Dal teatro di ricerca al terzo teatro: Eugenio Barba

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI FACOLTÀ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE Corso di laurea in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE

Tesi di Laurea in LETTERATURA TEATRALE ITALIANA

DAL TEATRO DI RICERCA AL TERZO TEATRO: EUGENIO BARBA

Relatore

Laureando

prof.ssa Giovanna ZACCARO

Claudio MASTRODONATO

Anno accademico 2008 – 2009


Non si trattava più di insegnare o imparare qualcosa, tracciare un metodo personale, scoprire una nuova tecnica, trovare un nuovo linguaggio originale, demistificare se stesso o gli altri. Avere il coraggio di avvicinarsi l’uno all’altro fino a essere trasparenti…

Eugenio Barba

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INDICE

Introduzione

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1. Il teatro di ricerca

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.2

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Le radici storiche .1.1 Contesto socio-culturale europeo .1.2 Il teatro all’inizio del XX secolo .1.3 Perché nasce il teatro di ricerca .1.4 Gli autori La Seconda Riforma .2.1 L’esigenza di un rinnovamento .2.2 I cambiamenti in atto .2.3 I protagonisti

6 7 8 9 11 13 13 15 17

I maestri della ricerca teatrale di Eugenio Barba .3.1 Il Living Theatre .3.2 Peter Brook .3.3 Jerzy Grotowsky

2. L’esperienza italiana: Eugenio Barba

18 18 20 21 26

2.1 La costruzione della biografia 2.1.1 La formazione umana e culturale 2.1.2 Nomade e pellegrino per passione 2.1.3 Le prime esperienze teatrali

21 21 28 30

2.2 La fondazione dell’Odin Teatret 2.2.1 La nascita: l’accoglienza degli esclusi 2.2.2 L’esperienza del laboratorio 2.2.3 Le rappresentazioni più importanti

32 32 34 36

2.3 La valorizzazione dell’incontro e del confronto: l’ISTA 2.3.1 La mediazione tra le diverse culture 2.3.2 L’America Latina 2.3.3 L’Oriente

39 39 41 43

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3. Dietro le quinte

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3.1 Il training

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3.2 L’Antropologia teatrale 3.2.1 Gli elementi basilari 3.2.2 Il sats 3.2.3 Movimenti “extra-quotidiani”

51 52 54 55

3.3 I principi che ritornano 3.3.1 Equilibrio in azione 3.3.2 Danza delle opposizioni 3.3.3 Incoerenza coerente 3.3.4 Equivalenza

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3.4 Il Terzo Teatro

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Appendice: Teatrografia Bibliografia Sitografia

71 79 81

iv


INTRODUZIONE

La storia dell’uomo vive della ricerca di ciò che è nuovo, inedito, misterioso, diverso; comprendere i propri limiti e trovare il modo di valicarli è un obiettivo. È l’obiettivo. Eugenio Barba ha accettato questa sfida, approdando ad un teatro che si pone come metafora di una vita alla continua ricerca di sé e dell’altro. La scelta di avere per protagonista del lavoro di tesi un autore contemporaneo, tuttora vivente, non vuole essere irrispettosa nei confronti dei grandi maestri del passato recente; non a caso in questo studio, particolarmente nella prima parte, si tiene in debito conto il radicamento di Barba nella grande tradizione internazionale. Egli, infatti, alle sue spalle ha il grande teatro del Primo Novecento, da Stanislavskij ad Artaud, fino a Mejerchol’d; al suo fianco, gli illustri colleghi Brook e Grotowsky e i fondatori del Living Theatre. Ma il suo sguardo è proteso in avanti: la sua sfida, rivisitata nella seconda parte di questo testo, inizia proprio da questo background e

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prosegue attraverso un iter formativo ed intellettuale, vissuto come pellegrinaggio interiore, in un mondo che si prepara alla globalizzazione. Il viaggio esistenziale si fa laboratorio permanente, a partire dall’approdo tra le piccole mura di Hostelbro, e, almeno per il momento, si definisce con la consacrazione del suo Terzo Teatro, un’idea nuova e brillante, un modo inedito di concepire il teatro. La terza parte della tesi approfondisce lo sforzo di Barba nel valorizzare il livello pre-espressivo degli attori e le relazioni che vengono a comporsi tra gli stessi, per portare in scena delle emozioni e delle sensazioni che mai prima d’ora lo spettatore ha potuto gustare: è questa la chiave di volta, il segreto dell’ammirazione e del rispetto che Eugenio Barba, maestro e riferimento per i nuovi gruppi di ricerca, ha riscosso in tante zone del mondo. Peraltro, quanto e forse più che in altri epigoni del teatro contemporaneo, risulta evidente nell’autore brindisino la tendenza ad andare oltre la rappresentazione di un testo drammaturgico, per concentrarsi sul processo dinamico che coinvolge tutti coloro, compresi gli spettatori, che sono protagonisti della sua realizzazione. In questo modo fare teatro diventa un’esperienza di creatività e libertà, non nell’assenza di norme comunicative ed estetiche, bensì nella

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considerazione di ciò che sta prima e dopo tali regole. Il corpo è, in questa prospettiva, l’elemento di più valorizzazione, perché in grado di comunicare in modo più diretto, incisivo e universale, rispetto alla parola, che è carica di maggiore potere, ma anche di potenziali divisioni e equivoci. Gli scritti risultano essere fondamentali per la conoscenza della sua vita e delle tecniche del “suo” teatro e costituiscono un patrimonio interessante per chi voglia entrare in contatto con la personalità di Barba; dunque, possono essere utilizzati come materiale di studio – anche se tuttora di non facile reperimento –, tenendo conto del fatto che solo in parte essi riflettono il composito itinerario esistenziale del loro autore. Molti altri elementi di conoscenza e di analisi derivano da interviste, articoli pubblicati in riviste di varia natura e recensioni, in cui si può riconoscere, da una parte, un’autoriflessione di Barba sul suo lavoro e, dall’altra, le tracce del suo pensiero e del suo operato fra gli addetti ai lavori, ma anche nella gente comune, spettatrice e partecipe della sua ricerca teatrale. Volendo rispettare la sostanza e la forma dell’itinerario teatrale di Barba, è sembrato opportuno riportare con un taglio giornalistico quanto raccolto nella ricerca intorno all’autore; questa scelta stilistica ha

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permesso di valorizzare meglio le fonti acquisite, soprattutto quelle meno formali, nonché di sintetizzare l’idea di fondo dell’intera tesi: costruire una sorta di reportage della biografia e del lavoro teatrale di Barba, esemplificazioni di un periodo storico e di una generazione che ancora sono in bilico tra la cronaca e la storia e continuano ad illuminare la cultura post-contemporanea, mostrando come ci si possa sentire a casa propria viaggiando attraverso il mondo e mettendo in connessione il Sud e il Nord, l’Occidente e l’Oriente, per mezzo di uno spirito e una cultura non soltanto cosmopolita, ma “ecumenica”, perché orientata alla universalità della comunicazione umana.

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1.

Il teatro di ricerca

Esperienza caratterizzata da un forte dinamismo, il teatro di ricerca nasce a cavallo fra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo e si sviluppa in due fasi corrispondenti a due periodi storici – l’uno corrispondente al lasso di tempo appena citato, l’altro principiante col secondo Dopoguerra – e a due gruppi di registi teatrali – ribattezzati ‘Prima Riforma’ e ‘Seconda Riforma’ – in continuità tra loro e legati, soprattutto, dal comune distacco dalla tradizione.

1.1

Le radici storiche

In controtendenza rispetto alla drammaturgia teatrale occidentale di fine Ottocento, fortemente connotata dalla poetica naturalista e simbolista, il teatro di ricerca vede la sua nascita in Russia, all’inizio del XX secolo.

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1.1.1 Contesto socio-culturale europeo

L’Europa a cavallo tra il XIX e il XX secolo vive una situazione di tranquillità politico-economica solo apparente: se da un lato, infatti, i principali Stati europei (Francia, Germania, Inghilterra su tutti) affermano sempre più la loro leadership sul territorio continentale ed extracontinentale, dall’altro la società europea, di fatto, vive della contraddizione esistente tra il trionfo del Positivismo e dello Scientismo – sintetizzato dall’espressione francese ‘Belle Epoque’ –, da una parte, ed una reazione idealista ed una filosofia della crisi, dall’altra. La cultura di quel periodo riesce, nonostante un ampio disorientamento, ad aggregare i propri interessi intorno al tema emergente della soggettività: cominciano a prendere forma le riflessioni di pensatori diversi, come Henri Bergson e Sigmund Freud, che mettono in primo piano i processi dell’interiorità umana e le tensioni dei rapporti fra le persone. La Russia, in quello stesso periodo, vive una situazione apparentemente diversa: la società di fine secolo, pur essendo specchio della realtà fortemente autoritaria della politica zarista, avverte il richiamo di un’elaborazione culturale più inquieta; questa è la scintilla che,

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alimentata dalla dottrina economico-sociale marxista, nel giro di pochi anni porterà il popolo a «basare la diffusione del socialismo sulla crescita del movimento operaio, sull’agitazione di massa e sul passaggio a una rivoluzione a carattere democratico-borghese»1, che, sul piano culturale, mette in discussione esperienze e tradizioni letterarie consolidate.

1.1.2 Il teatro all’inizio del XX secolo

In ambito teatrale l’Europa è attraversata da diverse realtà espressive. Nelle nazioni occidentali, Francia in primis, si vive l’antitesi tra il Naturalismo (movimento presente già dalla metà del XIX secolo), che poggia la propria poetica e la propria forma sulla ricerca della verità e del reale, ed il Simbolismo (corrente letteraria che si concentra soprattutto negli ultimi vent’anni dell’Ottocento), che, con la sua poetica di “de-realizzazione” della scena e “de-umanizzazione” del personaggio, contesta proprio la materialità dello spettacolo naturalista. Nell’Europa dell’Est, soprattutto in Russia, così come in parte anche in Italia (comunque fortemente affascinata dal teatro pirandelliano), la

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SCIPIONE GUARRACINO, PEPPINO ORTOLEVA, MARCO REVELLI, L’età delle Rivoluzioni e l’Ottocento, Mondadori, Milano 2001, p. 594.

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cultura lascia, invece, il passo alle Avanguardie (Futurismo, Dadaismo e Surrealismo), valorizzando temi come «la crisi ideologica della borghesia, crisi sociale e crisi di valori […], crisi di statuti artistici delle varie arti»2. In ambito teatrale, nello specifico, entra in crisi la visione del teatro come luogo di comunicazione, che rinvia ad una società che sente l’esigenza di raccontare a se stessa le proprie storie con uno sforzo di auto-riflessione e auto-rappresentazione. Per esprimere e reinterpretare la coscienza della crisi, gli autori teatrali vanno a “de-sacralizzare” – con forte impatto – il testo scritto, emblema delle convenzioni del teatro ottocentesco.

1.1.3 Perché nasce il teatro di ricerca

A leggerne bene il contesto storico, sociale e culturale, si intuisce che non è proprio un caso se è la Russia di inizio Novecento a dare vita alle prime forme di teatro di ricerca. È altrettanto vero, però, che in questa, come in qualsiasi altra pratica, ricerca o percorso di crescita si «incontra prima o poi una fase in cui si 2

LUIGI ALLEGRI, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 106.

