In copertina: Affresco della metĂ del II secolo d.C. scoperto durante gli scavi sul lungotevere di Pietra Papa del 1939-1941. Attualmente conservato al Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo.
Alle nostre famiglie, a Sara
1
2
“Mio fiume anche tu, Tevere fatale..� Giuseppe Ungaretti, Il Dolore
3
4
Marco Musetti, Claudio Pantano
Il Tevere dimenticato Analisi storica da Ponte della Scienza a Ponte della Magliana
5
6
Indice Prefazione Il lungotevere di Pietra Papa L’origine del nome Storia I rinvenimenti sul lungotevere di Pietra Papa Cleopatra, amante portuense I rinvenimenti del 1915 Gli scavi del 1939-1941 Descrizione degli ambienti
9 11 12 16 17 22 24 26 29
Fosso Tiradiavoli
44
Borghetto Santa Passera
46 48
L’assedio di Roma del 1849
Chiesa di Santa Passera L’origine del nome Ubicazione Descrizione L’esterno Interno Il livello superiore Il livello inferiore Il livello Ipogeo
Vicus Alexandri Ubicazione L’obelisco di San Giovanni in Laterano
Pian Due Torri Descrizione Tenuta Pian Due Torri
Bibliografia
54 54 58 63 63 65 65 78 86 90 95 100 102 104 107 116
7
8
Prefazione Questo lavoro costituisce la parte di ricerca storica di un piÚ grande progetto di Tesi architettonica-paesaggistica di Laurea Magistrale. Quest’ultimo si propone come obiettivo la riqualificazione delle aree golenali del Tevere comprese tra il Ponte della Scienza e il ponte della Magliana. Con questa appendice cercheremo invece di illustrare la storia e le curiosità di ogni luogo o manufatto riscontrate durante l’analisi. Non tratteremo volutamente gli argomenti in modo cronologico, ma lo faremo immaginando il lettore ripercorrere la riva destra del fiume in una passeggiata in direzione della foce.
9
10
Il lungotevere di Pietra Papa Il primo luogo in cui ci siamo imbattuti nella nostra ricerca è il lungotevere di Pietra Papa, che abbandona i rigidi argini in muratura, che caratterizzano il nucleo centrale di Roma, mostrando un paesaggio fluviale naturale quasi dimenticato. In particolare questo tratto di lungofiume collega il lungotevere Vittorio Gassman a piazza Antonio Righi, nel quartiere Marconi. Si sviluppa tra Ponte della Scienza e Ponte Marconi volgendo lo sguardo al lungotevere Dante e al quartiere San Paolo, situati sulla sponda opposta del Tevere. In questa zona, viene finalmente lasciato maggiore respiro al fiume, fino ad ora incanalato entro argini in muratura che lo decontestualizzano totalmente dalla città. La volontà progettuale è infatti quella di ricucire la frattura creatasi tra l’impianto urbano e il sistema naturalistico, affinché tornino a far parte della stessa dimensione.
11
L’origine del nome Il nome Pietra Papa deriva dalla corruzione dell’originario nome Prata Papi, ovvero vasti prati incolti (prata) della nobile famiglia romana Papa. “I Papa, possessori di tali prati di cui si fa menzione nel nome, sarebbero da identificare con una antica famiglia nobile di Trastevere, quasi certamente imparentata con i Papareschi, casata molto potente nel Medioevo e nota per aver dato i natali al pontefice Innocenzo II (11301143), al quale si deve l’edificazione nelle forme attuali della Basilica di 1 Santa Maria in Trastevere.” Il documento più antico, una donazione da parte di una nobildonna chiamata Teodora, in cui compare il toponimo è datato 1° febbraio 968 d.C.: “pratum unum in integro cultum et absolatum cum terminis et fossatis suis et cum omnibus ad eum pertinentibus, positum foris porta 2 Portuense in loco qui appellatur Prata Papi (...) propinque cripta alba.” L’origine medievale del nome fa intuire che la zona ha un passato ben più remoto di quanto si creda, con insediamenti che risalgono al periodo repubblicano.
1
A. Di Mario, a cura di A.Anappo, Atlante dei beni culturali del Municipio Roma XV Arvalia-Portuense, Roma, 2012, p. 200 2 ivi, p. 201 12
1 Filippo Trojani, Carta topografica del suburbano di Roma desunta dalle mappe del nuovo censimento, Roma, 1839
13
2 Aerofoto volo E.T.A., 8 Gennaio 1958, Fonte I.C.C.D. Laboratorio per la Fotointerpretazione e Aerofotogrammetria, vista sul nascente quartiere Marconi
14
3 Foto satellitare del quartiere marconi, 2017. Fonte mappe di Apple
15
Storia Questo tratto di lungofiume ha assunto la configurazione odierna solo negli anni ‘50/‘60 sebbene i suoi primi insediamenti siano di origine antichissima. La logica della selvaggia speculazione edilizia, risalente al periodo del boom economico italiano, nasconde l’importante valenza storica di questa porzione di città. Proprio in questi luoghi si svolse una delle più dure battaglie combattute per il predominio su i terreni più fertili e sulle vie di comunicazione. I Romani fronteggiarono i vicini Etruschi su un terreno di scontro che arrivava fino alle pendici del Gianicolo sulla riva destra del Tevere, a circa 20 km dal Campidoglio. L’area mostra quindi un grande passato testimoniato da numerosi rinvenimenti, sacrificati o distrutti in favore della intensiva cementificazione del quartiere Marconi. Vista la posizione strategica sulla sponda destra del fiume Tevere e la vicinanza con il porto fluviale si può intuire il ruolo commerciale svolto dalla zona in passato. Come testimonianza di ciò abbiamo alcune case rustiche e magazzini, utili come depositi del vicino porto fluviale di Ripa Grande. I primi insediamenti sono databili tra la fine dell’età repubblicana, dimostrato dalla presenza degli Horti Caesaris, e l’inizio dell’Impero, con la realizzazione della via Portuense e della Villa di Pietra Papa. In questo periodo i ceti meno abbienti ma più produttivi, come artigiani, portuali, liberti e stranieri, si insediarono nella fascia “extraurbana” a ridosso del Trans Tiberim. “In epoca medievale le fonti attestano il ripopolamento agrario già dall’Anno Mille, e la presenza di una cisterna (pozzo) e di una chiesina (dedicata a San Pantaleone) nei pressi dell’attuale via Quirino Majorana, 3 da cui deriva il toponimo antico di Pozzo Pantaleo.”
3
A.Anappo, Atlante dei beni culturali del Municipio Roma XV ArvaliaPortuense, Roma, 2012, p.128 16
I rinvenimenti sul lungotevere di Pietra Papa Nel 1915 una violenta inondazione distrusse gli argini; quando le acque tornarono nell’alveo naturale emersero resti archeologici risalenti all’epoca romana. Il ritrovamento aveva le caratteristiche di un vasto impianto termale alle porte dell’Urbe. Fu il primo ritrovamento archeologico nei pressi del porto fluviale di San Paolo, nella località di Pietra Papa, proprio davanti agli impianti elettrici di cui la Società Anglo-Romana era proprietaria. Due distinte campagne di scavi, rispettivamente nel 1915 e nel 1939, hanno svelato un complesso architettonico provvisto di una piccola darsena e collocato oltre l’argine che seguiva la curvatura del fiume, a cui si accedeva tramite una rampa in opus mixtum (reticolato e laterizio) interrotta da una piccola scalinata di 11 gradini (fig.6). Le dimensioni e il fatto che la rampa fosse appoggiata alla costruzione portò a pensare che il porto non prevedeva almeno inizialmente un flusso di navi commerciali continuo, bensì è più credibile che le navi attendessero per un breve periodo un posto nel vicino porto nei pressi dei magazzini. “È attivo tra fine I sec. a.C. e inizio II d.C., ma le banchine sono ancora praticabili nel 1483, quando Sisto IV vi si imbarca diretto a Ostia su una 4 grande nave bucinatoria.” Sebbene inizialmente non avesse una connotazione commerciale, è storicamente nota anche l’attività portuale della zona. “Il complesso ha una seconda vita nel 123 d.C., quando una corporazione 5 mercantile (mercatores) ne fa un centro per lo smercio del pesce.” Secondo il dott. Giulio Jacopi, il complesso architettonico, rinvenuto durante gli scavi, è da attribuirsi agli Orti di Cesare. La motivazione che lo ha portato a questa conclusione è stata la scoperta di un podio rettangolare, realizzato in muratura a sacco, che conservava ancora le impronte dei blocchi del rivestimento andati ormai perduti. Inoltre furono trovati enormi blocchi marmorei e vari frammenti di fregio con figure di trofei. Jacopi, attenendosi alla tradizione letteraria (Tacito e Plutarco in particolare) che vuole uno dei templi dedicati alla Dea all’interno del 4
A.Anappo, Atlante dei beni culturali del Municipio Roma XV ArvaliaPortuense, Roma, 2012, p.387 5 A.Anappo, Atlante dei beni culturali del Municipio Roma XV ArvaliaPortuense, Roma, 2012, p.387 17
complesso, ipotizzava che i ritrovamenti in questione potessero riferirsi al Tempio della dea Fortuna. “Sul finire dell’anno fu innalzato un arco presso il Tempio di Saturno a ricordo del ricupero, sotto la guida di Germanico e con gli auspici di Tiberio, delle aquile perse da Varo; e si consacrarono un tempio alla Fortuna Felice vicino al Tevere nei giardini lasciati dal dittatore Cesare al popolo romano, un sacrario alla gente Giulia e una statua al divo Augusto 6 presso Boville.” Come recita Ovidio nei Fasti: “Fors Fortuna ad miliarium primum”, il tempio si trovava dunque ad un miglio dalla città. Stabilire il punto di partenza del miglio è impresa ardua. Secondo Rodolfo Lanciani, archeologo e topografo italiano, gli Orti sono da collocarsi a destra della via Portuense alle pendici dei colli di Monteverde, avendo preso come limite il Tevere all’altezza di ponte Emilio. Per Jacopi invece il punto di partenza è da cercare fuori dalle mura Serviane, precisamente nella zona di Trastevere ed il suo limite abitativo. Il miglio ricadrebbe così nella zona di Pietra Papa. A confermare la tesi di Jacopi è un ritrovamento di un’ara marmorea con il rilievo di una figura femminile che ben si identifica con la dea Fortuna per la cornucopia addossata al petto e la patera nella mano destra, una coppa usata per versare liquidi durante i sacrifici rituali.
