Der Stabsvör ner n" che è a tut t i g li ef fet t i u na perla i n rota zione, u na mi na vaga nte che non v uole esplodere e g u ida d rit to su u n da ncef loor d i laser dove è i mpossibi le sta r fermi. Nonosta nte tut t i g li elog i del caso, "Guten Tag " non è u n capolavoro, ma u no dei f r ut t i meg l io riuscit i, su questo non v' è dubbio, d i u n a r t ig ia no che g ioca con le i nnova zioni d i a lt ri. Pau l av rebbe pot uto e voluto osa re d i più, o get ta rsi d rit to d rit to nel com mercia le: non ha fat to niente d i tut to ciò e forse è meg l io così, con buona pace del suo e nost ro eterno dubbio. Non lo ricorderemo neg li a nna li del la techno, ma a l la f i ne chi cer ta techno la a ma lo ascolterà a ripet i zione per molto tempo. Perché i n f i n dei cont i è su questo che Pau l ha basato i l suo successo: la capacità d i conqu ista re. Un'a r te dove, senz a fa lsa modest ia, sa d i avere pochi eg ua l i. MatteoMeda
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Di solito, i film sui musicisti parlano di qualche artista americano o inglese già morto. Che sia Jim Morrison, Charly Parker, Joe Strummer, Kurt Cobain, Brian Jones, Ian Curtis o Johnny Cash – la lotta che il musicista deve affrontare per farcela dipende sempre dal contesto e dal tempo in cui vive. In questo modo i film diventano ritratti di una società, di un modo di vivere, di un tempo storico. Ogni volta che si parla di un mito del rock, la lotta spesso autodistruttiva dell’artista diventa la metafora di una generazione, e la ribellione alla società è solitamente il tema principale. Per quanto mi riguarda, l’aspetto più interessante di questi ritratti è la dialettica “arte e follia”. Lo spettatore è attratto dallo stile di vita anticonvenzionale del protagonista. Si aspetta con crescente tensione il momento in cui l’artista perde il controllo, o per dirla in altro modo, lo si osserva mentre vola troppo vicino al sole. Non a caso i Led Zeppelin hanno usato la figura mitologica di Icaro come simbolo.Perché non raccontare per una volta la storia di un musicista tedesco? Addirittura di qualcuno ancora vivente? Perché occuparsi sempre del passato quando il presente è così interessante? Perché non fare un film su un compositore di musica elettronica? I musicisti della generazione di YouTube compongono con il computer, viaggiano per il mondo e non hanno bisogno di liriche per i loro pezzi. Vendono la loro musica su internet, cosa che li rende indipendenti dalle grandi major e fa circolare il loro nome fra gli appassionati di musica dance nel vasto, globalizzato, panorama internazionale.‘Berlin Calling’ non è un film biografico. Il film racconta la vita di un musicista nella Berlino di oggi. Un film sull’arte e la follia, l’ebbrezza e l’estasi, la speranza e il futuro, l’amicizia e la famiglia, la musica e la gioia di vivere e, naturalmente, sull’amore. ‘Negli anno ‘90 ho passato parecchie notti nel buio del club Strobo e ho visto molte albe dopo le nottate trascorse ai party.’ afferma il regista Hannes Stoehr, 39 anni, cineasta a tutto tondo con una laurea in legge, già pluripremiato in patria e non solo. ‘Gli sciamani di quelle serate erano naturalmente i DJ, e il loro ritmo era la colonna sonora del film che si svolgeva in modo diverso per ogni partecipante. Ogni tanto andavo anche in club come l’E-Werk, il Casino, il Tresor o il Bunker, o a qualche rave all’aperto come il Fusion. Ma non sono mai stato il classico raver che se ne sta in attesa per tutta la settimana che la festa ricominci il week-end successivo. Ma sono sempre stato attratto da quel mondo. Ciò che ho sempre apprezzato è che per far ballare la gente non c’era bisogno di qualcuno che salisse sul palco per trasmettere i suoi messaggi con i testi delle canzoni come i mostri sacri del rock. Se la musica era coinvolgente, ballavo per ore. É così anche oggi, anche se per me i tempi dei rave sono passati.’ Stoehr ha conosciuto Kalkbrenner in una serata particolare: ‘Ero al club Arena con un paio di amici, alla festa della Bpitchcontrol e Paul era il DJ, o più precisamente, Paul si esibiva dal vivo col suo computer. Poco dopo l’inizio del suo dj set, si sentiva solo un rumore costante; un vero disastro dal momento che nel locale c’erano almeno 2000 persone. C’era un errore nel cablaggio da qualche parte. Paul ha iniziato ad armeggiare con i cavi sul palco; una situazione veramente assurda. Questa è stata la prima immagine che ho avuto di lui.
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