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sente il bisogno di confrontarsi con coloro che ci hanno preceduto nel cammino di esplorazione di un territorio»3. Per questo «i metodi creativi di Tolstoj, di Gor’kij, di Dostoevskij, costituiscono un punto di riferimento essenziale per il sistema, che voleva appunto assegnare all’azione la stessa dignità artistica della scrittura letteraria»4. Proprio dal paragone con i “giganti” derivano nuovi spunti e nuovi bisogni, l’esigenza di non fermarsi a quanto è stato detto e fatto, di andare più in là, di cercare e ri-cercare. Da questo confrontarsi emerge uno dei primi elementi di rottura col passato, forse il principale: «l’arte della reviviscenza […] in contrasto con l’arte della rappresentazione»5, un netto superamento della mera rappresentazione, della vita dell’azione e della materia scenica, facendo sì che il “metodo delle azioni fisiche” sia un mezzo attraverso cui gli attori possono creare una vita reale, una vita realistica nello spettacolo. È la base della ricerca teatrale, il punto di partenza, da cui si generano sfumature sottili e al tempo stesso marcate, diverse da un interprete all’altro.

3

GIOACCHINO PALUMBO, I pionieri del teatro del Novecento, Bonanno, Acireale-Roma 2005, p. 7. Ibi, p. 26. 5 FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 8. 4

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1.1.4 Gli autori

«Gli antenati, [sono] coloro che hanno fondato la tradizione del XX secolo, quegli artisti attanagliati dall’insoddisfazione per il mestiere, che si sono opposti al loro tempo e hanno forgiato l’idea di un teatro che non si limita allo spettacolo»6: con questa espressione di Barba, ripresa da Franco Perrelli, si evidenzia come l’elemento di continuità e di legame con la tradizione venga sempre meno col passare del tempo. Il riferimento è a coloro che sono stati riuniti sotto l’etichetta di ‘Prima Riforma’, i cui principali esponenti vengono universalmente riconosciuti in Stanislavskij e Mejerchol’d. Di Stanislavskij (Mosca, 1863-1938) e del suo concetto di preparare uno spettacolo teatrale, Gioacchino Palumbo dice che «il suo sistema è sempre stato in evoluzione […] come un autentico “work-in-progress”»7: l’autore de Il lavoro dell’attore su se stesso è stato continuamente alla ricerca di tecniche e di processi creativi e compositivi sempre nuovi, mettendo in discussione ogni metodo applicato e lasciandosi sempre aperta la possibilità di “trasformare” quanto realizzato.

6 7

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 4. GIOACCHINO PALUMBO, Op. cit., p. 13.

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«L’azione dell’attore […] diventa l’elemento costitutivo, la cellula-base, dello spettacolo»8: la vera rivoluzione di Stanislavskij è racchiusa in questo concetto. L’attore recupera la sua dignità, ergendosi di fatto al pari del poeta-drammaturgo, assumendo il ruolo innovativo di «interprete con una sua precisa autonomia e responsabilità espressiva che ha il compito di vivificare parole e azioni del personaggio»9 e svestendo i panni di semplice passivo esecutore e traduttore del testo. Per quanto riguarda Mejerchol’d (Penza, 1874 – Mosca, 1940), la sua impronta di novità risiede nell’ideazione dello spazio scenico, [attraverso la] creazione di scenografie composte di piattaforme, trapezi, scivoli, scale, ruote, aste, tutti elementi che si trasformavano 10 continuamente durante lo spettacolo con una varietà di soluzioni imprevedibile .

Se l’atmosfera diviene sempre meno reale, l’attore, per ben muoversi al suo interno, deve apprendere e migliorare anche le sue attitudini nelle tecniche gestuali, ritmiche ed acrobatiche, senza, tuttavia, tralasciare la dizione. È doveroso fare un accenno anche ad Antonin Artaud (Marsiglia, 1896 – Ivry, 1948), fondatore del cosiddetto ‘Teatro della Crudeltà’: per crudeltà non

s’intendeva

sadismo

o

dolore,

ma

una

violenta,

fisica

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GIOACCHINO PALUMBO, Op. cit., p. 26. Ibi, p. 17. 10 Ibi, p. 30. 9

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determinazione tesa a scuotere le false verità, a spingere verso un «teatro integrale, che comprendesse e mettesse sullo stesso piano tutte le forme di linguaggio, fondendo gesto, movimento, suono e parola»11.

1.2

La Seconda Riforma

Alla Prima Riforma degli inizi del Novecento fa seguito la Seconda Riforma, con interpreti, punti di vista e metodologie che segnano una continuità con il passato recente (Stanislavskij soprattutto), ma a cui non mancano nuove interpretazioni e soggettivizzazioni della “disciplina” teatrale.

1.2.1 L’esigenza di un rinnovamento

Il punto di partenza, cronologicamente parlando, della Seconda Riforma del teatro di ricerca è da far risalire agli anni immediatamente successivi alla depressione economica e alla Seconda Guerra Mondiale, quando la

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FELICE CAPPA, PIERO GELLI, Teatro della crudeltà, in ID. (a cura di), Dizionario dello spettacolo del '900, Baldini&Castoldi, Milano 1998.

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percezione della crisi culturale e sociale si fa più consapevole e drammatica. In questi anni chi porta il suo sguardo all’indietro, all’eredità difficile e affascinante del teatro di Stanislavskij, di Mejerchol’d, ma anche di Artaud, si rende conto che i dubbi, i problemi, gli interrogativi che hanno animato gli autori teatrali immediatamente precedenti non vanno circoscritti al loro contesto storico, ma possono essere richiamati per attingere linfa vitale, drammaturgicamente parlando, per affrontare le contraddizioni dell’epoca contemporanea. Le basi da cui riprendere questa ricerca sono sempre i “grandi maestri” del Primo Novecento, che, per dirla con Grotowski, rappresentavano «alternative al teatro considerato ‘normale’» e le cui ricerche «richiedevano di essere continuate»12: quindi, al centro della Seconda Riforma c’è la ricerca di un’azione credibile dell’attore, in continuità con la “tradizione stanislavskijana”, ma anche la «necessità di esprimere sentite esigenze personali che potevano risolversi nell’utopia di un

12

JERZY GROTOWSKI, La possibilità del teatro, in J. Grotowski, L. Flaszen, Il teatr Laboratorium di Jerzy Grotowsky 1959-1969, a cura di Ludwik Flaszen e Carla Pollastrelli, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2001, pp. 50-51.

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recupero della vita, nella sua ampia autenticità esistenziale, sociale e politica, alla dimensione del teatro»13.

1.2.2 I cambiamenti in atto

Si è appena accennato, ancora attraverso le parole di Franco Perrelli, al primo degli elementi di novità del gruppo della Seconda Riforma, ossia il “nuovo ruolo” dell’attore. Addentrandosi in modo più specifico e analitico, comunque, è possibile rilevare le caratteristiche comuni ai componenti, vere e proprie lineeguida che vanno ad arricchire l’esperienza di ricerca teatrale intrapresa, arrivando anche a costituire una sorta di metodologia, non ufficiale, ma da prendere seriamente in considerazione. «Fare teatro in rappresentazione e ricerca di una presenza espressiva ed esistenziale»14 è l’esito più evidente e incisivo della Seconda Riforma; anche i maestri russi avevano fatto riferimento a questo, ma “l’andare oltre” che i drammaturghi di questi anni si sono tacitamente proposti nella loro ricerca consiste nel confronto con «i quattro problemi basilari

13 14

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 4. Ibi, p. 6.

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per l’attore, non solo come essere un attore efficace, ma anche perché esserlo, dove esserlo e per chi»15. Non è neanche da sottovalutare la novità relativa all’aspetto linguistico, dove all’esperienza individuale, soggettiva e, quindi, molto differenziata all’interno delle elaborazioni degli autori della Prima Riforma, segue un «riassetto tendenzialmente monistico dei linguaggi espressivi e della purezza della comunicazione»16, comunicazione transculturale ma sempre e comunque finalizzata all’intensificazione dell’esperienza teatrale e al suo incrocio con quella esistenziale. Alla base di queste differenze c’è una nuova mentalità, una diversa impostazione del proprio teatro di fronte a quello della tradizione: la Prima Riforma, attraverso il cambiamento, tende alla realizzazione di un teatro nuovo; nella Seconda, invece, più che la novità affascina la diversità del teatro.

15 16

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 5. Ibi, p. 11.

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1.2.3 I protagonisti

La Seconda Riforma viene incarnata da quattro principali figure: una scuola di teatro, il Living Theatre di New York, e tre registi teatrali, l’inglese Peter Brook, il polacco Jerzy Grotowski e l’italiano Eugenio Barba. Hanno natali diversi, anche geograficamente lontani, ma sono uniti tutti da un filo rosso, il teatro di ricerca, che li porterà, più volte nella loro vita, ad entrare in contatto tra loro, apprendere metodi e tecniche vicendevolmente, carpire quelle sfumature che hanno fatto del loro un teatro diverso. Sono loro i principali artefici del profondo cambiamento del teatro, in particolare dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, periodo durante il quale vengono realizzati spettacoli nuovi, diversi, che presentano una tipologia di laboratori che pongono in primo piano l’attore e la sua ricerca in un cammino esperienziale interiore. In tale itinerario emerge la «concezione di un teatro essenziale, di forte comunicazione interpersonale e insieme non mimetico e metaforico»17, in cui «s’inventavano nuovi esercizi, ci si concentrava su ciò che resta 17

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 80.

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allorché al teatro si tolgono le parole e in tal modo le due stanze del palcoscenico e della platea cominciavano a fondersi»18.

1.3

I maestri della ricerca teatrale di Eugenio Barba

Nella Seconda Riforma, si è detto, vi sono esperienze differenti che, tuttavia, evidenziano una comune ricerca: origini ambientali e legami culturali molto diversi sembrano incrociarsi in modo creativo e fecondo nel contesto italiano, confluendo nella riflessione e azione teatrale di Eugenio Barba. È importante, però, riconoscere la specificità di ciascun contributo, dato che il padre dell’Odin Teatret recupererà molti importanti elementi da questi autori, pur arrivando nello stesso tempo a distaccarsene attraverso un percorso di elaborazione culturale autonomo.

1.3.1 Il Living Theatre

Per merito dei suoi fondatori Julian Beck e Judith Malina il Living Theatre, nato nel 1947, affronta da subito l’idea che la vita è «il doppio del 18

teatro,

e

la

presentazione

della

vita

(differente

dalla

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 82.

17


rappresentazione) può svelare lo spettacolo vero»19. Il merito di questi autori, quindi, sta nel concretizzare quella che fino a quel momento per molti drammaturghi era stata solo un’intuizione, vale a dire la possibilità di vedere il teatro come un’esperienza “tremenda” che può cambiare non solo l’attore, ma anche lo spettatore che vede lo spettacolo consumarsi davanti ai suoi occhi. Questa produzione, ispirata in maniera preponderante dal teatro di Artaud, fin dai primi spettacoli negli anni Cinquanta e Sessanta, viene accostata dalla critica a quella di poco precedente realizzata nell’area transalpina: infatti, non manca un richiamo al teatro brechtiano, che per i fondatori del Living ben si fonda con quello di Artaud – come ha ammesso la stessa Malina in un seminario italiano dei primi anni Ottanta. L’ideale, neanche troppo celato, ma forse dettato da uno slancio utopico, è quello di creare in scena una «persona totale – non una persona parziale in cui la ragione è in guerra contro la sensibilità»20: questo tentativo si sviluppa all’interno della pluridecennale produzione teatrale del Living, arrivando comunque a generare un mutamento della

19 20

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 12. Ibi, p. 13.