6
Tacito, traduzione di B. Ceva, Annali, Bur Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1981 18
4 Localizzazione degli Orti di Cesare sul lungotevere di Pietra Papa, in base alla planimetria elaborata durante gli scavi di Giulio Jacopi 19
5 Foto degli scavi del 1939/40 con la basilica di S.Paolo sullo sfondo. 6 Dettaglio della scalinata di accesso alla darsena
20
Orti di Cesare di Antonello Anappo Gli Orti di Cesare, in latino Horti Tiberini o Caesaris, sono una proprietà fondiaria romana extraurbana, localizzabile tra le propaggini ovest del Trans Tiberim (il Gianicolo) e la Piana di Pietra Papa. Verso il 49 a.C. il console Caio Giulio Cesare ne acquista la proprietà, per mettervi al pascolo allo stato brado la Mandria sacra di cavalli con cui ha attraversato, vittoriosamente, il fiume Rubicone. Nell’anno 46 a.C. Cesare alloggia negli Horti, lontano da occhi indiscreti, la regina Cleopatra, sua preda di guerra e allo stesso tempo sua amante e conquistatrice. Alla morte del dittatore, nel 44 a.C., gli Horti diventano proprietà pubblica, attraverso una donazione al Popolo di Roma contenuta nel suo testamento. La struttura edilizia degli Horti è nota solo attraverso la descrizione degli storici. Plutarco attesta che verso le pendici del Gianicolo sorgeva il Palatium, un edificio di medie dimensioni non archeologicamente noto. Esso si collocava in posizione elevata ed era circondato da alti e odorosi pini. Dopo l’arrivo di Cleopatra il Palatium è ampliato, per adeguarsi al rango di una regina: si aggiungono un peristilio, sontuosi affreschi e la statua colossale di un guerriero gallico. Nei rigogliosi giardini trovava posto un tempietto dedicato alla Dea Fortuna, voluto da Cesare per ringraziare la Sorte favorevole in occasione della nomina a dictator perpetuus (dittatore a vita). I giardini si aprivano sul Tevere con ormeggi e darsene portuali, in cui era alla fonda il barcone egizio di Cleopatra.
21
Cleopatra, amante portuense di Antonello Anappo Cleopatra (69-30 a.C.) nasce ad Alessandria d’Egitto dalla famiglia regale dei Tolomei. Governa dalla primavera 51 insieme al fratello Tolomeo XIII, di cui è sposa, fino alla tumultuosa deposizione, ispirata dal consigliere Potino. Quando Pompeo, inseguito da Cesare, sbarca in Egitto, è in corso una furibonda guerra civile: da una parte gli eserciti di Tolomeo XIII e della sorella minore Arsinoe, dall’altra gli eserciti di Cleopatra e dell’altro fratello, Tolomeo XIV. Cleopatra è destinata a sicura sconfitta: Tolomeo controlla la capitale, Cleopatra è allo sbando nel deserto nei pressi di Alessandria. L’arrivo di Pompeo, in fuga da Cesare, rimescola le carte in tavola. Il consigliere di Tolomeo XIII, Potino, nella speranza di ingraziarsi Roma, fa uccidere Pompeo subito dopo lo sbarco, e ne offre a Caio Giulio la testa. La reazione del console è però sdegnata, tanto da catturare Potino e giustiziarlo sommariamente, e prendere le parti della sua oppositrice Cleopatra. Ma Cleopatra non è solo un’alleata di Caio Giulio: nel frattempo ne è divenuta l’amante. Lo scontro militare decisivo avviene ad Alessandria nel 48: le successive vittorie di Tapso e Munda consegnano a Caio Giulio l’intero Egitto, che rimane formalmente indipendente, sotto la guida di Cleopatra. Molto si è scritto sulla relazione tra Cleopatra e Cesare, in verità con poca documentazione e molte ipotesi. L’avvenenza di Cleopatra è spesso messa in dubbio (sarebbe stata bassa e col naso a becco!). Senza dubbio però gli interessi del console romano e della regina sono convergenti: Caio Giulio vuole l’Egitto per impadronirsi delle sue risorse finanziarie, e Cleopatra, non potendo fermarlo, mira a sedersi al suo fianco. A complicare il tutto, scoppia tra i due una relazione, che forse non fu sincera, ma di sicuro fu ardente. Nel 46 Caio Giulio, ormai padrone di un Egitto pacificato, prende la decisione improvvisa di tornare a Roma, per incassare il credito di popolarità maturato con le sue campagne e candidarsi al potere supremo nella Repubblica. La regina-amante decide di partire con lui, con il figlioletto Tolomeo Cesare, detto Cesarione, appena nato dalla loro passione. Dopo breve navigazione le navi di Caio Giulio gettano l’ancora ad Ostia. Il console
22
alloggia Cleopatra poco al di fuori di Roma, nei suoi Horti sulla Riva Portuense. Cleopatra è pur sempre una straniera, e occorre cautela nel presentarla ai Romani e alla moglie legittima, Calpurnia. Nella corte egiziana in Riva destra Cleopatra rimarrà due anni, dal 46 fino alla tragica morte dell’amante, console, dittatore alle idi di marzo del 44.
23
I rinvenimenti del 1915 A seguito dell’inondazione del 1915 che permise di scoprire alcuni resti archeologici, vennero eseguiti gli scavi solo della ripa e dell’area su cui passava, prima della piena, la via Alzaia. Quest’ultima, prossima alla sponda destra del Tevere, correva parallela all’antica via Campana, sostituita in seguito dalla via Portuense. Gli scavi si limitarono a riportare in luce solo avanzi di costruzione antiche e pavimenti musivi, evidenziando ben cinque ambienti termali, con impianti di riscaldamento. Il complesso architettonico in opus reticolatum, con dei rifacimenti in laterizio del II sec., testimonia il fatto che la villa suburbana abbia avuto una vita attiva e durevole lungo il fiume Tevere. Gli ambienti termali, risalenti all’inizio del II° sec. (sotto l’impero di Adriano), sono stati riconosciuti con certezza grazie alla stratificazione della pavimentazione. Le prime due stanze presentavano infatti un pavimento sostenuto da suspensurae, ovvero la tecnica che prevedeva l’uso di pile di mattoni quadrati sovrapposti. Secondo Vitruvio infatti questa tecnica è usata negli ipocausti, ovvero il sistema di riscaldamento, ricorrente nei calidari termali, che consiste nella circolazione di aria calda entro cavità poste nel pavimento. Quest’ultimo era poi ricoperto da un mosaico in bianco e nero con scene di lottatori e iscrizioni. Da questo locale si accedeva poi ad una stanza rettangolare senza uscita. Non si conosce la lunghezza di questa seconda sala a causa di una frana, tuttavia ci è pervenuta la pavimentazione musiva, che nella parte più integra posta all’inizio dell’ambiente, presenta una scena di palestra contornata da una fascia bianca tra due nere. La rappresentazione mostra due lottatori: le figure sono nere su fondo bianco, mentre le pieghe dei vestiti e i contorni dei muscoli sono linee di tessere bianche. Gli altri tre ambienti, uno dei quali coperto da una volta a botte a sesto ribassato, sono di dimensioni più piccole, databili per la struttura dei muri all’inizio del II° sec., e formano insieme un lungo corridoio. Nonostante gli scavi mostrassero importanti scoperte, vennero reinterrati nel giro di un anno.
24
7 Dettaglio della pavimentazione musiva raffigurante scena di lottatori rinvenuta durante gli scavi del 1915
25
Gli scavi del 1939-1941 Gli scavi sul lungotevere di Pietra Papa ripresero una volta che i lavori di svasamento delle golene del Tevere, voluti dall’Ufficio Speciale per il Tevere del Genio Civile, riportarono alla luce frammenti marmorei e laterizi, oltre a mosaici e affreschi di pregevole fattura appartenenti ad un complesso architettonico di età romana. L’impianto, distinto in vari nuclei, non mostrava una chiara relazione tra gli elementi che lo componevano. Le due differenti tecniche edilizie utilizzate fanno pensare a due differenti fasi di esecuzione: una prima fase, rappresentata dall’uso di opus reticolatum, databile tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’impero e una seconda, con l’utilizzo di un opus reticolatum più scadente con ricorsi di laterizi, risalente alla seconda metà del II° secolo d.C. Come descritto in “Romana Pictura: La pittura romana dalle origini all’età bizantina” non è certa la relazione tra gli scavi del 1915 e del 1939, ma si ipotizza solo che facessero parte di un unico complesso. L’autrice continua: “In base alla documentazione in nostro possesso, non si può stabilire con certezza un nesso topografico che leghi gli scavi del 1915 a quelli del 1939, mancando in entrambi i casi un preciso riferimento cartografico al luogo in cui gli interventi furono eseguiti. Si può solo ipotizzare, considerate alcune sostanziali somiglianze tra i ritrovamenti dei due scavi, come l'estrema vicinanza al letto del fiume, la presenza di tecniche edilizie omogenee e il rinvenimento nelle murature degli stessi bolli laterizi, che si tratti di strutture riferibili a complessi fra loro collegati.”
26
8 Planimetria d’insieme in base allo schema di G. Jacopi, risultato del rilievo sommario svolto dall’impresa del Genio Civile, spesso impreciso, come nel caso del blocco D,E e F. 27
9/10 Viste aeree dell’area di Pietra Papa negli anni 1939/40 28
Descrizione degli ambienti Il corridoio, I° secolo a.C. L’ambiente T, il corridoio a sud del nucleo principale dell’area scavata, presenta una struttura in opus reticolatum con blocchi in tufo e rappresenta la parte più antica del complesso. Le pareti dell’ambiente erano rivestite da un intonaco dipinto di cui si conserva solamente lo zoccolo ed una piccola porzione della zona mediana sottostante. Alcuni affreschi sono conservati al Museo Nazionale Romano, ma per via del loro pessimo stato di conservazione non siamo certi di dove fossero all’interno dell’ambiente. Nel frammento maggiore (figura 11) si vedono due coppie di uccelli ai lati di vasi su fondo rosso, probabilmente staccato dalla parete nord del corridoio come si può dedurre da una foto dell’epoca con il gazometro sullo sfondo. Gli affreschi del corridoio sono riconducibili alla fase iniziale del terzo stile pompeiano, in cui ricorrono fondi monocromi con figure contrapposte e intervallate da elementi vegetali, preannunciando quelle “cuspidi verticali” generalmente stilizzate nel terzo stile e usate come elementi ornamentali. Le composizioni paratattiche (figura 12), scandite da candelabri aventi funzione di colonne su fondo monocromo, risultano tipiche del cosiddetto “stile dei candelabri”. La datazione attribuita agli affreschi è in accordo con il metodo costruttivo usato per la realizzazione del manufatto architettonico.
29
11/12 Affreschi dell’ambiente T, risalenti all’ultimo ventennio del I secolo a.C.