18


relazione tra pubblico e attori e a «creare una breccia per rompere la distinzione tra ciò che è teatro e ciò che non lo è»21, mirando in maniera decisa all’impegno dell’attore, in scena e fuori dalla scena.

1.3.2 Peter Brook

A partire dalla conclusione del Secondo Conflitto Mondiale, Peter Brook – londinese, nato nel 1925 – porta alla storia del teatro e in particolare a quello di ricerca nuove sfaccettature da porre alla base per uno studio in quest’ambito. Fondamentale per la sua formazione teatrale, il periodo di lavoro presso il Birmingham Repertory Theatre rappresenta un’occasione ideale per avviare uno “studio” sul teatro che lo porterà a fondare, una volta trasferitosi a Parigi, il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale – il CIRT accoglie attori provenienti da tutto il mondo – e lo aiuterà a comprendere, come egli stesso sottolinea nella sua opera I fili del tempo. Memorie di una vita, che «per anni avevo mantenuto una rigorosa separazione tra la mia ricerca interiore e gli esperimenti di teatro […]

21

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 14.

19


non volendo creare un caotico disordine in nessuno dei due campi. Niente, tuttavia, può restare a lungo in compartimenti stagni»22. Partendo da questa realizzazione, Brook approfondisce il rapporto tra l’attore in scena e lo spettatore in sala (caratteristica che diventerà estremamente importante nel teatro di ricerca): sua è la teorizzazione delle “due stanze”, il palcoscenico e la platea, che si fondono tra loro realizzando uno scambio vivo tra chi agisce e chi guarda, crea un’interazione dell’attore con se stesso, con i partners del gruppo e con gli spettatori, un contatto connotato da una forse valenza comunicativa. Questi tre livelli di interazione vengono definiti dal maestro come le tre fedeltà: la fedeltà della concentrazione, sorgente profonda dell’ispirazione; la fedeltà al compagno in scena a cui bisogna adattarsi costantemente; la fedeltà allo 23 spettatore, in rapporto al quale l’interprete deve essere aperto e disponibile :

per sintetizzarle con una frase, l’arte come relazione o, per meglio dire, come una rete di relazioni in movimento.

22

PETER BROOK, I fili del tempo. Memorie di una vita, trad. di Isabella Imperiali, Feltrinelli, Milano 2001, p. 122. 23 OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, in <www.teatrodinessuno.it>.

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1.3.3 Jerzy Grotowski

Di natalità polacca (Rzeszòw, 1933 – Pontedera, 1999), Grotowski è considerato forse il principale pioniere del teatro di ricerca novecentesco – e principale riferimento per tanti registi – anche per Barba, come si vedrà. In un discorso tenuto in Colombia nel 1970, Grotowski riassume così le principali tappe della sua vita teatrale: «in principio era il teatro. Poi era il laboratorio. Adesso è il luogo in cui ho la speranza di essere fedele a me stesso. È il luogo in cui mi aspetto che ciascuno dei miei compagni possa essere fedele a se stesso»24. In poche righe racconta davvero tutto di sé: nato come attore, formatosi dapprima a Cracovia, poi a Mosca, è grazie al laboratorio, la seconda fase del suo itinerario artistico, che si eleva a caposaldo di questa esperienza. Questo intenso ed incessante studio sperimentale si concretizza a partire dal 1959 nella provinciale cittadina polacca di Opole, all’interno del piccolo Teatro delle Tredici File. Qui Grotowski porta alla luce il suo ideale di teatro povero: un teatro in cui la

24

JERZY GROTOWSKI, Op. cit., p. 238.

21


preoccupazione fondamentale è il rapporto dell'attore con il pubblico, non l'allestimento scenico, i costumi, le luci o gli effetti speciali. Col tempo, le prove assumono un’importanza sempre maggiore, anche più dello spettacolo, perché, afferma Grotowski, «là accadeva qualcosa tra un essere umano e un altro essere umano, cioè tra l’attore e me»25, ovvero tra l’attore e il regista. Quest’ultimo «si assume la responsabilità di seguire l’evoluzione dei suoi allievi, di condurli ad un’esplorazione totale delle proprie capacità fisiche e psichiche e di accompagnarli lungo il percorso creativo»26; il primo, vincendo gli ostacoli fisici, impara ad isolare le diverse parti del corpo e a dare loro vita propria, in modo che queste non reagiscano automaticamente ma siano in grado di produrre, ciascuno nello stesso tempo, movimenti autonomi e perfino contrari e 27 comunicare immagini opposte .

Grotowski è stato anche il primo a parlare di ‘parateatro’, che rappresenta, di fatto, una concretizzazione teorica e pratica della sua idea di laboratorio. Le attività parateatrali si svolgevano di giorno e di notte; prediligevano tendenzialmente luoghi isolati e ambientazioni naturali, escludendo l’uso di alcol e di droghe o la pratica di rapporti sessuali tra i partecipanti, cui si richiedeva discrezione e disponibilità umana verso 28 gli altri e a farsi ricondurre, se possibile, ad azioni e situazioni semplici :

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FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 40. OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, in <www.teatrodinessuno.it>. 27 Ibidem. 28 FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 110. 26

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non costituiscono un’imitazione della realtà, né rimandano a nessun’altra realtà diversa; tutti i partecipanti sono attivi e, talvolta, a guidarli è una voce; la concentrazione è massima. La sua radicata fede in questo itinerario vitale-professionale lo porterà anche a rifiutare buona parte della sua notorietà, preferendo, invece, restare con i suoi attori nel suo piccolo “laboratorio”, in una relativa oscurità.

23


2.

L’esperienza italiana: Eugenio Barba

A differenza degli altri contesti finora analizzati, l’Italia non sembra entrare nell’ottica di un rinnovamento teatrale, forse perché ancora molto innamorata del modus pirandelliano di fare teatro: mantiene regole tuttora alquanto precise rispetto ai modelli consolidati, seppure con un gusto “moderno”, innovativo, per quanto concerne le coordinate dello spazio e del tempo, il testo e il contesto, le modalità della recitazione e il ruolo degli attori. E forse è proprio per questo che il vero emblema del teatro di ricerca italiano, Eugenio Barba, si approccia a questo tipo di teatro, lo consacra, e si consacra, solo una volta fuori dai confini della penisola, riversando, nel suo interesse per il genere teatrale, elementi significativi del vissuto: gli incontri umani e i contatti con le diverse culture, le molteplici esperienze lavorative per “sbarcare il lunario”. Da questo punto di vista, si può dire che il teatro rappresenterà per Barba un approdo, piuttosto che un punto di partenza.

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2.1

La costruzione della biografia

I passi che, sin dalla giovinezza, Eugenio Barba ha poggiato sulla strada della sua vita sono fuori dall’ordinario, almeno rispetto al periodo storico e alla temperatura culturale in cui vive, e aiutano a leggere e comprendere in maniera più chiara le ragioni delle sue scelte, forse bizzarre, forse non condivisibili, sicuramente vincenti, anche perché anticipatorie rispetto ai modelli interpretativi dell’esistenza e ai cambiamenti culturali che si manifesteranno in epoca successiva.

2.3.4 La formazione umana e culturale

Franco Perrelli, ne Gli spettacoli di Odino, mette già in chiaro dalle primissime pagine un dettaglio che sa di paradosso: «l’idea di dedicarsi al teatro non era mai stata centrale nella sua formazione»29. Infatti Eugenio Barba, nato a Brindisi il 29 ottobre 1936 e trasferitosi fin da piccolo a Gallipoli, nel Salento, paese natale dei suoi genitori, è portato dapprima a seguire le orme del padre: questi era militare e perì di

29

FRANCO PERRELLI, Gli spettacoli di Odino: La storia di Eugenio Barba e dell'Odin teatret, Pagina, Bari 2005, p. 7.

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lì a pochi anni, durante la Seconda Guerra Mondiale, lasciando la famiglia in una situazione socio-economica difficile. Il giovane Eugenio, quindi, si trasferisce a Napoli, iscrivendosi al collegio militare, fino al compimento degli studi nel 1954: è evidente che questa scelta di vita sia stata dettata dalla necessità e da una sorta di obbedienza ai modelli dominanti che prevedono una sostanziale continuità nella storia di una famiglia; ha poco e niente di una vocazione professionale. Proprio nel capoluogo campano avviene il suo primo approccio col teatro, un mondo sicuramente ben più libero sul piano dell’espressione dei sentimenti e delle idee, ricevendone un’impressione vivissima che risveglierà in lui uno «spirito romantico e insofferente dei limiti»30.

2.3.5 Nomade e pellegrino per passione

Proprio a partire da questo spirito, Barba, non ancora maggiorenne, lascia l'Italia per la Norvegia, da lui vagheggiata come patria della libertà, abbandonando l’idea della carriera militare. Vi è nella scelta di questa destinazione, forse casuale nell’itinerario, un’inconsapevole 30

OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, in <www.teatrodinessuno.it>.

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voglia di pellegrinaggio, una sensibilità verso la meta, la Norvegia appunto, che si motiva come bisogno dell’incontro con ciò che è altro. Ed è singolare come questo trasferimento in un paese lontano comprenda un confronto, sicuramente impegnativo, fra l’origine meridionale e la mentalità, così diversa, dei paesi nordici. Sono le sue stesse parole, pubblicate tra le righe di Aldilà delle isole galleggianti, a raccontare il “suo” viaggio; così, alla domanda «Come fa un italiano a ritrovarsi direttore di un teatro-laboratorio in Danimarca?», postagli da Bent Hagested in un’intervista, Barba introduce la risposta con queste affermazioni: A diciassette anni sono arrivato in Scandinavia, dopo aver preso la licenza liceale in Italia. Ho trovato lavoro in un’officina in Norvegia, dove sono restato un anno. Poi sono stato marinaio su un cargo norvegese per due anni. Al ritorno ho cominciato i miei studi all’Università di Oslo, mentre riprendevo il lavoro nell’officina. Mi sono 31 laureato in lettere norvegesi e francesi e in storia delle religioni .

Due personaggi hanno segnato in particolar modo i suoi primi mesi nel soggiorno scandinavo e la sua formazione: uno studente universitario di psicologia, che lo indurrà ad abbracciare le idee marxiste; […] un anziano pittore, che lo avvia al gusto per la letteratura e le arti figurative. E’ in questo periodo che in Barba nasce quel "sentimento del diverso, di uno straniero che scruta un altro straniero" – legato alla sua difficoltà di rapportarsi con persone diverse, che parlano una lingua differente – che lo segnerà profondamente e lo porterà all'idea di un teatro-comunità32.

31 32

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, Ubulibri, Milano 1985, p. 45. OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, in <www.teatrodinessuno.it>.

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Allo stesso tempo, egli ricava dall’incontro con il mondo della psicologia il gusto per la complessità della persona umana e il desiderio di comprendere maggiormente le contraddizioni, latenti o manifeste, della singola personalità; dalle diverse arti, invece, recupera l’attenzione alle infinite possibilità di manifestare l’interiorità e di rivisitarla secondo canoni realistici o simbolici.

2.3.6 Le prime esperienze teatrali

Terminati gli studi (è il 1960), Barba è ormai consapevole di una vocazione sicura e decide di occuparsi attivamente di teatro, anche perché sostenuto economicamente da una borsa di studio per la Polonia ottenuta dall’Unesco. Evidentemente, dietro la fruizione di questa risorsa vi è anche un iniziale riconoscimento, a livello istituzionale, di una creatività che va radicandosi nella realtà culturale del momento e che sa entrare in sintonia con dinamismi ed esperienze che possono essere ulteriormente valorizzate con contributi innovativi. Ancora una volta, dunque, la sua formazione richiede una migrazione, uno spostamento, che lo porta a Varsavia, in un clima post-bellico che di primo acchito lo disorienta e lo lascia impreparato, ma lo mette

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direttamente a confronto con un importante crocevia di speranze e delusioni, di elaborazioni ideologiche e di forti relazioni umane; poi, tra il 1961 e il 1964, eccolo accostarsi ad un fondamentale sodalizio per la sua carriera teatrale, quello con Jerzy Grotowsky, con il quale Barba vive un’esperienza di apprendistato ad Opole, nel piccolo Teatro delle Tredici File. La collaborazione con il regista polacco gli consente di osservare e “masticare” l’importanza del rapporto intimo tra il regista e l’attore: un rapporto libero, attento e confidente, teso all’esplorazione delle potenzialità dell’attore e all’evoluzione di entrambi i protagonisti di questo “incontro-confronto”. Con un bagaglio molto più carico di esperienza ed entusiasmo, maturato non solo in Polonia, ma anche per merito di alcuni viaggi tra mostre e spettacoli in Africa o Estremo Oriente, dove «si ubriaca di musica e di immagini»33 (ancora una volta torna l’importanza del contatto con una cultura “diversa”), Eugenio Barba fa ritorno a Oslo. È il 1964.

33

OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, in <www.teatrodinessuno.it>.

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2.4 La fondazione dell’Odin Teatret

La capitale scandinava, tuttavia, non accoglie il giovane regista pugliese a braccia aperte: infatti egli si vede chiudere in faccia le porte del teatro professionistico e accademico – un mondo al quale non appartiene e che non intende fare spazio ad un personaggio così difficile da etichettare e da collocare nello scenario culturale del momento –, ed è per questo che decide di prendere la situazione in mano, come racconta, ancora una volta, in prima persona, mantenendo forte la sua attitudine a vivere fuori da qualsiasi schema, attraverso una ricerca che preferisce i sentieri dell’inedito piuttosto che seguire strade più scontate.

2.4.1 La nascita: l’accoglienza degli esclusi

Tutte le porte restarono chiuse. L’unica possibilità era incominciare per conto mio, da solo. Era molto difficile persuadere degli attori professionisti a lavorare con me. Allora presi contatto con dei giovani che desideravano ardentemente fare teatro e 34 che, come me, erano esclusi dal circuito ufficiale ;

e ancora: Questa è l’origine dell’Odin Teatret in Norvegia: un minuscolo teatro di dilettanti che sogna di diventare professionale, appena cinque persone che debbono

34

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 45.

30


apprendere, da sole, l’essenziale dell’artigianato teatrale, in solitudine, al di fuori 35 della geografia del teatro allora riconosciuto e riconoscibile .

Una partenza “in salita”, quella del gruppo di Barba, fatta di ristrettezze economiche, ma le motivazioni e la passione per il teatro, per quel teatro che Barba auspicava – sulle orme di Grotowski, prima di tutto, e degli altri registi teatrali della Prima e Seconda Riforma –, accentuano l’entusiasmo del gruppo, poiché è forte la sensazione che si tratti «di una cultura teatrale nuova e multidisciplinare, particolarmente aperta verso l’emergente fenomeno del teatro di gruppo ed evoluta dal punto di vista del mondo critico»36. Peraltro, se si può avere l’impressione che in questa fase la creatività si traduca essenzialmente come improvvisazione, occorre invece fare i conti con alcuni punti fermi che Barba ha ormai sufficientemente chiari dentro di sé: la capacità dell’attore di percepirsi come un “produttore” e non soltanto come un “esecutore” di testi; la consapevolezza che un determinato sentimento o esperienza possono essere rappresentati con una gamma innumerevole di interpretazioni; l’importanza della interazione nel gruppo, seppur mettendo in primo piano l’esercizio dell’attore nella sua individualità. 35

FRANCO PERRELLI, Gli spettacoli di Odino: La storia di Eugenio Barba e dell'Odin teatret, cit., p. 143. 36 Ibi, p. 18.

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Un’altra data risulta essere fondamentale per la memoria dell’Odin Teatret: il 1966. Il gruppo sente la necessità di lasciare la grande città norvegese e spostarsi in una cittadina molto più decentrata. È Hostelbro la meta prescelta, piccolo centro urbano dello Jutland, in Danimarca: ancora una volta non si tratta di una scelta casuale, ma votata ad assecondare il bisogno di sperimentare ambienti differenti e di valorizzare opportunità appena abbozzate. Comunque una città di provincia è potenzialmente più favorevole ad accogliere un’esperienza nuova, magari anche più sconvolgente; ovviamente nella cittadina ci si interroga se valga la pena spendere denaro pubblico per un teatro di nicchia, ma è proprio l’allora sindaco Nielsen a dare il “lascia-passare” all’Odin, chiedendo ai suoi cittadini qualche anno di tempo per valutare un teatro così strano e per pochi, propugnando una politica culturale che non aveva immediati rientri e replicando di non avere soggettivamente strumenti per giudicare, ma che c’erano personaggi molto 37 competenti che gli garantivano il valore e l’onestà artistica del gruppo di Barba .

2.4.2 L’esperienza del laboratorio

L’Odin Teatret può, una volta stabilizzatosi, dare realmente inizio alla sua opera: il gruppo è numericamente aumentato e l’idea di un teatro di 37

FRANCO PERRELLI, Gli spettacoli di Odino: La storia di Eugenio Barba e dell'Odin teatret, cit. p. 122.

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ricerca affascina sempre più giovani aspiranti teatranti alla ricerca di stimoli “nuovi e diversi”. Va sottolineato, peraltro, che la svolta del ’68 comincia ormai a manifestare i suoi effetti e la proposta teatrale di Barba intercetta, in modo sempre più concreto e compiuto, la domanda giovanile di creatività, di innovazione, di apertura all’interculturalità e al respiro della mondialità. D’altronde lui stesso decodifica questo dinamismo: «il teatro è insopportabile se esso si limita solo allo spettacolo»38. Questa frase è emblematica della direzione che il suo teatro assume: non verso il teatro professionale [come] un’impresa economica che produceva spettacoli, [dove] la possibilità di guadagnare il pane quotidiano dipendeva dalla capacità di 39 riempire la sala, di abbreviare le prove e di moltiplicare le offerte di spettacoli ;

verso un teatro, invece, che basa sul laboratorio la sua ricerca, la ricerca degli stessi attori, che costituiscono sempre più una risorsa intelligente per la lettura della propria interiorità e dell’ambiente nel quale devono rendere intelligibile e significativa la loro azione. Cosa comporta il laboratorio per gli attori? La fatica, ma anche la gratificazione, di affrontare un iter di ricerca di se stessi, della loro vita, delle loro memorie; di riconoscersi come esseri umani in uno spazio in cui costruire le proprie identità, gli scambi, i confronti. 38 39

EUGENIO BARBA, L’essenza del teatro, in <Teatro e storia>, n. 23, Bulzoni, Roma 2001. Ibidem.

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In questo modo, inoltre, l’accento cade sul valore sociale del teatro, perché «non bisogna guardare soltanto alle merci, agli spettacoli prodotti, ma anche alle relazioni che gli uomini stabiliscono producendo spettacoli»40. Poste le fondamenta, l’esplicazione approfondita della metodologia del laboratorio verrà sviluppata nel terzo capitolo, dove si avrà modo di considerarla con maggiore attenzione. Vale comunque la pena di evidenziare da subito che, sulla scorta di questa prospettiva, verranno successivamente impostate nuove esperienze, fino ad approdare al teatro d’impresa, che affonda le sue radici anche in questa concreta sperimentazione realizzata da Barba.

2.4.3 Le rappresentazioni più importanti

Non manca, nell’ormai più che quarantennale storia dell’Odin Teatret, una corposa produzione, che ha avuto il suo inizio nel 1965 con Ornitofilene (Gli amici degli uccelli). Consultando l’intera teatrografia riportata in appendice, aggiornata al 2006, è possibile riconoscere, pur nelle inevitabili differenze che intercorrono fra un’opera e l’altra, delle caratteristiche e delle linee 40

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 221.

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comuni, che evidenziano una ispirazione unitaria e nello stesso tempo continuamente aggiornata, a mano a mano che la metodologia del laboratorio sviluppava nuove istanze o acquisiva ulteriori elementi di stabilità. Innanzitutto è doveroso sottolineare che non tutte le opere vedono l’autore pugliese come unico drammaturgo e regista; infatti fin dall’inizio Barba si circonda di alcuni collaboratori (per citarne alcuni: Jens Biørneboe, Ole Sarvig, Peter Seeberg), responsabili della stesura dei testi, e attori “fidati”, entrati nel cast a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e tuttora presenti negli spettacoli recenti (in particolare Torgeir Wethal e Elsa Marie Laukvik, presenti fin dal primo spettacolo, l’italiana Roberta Carreri dal 1974, e Julia Varley dal 1977), o, ancora, attori che nel tempo hanno ricoperto anche ruoli di regia (il riferimento va alla danese Iben Nagel Rasmussen, responsabile di testo e regia de Il libro di Ester del 2006). È evidente, in questo allargamento delle collaborazioni, non un intento strumentale, ma una fiduciosa disponibilità a creare coinvolgimento; una generosa pazienza tesa a valorizzare talenti e a creare forme feconde di corresponsabilità. Il teatro di ricerca, dunque attiva nuove energie e movimento.

35


In questo processo di allargamento delle partecipazioni, emerge un’altra caratteristica comune: la capacità di mettere insieme gruppi di lavoro di varia provenienza geografica e culturale. La nazionalità degli attori, varia e molteplice come varie e molteplici sono le lingue utilizzate, consente l’espressione poliedrica di una comunicazione forte, chiara e di ampio respiro. Ovviamente, l’uso diversificato del linguaggio traduce la pluralità delle sensibilità e delle identità, la ricchezza dei riferimenti semantici, la competenza nell’assemblare, mediare e sintetizzare gli universi di significato che si stratificano in ciascuna popolazione. Un chiaro intento di sostegno verso l’attenzione all’interculturalità e alla multiculturalità, anticipando la convivialità delle differenze, che è alla base di un’esperienza matura di tolleranza. Da ultimo è curioso segnalare come alcuni spettacoli richiedano un numero limitato di spettatori, mentre altri no; indice dell’importanza che riveste anche lo spettatore all’interno del contesto spettacolare e di come l’aspetto affaristico e di business, che Barba fugge demonizzando le “leggi del commercio”, rivestano un ruolo secondario rispetto alla buona riuscita dello spettacolo. Allo stesso tempo, questa scelta indica come si ponga attenzione a coloro che devono ricevere il messaggio degli attori e libera l’esperienza teatrale dalla tentazione dell’autoreferenzialità.

36


2.5 La valorizzazione dell’incontro e del confronto: l’ISTA

È stata già sottolineata l’importanza del “viaggio” nella vita di Barba, quale occasione di contatto con altre culture, da cui carpire tecniche, esperienze, sfumature. Sono queste le basi che portano il direttore dell’Odin a fondare, nel 1979, l’ISTA- International School of Theatre Anthropology, di fatto una “scuola itinerante”. È una nuova esperienza di migrazione culturale, questa volta però non più orientata ad un semplice andare verso, ma determinata dal desiderio dell’andare con.