30
13 Foto raffigurante gli scavi del corridoio T. Sullo sfondo il Gasometro 14/15 Foto dei ritrovamenti con S.Paolo sullo sfondo
31
Le stanze, II° secolo d.C. Questi locali, datati molto probabilmente intorno al 123 d.C, rappresentano i rinvenimenti di maggior pregio dell’intero scavo essendo interamente dipinti con scene di barchette lusorie di piccole dimensioni. La data è nota in quanto sotto all’intonaco è stato rinvenuto uno strato di tegole che riportava un bollo datato. Inoltre le stanze erano interamente pavimentate: l’ambiente D aveva un mosaico bianco e nero, mentre l’ambiente E presentava un riquadro a mosaico policromo con motivi geometrici. Il primo è un ambiente rettangolare, con altezza massima di 2,6 m, voltato a botte ed è posto ad un livello inferiore rispetto all’ambiente A ricavato dalle sostruzioni di periodi precedenti. La tecnica costruttiva utilizzata è riconducibile al secondo periodo di esecuzione che si sovrapponeva al reticolo originario. Sulla parete Nord una piccola feritoia porta all’ambiente C, comunicante tramite una porta a sud con l’ambiente F e ad est con l’ambiente E. Gli affreschi partivano da un’altezza di 45 cm, in quanto era presente uno zoccolo in marmo bigio sulla parte bassa. Nell’allestimento museale, gli otto pannelli contenenti gli intonaci dipinti sono fissati attraverso un’intelaiatura metallica in modo da ricostruire l’originale volta a botte. La decorazione sulla parete nord è divisa in tre pannelli che presentano un fondo verde acqua su cui si muovono una barca con tre personaggi ed una fitta fauna marina. La parete sud, anch’essa composta da tre pannelli accostati, presenta un fondo rosso scuro parzialmente svanito con un’imbarcazione guidata da tre persone e riccamente popolata da pesci
32
16 Planimetria delle stanze, secondo lo schema di G. Jacopi
33
17 Affresco dell’ambiente C, Nereide che cavalca un ippocampo, metà del secolo II d.C. 34
18 Affresco da ambiente non identificato, lotta tra soggetti marini, metĂ del secolo II d.C. 35
19 Affresco da ambiente non identificato, lotta tra soggetti marini, metĂ del secolo II d.C. 36
L’ambiente E, attiguo all’ambiente D, presentava la stessa tecnica edilizia dal punto di vista costruttivo. Il locale era anch’esso voltato, forse a crociera, ma purtroppo non fu conservata la copertura al momento dello scavo. Anche qui gli affreschi partono al di sopra della zoccolatura marmorea e presentano immagini che richiamano la navigazione attraverso figure di imbarcazioni e una vasta gamma di pesci. Purtroppo come nel caso dei precedenti ambienti non si conosce l’esatta collocazione delle decorazioni. Tuttavia grazie alle foto scattate durante le fasi di scavo, si è riuscito a capire l’appartenenza di alcuni frammenti, come ad esempio gli affreschi raffiguranti le navicelle alfa e beta, site sulla parete est della stanza (fig.25). La navicella alfa mostra quattro figure, due intente alla voga e due alla pesca. A poppa è dipinto un piccolo quadro su cui sono raffigurate figure mitologiche che meritano una particolare attenzione. Su trono di colore giallo e bianco troviamo Serapide, Iside alla sua destra e Demetra alla sua sinistra, accucciato al suo fianco destro troviamo Cerbero. Serapide è una divinità egizia di epoca greco-romana, legata al culto di Osiride e Iside, il che giustifica anche la presenza di Iside nel quadro. Demetra è presente nella raffigurazione in quanto è la divinità con cui Erodoto identificava Iside. L’importanza del quadro sta nella sua facilità di lettura, comprensibile sia per lo spettatore greco-romano che per quello egizio. La navicella beta è quella cromaticamente meglio conservata. La scena mostra una navicella dissimile dalla alfa perché presenta poppa e prua identiche. Come le altre navi presenta sullo scafo quadri che raffigurano scene di vita quotidiana, fantastiche o mitologiche.
37
38
20/21 Dettagli dell’affresco sulla parete ovest dell’ambiente E, metà del II secolo d.C. 39
22/23/24 Foto storiche degli scavi del tempio della dea fortunae in basso l’ambiente D fotografato durante gli scavi del 1939/40
40
25 Affresco sulla parete ovest dell’ambiente E, imbarcazioni gamma e delta con delfino, metà del II secolo d.C. Il riflesso della navicella sull’acqua denota la raffinatezza dell’autore.
41
26 Affresco sulla parete est dell’ambiente E, Erote che cavalca un delfino, metà del II sec. d.C.
42
43
Fosso Tiradiavoli di Andrea Di Mario
La Marrana Tiradiavoli (o in epoca medievale Marrana di Pozzo Pantaleo) è un corso d’acqua, oggi interrato, che nasce dalle sorgenti della Valle dei Daini (a Villa Doria-Pamphili) e - dopo aver attraversato la profonda valle di via di Donna Olimpia e costeggiato le alture dell’Ospedale San Camillo presso Pozzo Pantaleo - sfocia nel Tevere all’altezza di piazza Meucci. Il fiumiciattolo deve il suo sinistro nome ad una credenza popolare secondo la quale, sotto le arcate dell’acquedotto romano di Villa Pamphili, alcuni diavoli fermarono la carrozza di Donna Olimpia Maidalchini, conosciuta per la sua malvagità, per accompagnarla direttamente all’inferno. La stessa carrozza, condotta (tirata) da diavoli, con a bordo il fantasma della dannata nobildonna, sarebbe però ancora oggi solita apparire con grande fragore, a turbare le notti dei Romani. Nel suo percorso la marrana era scavalcata da alcuni ponti, oggi scomparsi, il più importante dei quali era posto sulla Via Portuense, in prossimità del bivio da cui partiva l’antica Via della Magliana. A monte di questo incrocio alcuni tratti dell’alveo erano stati regolarizzati, probabilmente già in epoca classica. Altri due ponti, oggi scomparsi, erano quello della novecentesca via di Vigna Corsetti e quello posto nei pressi della foce. Perfettamente visibile fino alla fine degli anni Trenta la marrana iniziò ad essere interrata quando venne colmata durante la costruzione delle case popolari di via Donna Olimpia. Qualche decennio più tardi, con la costruzione della Purfina e l’edificazione dei primi lotti di via Oderisi da Gubbio, la marrana scomparve quasi del tutto, con l’eccezione dell’ultimo breve tratto, dove è ancora visibile un manufatto idraulico.
44
1/2/3 Sbocco finale della Marrana Tiradiavoli
45
Borghetto Santa Passera di Antonello Anappo
Il Borghetto di Santa Passera è un insediamento spontaneo, sorto agli inizi del Novecento nella golena tra via della Magliana e il Tevere, a ridosso della chiesina di Santa Passera. Durante il fascismo il Governatorato di Roma si occupa diffusamente delle condizioni miserevoli delle famiglie che vi dimoravano, con una serie di ispezioni e relazioni di visita. La sociologa Nicoletta Campanella ha rinvenuto una corrispondenza del 1929, tra il governatore Francesco Boncompagni Ludovisi e Raffaello Ricci, assessore ai Servizi assistenziali, in cui si detta la linea da seguire sui borghetti: «Demolire le baracche piu vicine alle città; trasportare i paria appartenenti a famiglie di irregolare composizione o di precedenti morali non buoni su terreni di proprietà del Governatorato (essi siano siti in aperta campagna e non visibili dalle grandi arterie stradali). Sarà loro concesso di costruire le abitazioni con i materiali dei manufatti abbattuti. Si costruiscano, con lieve spesa, vere e proprie borgate rurali, con popolazione dalle 1000 alle 1500 persone, sotto la vigilanza di una stazione di Reali Carabinieri e di Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale». Da fonti orali ricaviamo che, più o meno, al Borghetto Santa Passera le cose andarono effettivamente così, con la differenza che gli abitanti vengono sistemate a ridosso del 1940 nei lotti popolari del Trullo, anziché in borgate rurali. L’area si estende oggi in lunghezza per circa 1 km lungo l’argine demaniale. I limiti possono essere determinati fra le Idrovore di piazza Meucci e la Torre del Giudizio. L’edilizia presenta caratteri assai eterogenei. Le baracche originarie sono state abbattute, mentre sopravvivono le case in pietrame di tufo e laterizio ad un unico piano, per lo più composte di un unico ambiente e senza fondazioni, spesso addossate le une alle altre, o separate da frustoli di camminamento non più larghi di un metro. Sui terreni lasciati liberi dalle baracche si sono col tempo insediati capannoni artigianali, per i quali è in conrso da circa un trentennio il dibattito su ipotesi di trasferimento. 46
Il borghetto, progressivamente spopolato, versa oggi in condizioni di abbandono. Alcune casupole sono oggi occupate da stranieri in condizioni di miseria. Testimonianze del borgo storico: Agglomerato di abitazioni in via della Magliana 41 Chiesa di Santa Passera Casal Germanelli - studiato dalla Soprintendenza ai Beni architettonici e del paesaggio di Roma (scheda inventariale 00970731A, Banchini R. - cat. Peixoto J.R.).
47
L’assedio di Roma del 1849 Tra il 2 giugno e il 3 luglio del 1849, un secondo tentativo francese di occupare la neoproclamata capitale della repubblica Romana si concluse con la vittoria e l’ingresso delle truppe guidate dal generale Oudinot. Il ruolo fondamentale che il borgo di S.Passera ebbe durante l’assedio, è testimoniato nel Siége de Rome, testo tratto dal giornale operativo dell’artiglieria redatto da J.B.P. Vaillant a capo del genio francese. Il documento contiene tre mappe, due delle quali, oltre a fornire un aiuto rilevante nella comprensione degli avvenimenti storici dell’assedio, costituiscono le prime carte plano-altimetriche della zona del Gianicolo, rappresentate con l’attuale metodo delle curve di livello, quasi sconosciuto all’epoca. Una di queste tre piante, come anche il Plan topographique des opérations du siège de Rome redatto dall’ingegnere geografico militare Emile Duhousset, mostrano l’esatto luogo in cui venne eretto il 29 giugno un Pont de Bateaux, ovvero un ponte formato da diverse barche con al disopra una passerella in grado di collegare la riva limitrofa alla chiesa di Santa Passera con quella di valco San Paolo. Il 30 giugno Francesco Domenico Guerrazzi nel suo Lo Assedio di Roma descrive il fallito tentativo “di buttare giù nel Tevere una barca di fuoco, che scendendo per la corrente incendiasse il ponte di Santa Passera, e ciò 7 per la stupenda vigilanza del nemico.” Poco più a valle vi era il porto di Santa Passera, il quale aveva il ruolo di attracco per il naviglio fluviale e di deposito delle munizioni. Nel suo Siége de Rome, il generale Vaillant, descrive l’importanza ricoperta da questo luogo, il quale oltre ad essere terminale dei rifornimenti e delle truppe di rinforzo provenienti da Fiumicino con battelli e tartane, svolgeva la funzione di imbarco per i feriti diretti in patria.
7
F.D. Guerrazzi, Lo Assedio di Roma, Roma, Perino, 1882
48
1 Carta n°1 1:15000 contenuta nel SiÊge de Rome del generale Vaillant, 1849
49
2 Carta n°2 1:5000 contenuta nel SiÊge de Rome del generale Vaillant, 184 50
3 Plan topographique des opérations du siège de Rome redatto dall’ingegnere geografico militare Emile Duhousset, 1849
51
4 Dettaglio del Plan topographique des opérations du siège de Rome in cui è possibile vedere il ponte di barche e il porto di S.Passera
52
53
Chiesa di Santa Passera La santa mai esistita L’origine del nome “Con questa ed anche più corrotta denominazione fino da tempi antichi il volgo romano appellò le chiese dadicate in Roma ai martiri alessandrini 8 Ciro e Giovanni” Per prima cosa occorre specificare che consultando l’elenco dei santi riconosciuti non vi si troverà nessuna S.Passera. L’ipotesi più probabile sull’origine di questo nome è che esso derivi dalla corruzione fonetica del titolo abbàs Cyrus (padre Ciro) come avvenne nel caso della località di Abukir (Egitto) che porta nell'accezione araba ancora la notorietà del nome del Santo (Abukir = Abba-Ciro). “Infatti si disse prima Abbas Cirus, poi Appaciro, Appacero, Pacero, Pacera, Passera e Passero. Cosicchè le tre chiese che a questi santi erane in Roma dedicate, oggi distrutte, cioè quella della de Militiis, l’altra de Valeriis e la tersa ad Elephantum tutte per la stessa legge di pronuncia ebbero come la portuense i nomi di Pacera o Passera onde poi si volle 9 trovarvi qualche somiglianza con il nome di s. Prassede.” Un documento del 1317 nel quale si parla di un appezzamento di terra “posita extra portam Portuensem in loco qui dicitur S. Pacera” confermerebbe l’evoluzione nel tempo del nome della chiesa. Per diverso tempo si credette che il nome fosse il mutamento di Prassede, cosicché nella chiesa si iniziò a celebrare anche la festa della santa il 21 luglio.