2.5.1 La mediazione tra le diverse culture

Il tentativo di Barba di portare la sua attività all’esterno, fuori dal Teatro di Hostelbro, è evidente già dall’inizio degli anni Settanta, quando, all’esperienza di laboratorio tra le mura del piccolo teatro danese, il regista accosta un’altrettanta feconda ed eclettica attività basata su corsi, seminari, pubblicazioni di libri e di una rivista (la TTT - Teatrets Teori

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og Teknikk, in italiano “Teoria e Tecnica del Teatro”), proiezioni di film didattici sul teatro. Non si tratta tuttavia solo di un’azione divulgativa per far meglio conoscere e comprendere le esperienze realizzate; l’intento è quello di mettere a disposizione di tutti il senso profondo di un itinerario interiore ed esteriore, reso possibile dall’incontro e dall’accoglienza dell’altro. Per questo l’ISTA può essere considerato un punto di arrivo – e al tempo stesso di una nuova partenza – del processo ideale del regista pugliese, sempre pronto a nuove sfide e a nuovi incontri. L’ISTA […] si fonda sull’idea del massimo scambio di esperienze quali ad esempio quelle esistenti tra orientali e occidentali, tra generazioni più anziane e generazioni più giovani, tra il teatro tradizionale e teatro di gruppo. Ogni anno, in luoghi diversi, antropologi, studiosi, maestri e allievi di tutto il mondo si riuniscono per mettere a confronto tecniche ed esperienze teatrali differenti41.

Il concetto chiave, quindi, risiede nell’idea di scambio – una linea evolutiva rispetto a quella dei corsi e dei seminari, legati, invece, a un modello più monodirezionale –: un incessante pellegrinaggio in tutto il mondo, alla ricerca di occasioni dove potersi confrontare con realtà diverse per lingua, ideologia, religione, modo di vita; la popolazione locale deve presentarsi al gruppo di Barba così come il gruppo stesso si presenta ad essa. 41

OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, in <www.teatrodinessuno.it>.

38


Si tratta, quindi, di un vero e proprio “baratto” basato sullo scambio di canti, danze, improvvisazioni e performance musicali, che avviene su base paritetica e valorizza il senso della reciprocità. Uno scambio di “tradizione”, giocato, però, in modo innovativo. È questa la prima, vera, concretizzazione di un «incontro […] proficuo fra la ricerca antropologica e la ricerca teatrale»42.

2.5.2 L’America Latina

Uno dei casi più significativi di “baratto culturale” è certamente quello che vede come protagonisti Barba e l’Odin da una parte, l’America Latina, e in particolare Cuba e le sue tradizioni, dall’altra, dall’inizio degli anni Ottanta all’attualità più recente. Non è un caso che sia proprio Cuba, il “bordello dell’America”, lo Stato latinoamericano che più affascina il regista italiano-scandinavo: forse perché la sua grandezza e le sue miserie fanno in qualche modo da specchio alle miserie e alla grandezza della Polonia in cui Barba visse l’apprendistato teatrale.

42

MARCO DE MARINIS,

Capire il teatro, Bulzoni, Roma 2003, p. 99.

39


E non è nemmeno un caso se proprio a Cuba nascono i primi scritti che ritraggono non il Barba-teatrante, bensì il Barba-scrittore: nel 2002 Lluís Masgrau ha raccolto gli articoli, le lettere aperte, gli interventi che dipingono i legami di Eugenio Barba con il teatro latinoamericano, che è un vero e proprio laboratorio vivente del cambiamento culturale, nonché crocevia problematico, ma anche fiero, della globalizzazione. Nell’ambito di quest’attività va menzionata la stesura, in spagnolo, dell’opera Obras Escogidas, comprendente al suo interno il testo integrale de La terra di cenere e di diamante, sempre di Barba, e il libro Arar el cielo. Diálogos latinoamericanos, pubblicato a Cuba. Si è di fronte a veri e propri attestati di stima reciproci, tanto del lavoro dell’Odin nell’isola centramericana, quanto della cultura e della tradizione di quest’ultima per gli attori europei. Testimonianze di un fortunato gemellaggio, su cui si basa la politica di rivitalizzazione delle relazioni tramite la diversità, talvolta osservata con uno sguardo disincantato e disingannato, gelido, ma che trova, per contro, il calore del rapporto generoso con lo spettatore.

40


2.5.3 L’Oriente

Se il legame con l’Occidente latinoamericano è prevalentemente di carattere politico-emozionale, quello con l’Oriente asiatico – ambiente culturale attualmente emergente sullo scenario del mondo globalizzato – ha una maggiore rilevanza tecnica, dovuta comunque alla propria tradizione culturale. I frequenti viaggi in India, a Bali, a Taiwan, in Giappone, in Cina, portano “tra le mura di Hostelbro” tantissime tecniche, forse non “al passo coi tempi”, che mediano simboli della tradizione locale e rappresentano un’identità che resta viva ad ogni passaggio di generazione: dal Kathakali (teatro-danza classico indiano) al Bharata natyam (arte composita di danza, arte drammatica, musica, rima e ritmo), sino al teatro Nô (teatro antico serio giapponese, le cui origini affondano nelle pratiche e cerimonie sciamaniche) e al Kabuki (forma di teatro giapponese costituita dagli ideogrammi ka “canto”, bu “danza”, ki “abilità”). Alcune di queste sono state anche parzialmente accolte nei “teatrilaboratori” di Stanislavskij, Mejerchol’d, Ejzenstein e Grotowski, ma

41


quasi mai per mezzo di un approccio diretto e in prima persona, come invece accade per i componenti dell’Odin. In particolare l’ultima, la scuola Nô, arte dei danzatori più che dei teatranti, è quella che maggiormente si radica nel laboratorio di Hostelbro, sulla base dell’amicizia tra Eugenio Barba e Katsuko Azuma, allievo di Tokuho Azuma; in un periodo di costante frequentazione il regista italiano perviene alla conoscenza dello jo-ha-kyu43, fondamentale nella caratterizzazione delle posture degli attori, prima nelle esercitazioni in laboratorio, poi in scena.

43

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna 2004, p. 57.

42


3.

Dietro le quinte

Il sipario è ancora calato. Gli spettatori non sono ancora in sala. Le luci di scena sono spente, le musiche di scena sono in silenzio. La rappresentazione spettacolare deve ancora attendere per avere una fisionomia definita da mostrare allo spettatore. L’attenzione di Barba e del suo teatro di ricerca è rivolta innanzitutto e soprattutto a quello che precede la messa in scena dello spettacolo: il laboratorio, luogo appartato di creazione artistica e di formazione dell’attore, del regista e della loro relazione, spazio di lavoro comune con l’obiettivo di «far provare esperienze allo spettatore […] nella continuità della ricerca»44. Il laboratorio diventa, quindi, l’ambiente privilegiato per poter fare, innanzitutto, esperienza di se stessi e, in secondo luogo, per incontrare gli altri, esternando la propria libertà e verificando l’uguaglianza fra gli esseri umani che travalica le loro differenze culturali.

44

FRANCO PERRELLI, Gli spettacoli di Odino: La storia di Eugenio Barba e dell'Odin teatret, cit., p. 79.

43


In questo modo, il teatro non è più soltanto produzione di uno spettacolo, ma fondazione di una relazione teatrale: un «fenomeno culturale e sociale, ma anche, e soprattutto, […] fenomeno di significazione e di comunicazione, e cioè come un fatto essenzialmente relazionale»45. Questa è una precisa scelta di campo per Barba: mentre intorno a lui molti pensano il teatro nella prospettiva semiotica, storico-storiografica e, soprattutto, sociologica, la sua esperienza ne valorizza la dimensione antropologica. Non è un riflusso nella individualità della persona, sottratta alla sua socialità; è, invece, un ripartire dal soggetto, dalla sua unità, dalla comune identità umana, prima che possa venire manipolato e condizionato dalle ideologie sociali. E non è un caso che questa prospettiva porti a porre attenzione più al linguaggio del corpo (che tiene insieme le diverse appartenenze culturali), che non a quello espresso mediante le parole (che invece sottolinea le differenze). Da questo punto di vista, Barba non è soltanto un uomo di teatro, ma lavora come un vero e proprio antropologo, così come egli stesso

45

MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 8.

44


afferma: «esattamente come il teatro si sta antropologizzando, l’antropologia si teatralizza»46.

3.5 Il training

Il punto di partenza dell’esperienza di laboratorio risiede nel training, pratica utilizzata in altri ambiti – ad esempio, lo sport – in cui è prevista un’impronta psicologica. Barba la accosta all’esperienza teatrale non come mera tecnica, ma come vera e propria base culturale della persona, prima ancora che dell’attore, che deve entrare in contatto cordiale con se stessa, con i suoi punti di forza e le sue contraddizioni. Rispondendo alla domanda di Franco Ruffini «Training, prove, spettacolo: quale rapporto istituiresti tra questi tre termini?», Barba puntualizza, innanzitutto, un concetto basilare: Il training non equivale alla prova. […] La prova è legata al risultato, mentre il training no. Mentre nel teatro tradizionale hai il binomio prova, spettacolo, nel Terzo Teatro hai spesso un trinomio training, prova, spettacolo. Il training può essere staccato dalla prova. Ci sono dei gruppi che hanno un training che non ha nulla a che vedere con la prova dello spettacolo. Ci sono due binari: su una rotaia hai il training. Le prove e lo spettacolo sono sull’altra»47.

46 47

MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 100. EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 77.

45


Delimitato il confine di ciò che il training non è, il regista dà una sua prima definizione: è una fase di apprendistato e ricerca, «un processo di autoidentificazione, di autodisciplina che si manifesta attraverso reazioni fisiche»48. È l’attore in quanto uomo con i suoi bisogni interiori a dare significato al training e a superare la pura e semplice fisicità del movimento,

predisponendosi

alla

recitazione,

mediante

la

caratterizzazione della sua stessa vita «prima ancora che questa vita cominci a rappresentare qualcosa o ad esprimersi»49. È questo il grado zero: l’attore non si preoccupa di farsi capire, ma solo di trovare quelle strategie che, in situazione di rappresentazione, gli consentiranno di attirare l’attenzione dello spettatore con la qualità della sua presenza, prima ancora che in funzione del messaggio che intende comunicare. Inizialmente il training era collettivo: prevedeva l’utilizzo delle stesse tecniche per tutti gli attori. Col tempo, invece, come ricorda lo stesso Barba nell’opera Aldilà delle isole galleggianti, «ci rendemmo conto che il ritmo è differente da individuo a individuo. […] Da allora il training si

48 49

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 71. MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 109.

46


basò su questo ritmo, si andò personalizzando, e il training divenne individuale»50. Una volta assimilati, gli esercizi vengono fusi in serie di due, tre o quattro, dando origine ad un unico esercizio dai diversi ritmi e dalla diversa velocità. Il valore psicologico di questi esercizi è davvero grande, anche se, all’inizio, possono sembrare impossibili da eseguire. Da ultimo viene accennata l’esistenza di un training fisico, fatto di «azioni elementari, esercizi che impegnano tutto il corpo, lo fanno reagire completamente»51, e un training vocale, poiché «la voce, nella sua componente semantica e logica come nella sua componente sonora, è una forza materiale, un vero atto che mette in moto, dirige, forma, arresta. In realtà si può parlare di azioni vocali che provocano una immediata reazione in chi ne è colpito»52. Tra le due componenti si può instaurare anche una sorta di “legame”, con il secondo che guida e direziona i gesti del primo.