8
M.Armellini, Le chiese di Roma dalle loro origini sino al secolo XVI, Roma, Tipografia Editrice Romana, 1887, Op. cit. p. 92 9 ivi. p. 760 54
1/2 Facciata e retro della chiesa 55
Culto dei Ss. Ciro e Giovanni Si narra che i due martiri Ciro e Giovanni, rispettivamente un medico di Alessandria di Egitto e un soldato di Edessa divenuto suo discepolo, furono crocifissi e decapitati a Canopo nella persecuzione dovuta a Diocleziano in Egitto, nel 303. Inizialmente le salme dei due martiri furono portate da S.Cirillo, Patriarca di Alessandria, a Menouthis (sobborgo di Canòpo e odierna Abukir), presso la chiesa locale. Il santuario acquistò in poco tempo larga fama e la notizia di alcune guarigioni avvenute nella chiesa richiamarono a Canòpo numerosi pellegrini. Successivamente, sotto il papato di Innocenzo I (402-417 d.C.) e gli imperatori Arcadio ed Onorio, due monaci chiamati Grimaldo ed Arnolfo, dopo un sogno premonitore portarono le salme a Roma evitando così l’invasione dei saraceni in Egitto. Giunti a Roma, una matrona di nome Teodora accolse i due monaci e le reliquie nella sua casa di Trastevere. La leggenda narra che i due martiri apparvero in sogno alla donna durante la notte, ordinandole di trasportare i corpi fuori dalla città. Le reliquie dei due santi vennero così trasferite nella chiesa in memoria di S.Prassede fatta costruire dalla stessa Teodora nei suoi terreni lungo l’antica via portuense. I corpi dei martiri furono riposti nell'ipogeo della chiesa, dove è incisa un'antica epigrafe che recita: “Corpora sancta Cyri renitent hic atque Ioannis/ Quae quondam Romae dedit Alexandria magna” ("Qui risplendono i santi corpi di Ciro e Giovanni che un giorno la grande Alessandria dette a Roma").
56
3 S.Ciro, Cristo Benedicente e S.Giovanni (discepolo di S.Ciro) nella fascia intermedia dell’abside
57
Ubicazione “Rimane tuttavia in piedi nella Via Portuense questa Chiesa di Sãta Prassede, oue furono questi fanti Corpi collocati; lontano dalla Porta circa due miglia, vicino alla riva del Tevere, situata in modo, che quasi 10 per retta linea riguarda la Chiesa di S. Paolo” La chiesa di Santa Passera si trova tra il vicolo che porta il suo nome e via della magliana, alla quale rivolge l’abside. Quest’ultima ricalca l’antica Via campana, strada etrusca e poi romana, risalente almeno al VII secolo a.C. Questa collegava il Foro Boario al Campus salinarum romanarum (odierna area dell’aeroporto di Fiumicino), ovvero una distesa di terra adattata a salina dagli etruschi. L’utilizzo della via, troppo vicina e soggetta alle continue esondazioni del Tevere, fu successivamente abbandonata a favore della nuova via Portuensis, voluta dall’imperatore Claudio nel 42 d.C. per migliorare i collegamenti commerciali e militari con il nuovo porto.
10
A.Bosio, Roma Sotterranea opera postuma, Roma, Michel'Angelo e Pietro Vincenzo Fratelli de' Rossi, 1710, p. 174 58
4 Sezione longitudinale e pianta del livello superiore della chiesa
59
5/6 In ordine dall’alto: Pianta del livello intermedio, pianta del livello ipogeo, prospetto della chiesa su via della Magliana 60
7 Rilievo del livello superiore a cura dell’Arch. Elisabetta Fiorenza 61
8 Schema assonometrico della configurazione degli ambienti
62
Descrizione La via Campana, come altre vie in epoca romana, è stata luogo di sepolture e tra queste vi è il mausoleo del II/III secolo d.C. Su questa struttura si innestarono prima l’oratorio del V secolo (in seguito trasformato in cripta) e successivamente la chiesa sovrastante ampliata sul finire del XIII secolo. Allo stato attuale la chiesa è costituita da tre parti sovrapposte: Il volume visibile dall’esterno, una cripta-oratorio ed una tomba ipogea. La chiesa e il suo contesto - fino a pochi anni fa ancora non antropizzato - ispirarono il film con Totò “Uccellacci e uccellini” (1966) del regista Pier Paolo Pasolini L’esterno Il prospetto principale è rivolto ad est verso il Tevere e valco San Paolo. Una doppia rampa di scale permette l’accesso alla terrazza dalla quale è possibile vedere nella sua interezza la facciata della chiesa. Questa ingloba i resti della precedente facciata del mausoleo che ricordano quelli del Tempio del Dio Rediculo della Caffarella, anch'esso del II secolo d.C.: muratura in laterizio con poca malta tra i sottili mattoni e finestrelle decorate con cornici fittili. Il portale d’ingresso è sormontato da un finestrone, chiuso da una grata in pietra con motivi geometrici di epoca carolingia. Sul retro, delle mensoline in marmo con motivi vegetali (resti del mausoleo) anticipano e delimitano un piccolo giardino; questo accoglie l’abside della chiesa che presenta bifora con colonnina e capitello corinzio. Quest’ultima venne successivamente tamponata in modo da poter affrescare interamente il catino interno. Sul prospetto meridionale vi è un corpo di epoca successiva (X sec. d.C.) annesso all’oratorio medievale. Alla base di questo si possono ancora notare tre archi di un precedente porticato utilizzato come riparo dai pellegrini (fig.9) che furono in seguito tamponati tra il IX e X sec.. Infatti, può risultare singolare in una città con luoghi di culto ben più famosi, ma il complesso dalle fonti risulta essere meta di un modesto 11 pellegrinaggio: “il popolo romano concorreva in folla a questo luogo.”
11
M.Armellini, Op. cit. p. 761 63
9 Dettaglio del prospetto meridionale dove è ancora possibile vedere gli archi del vecchio portico 64
Interno L’interno della chiesa è diviso su tre livelli: la chiesa al livello superiore la cripta al livello inferiore corrispondente al precedente oratorio medievale la tomba romana al livello ipogeo Il livello superiore La chiesa presenta pianta rettangolare ad una navata, un piccolo presbiterio, abside di fondo (ampliamento del IX sec.) e tetto a capriate lignee. La parete nord, in seguito ad un crollo dovuto all’esplosione della polveriera di Monteverde (23 aprile del 1891), venne demolita perché pericolante e ricostruita nel 1934, per questo motivo non presenta alcun affresco. Al contrario, è ancora possibile godere di quello sul lato opposto raffigurante una teoria di cinque santi orientali in stile bizantino (VIII-IX secolo). Questa rappresentazione, come altre nell’intero complesso, è analoga alla teoria dei santi presente nella chiesa di S.Maria Antiqua al Foro Romano. Sul fondo della navata, l’arco trionfale dell’abside presenta le figure dei martiri a cui è dedicata la chiesa, e in basso, in due nicchie vi sono dipinte la S.Pudenziana, a sinistra, e S.Prassede nel lato opposto. In alto, si trovano i simboli dei quattro evangelisti mentre l’intradosso è ornato da una decorazione di tipo vegetale. Di epoca successiva sono gli affreschi presenti nel catino absidale, datati XIII-XIV secolo, ed aventi due fasce sovrapposte sotto la calotta absidale. Al centro di quest’ultima svetta la figura del redentore tra foglie di palme, con ai lati da sinistra: S.Giovanni Battista S.Paolo, S.Pietro e S.Giovanni. Gli affreschi possono essere ricondotti a pittori romani minori. Nella fascia inferiore vi è una decorazione di gusto romano raffigurante un velario con tende e drappi. Nella parte superiore si riconoscono la Madonna con bambino circondati da santi. A sinistra della Vergine vi è una delle prime raffigurazioni di San Francesco affiancato da San Giacomo e sotto di essi, in dimensioni minori, vi sono i committenti rimasti anonimi. Infine troviamo sulla
65
destra San Ciro (anch’esso molto simile ad una affresco in S.Maria Antiqua), Cristo (nell’atto di benedire) e San Giovanni. Le vicende riguardanti quest’ultimo affresco sono raccontate nel dettaglio da Antonello Anappo, curatore dell’Archivio Storico Portuense: “Michele contro il Drago è un affresco della metà del XIII secolo, situato in posizione centrale nella curva dell‟abside di Santa Passera. La scena raffigura il terribile combattimento tra angeli e demoni narrato da San Giovanni nell’Apocalisse: “Scoppiò quindi una guerra nel cielo : Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli. Ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo” (vv. 12, 7-8). La rappresentazione è allegorica: il solo Michele sta a simboleggiare le schiere angeliche e il Drago morente rappresenta le turbe del Maligno, sconfitte. Di Michele sono ancora ben visibili i duri lineamenti di guerriero, le vesti, parte delle ali e la lancia con cui ha trafitto la rossa figura del Drago, agonizzante ai suoi piedi. Si ritiene che il Drago sia stato aggiunto in un secondo momento (non compare nel disegno 8936 della Collezione Dal Pozzo conservata a Windsor: al suo posto vi è una figuretta di orante inginocchiato). La tradizione vuole che tale raffigurazione del Demonio sia stata così realistica e terrificante che nel XVII secolo fu necessario coprire tutto l’affresco con un sovraddipinto, raffigurante Santa Prassede che lava i corpi dei martiri (scompaiono le ali di Michele; l’attributo del globo crociato nella mano sinistra diventa una spugna; il Drago è coperto da un recipiente per lavare i corpi sanguinolenti dei martiri). L’immagine dell’angelo guerriero e del suo sconfitto antagonista è 12 tornata alla luce durante un restauro del 1934.”
12
A.Anappo, Atlante dei beni culturali del Municipio Roma XV ArvaliaPortuense, Roma, 2012 66
10 Dettaglio di San Michele contro il drago nell’affresco dell’abside
67
11 Teoria di Santi presenti sulla parete meridionale della chiesa. Da sinistra: S.Basilio di Cesarea, S.Nicola di Mira (meglio conosciuto come S.Nicola di Bari), S.Gregorio di Naziano, S.Crisogono e S.Epifanio
68
12 Teoria di Santi presenti nella chiesa di Santa Maria Antiqua
69
70
13/14 Abside della chiesa allo stato attuale e in una foto d’epoca contenuta nel libro: Lost mosaics and frescoes of Rome of the mediaeval period di M.C.Rufus del 1877 conservato nella Royal Library del Windsor Castle
71
15 Acquerello raffigurante l’affresco del catino absidale prima del deterioramento, dal libro conservato nella Royal Library di Windsor
72
16 Navata della chiesa del II/III sec. e l’abside tripartito dell’VIII/IX sec.
73
74
17/18/19 Confronto tra l’affresco dell’abside e l’acquerello raffigurante lo stesso prima delle successive modifiche, dal libro conservato nella Royal Library di Windsor 75
76
20/21 Riproduzione degli affreschi sopra l’arco dell’abside della chiesa, dal libro conservato nella Royal Library di Windsor
77
Il livello inferiore I resti dell’oratorio medievale del V secolo, divenuto cripta dopo la costruzione della chiesa, hanno un duplice accesso: il primo è esterno e al livello del vicolo antistante la chiesa; il secondo invece si trova in un ambiente edificato successivamente sul fianco meridionale dell’edificio. L’oratorio presenta ancora l’aspetto sepolcrale del II secolo ed è composto da 4 ambienti in laterizio intercomunicanti. Nell’ambiente più grande, sulla volta in cemento, è ancora possibile vedere i segni del cannucciato e delle corde usate durante la sua costruzione. Si narra che, durante la frettolosa realizzazione di questo ambiente, finirono le canne impiegate per costruire la centina, ovvero il profilo curvo che avrebbe poi retto la colata di cemento. La soluzione al problema, forse dettata dalla fretta o dalla pigrizia, fu l’impiego di tre zerbini al posto delle canne per il completamento della struttura. Le impronte lasciate da questi sono ancora presenti alla base della volta sul lato settentrionale dell’ambiente (fig.23/24/25). La cosa ancora più curiosa è che dalla trama delle corde di questi tre zerbini si è riusciti a distinguere la fattura di tre diverse culture: Greca, Romana e Bizantina. Sulla parete ovest, per garantire l’accesso al mausoleo romano dalla parte stradale era presente un passaggio, successivamente tamponato in seguito alla costruzione dell’abside. Al suo interno i due piedritti sono affrescati con figure ormai poco leggibili dei due martiri ai quali è dedicata la chiesa (fig.26). Sulla parete opposta si intravedono le sagome di cinque figure delle quali tre, a giudicare dalla mitra che indossano, sono vescovi. Proseguendo si trovano altre due camere, la prima doveva ospitare un sarcofago in legno, del quale è ancora possibile ammirare i resti dipinti (fig. 30); la seconda presenta un foro nel pavimento, ricavato in epoca successiva, che permette l’accesso al livello più basso del complesso. L’ultimo ambiente venne edificato successivamente nel VIII/IX secolo per arginare le innumerevoli piene del Tevere. Sull’architrave all’ingresso vi è ancora l’iscrizione in latino dedicata ai Ss. Ciro e Giovanni (fig.31): "Corpora Sancti Cyri Renitent Hic Atque Joannis/Quae Quondam Romae Dedit Alexandria Magna"
78
22 L’ultimo ambiente dell’oratorio medievale del V secolo dove è ancora possibile vedere sulla volta i segni dell’incannucciato 79
23/24/25 Impronte lasciate nella volta dagli zerbini. Dall’alto: Romano, Greco e Bizantino
80
26 Figura ormai poco leggibile di San Ciro nel piedritto del portale della cripta verso la via Campana.
81
27 Vista in sequenza degli ambienti del II/III secolo d.C. 82
28 Secondo ambiente della cripta 83
29/30 Resti presenti nel secondo ambiente, dall’alto: deposizione in pietra e resti del sarcofago. Le onde presenti su quest’ultimo rappresentano il fiume Acheronte
84
31 Architrave con l’epigrafe in memoria dei Ss. Ciro e Giovanni
85
Il livello Ipogeo Dal livello superiore, tramite una piccola e ripida scala, si accede alla camera sepolcrale ipogea romana datata II/III secolo. Questo ambiente, forse il mausoleo di Dioniso, venne interrato dopo la ricerca delle reliquie dei martiri nel 1706 e riscoperto solamente nel 1904. Nella camera vennero ricavati altri spazi sepolcrali con la realizzazione di una controparete. Da questo ambiente, tramite un tunnel sotterraneo al di sotto dell’alveo fluviale, pare fosse possibile raggiungere la sponda opposta del Tevere e la Basilica di San Paolo fuori le mura. Del tunnel non rimane traccia ma l’ingresso doveva trovarsi dietro la parete orientale ad est dell’ambiente. Le decorazioni sono quasi interamente perdute e quel che ne rimane, come per S.Maria Antiqua, può considerarsi “pittura-palinsesto” in quanto sono ravvisabili diversi strati dipinti di diverse epoche. Alcuni segni semicircolari e quadranti rossi sull’intonaco bianco dovevano contenere soggetti funerari; sulla parete nord sono ancora riconoscibili il ciclo della Dea Dike (la dea della Giustizia), un uccello e le gambe di quello che doveva essere un pugile, mentre sulla parete sud vi sono due linee rosse e una pecora. La volta era dipinta da stelle a sei e otto punte. La perdita delle decorazioni, qui come negli ambienti sovrastanti, non è da attribuire solamente alle innumerevoli piene del fiume, ma anche a chi nel tempo ha cercato di trafugare le reliquie dei martiri. Questo ambiente ha ospitato fino al 1968, data della sua sparizione, la Vergine col Bambino del XIII secolo.
86
32 Ingresso all’ambiente ipogeo nel II/III secolo 87
33 Segni geometrici rossi ancora visibili nell’ambiente piÚ basso dell’intero complesso
88
34 Motivi ornamentali della volta del livello ipogeo
89
Vicus Alexandri “Quibus ita provisis, digres soque vita principe memorato, urgens effectus in tepuit: tandemque sero impositus navi per maria fluentaque Tybridis velut paventis, ne quod pene ignotus miserat Vilus ipse parum sub meatus sui discrimine moenibus alumnis inferret , defertur in vicum Alexandri III. lapide ab urbe sejunctum; unde chamulcis impositus, tractusque lenius, per Ostiensem portam, piscinamque publicam Circo il 13 latus est maximo.” Sappiamo con certezza, dalla sopra citata testimonianza dello storico Ammiano Marcellino, che nei pressi di valco San Paolo doveva trovarsi un sobborgo dotato di un’area portuale. Nel 357 d.C. lo storico romano lo menzionò nella descrizione del trasporto del grande obelisco egizio ora in Piazza S.Giovanni in Laterano. L’origine del nome Vicus Alexandri è da ricercare invece in una nota “ASSAR, giornale di scavo del 31 agosto 1898, pag 610-661” nella quale si fa riferimento all’attuazione di uno sterro prospiciente l’ingresso della villa di Alessandro Severo. Il porto sembra sia servito anche all’imbarco dei marmi provenienti dalla villa albana di Domiziano a Castel Gandolfo. Oltre a questi due avvenimenti storici, la maggior parte delle informazioni pervenuteci sul vico alessandrino, si hanno grazie ai ritrovamenti avvenuti nel 1823, 1891 e tra il 1897 e il 1898. I manufatti trovati in questi anni a sud dell’ansa di valco San Paolo, sono riconducibili a questo insediamento e “ci permettono di ricostituire l’aspetto e la periferia del sobborgo con soddisfacente approsimazione al 14 vero” . I manufatti rinvenuti però, come recita il Bullettino della commissione Archeologica Comunale di Roma (1891), vertono in pessime condizioni (soprattutto gli scali e le banchine), a causa dell’erosione nel tempo causato dallo spostamento del corso del Tevere di 30 m verso Est. Possiamo datare l’insediamento in età repubblicana grazie ai rinvenimenti di ceramica a vernice nera afferenti al periodo, ma non è da escludere una grande attività del porto anche in epoca imperiale. Il sito permetteva di evitare le secche del Tamariceto e di Pietra Papa ed era 13
A.Marcellinus, Le storie a cura di Antonio Selem (300 AD – 400 AD), Torino, UTET, 2014, l. XVII. c. IV 14 Bullettino della commisione archeologica comunale di Roma, Tip. della R. Accademia dei Linchi, Roma, 1891, p. 218 90
adatto ad ospitare grandi imbarcazioni, destinate principalmente al trasporto di materiali edili. Si può pensare che qui le navi più grandi rifornissero imbarcazioni più piccole (le naves caudicariae), dallo scafo più basso e piatto, in grado di navigare il fiume. Diverse indagini, in particolare quelle condotte nel 1977 e il 1981, dimostrano inoltre un uso di entrambe le rive da Ponte Marconi al Ponte della Magliana, soprattutto sotto i principati di Augusto e di Traiano. Le sponde dopo essere state regolarizzate vennero collegate all’entroterra da magazzini ed edifici commerciali. Tra i vari ritrovamenti dell’antico sobborgo il Ficoroni, descrive un onice figurata nella tav. XXXXV n.4 (fig.1): “questo amorino inciso in gemma signatoria, si ritrovò circa a tre miglia della via ostiense, nel sito detto 15 anticamente Vicus Alexandri” Il Ficoroni continua parlando del rinvenimento di un’urna meglio descritta da Nicola Maria Nicolai: “sul principio del secolo XVIII fra le rovide de’ Sepolcri fu ritrovata una grande Urna di marmo Greco con le nove Muse a bassorilievo elegantissimo, che fu acquistata dal Cardinale 16 Albani, da cui passò al museo Capitolino”. Anche il Winckelmann si riferisce all’urna: “tutte le figure delle muse sono pregiabili al maggior segno e cagione delle nobili loro posizioni, e dei ben disposti panneggiamenti. Probabilmente esse furono eseguite copiando delle 17 statue altra volta molto celebri.”
15
Francesco de’ Ficoroni, Larve sceniche, Stamperie de’ Antonio de Roffi, 1736, p. 125 16 Nicola Maria Nicolai, Memorie, leggi ed osservazioni sulle campagne e sull'annona di Roma, Volume 1, 1803, p.131 17 Johann Joachim Winckelmann, Storia dell’arte presso gli antichi, VII libro, capo III, 1832, p. 123 91
1 Tav. XXXXV tratta dalle Larve Sceniche del Ficoroni in cui è rappresentata (in basso a destra) “l’amorino” della gemma ritrovata nel vico
92
2/3 Attuale estensione emersa del vico alessandrino nell’alveo e resti di questo
93
4/5/6 Resti nei quale è possibile notare la presenza di rocchi di colonne 94
Ubicazione L’odierna testimonianza del vico si deve ai periodi di magra del Tevere, i quali riportano ciclicamente alla luce dei resti di tufo e frammenti di colonne presenti nell’alveo (riva destra). Questi resti, non più raggiungibili dalla riva per la notevole presenza di vegetazione ripariale, si trovano immediatamente prima del meandro tra l’ansa di Valco San Paolo e quella di Pian due Torri. I manufatti, come già detto, dovevano far parte di un borgo servito ad ovest dall’antica Via Campana, dove i ritrovamenti del Lanciani (1898) confermano le attività portuali, mentre ad est era attraversato dalla via Ostiense, dove sorgevano le residenze e le attività termali: “si scoprirono i ruderi di molte fabbriche, che sembravano aver servito di bagno, con pavimenti di musaico e di alabastri, marmi colorati ec. ed una cloaca coperta di tegoloni, a capanna, come suol dirsi dai muratori, che serviva a portar via le 18 acque.” L’esatta distanza del borgo da Roma è determinata dal testo di Ammiano Marcellino, come riporta il Bullettino della commissione Archeologica Comunale di Roma: “Computando l’intervallo dalla porta rudusculana di Servio, posta al bivio delle vie s.Paolo e di s.Saba, il cancello di vigna Venerati si troverebbe alla distana di 4400 metri, ciò che corrisponde a capello con la misura di Ammiano Marcellino, che è di 19 m.4467.” Lo storico Rodolfo Lanciani ubica l’antico Vicus in corrispondenza del porto o scalo di Grapigliano, nel medioevo detto Porto Della Pozzolana e successivamente caduto in disuso. La presenza di questo borgo è testimoniata anche in diverse menzioni nella cartografia storica qui allegata.