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 53. Ibi, p. 54. 52 Ibidem. 50 51

47


3.6 L’Antropologia teatrale

Eugenio Barba è in assoluto il primo esponente del mondo del teatro a parlare esplicitamente di “Antropologia Teatrale”. Le sue basi fanno riferimento, come ricorda Leonella Cardarelli nell’articolo Lineamenti di antropologia teatrale, al periodo storico immediatamente successivo al primo trentennio del Novecento, quando, cioè, «il teatro iniziò a riprendere i residui delle innovazioni precedenti e invece di inventare “forme” nuove ora si inventano “modi” nuovi, con un'ottima qualità del processo artistico»53. Barba riprende la questione delle origini del teatro, ma, come sempre, guardarsi indietro è un modo per guardare oltre; chiedendosi come e quando l’umanità è passata dal rito allo spettacolo, si rende conto che il riferimento alla ritualità deve essere desacralizzato, per recuperare l’ordinarietà dei comportamenti umani; nello stesso tempo occorre riprendere le analogie strutturali fra i fenomeni rituali presenti nelle diverse culture, manifestazioni paradigmatiche della sfera biologica, ma non sempre coscienti e, dunque, neppure verbalizzabili.

53

LEONELLA CARDARELLI, Lineamenti di antropologia teatrale, in <www.neteditor.it>, 11/05/2006.

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Questo sforzo è necessario per sottolineare la comune natura degli uomini, i paradigmi portanti del rapporto fra pensiero e azione, la somiglianza fra le culture, in un mondo che invece sempre più esalta la soggettività e la differenziazione, non accorgendosi che questo porterà ad accelerare in modo sempre più drammatico il senso della frammentarietà e della disgregazione.

3.6.1 Gli elementi basilari

«L’Antropologia Teatrale è lo studio del comportamento scenico preespressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive»54. Con queste parole Eugenio Barba espone la sua idea di Antropologia Teatrale: una scienza, dunque, ma paradossalmente “non esatta”, tesa ad offrire un insieme di principi che possono risultare utili per il training (e dunque tutt’altro che anarchica), ma che non vuole essere rigida, perché considera l’incertezza e la flessibilità come indizi di apertura all’inedito. Uno studio sull’attore, uno studio per l’attore, dunque, che apre ad un nuovo campo d’indagine: il livello pre-espressivo, già menzionato nella 54

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 23.

49


definizione iniziale. Utilizzando termini più pragmatici, in quest’ambito si ricerca «cosa c’è nell’attore prima (alla base) dell’attore»55, nel suo bios, al fine di poter produrre significati e trasmettere le esperienze durante le attività di laboratorio. È opportuno chiarire, tuttavia, che la parola "pre-espressivo" non significa "senza espressione", poiché questa c'è sempre, ma sta ad indicare l'organizzazione della presenza fisica volta all'espressione, […] l'insieme dei procedimenti grazie ai quali l'attore modella la sua 56 presenza formando una specie di "seconda natura" ,

che deve prescindere da qualsiasi differenza, anche sessuale. In questo modo, non si vogliono negare le differenze fra gli esseri umani, ma la possibilità che esse possano essere lette come gerarchia che porta alla marginalità e all’esclusione. L’iter

che

determina

il

passaggio

dalla

pre-espressività

alla

rappresentazione, infine, si compone di tre livelli: il primo, individuale, che serve all’attore per riconoscere le proprie potenzialità e i propri bisogni; il secondo, che mette in relazione coloro che praticano lo stesso genere spettacolare e le loro tecniche, e li porta a dialogare su queste; il terzo, che mette insieme esperienze di attori di tempi e culture diverse, evidenziando i fattori transculturali che sono comuni nel genere umano. 55 56

MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 100. LEONELLA CARDARELLI, Lineamenti di antropologia

teatrale, in <www.neteditor.it>, 11/05/2006.

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Progettualità, processo creativo e produzione teatrale diventano così tre livelli di pensiero/azione che coinvolgono attori, regista e pubblico in un dinamismo dotato, allo stesso tempo, di continuità e discontinuità.

3.6.2 Il sats

Alla base dell’Antropologia Teatrale vi è, inoltre, il sats. Barba definisce sats quell’«impulso di un’azione che ancora si ignora e che può andare in qualsiasi direzione»57; esemplificando, il sats è il momento in cui una molla è tenuta in tensione, nel momento appena precedente lo scatto. Affinché il sats esista, però, vi deve essere, all’interno dell’attore, una certa quantità di energia “mantenuta in sospeso” (traducendo dal greco, infatti, energheia vuol dire ‘essere pronti all’azione’): Barba parla di un’energia invisibile all’occhio dello spettatore, ma che è presente dentro l’attore, ed è solo apparentemente statica. Quando non si muove quel che è visibile, l’esterno (il corpo), bisogna avere l’invisibile, l’interno (la mente) in movimento. Il modello è il cigno sull’acqua: scivola impassibile, ma le sue zampe nascoste lavorano senza sosta. Nel moto, 58 immoto; nella quiete, inquieto .

57 58

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 18. Ibi, p. 85.

51


Lo stesso concetto mantiene inalterata la sua efficacia quando, riprendendo le parole di un maestro dell’Opera di Pechino durante una seduta dell’ISTA, si afferma: «movement stop, inside non stop»59. Il sats, pertanto, comporta un forte legame tra pensiero e azione dell’attore; è “corpo e mente” come unica entità che agisce nella scena, così come avviene nella tecnica giapponese, già citata, dello jo-ha-kyu, tecnica caratteristica del teatro Nô. Letteralmente, gli ideogrammi “jo”, “ha”, “kyu” significano, rispettivamente, “trattenere”, “rompere, spezzare”, “rapidità”: rappresentano il percorso di formazione e sviluppo della forza, dell’energia, dapprima trattenuta, quindi sprigionata, e pronta ad arrestarsi, una volta raggiunto il suo culmine, davanti ad una nuova resistenza; proprio come accade per il sats, che postula una situazione di dialogo tra il corpo fisico ed il corpo mentale, senza, però, gerarchizzare questi due elementi in modo rigido.

3.6.3 Movimenti “extra-quotidiani”

Un’altra fondamentale caratteristica delle tecniche utilizzate nell’ambito dell’Antropologia Teatrale di Barba è l’uso di movimenti, azioni e 59

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 92.

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posture extra-quotidiane; è questo l’elemento forse più interessante del teatro di ricerca Barba, improntato al sovvertimento del paradigma delle azioni quotidiane: infatti, se in quest’ultimo si ricerca, consciamente ed inconsciamente, il minimo sforzo per ottenere il massimo risultato da ogni gesto, nel paradigma delle azioni extra-quotidiane avviene esattamente l’opposto, utilizzando il massimo sforzo per ottenere il minimo risultato. In

questo

modo

viene

superata

radicalmente

l’identificazione

economicistica dell’uomo, così come l’esasperazione di una prospettiva funzionalistica (l’individuo che serve a qualcosa), per far emergere, invece, una condizione di gratuità, che è alla base dell’essere persona e della possibilità di entrare in relazione con gli altri. Un cambiamento forte di prospettiva, quindi, che, in fase di laboratorio, stimola la ricerca e la sperimentazione degli attori, mentre, nella rappresentazione spettacolare, porta a rappresentare figure di grande impatto sul pubblico. Il

teatro,

così,

non

è

più

conferma

della

realtà,

secondo

un’interpretazione di tipo sociologico, e neppure simbolizzazione della realtà (come vorrebbe l’approccio semiotico), ma diventa elemento di

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“disorientamento volontario”, che porta a mettere in discussione il mondo circostante, che non appare più come l’unico mondo possibile. Questa riflessione di Barba non passa attraverso la definizione di un codice rigido di posture e posizioni da utilizzare, ma rinvia ad una rinnovata percezione ed utilizzo del corpo e del suo linguaggio: «nel contesto quotidiano la tecnica del corpo è condizionata dalla cultura, dallo stato sociale, dal mestiere»60. Nel contesto extra-quotidiano, invece, si seguono solo delle linee guida: sarà la «ricerca di libertà e fantasia, conoscenza di sé e dei meccanismi dell’azione, riconoscimento e

utilizzazione

della

drammaturgia

fisica»61

insita

in

ogni

attore/ricercatore a dar vita a dei veri e propri “modelli artistici”. Barba, infine, traccia un’ultima, importante differenza tra tecniche quotidiane ed extra-quotidiane, questa volta riferita non ad un discorso pragmatico, ma al messaggio: «le tecniche quotidiane del corpo tendono alla comunicazione, quelle del virtuosismo tendono alla meraviglia. Le tecniche extra-quotidiane, invece, tendono all’informazione: esse, alla lettera, mettono-in-forma il corpo rendendolo artificiale/artistico, ma credibile»62. Si può intendere questo pensiero come una forma di 60

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 30. FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 59. 62 EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 32. 61

54


attenzione e di amore per la ricerca della verità, pur nella consapevolezza di appartenere ad un mondo dominato dall’incertezza e dall’apparenza.

3.7 I principi che ritornano

Le linee guida accennate nel paragrafo appena concluso hanno, comunque, una “forma” e dei nomi, uniti sotto l’unica espressione di principi che ritornano; si è detto che non si tratta di norme fisse e immutabili, a tal punto che lo stesso Barba le definisce «leggi biologiche dell’attore, cioè quei determinismi materiali che regolerebbero il comportamento dell’uomo in situazione di rappresentazione»63. Tuttavia, esse non vanno vissute come suggerimenti per aggiungere bellezza al corpo dell’attore, bensì come mezzi per «togliere al corpo l’ovvietà quotidiana, per evitare che sia solo un corpo umano condannato a rassomigliare a se stesso, a presentare e rappresentare solo se stesso»64. Sono principi praticamente inscindibili tra loro, che fanno capo agli elementi basilari della pre-espressività, del sats e delle tecniche extraquotidiane, e che, pertanto, hanno delle sfumature molto simili.

63 64

MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 102. EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 56.

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Si tratta, comunque, di un’operazione pedagogica, ma di una pedagogia che non proviene da un soggetto esterno, bensì da una tensione interiore, che rende autoformativa l’esperienza teatrale, sulla scorta di un carattere autodidattico.

3.7.1 Equilibrio in azione

Nella vita quotidiana, afferma Barba, «l’equilibrio – la capacità dell’uomo di tenersi eretto e di muoversi in tale posizione nello spazio – è il risultato di una serie di rapporti e di tensioni muscolari del nostro organismo»65. Tuttavia, se, ad esempio, si provasse ad amplificare i propri movimenti, l’equilibrio ne sarebbe immancabilmente minacciato, ed il passaggio ad una situazione di déséquilibre (per dirla con Etienne Decroux, riguardo la tradizione del mimo moderno) è pressoché immediato. È questa la caratteristica che si può definire di “alterazione dell’equilibrio”, altrimenti detta «equilibrio di lusso»66, definizione di Barba ripresa da De Marinis in Capire il teatro: essa si basa sul rapporto

65 66

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 36. MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 103.

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tra i processi mentali, da un lato, e le tensioni muscolari, comprendenti anche gli impulsi fisici e i micromovimenti, dall’altro. Le tecniche per raggiungere una postura in equilibrio precario ed instabile sono varie e diverse tra loro, con l’unico, ovvio limite della forza di gravità, e possono comportare una modifica di posizione, rispetto alla quotidianità, dei piedi, poggiati «solo sulle punte (danza classica europea), solo sui bordi esterni (danza classica indiana)»67 invece che su tutta la pianta; delle ginocchia, delle anche o del bacino; delle braccia o della testa, con l’obiettivo di generare uno spostamento del baricentro fisico. La scuola asiatica – ossia quella giapponese, indiana e di matrice buddista – è maestra in questo e lo stesso Barba non fa mistero di aver interiorizzato e rielaborato le tecniche orientali, mutuandole non solo dagli attori del teatro Nô o della scuola di Bali, ma anche dalle danzatrici. Di conseguenza, qualsiasi movimento in scena avrà una sua nuova valenza – la “seconda natura” di cui si è parlato nell’attività di training – : anche la semplice idea di camminare può comportare uno sforzo fisicomentale notevole in questa paradossale ricerca. 67

MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 104.

57


3.7.2 Danza delle opposizioni

Il secondo principio descritto da Eugenio Barba nei suoi libri è definito danza delle opposizioni: in questo caso, l’essenza del movimento scenico risiede nell’efficacia di un “contrasto”, un principio ben noto alla cultura scientifica occidentale, ma anche alla sensibilità orientale, che tiene in gran conto, sia sul piano filosofico che su quello religioso, la teoria della riconciliazione degli opposti. Difatti, anche in questo caso, il regista pugliese si avvale del contributo della scuola teatrale nipponica, la quale utilizza il termine ‘hippari hai’ (letteralmente «tirare a sé qualcuno che ti tira a sua volta»68) per designare queste forze contrapposte, , e del teatro-danza balinese, «le cui posizioni sono costruite sul contrasto e sull’alternanza di parti del corpo in posizione kras (dura, forte) e parti in posizione manis (delicata, morbida»69. Pertanto l’attore deve entrare nell’ottica che ogni azione da lui compiuta deve avere inizio nella direzione opposta, generando una tensione nel gesto ed una trazione antagonistica con le tecniche dell’uso quotidiano.

68 69

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 43. MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 104.

58


Il corpo dell’attore rivela la sua vita allo spettatore in una miriade di tensioni di forze contrapposte. […] La danza delle opposizioni caratterizza la vita dell’attore a differenti livelli. Ma, in generale, nella ricerca di questa danza l’attore ha una bussola 70 per orientarsi: il disagio» .

Questa affermazione porta con sé uno spunto di riflessione interessante e paradossale, ma perfettamente in sintonia con i “punti cardine” dell’Antropologia Teatrale: il disagio, infatti, è, come già emerso nella riflessione relativa all’equilibrio, un vero e proprio «sistema di controllo, una specie di radar interno che permette all’attore di osservarsi mentre agisce»71, non attraverso gli occhi, bensì tramite una serie di percezioni fisiche che confermano la presenza di tensioni non abituali, extraquotidiane appunto.

3.7.3 Incoerenza coerente

Curioso già nel nome che Barba ne dà, il terzo principio è di per sé paradossale solo nel nominarlo. Con incoerenza coerente l’autore intende sottolineare, ancora una volta, come gli attori «si allontanino dalle tecniche del comportamento

70 71

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., pp. 43-44. Ibi, p. 44.

59


quotidiano anche quando debbono compiere semplici azioni»72; è proprio qui il paradosso della “regola”: l’incoerenza, ossia l’iniziale nonaderenza alla prassi quotidiana, si organizza a sua volta in una nuova sistematica coerenza. Pertanto i comportamenti scenici che, di primo acchito, possono sembrare «un intreccio di movimenti assai più complessi di quelli quotidiani, sono, in realtà, il risultato di una semplificazione»73: per questo motivo De Marinis ha rinominato questo principio, nel suo testo, principio della semplificazione, interpretando la semplificazione di cui parla Barba come «omissione di alcuni elementi per mettere in rilievo altri, che così appaiono essenziali»74 e realizzando, così, un meccanismo di “controscena”. È in atto un “processo triadico” di eliminazione, essenzializzazione e decontestualizzazione dei movimenti, come sottolinea ancora De Marinis. Tali dinamismi possono essere, però, a loro volta, raccolti in un’unica

espressione:

virtù dell’omissione; in questo

contesto,

“omissione” ha un significato più ampio, vuol dire “trattenere” e non sperperare la vitalità e l’espressività della presenza scenica dell’attore. 72

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 46. Ibi, p. 49. 74 MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 104. 73

60


Attraverso l’incoerenza incoerente, si è detto, viene rivalutata l’economia delle azioni, e, con questa, si opera un mutamento qualitativo anche dell’energia e delle forze che entrano in gioco, che vengono «isolate, eventualmente amplificate, e montate simultaneamente o in concatenazione, […] con risparmi di tempo e di energia»75, ma con un incremento proporzionale delle tensioni. È in questo contrasto che si nasconde tutta la bellezza e la suggestività dell’azione.

3.7.4 Equivalenza

L’ultimo principio di cui parla Barba, che tale non è per un preciso criterio gerarchico, è quello dell’equivalenza. Il procedimento di equivalenza si compone di due fasi principali: lo “strappo” di un qualcosa dalle sue normali regole di vita, prima; la sostituzione e ricostruzione delle medesime regole con altre equivalenti, poi. «Tutto accade come se il corpo dell’attore venisse scomposto e ricomposto secondo movimenti successivi e antagonisti, [e] alla fine di

75

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 49.

61


quest’opera il corpo non assomiglia più a se stesso»76. Ma, afferma ancora Barba, «questa trasposizione equivalente apre la composizione a nuovi significati diversi da quelli originali»77. Se è vero, dunque, che stessi gesti possono veicolare significati diversi, è altrettanto vero che si può rappresentare in scena una realtà credibile anche agendo nell’esatto contrario, come succedeva nel prototipo di mimo di Decroux: «l’azione di spingere qualcosa viene mostrata non proiettandosi col busto in avanti e facendo forza sul piede che sta dietro – come accade nella quotidianità – ma arcuando la schiena all’indietro, come se invece di spingere essa fosse spinta, flettendo le braccia verso il petto e facendo forza sul piede e la gamba che sta avanti»78; pertanto non è importante che l’azione, in scena, sia realistica, quanto piuttosto che sia reale. Questa pratica, denominata dalla scuola di teatro giapponese ‘ikebana’, mette in luce «l’attore e la sua capacità di infrangere automatismi, d’essere in vita»79. Da ciò ne consegue che l’attore, in questo processo, non finisca per rivivere l’azione, ma cerchi di ricreare il vivente nell’azione stessa e, per 76

EUGENIO BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, cit., p. 55. Ibi, pp. 53-54. 78 Ibi, pp. 54-55. 79 EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 162. 77

62


questo, si viene a creare nella mente dello stesso attore una tensione dualistica tra «il corpo quotidiano dell’attore-uomo e il corpo immaginario dell’attore-personaggio»80.

3.8 Il Terzo Teatro

Il cerchio si chiude. L’iter intrapreso da Eugenio Barba dal momento in cui coglie in sé una spiccata “vena teatrale” arriva ad un punto apparentemente di arrivo, – di fatto – generatore di un nuovo inizio. Questo punto prende il nome di Terzo Teatro. Sul perché di questo nome, Barba dà una risposta schietta: «è un profilo inatteso, che non sembrava adeguarsi alla nostra Cultura Teatrale: né al teatro cosiddetto tradizionale, né a quello d’avanguardia. […] Perciò: Terzo Teatro»81. Nella definizione, tuttavia, emerge anche una nota negativa e l’autore lo riconosce, ammonendo chi vi si approccia: «il Terzo Teatro indica innanzitutto una zona distruttiva, […] il ghetto in cui lasciarsi rinchiudere per garantirsi una precaria esistenza»82; un’idea, sì, di 80

MARCO DE MARINIS, Capire il teatro, cit., p. 108. EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 222. 82 Ibi, p. 223. 81

63


rinnovamento, ma che lascia agli “esperti del mestiere” dubbi, perplessità, e, perché no, anche polemiche. Infatti, c’è chi ha letto in questa definizione una creazione di falsa unità tra fenomeni differenti e contradditori; altri hanno denunciato la limitatezza in cui si racchiude, «volutamente seduto al suo umile posto in fondo alla fila. Un teatro che chiede per sé solo le briciole del prestigio della Cultura e del pubblico denaro»83. Barba non sente il bisogno di difendersi dai commenti e dai giudizi, ma persegue la sua via, la sua idea: per lui il Terzo Teatro è un teatro nonistituzionale che produce, però, cultura e valori; è un luogo d’incontro per uomini di teatro che non sono mai passati per le scuole tradizionali e che rifiutano le convenzioni del mestiere. Pertanto, si potrebbe affermare che egli concepisce la sua scuola in termini alternativi: un luogo, cioè, dove non ci sono classi, ma quasi delle famiglie, che si riuniscono attorno all’esperienza di maestri di teatro provenienti da diversi Paesi. Non si pone l’obiettivo, primario per il teatro tradizionale, di rivolgersi essenzialmente al pubblico, sostenendo l’utilità sociale del teatro, ma ciò che più conta per lui è la relazione che si instaura tra gli attori, che 83

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 222.

64


costituisce la prima “fase sociale”: se alla base vi è una buona relazione tra questi, la positività dello spettacolo e il felice impatto sul pubblico divengono una logica conseguenza. In questa apertura, che caratterizza la seconda “fase sociale”, lo spettatore impara a porre attenzione non al contenuto di ciò che viene raccontato, ma al come viene raccontato; viene “sedotto” dalla qualità delle relazioni teatrali, prima di concentrarsi sulla comprensione del messaggio; resta affascinato dallo sforzo di invenzione delle regole teatrali, piuttosto che convinto dalla realizzazione di una invenzione nelle regole. Solo così il pubblico viene sottratto alla abnorme moltiplicazione dei messaggi presenti nella società contemporanea, apparentemente diversi, eppure omologati, e guidato a scoprire che la vita sfugge a qualsiasi tentativo di categorizzazione etica ed estetica. Oggi, «il Terzo Teatro è entrato a far parte d’una diffusa coscienza dell’aggregarsi con un fine teatrale e sociale»84, anche lontano dalle capitali della cultura (Hostelbro ne è l’emblema).

84

FRANCO PERRELLI, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, cit., p. 160.

65


È qui, nel Terzo Teatro, «la materia vivente del teatro, […] che attira nuove energie e che – malgrado tutto – lo fa ancora essere vivo nella nostra società»85. I gruppi che, instancabilmente, continuano a sorgere sulle orme dell’Odin Teatret e del Terzo Teatro diventano come isole, magari un po’ sperdute, che possono sopravvivere solo «riuscendo, per la forza di un lavoro continuo, a individuare un proprio spazio, […] cercando l’essenziale a cui restare fedeli, cercando di costringere gli altri a rispettare questa diversità»86. Oggi i tempi si possono ormai definire maturi per poter fare tesoro delle riflessioni di Eugenio Barba, soprattutto all’interno del composito mondo giovanile. La sua esperienza biografica e teatrale suggerisce, infatti, come il viaggio nel proprio mondo interiore e la capacità di spaziare nella realtà globalizzata costituiscano le due facce della medesima medaglia: la conoscenza di sé alla base del rapporto con l’altro; la ricerca come dinamismo incessante della vita.