18
A.Nibby, Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' dintorni di Roma Tomo 3, Tip. delle Belle arti, Roma, 1849, p. 492 19 Bullettino della commisione archeologica comunale di Roma, Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma, 1891, p. 218 95
7 Innocenzo Mattei, Tavola Esatta dell antico Latio E Nova Campagna Di Roma, 1666
96
8 G.E.Westphal, Agri Romani Tabula cum veterum viarum designatione accuratissima, Berlino, 1829 97
9 Helmuth von Moltke, Carta topografica di Roma e dei suoi contorni fino alla distanza di 10 miglia fuori le mura, Berlino, 185
98
10 W.Gell, incisa da J.Gardner Rome & Its Environs., from a Trigonometrical Survey, Londra, 1834
99
L’obelisco di San Giovanni in Laterano “Dal porto Romano fu condotto poi su per lo Tevere insin ad un borgo, tre miglia discosto da Roma, il quale si chiamava Vicus Alexandri, dove fu posto in terra sopra gli curri, e di quiui fu tirato à Roma per la porta di S. Paulo, es fu fatto passare per la piscina publica, e di lì si condusse nel 20 Cerchio massimo.” Lo storico Ammiano Marcellino nel suo Rerum Gestarum ci fornisce la storia del grande obelisco Egizio, l’ultimo ad essere portato a Roma, ora in Piazza San Giovanni in Laterano. L’obelisco, il più grande al mondo con i suoi 32.18 metri di altezza e un peso di 455 tonnellate, apparteneva al Faraone Tutmosi III, ed era collocato a Tebe nel Tempio di Ammone. Costanzo II, figlio di Costantino, lo volle portare a Roma nel 357 d.C e per questo motivo ad Alessandria “fu quivi fabbricata una nave d’insolita 21 ampiezza, da moversi con trecento remi” . Una volta giunto al porto di Ostia venne usata una enorme zattera per risalire il fiume fino ad approdare al borgo di Alessandro. Dopo l’approdo, venne trasportato lungo la Via Ostiense con l’utilizzo di più carri fino all’attuale Viale Aventino, per poi giungere nelle vicinanze delle Terme di Caracalla. L’obelisco inizialmente venne innalzato nella piazza del Circo Massimo, ma successivamente abbattuto e interrato dove rimase per più di 12 secoli. Ritrovato nel 1587, semidistrutto e coperto da vegetazione, venne recuperato da Papa Sisto V che lo fece installare da Domenico Fontana in Piazza del Laterano al posto della statua equestre di Marco Aurelio. Quest’ultima, ritenuta erroneamente di Costantino, prese posto a piazza del Campidoglio. L’iscrizione sull’obelisco ricorda il battesimo di Costantino, avvenuto in quel preciso luogo.
20
M.Mercati, Degli Obelischi di Roma, Basa, Roma, 1589, p. 280 F.Ambrosoli, Le storie di Ammiano Marcellino tradotte da Francesco Ambrosoli, Fontana Antonio Editore, Milano, 1829-1830, p.142 21
100
101
Pian Due Torri “È il nome che si dà ad una contrada sulla via portuense antica, oggi strada della Magliana, circa 4 miglia lungi da Roma, per due torri dirute fondate sopra ruderi di antichi sepolcri sulla via, de' quali si vedono ancora i massi. Questo nome si comunica alla tenuta ivi dappresso , spettante all' ospedale di Ss. Sanctorum , ed alla compagnia del Gonfalone, confinante colle vigne di Roma e col fiume Tevere , la quale 22 ha 36 rubbia di estensione.” Come recita la descrizione di Antonio Nibby, storico, archeologo e studioso di topografia italiano, l’area di Pian due Torri deve il suo nome alle due torri situate su sponde opposte del fiume Tevere.
22
A.Nibby, Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' dintorni di Roma Tomo 1, Tipografia delle belle arti, Roma, 1837, p. 554 102
1 Filippo Trojani, Carta topografica del suburbano di Roma desunta dalle mappe del nuovo censimento, Roma, 1839 103
Descrizione Pian due Torri è il nome della zona urbanistica 15c del XV Municipio di Roma Capitale, che fa parte del quartiere Q.XI Portuense. Anticamente la zona era considerata poco salubre in quanto paludosa e infestata da zanzare per via delle continue inondazioni del Tevere, ma grazie alla volontà di diverse personalità ha assunto, con il passare dei secoli, una sua identità ed in alcuni periodi storici un certo valore, come nel caso della tenuta Pian due Torri. Come testimonianza di questo passato rurale resta ormai solo il casale Mungo, un piccolo edificio rustico sito in via Pian due Torri. Oggi l’area ha definitivamente cambiato volto a causa della forte presenza di capannoni industriali prefabbricati. Degne di nota sono senza dubbio la Torre del Giudizio, unica sopravvissuta delle due torri sopra citate, e le vicende legate alla tenuta Pian due Torri. Torre di Teodora o del Giudizio In seguito alle razzie ed ai saccheggi del 846 d.C. da parte dei saraceni, con vittime eccellenti quali le basiliche di San Paolo fuori le mura e San Pietro, Papa Leone IV decise di far erigere una linea difensiva rappresentata da ben 15 torri. Queste servivano da punti di avvistamento da Porta Portese fino alla foce. Le due torri erano collegate tramite una catena, che veniva tesa in caso di eventuali attacchi o per il pagamento del dazio per chi giungeva a Roma dal mare o viceversa. Quando gli attacchi si placarono la catena fu poi sostituita da una fune che serviva a trasportare le merci dalle navi alla terraferma. Nonostante il carattere commerciale che assunsero queste opere, non persero mai la loro principale caratteristica, ovvero quella difensiva. A testimonianza delle due torri gemelle della zona di Pian Due Torri rimane solo la superstite Torre del Giudizio o Torre di Teodora, situata in via Teodora, tra via della Magliana e il Fiume Tevere. La torre in pietra risale all’epoca Medioevale (1200 circa) e sorge su di un monumento sepolcrale di forma circolare, probabilmente risalente al I sec. d.c..
104
Dubbie sono le origine del nome Teodora. Vi sono infatti tre possibili Teodore che avrebbero potuto dare nome alla piccola via su cui la Torre è situata. La prima è legata ai due monaci orientali che avrebbero portato le reliquie dei due Santi Ciro (o Abbacero) e Giovanni nella vicina chiesa di Santa Passera, ospitati da una certa Teodora nella sua casa di Trastevere, al tempo di Innocenzo I (401-417). La seconda è la storia seconda cui Teodora, senatrice romana del VII sec., temendo un attacco saraceno, avrebbe fatto trasportare le reliquie dei santi nella piccola chiesa sulla via Portuense donando a quest’ultima alcuni terreni adiacenti. La terza ed ultima versione, testimoniata da un documento del 9 dicembre 1060, riferisce che una certa Teodora avrebbe restituito una vigna fuori Porta Portese alla badessa del monastero dei Santi Ciriaco e Nicolò.
105
2 Foto raffigurante la Torre di Teodora o del Giudizio ormai sotto il patrocinio del Ministero dei Beni e delle AttivitĂ Culturali e del Turismo 106
Tenuta Pian Due Torri di Antonello Anappo Pian Due Torri è una proprietà fondiaria, dislocata entro l’omonima ansa del Tevere, appartenuta dal 1565 alle confraternite romane del Gonfalone e del Sancta Sanctorum. Le confraternite conducono la tenuta a pascolo, seminativo e maggese fino al 1839. Dal 1870 monsignor Angelo Bianchi unificando la proprietà di pianura con la collina retrostante, introducendo l’uso vignarolo. Nel 1923 l’ingegnere Michelangelo Bonelli inizia la bonifica idraulica e avvia orticultura e frutticoltura. La Grande alluvione del 1937 mette fine al sogno agrario di Bonelli. Si costruisce la prima casa, e un nucleo di altre nel 1948. Nel 1949 il Ministero dei Lavori Pubblici autorizza la costruzione intensiva, disciplinata dal Piano regolatore del 1954 e dalla Variante del 1962. Da allora la vicenda della Tenuta finisce e inizia quella di un nuovo quartiere: la Magliana Nuova. Lentulo Lentuli, scapolo impenitente La studiosa Carla Benocci ha ricostruito i passaggi di proprietà della Tenuta Due Torri, riportando alla luce un vivace quadro di vita rinascimentale. Il primo padrone conosciuto è tale Carlo Boccabella, nominato nel testamento di Mariano Castellani (1526). Questi lascia la proprietà, composta “di prato e grotticella”, alla moglie Bernardina Rustici, che a sua volta designa come erede Lentulo Lentuli (1538). Lentulo è scapolo e, a quanto pare, per nulla desideroso di formare una famiglia. Per ricondurlo a costumi più tradizionali la Vedova Bernardina aggiunge nel testamento, in punto di morte, una pesantissima condicione (1544): l’obbligo per Lentulo di sposarsi e di avere una discendenza legittima; in caso contrario la tenuta sarebbe passata alle pie arciconfraternite romane del Gonfalone e del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum. Divenuto erede, Lentulo si applica nell’adempiere alle volontà della defunta, sposando Donna Gerolama De Nigris, e dimostra anche una certa accortezza nella conduzione della tenuta: prima ne estende i confini comprando il “prato al Casale dei Doi torri” da Pietro Paolo Fabi (1545) e poi compra anche un vicino poderetto (1554). Nel 1556 Lentulo vende la tenuta a Bernardino Capodiferro, e questa è l’ultima sua notizia.