85 86

EUGENIO BARBA, Aldilà delle isole galleggianti, cit., p. 220. Ibidem.

66


APPENDICE Teatrografia essenziale – Odin Teatret

1965 Ornitofilene (Gli amici degli uccelli) Testo di Jens Biørneboe Adattamento e regia di Eugenio Barba Attori: Anne Trine Grimnes, Else Marie Laukvik, Tor Sannum, Torgeir Wethal Rappresentato 51 volte, tra ottobre 1965 e marzo 1966 Per 120-130 spettatori 1967 Kaspariana Testo di Ole Sarvig Adattamento e regia di Eugenio Barba Attori: Jan Erik Bergström, Anne Trine Grimnes, Lars Göran Kjellstedt, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Dan Nielsen, Torgeir Wethal Rappresentato 74 volte, tra settembre 1966 e febbraio 1968 Per circa 70 spettatori 1969 Ferai Testo di Peter Seeberg Adattamento dell’ensemble Regia di Eugenio Barba Attori: Ulla Alasjärvi, Marisa Gilberti, Juha Häkkänen, Sören Larsson, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Carita Rindell, Torgeir Wethal Rappresentato 220 volte, tra giugno 1969 e luglio 1970 Per circa 60 spettatori

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1972 Min Fars Hus Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Jens Christensen, Ragnar Christensen, Malou Illmoni (che abbandona lo spettacolo dopo alcune settimane di rappresentazione), Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Ulrik Skeel, Torgeir Wethal Rappresentato 322 volte, tra aprile 1972 e gennaio 1974 Per 60 spettatori 1974 Il libro delle danze Montaggio di numeri con la regia di Eugenio Barba Attori: Roberta Carreri, Tom Fjordefalk, Tage Larsen, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Torgeir Wethal Rappresentato 350 volte, tra il luglio 1974 e il gennaio 1980 Senza limite di spettatori 1976 Come! And the day will be ours Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Roberta Carreri, Tom Fjordefalk, Tage Larsen, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Torgeir Wethal Rappresentato 180 volte tra maggio 1976 e giugno 1980 Per 60 spettatori (il numero fu poi esteso a 150) 1977 Anabasis Spettacolo itinerante Regia di Eugenio Barba Attori: Torben Bjelke, Roberta Carreri, Toni Cots, Tom Fjordefalk, Francis Pardeilhan, Tage Larsen, Else Marie Laukvik, Iben Nagel Rasmussen, Silvia Ricciardelli, Ulrik Skeel, Julia Varley, Torgeir Wethal Rappresentato 180 volte fra aprile 1977 e settembre 1984 Senza limite di spettatori

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1978 Il Milione Montaggio di numeri di danza e musica con la regia di Eugenio Barba Attori: Torben Bjelke, Roberta Carreri, Toni Cots, Tage Larsen, Else Marie Laukvik, Francis Pardeilhan, Iben Nagel Rasmussen, Silvia Ricciardelli, Gustavo Riondet, Ulrik Skeel, Julia Varley, Torgeir Wethal Rappresentato 223 volte fra settembre 1978 e ottobre 1984 Senza limite di spettatori 1980 Ceneri di Brecht (seconda versione 1982) Testo e regia di Eugenio Barba Attori: Torben Bjelke (I versione), Roberta Carreri, Toni Cots, Tage Larsen, Francis Pardeilhan, Iben Nagel Rasmussen, Silvia Ricciardelli, Ulrik Skeel, Julia Varley, Torgeir Wethal. Rappresentato 166 volte fra marzo 1980 e ottobre 1984 Per 150 spettatori 1984 Matrimonio con Dio Testo e regia di Eugenio Barba Attori: CĂŠsar Brie, Iben Nagel Rasmussen Rappresentato 210 volte fra febbraio 1984 e il 1990 Senza limite di spettatori 1984 El Romancero de Edipo Testo e regia di Eugenio Barba Attori: Toni Cots Rappresentato 110 volte fra febbraio 1984 e il 1990 Senza limite di spettatori 1985 Il Vangelo di Oxyrhincus Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Roberta Carreri, Tage Larsen, Francis Pardeilhan, Iben Nagel Rasmussen, Ulrik Skeel, Julia Varley, Torgeir Wethal Rappresentato 214 volte tra marzo 1985 e giugno 1987 Per 250 spettatori

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1987 Judith Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Roberta Carreri Rappresentato, dall’agosto 1987, più di 270 volte: è ancora in repertorio Senza limiti di spettatori 1988 Talabot Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: César Brie, Jan Ferslev, Richard Fowler, Naira Gonzales, Falk Heinrich, Iben Nagel Rasmussen, Isabel Ubeda, Julia Varley, Torgeir Wethal Rappresentato 279 volte fra agosto 1988 e ottobre 1991 Per 250 spettatori 1990 Memoria Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Else Marie Laukvik, Frans Winther Rappresentato circa 100 volte fra marzo 1990 e il 1992 Per 30 spettatori 1990 Il castello di Holstebro Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Julia Varley Rappresentato, dal novembre 1990, più di 250 volte: è ancora in repertorio Per 120 spettatori 1991 Itsi-Bitsi Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Iben Nagel Rasmussen, Jan Ferslev e Kai Bredholdt Rappresentato, dal gennaio 1991, più di 250 volte: è ancora in repertorio Senza limite di spettatori

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1993 Kaosmos Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tina Nielsen, Iben Nagel Rasmussen, Isabel Ubeda, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther Rappresentato 298 volte, fra aprile 1993 e dicembre 1996 Per 200 spettatori 1993 Bianca come il gelsomino Drammaturgia e regia di Iben Nagel Rasmussen Attori: Iben Nagel Rasmussen 1997 Le farfalle di Doña Musica Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Julia Varley Rappresentato, dal settembre 1997, più di 100 volte: è ancora in repertorio Per 120 spettatori 1997 Dentro lo scheletro della balena Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther Rappresentato, dal febbraio 1997, circa 50 volte: è ancora in repertorio Per circa 100 spettatori 1998 Mythos Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther Rappresentato, dal maggio 1998, più di 170 volte: è ancora in repertorio Per 160 spettatori

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2002 Sale Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Roberta Carreri, Jan Ferslev Rappresentato, dal settembre 2002, più di 50 volte: è ancora in repertorio Per 150 spettatori 2003 Ode al progresso- Balletto (seconda versione, prima versione 1997) Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther (nella II versione anche Augusto Omolù) Rappresentato, dalla primavera 1997, circa 90 volte: è ancora in repertorio Senza limite di spettatori 2003 Le grandi città sotto la luna Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen, Augusto Omolù, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther Rappresentato, dal settembre 2003, più di venti volte: è ancora in repertorio Senza limite di spettatori 2004 Il sogno di Andersen Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen, Augusto Omolù, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther E’ in repertorio dall’1 ottobre 2004, quarantesimo compleanno dell’Odin Per 120 spettatori

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2006 Don Giovanni all’inferno Drammaturgia e regia di Eugenio Barba Attori: Kai Bredholdt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Tage Larsen, Iben Nagel Rasmussen, Mia Theil Have, Julia Varley, Torgeir Wethal, Frans Winther Con il Gruppo Folk Italiano “alla Casadei” Musicisti: Annada Prasanna Pattanaik e Ensemble Midt Vest E’ in repertorio dal 18 giugno 2006 Per 160 spettatori 2006 Il libro di Ester Testo e regia di Iben Nagel Rasmussen Consigliere alla regia: Eugenio Barba Attori: Iben Nagel Rasmussen, Uta Motz (in Italia: Elena Floris) E’ in repertorio dall’aprile 2006 Per 200 spettatori 2006 Ur-Hamlet- Theatrum Mundi Drammaturgia e regia di Eugenio Barba. Basato su Vita Amlethi di Saxo Gramaticus (1200 d.C.) Attori: Akira Matsui (Giappone), Cristina Wistari (Italia), Ni Nyoman Candri, I Wayan Bawa e 30 attori e musicisti del “Gambuh Pura Desa Ensemble” (Bali), Brigitte Cirla (Francia), Augusto Omolù e Cleber da Paixão (Brasile), Annada Prasanna Pattanaik (India), Magnus Errboe (Danimarca), Odin Teatret (Danimarca) e il Foreigners’ Chorus (43 attori da 21 paesi)

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1.4

Bibliografia

Bibliografia delle opere di Eugenio Barba BARBA EUGENIO, Aldilà delle isole galleggianti, Ubulibri, Milano 1985. BARBA EUGENIO, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano 2000. BARBA EUGENIO, L’essenza del teatro, in <Teatro e storia>, Anno XVII, n. 24, Bulzoni, Roma 2001. BARBA EUGENIO, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna 2004. BARBA EUGENIO, La terra di cenere e diamanti, Ubulibri, Milano 2004. BARBA EUGENIO, SAVARESE NICOLA, L’arte segreta dell’attore: un dizionario di antropologia teatrale, Ubulibri, Milano 2005. Bibliografia generale ALLEGRI LUIGI, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza, Roma-Bari 2005. ATTISANI ANTONIO, Un teatro apocrifo, Medusa, Milano 2006. BROOK PETER, Lo spazio vuoto, trad. di Isabella Imperiali, Bulzoni, Roma 1998. BROOK PETER, I fili del tempo. Memorie di una vita, trad. di Isabella Imperiali, Feltrinelli, Milano 2001.

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CAPPA FELICE, GELLI PIERO, Teatro della crudeltà, in ID. (a cura di), Dizionario dello spettacolo del '900, Baldini&Castoldi, Milano 1998. CARDARELLI LEONELLA, Lineamenti di antropologia teatrale, in <www.neteditor.it>, 11/05/2006. CRUCIANI FABRIZIO, A proposito della scuola degli attori, in <Città e Regione>, Anno VII, n. 5, a cura di Fabrizio Cruciani, Casa Usher, Firenze 1980. DE MARINIS MARCO, Capire il teatro, Bulzoni, Roma 2003. FLAM JACK D., Matisse on art, Phaidon Press, Oxford 1973. GROTOWSKI JERZY, La possibilità del teatro, in J. Grotowski, L. Flaszen, Il teatr Laboratorium di Jerzy Grotowsky 1959-1969, a cura di Ludwik Flaszen e Carla Pollastrelli, Fondazione Pontedera Teatro, Pontedera 2001. GUARRACINO SCIPIONE, ORTOLEVA PEPPINO, REVELLI MARCO, L’età delle Rivoluzioni e l’Ottocento, Mondadori, Milano 2001. OLIVA GAETANO, Il laboratorio teatrale, LED, Milano 1999. PALUMBO GIOACCHINO, I pionieri del teatro del Novecento, Bonanno, Acireale-Roma 2005. PERRELLI FRANCO, Gli spettacoli di Odino: La storia di Eugenio Barba e dell'Odin teatret, Pagina, Bari 2005. PERRELLI FRANCO, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Laterza, Roma-Bari 2007. RICHARDS THOMAS, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993. RUFFINI FRANCO, Stanislavskij. Dal lavoro dell’attore al lavoro su di sé, Laterza, Roma-Bari 2005.

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Sitografia

www.dramma.it www.drammaturgia.it www.neteditor.it www.odinteatret.dk/productions/current_productions/ur-hamlet.htm www.sipario.it www.teatrodinessuno.it/barba www.teatroestoria.it

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