107
Dalla spartizione ereditaria, che si concluse l‘11 marzo 1565, deduciamo che Lentulo Lentuli non ebbe figli ma diede vita ad un florido fondo suburbano (“con certo prato volgarmente detto Prato Rotondo, canneto di sei pezze e vigna di sei pezze con casa, vasca e tino”). La tenuta venne divisa in tre quote di proprietà indivisa: una alla Confraternita del Gonfalone, una alla Confraternita del Salvatore e una alla Vedova Gerolama. L’acquirente Capodiferro fu escluso (la vendita venne probabilmente annullata o riscattata), anche se un nome vagamente assonante (Guastaferri) ricorre tempo dopo come proprietario nella mappa catastale di Francesco Calamo del 1660, che cita: “Casale detto Li Doi Torri, proprietà delle Arciconfraternite […] e dei signori Fabrizio Guastaferri e Costantino Gigli, proveniente dall’heredità della quondam Bernardina Rustici de ‟Castellani”. Storie di antiche confraternite Le compagnie ecclesiastiche del Gonfalone e del Sancta sanctorum gestiscono ininterrottamente Pian Due torri dal 1565 al 1839. Esse hanno antiche origini e godono di grande considerazione. Il Gonfalone nasce nel 1246 come congregazione di flagellanti, custodi della reliquia del “Salus populi Romani”; la tradizione vuole che nel 1351 abbiano salvato Roma dalla tirannide dei Savelli schierando il popolo sotto le insegne (il “gonfalone”) di Maria. L’arciconfraternita del Santissimo Salvatore conserva l’altra sacra icona del “Santo volto di Gesù”, dal 1381 al Sancta Sanctorum del Laterano. Intanto, al lascito di Bernardina si aggiungono altri donativi: Francesco di Pietro da Saluzzo lascia nel 1570 una “vigna con certo poco di canneto di pezze 4, posta in loco detto le Doi Torri”, e la devota Cecilia Bovara si fa carico nel 1583 di “rimondare il fosso maestro” e costruire un “ponticello a traverso della strada”. La mole di atti ritrovati dalla studiosa Benocci negli archivi del S.S. testimonia un’amministrazione agraria efficiente. Le “taxae” per le strade datano 1554, 1555, 1602 e 1604, e nel 1634 c’è una apposizione dei termini. La taxa del 1693 riporta che il “Piano delle Due Torri, prato spettante a Sancta Sanctorum, Gonfalone e signori Gesiglieri” misura 36 rubbie e paga 5,67 scudi. Nello stesso documento si citano i “vicini” dell’epoca: le monache di Santa Cecilia, il Capitolo di S. Pietro, le famiglie Mattei, Serlupi, Nobili, Cenci, Fabi, Ginetti, Raggi e Vipereschi. Mappe successive nominano Filippo Chigi.
108
Nel Settecento la tenuta è invasa dalle acque e funestata dalle febbri malariche. La devastante inondazione del 1813, stimata dall’agrimensore Pietro Sardi, segna l’inesorabile declino. Dopo il lungo sonno, la tenuta di Pian Due torri si risveglia nel 1818. Con acquisizioni successive fino al 1839 la confraternita del Sancta sanctorum, una delle due confraternite proprietarie, rileva le quote indivise dell’altra confraternita, la confraternita del Gonfalone, e di altri proprietari minori, fino a costituire la proprietà unitaria “Tenuta di Pian due Torri, tutta in piano”, coltivata a rotazione tra seminativo e maggese. Monsignor Bianchi, il primo pioniere Nel 1839, unificata la Tenuta Pian Due torri, il Sancta sanctorum non ha in mente un vero e proprio progetto agrario. Semplicemente, ha inteso unificare la proprietà per poter più facilmente riuscire a venderla e fare cassa con una proprietà fondiaria fino ad allora praticamente improduttiva. E la vendita avviene, al conte Filippo Cini di Pianzano. Non molto dopo la proprietà passa in successione al figlio, finché nel 1870 essa viene rivenduta a monsignor Angelo Bianchi, esponente della nobile casata locale. Il monsignore è considerato il primo pioniere moderno della tenuta. Il Monsignore tenta l’unificazione della piana con la sovrastante collina di S. Passera, con motivazioni assai semplici: differenti quote altimetriche tengono al riparo dai capricci del fiume e permettono di variegare le colture. Le stesse intuizioni, mezzo secolo dopo, saranno alla base dell’opera dell’agronomo Michelangelo Bonelli. La studiosa Benocci ha ricostruito le acquisizioni fondiarie di Angelo Bianchi: i primi acquisti di “terreni e casali ad uso vignarolo” datano 1870, in comproprietà con Salvatore, figlio del capostipite Luigi Bianchi; alla morte di Salvatore, nel 1885, la sua quota passa al figlioletto Luigi (con lo stesso nome del nonno); quando anche monsignor Angelo muore, nel 1897, il giovane Luigi eredita la quota dello zio, e si ritrova unico proprietario di un latifondo da 72 ettari. Luigi rimane proprietario fino al 1912, anno in cui la proprietà si frammenta nuovamente, fra parte di piana e parte di monte.
109
Michelangelo Bonelli, il secondo pioniere Nel 1923 la famiglia Bianchi vende la Piana Due torri ad un eccentrico senatore piemontese, l’ingegnere agronomo Michele Angelo Bonelli. Bonelli sceglie quella piaga acquitrinosa - acquisita al prezzo convenientissimo di 20-25 centesimi ad ettaro quadro, ma totalmente inadatta all’agricoltura! - con il preciso intento di dimostrare la teoria della coltivazione razionale, una teoria da lui stesso elaborata e formalizzata in un voluminoso tomo in due volumi. La teoria afferma che le terre incoltivabili non esistono: anche la piaga più desolata, sapientemente diretta da un agronomo e con l’uso dell’ingegneria idraulica e con appropriati concimi, può diventare produttiva, rivelandosi economicamente più conveniente di un terreno già messo a coltivo. Bonelli dunque si imbarca in questo sogno. E per fare di Pian Due torri un giardino ha bisogno di molta, moltissima forza lavoro. Il reclutamento avviene tramite la società anonima GIT, Gestione Immobili Torino, costituita nello stesso anno dallo stesso Ingegnere. Testimone dell’epopea agraria di Bonelli alla Magliana è il signor Tullio, uno dei suoi primi mezzadri, la cui vita è stata raccolta in una lunga intervista nel 1978 da sociologi dell’Università La Sapienza. Tullio arriva alla Magliana il 26 gennaio 1926. È un ragazzino di 15 anni ed è da poco rimasto orfano. Alla Magliana lo attende suo zio, anche lui mezzadro nella Tenuta di Bonelli. Alla Magliana ci sono già 7 o 8 famiglie mezzadrili. «Nella pianura, dalla ferrovia al fiume, c’è solo prato», racconta Tullio. Al centro, più o meno all’altezza dell’attuale via Pescaglia, c’è una vaccheria, impiantata a suo tempo da Monsignor Bianchi. Il primo intervento di Bonelli è sciogliere la vaccheria, e frazionare la pianura in 78 terreni, affidando ciascuno a una famiglia di mezzadri. Sulla riva del fiume, all’altezza di via Pian Due Torri, fa installare una grande pompa idraulica che estrae acqua dal Tevere, al ritmo di un metro cubo al secondo. In seguito si aggiungono altre tre pompe, dislocate in punti diversi. «Di giorno l’acqua va nei vasconi - spiega Tullio - mentre di notte serve ad irrigare i prati». I primi tempi sono tutt’altro che facili. «È una zona infetta di zanzare. Appena arrivato mi becco la malaria e sono ricoverato al Policlinico per ben quattro mesi». Le condizioni di lavoro sono dure. «Per vangare il terreno si prendono 8 lire al giorno. Oltre alla metà del raccolto, dobbiamo pagare l’acqua e la forza motrice per le pompe. Bonelli ci fa anche pagare il concime, che fa prendere al
110
Mattatoio e sul quale si prende un buon beneficio». I ritmi sono serrati. «Non abbiamo orari: lavoriamo 10, 12 ore. Dobbiamo lavorare a turno, anche di notte per via dell’acqua. Per quanto lavoriamo, abbiamo sempre debiti verso il padrone». L’entusiasmo del primo raccolto - carciofi in coltivazione estensiva: «All’inizio coltiviamo i carciofi. È pieno di carciofi!» - cede il posto alla desolazione della alluvione del 1929. Il Tevere straripa, e inonda tutta la piana. Si ricomincia da capo: né Bonelli né i mezzadri hanno intenzione di cedere. «La vita si fa ancora più dura. Si sta male», racconta Tullio. Bonelli è un padrone severo: temuto, stimato, senza sconti. Le sue idee progressiste, ma solo in fatto di coltivazione, sono talora guardate con diffidenza. Ad esempio Bonelli non vuole animali nella sua tenuta: coltivazione e allevamento sono due arti distinte. «Tentiamo di tutto per guadagnare di più», prosegue Tullio. «Malgrado tutto questo lavoro non riusciamo a cancellare i nostri debiti verso l’Ingegnere». Bonelli è costretto allora a cedere qualcosa. Concede alle famiglie mezzadrili di ricavare un piccolo extra, allevando dei maiali per conto proprio. Si arriva a 300 o 400 maiali per famiglia. «Ogni mezzadro per nutrirli va a prendere i resti del magiare della caserma del Genio: sono maiali tirati su a pastasciutta!». Tre anni dopo, quando la vita sembra ripresa e si inizia a differenziare le colture, arriva il duro colpo della seconda alluvione. Tullio racconta un aneddoto: «Quando c’è l’alluvione le bestie per metterle al sicuro, le facciamo salire sopra al monte. Mi ricordo bene che un mezzadro di nome Mezzalira non fa in tempo a mettere i maialetti in salvo, e se li porta al secondo piano, nella sua camera da letto. Come dei figli, insomma!». Nel 1929 la piana rimane a lungo sott’acqua. «Via della Magliana, che è 2 metri più bassa di quella attuale, è un fiume. Ci si va in barca. Ci sono andato io!». E la piana, come promesso da Bonelli, con la scienza, la tecnica e la tenacia del lavoro, si trasforma in un giardino, in cui sono presente coltivo, frutteto e vigna. «Nel 1935 piantiamo un frutteto. Nella zona chiamata Recupero, vicino via Vaiano, ci sono viti da vino. Si raccolgono ogni anno cento botti di dieci quintali di vino. Si raccoglie anche uva da tavola, nella zona dell’incrocio tra via dell’Impruneta e via della Magliana. Dalla parte di via Pian Due Torri e sul monte invece ci sono prugne e pesche. Da via della Magliana alla ferrovia si coltivano gli ortaggi».
111
La «freccia verso il mare» Mentre l’acquitrino Pian Due torri sotto l’opera dei mezzadri di Bonelli si trasforma in un giardino, i progetti del Governatorato di Roma vanno in tutt’altra direzione. Urbanisti e intellettuali stanno infatti pianificando la costruzione della Terza Roma, la Roma del Fascio littorio, caratterizzata dall’espansione verso il mare: con un nucleo terminale a Ostia, un nucleo mediano alle Tre Fontane dove sorgerà il nuovo quartiere espositivo, e tutto quello che sta in mezzo, in questa «freccia» scagliata fra Roma e il mare, da urbanizzare senza lasciare vuoti in mezzo. La tenuta di Bonelli alle Due Torri, orgogliosa nelle sue battaglie contro le intemperie del fiume, si trova in una posizione di grande intralcio. L’idea della «freccia verso il mare» viene lanciata a metà anni Venti, con una serie di opere pioniere: la Ferrovia del Lido, la Via del mare, il Porto fluviale, l’Idroscalo di Ostia, seguite dai progetti di Snodo merci di Ponte Galeria, Rettificazione del Tevere a Mezzocammino e Idroaeroscalo della Magliana. Il primo disegno urbanistico complessivo compare nel Progetto-documento per l’Esposizione del 1942 di Vittorio Cini, chiamato con una sigla E42. Cini propone di realizzare «nuclei urbani senza soluzioni di continuità tra vecchio e nuovo», nelle aree lasciate libere dall’ultimo Piano regolatore del 1931. Mussolini stesso ne approva il progetto il 14 febbraio 1937. A Pian Due Torri sono previsti un Ponte monumentale e una Grande Circonvallazione ferrotranviaria. L’aneddoto vuole che Michelangelo Bonelli, subodorato che la costruzione di un ponte fosse l’avamposto di un’urbanizzazione, si sia opposto sdegnosamente al progetto di Cini, rifiutandosi di vendere la Tenuta Due Torri per qualsiasi cifra. Ma anche al Governatorato non si fanno molte illusioni: urbanizzare la Magliana significa affrontare enormi costi di arginatura, di reinterro per le parti più basse e l’avvio di una bonifica sanitaria generale. Insomma: Bonelli non vuole, ma il Governatorato non chiede. In quei giorni di ammiccamenti tra amministratori civici e l’Ingegnere arriva improvvisa una nuova alluvione, la grande alluvione del 1937, che colpisce l’intera città. «La volta precedente - racconta il mezzadro Tullio - la nostra zona era invasa dalle acque e su Roma c’era sole. Stavolta anche San Pietro è pieno d’acqua, che arriva ad un metro sopra l’Occhialone di Ponte Sisto. A Ponte di ferro il Mulino Biondi è allagato. Vicino a piazza della Radio, dove all’epoca di sono solo campi, c’è un
112
negozio di tabacchi: il negoziante non fa in tempo a salvare nulla. Io ho visto francobolli che galleggiavano sull’acqua». Quella del 1937 sarà l’ultima alluvione della Magliana. Ma questo né i mezzadri né Bonelli possono saperlo. Un senso di precarietà mette fine agli entusiasmi, in Tenuta Due Torri, e si fa largo l’idea che urbanizzare la Nuova Magliana non sia poi il peggiore dei mali. Bonelli tenta però ancora un colpo di coda. Nel 1938 trasforma la sua società anonima, la GIT Gestione Immobili Torino, in una società in nome collettivo, cercando di coinvolgere nuovi soci. L’iniziativa non ha successo, anche perché è ormai chiaro che lo zelo bonificatore di Bonelli non gode che di simpatie di facciata, presso il Regime. Bonelli da parte sua, è un liberale di vecchio stampo: ha condiviso la riforma fondiaria di Mussolini, ma le sue aderenze al fascismo terminano qui. Nel 1940 scoppia la guerra - calamità su calamità! -, e i mezzadri lasciano il lavoro nei campi diretti al fronte. L’esperienza della tenuta, privata della forza lavoro e dello slancio iniziale, è ormai al capolinea. Nel 1941 Bonelli si arrende, e abdica nella gestione della tenuta in favore del genero Adriano Tournon, discendente di Camille De Tournon (prefetto di Napoleone dal 1809 al 1814, considerato il primo urbanista della Roma moderna). È ancora il mezzadro Tullio a raccontare le vicende familiari dell’Ingegnere: «Il Conte Tournon sposa una delle due figlie di Bonelli, anzi non il celebre Conte ma suo figlio. Bonelli è un amico dei potenti: la seconda figlia la sposa ad un principe del Kenia. Il Conte Tournon costruisce la prima casa, in via Pescaglia, nel luogo dove prima c’era la vaccheria e dove poi si installerà la prima parrocchia. Le altre case iniziano a costruirle nel 1948, nella zona dove c’è la farmacia, in via della Magliana». E Bonelli si ritira dalla pianura alla collina, nella sua Villa Bonelli. «Dopo la guerra io ho visto Einaudi, il Presidente della Repubblica, De Gasperi e Frassati, un miliardario che veniva a giocare a bocce da Bonelli. È da quell’epoca che l’ingegnere ha cominciato a lottizzare e a vendere». Alla morte di Bonelli il Conte Tournon eredita la tenuta. «È a lui che si deve la distruzione degli alberi e la lottizzazione», conclude amareggiato Tullio. Una matita disegna la nuova Magliana Di urbanizzare la Tenuta Pian Due torri si comincia a parlare concretamente solo nel Dopoguerra, sotto la spinta del genero di Bonelli, il conte Adriano Tournon. Tournon intende procedere alla valorizzazione
113
fondiaria dei terreni agricoli: vuole cioè renderli edificabili e procedere alla vendita frazionata ai costruttori. Un carteggio del 1949 tra gli uffici tecnici del Comune di Roma e quelli del Ministero dei Lavori Pubblici (studiato negli anni Settanta dal Comitato di quartiere Magliana) ne documenta i passaggi preliminari. Nella prima lettera il Comune interpella il Ministero per conoscere se la Tenuta Due torri si trovi dentro o fuori i confini del Piano regolatore. La differenza è sostanziale: nel primo caso i costi di urbanizzazione (fogne, strade e servizi) ricadono sul Comune; nel secondo sui costruttori. In tutta evidenza la Tenuta si trova fuori dal Piano del 1931. Tuttavia la risposta ministeriale è affermativa: “In relazione alla nota suindicata […] la zona indicata nella unita planimetria con tratteggio color turchino, sebbene non sia colorata con i simboli delle destinazioni edilizie, deve ritenersi compresa entro il perimetro del vigente Piano Regolatore”. La costruzione della Nuova Magliana può dunque iniziare. Il Piano regolatore del 1954 Il primo piano regolatore della Magliana Nuova è approvato il 10 aprile 1954 e rimane in vigore per 8 anni, fino al 1962. L’iter comincia il 24 gennaio 1950, con la presentazione al Ministero dei Lavori Pubblici di una variante di zona al Piano regolatore generale del 1931. Il documento, chiamato Piano particolareggiato n. 123, prevede standard intensivi, con caseggiati alti 8 piani. La risposta ministeriale è favorevole (si legge: “è rispondente alle esigenze di un’organica composizione di un nuovo quartiere”), seppur condizionata da pesanti prescrizioni. La principale di esse è il cosiddetto reinterro. Si stabilisce cioè che, per prevenire gli allagamenti, nessun edificio dovrà sorgere sotto l’argine fluviale. L’argine diventa così la quota zero dell’intero piano regolatore, e tutto quanto si trova al di sotto deve essere ricoperto (reinterrato) con materiali di risulta. Si tratta della più vasta previsione di movimentoterra mai contenuta in un piano regolatore: basti pensare che la quota del suolo è in alcuni punti anche 7 metri più bassa dell’argine. Il Comune, elaborando le prescrizioni, presenta il nuovo piano 123 bis, in cui accetta anche la riduzione dell’altezza massima dei caseggiati da 8 a 7 piani, “onde non sia preclusa la vista della retrostante zona collinare”. Nel 54 il piano è approvato. Tuttavia esso viene ignorato dai costruttori, che trovano più conveniente investire in altre aree senza obbligo di reinterro. Fino al 1962, anno del Nuovo Piano regolatore generale, non viene rilasciata alla Magliana alcuna licenza edilizia.
114
115
Bibliografia Libri
-
-
-
-
116
Ambrosoli F., Le storie di Ammiano Marcellino tradotte da Francesco Ambrosoli, Fontana Antonio Editore, Milano, 18291830 Anappo A., Atlante dei beni culturali del Municipio Roma XV Arvalia-Portuense, Roma, 2012 Armellini M., Le chiese di Roma dalle loro origini sino al secolo XVI, Roma, Tipografia Editrice Romana, 1887 Bosio A., Roma Sotterranea opera postuma, Roma, Michel'Angelo e Pietro Vincenzo Fratelli de' Rossi, 1710 Donati A., Romana Pictura: La pittura romana dalle origini all’età bizantina, Electa, Milano, 1998 Ficoroni, Le maschere sceniche e le figure comiche d'antichi romani descritte brevemente, Roma, Stamperia di Antonio de' Rossi 1736 Guerrazzi F.D., Lo Assedio di Roma, Roma, Perino, 1882 Lanciani R.A., Storia degli scavi di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma, E. Loeschler & Co.,1902 Marcellinus A., Le storie a cura di Antonio Selem (300 AD – 400 AD), Torino, UTET, 2014 Mercati M., Degli Obelischi di Roma, Roma, Basa, 1589 Morey C.R., Lost mosaics and frescoes of Rome of the mediaeval period : a publication of drawings contained in the collection of Cassiano dal Pozzo, now in the Royal Library, Windsor Castle,1915, Princeton University Press Nibby A., Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' dintorni di Roma Tomo 3, Roma, Tip. delle Belle arti, 1849 Nibby A., Analisi storico-topografico-antiquaria della carta de' dintorni di Roma Tomo 1, Tipografia delle belle arti, Roma, 1837 Nicolai N.M., Memorie, leggi ed osservazioni sulle campagne e sull'annona di Roma, Roma, Stamperia Pagliarini, 1803 Tacito, traduzione di B. Ceva, Annali, Bur Biblioteca Univ. Rizzoli, Milano, 1981 Winckelmann G.G., Spiegazione delle tavole in rame, in: Opere di G.G. Winckelmann, Prato, Giachetti Fratelli, 1834
Saggi -
AA.VV., Atlante dei Beni Culturali delle Aree Naturali Protette di RomaNatura, Roma, Gangemi Editore, 2010
Documenti consultati Bullettino della commisione archeologica comunale di Roma, Tip. della R. Accademia dei Lincei, 1891 Siége de Rome en 1849 par l'armée française: journal des opérations de l'artillerie et du génie, Parigi, Imprimerie Nationale, 1851 Roggio B., Dottorato di ricerca in cultura e territorio: “Roma: uno studio diacronico delle trasformazioni dell’area ostiense”, Università degli studi di Roma “Tor Vergata”, A.A. 2009/2010 Sitografia - http://www.annazelli.com/obelisco-lateranense-roma.htm, [Ultima consultazione: 7/04/2017] http://www.arvaliastoria.it/public/post/darsene-di-pietra-papa26.asp, [Ultima consultazione: 20/01/2017] http://www.arvaliastoria.it/public/post/la-chiesa-di-santapassera-98.asp, [Ultima consultazione: 20/01/2017] http://www.arvaliastoria.it/public/post/la-tenuta-pian-duetorri-71.asp, [Ultima consultazione: 20/01/2017] http://www.arvaliastoria.it/public/post/vicus-alexandri360.asp, [Ultima consultazione: 20/01/2017] http://comitatogianicolo.it/wpcontent/uploads/2010/05/intervento_enrico.pdf [Ultima consultazione 18/04/2017] http://www.coreonline.it/web/culture/vicus-alexandri-il-portofluviale-di-san-paolo/, [Ultima consultazione: 7/04/2017] http://digilander.libero.it/amareroma/ppapa3.htm, -[Ultima consultazione 21/04/2017] http://digilander.libero.it/amareroma/ppapa2.htm#1.6, [Ultima consultazione 21/04/2017]
117
-
118
http://efiorenza11.wixsite.com/portfolio/chiesa-di-santpassera-alla-magliana, [Ultima consultazione 6/04/2017] https://it.wikipedia.org/wiki/Ciro_di_Alessandria, [Ultima consultazione 6/04/2017] http://iltaoaroma.altervista.org/pian-due-torri/, [Ultima consultazione 21/04/2017] http://www.monteverdein.it/index.php?mnt=il-gianicolo-nellabattaglia-del-1849, [Ultima consultazione 18/04/2017]