Bellissima cercasi

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Felice Lioy

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Umberto Collesei

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Giovanna Maggioni

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Enrico Finzi

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Ugo Volli

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Eugenio Bona

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Gabriella Scarpa

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Roberto Pizzigoni

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Francesco Mendini

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Raffaele Tecce

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FELICE LIOY Upa

Mi fa particolarmente piacere aprire questo Convegno che celebra la bellezza in pubblicità e lega a questa l’efficacia della campagna. È significativo che questo incontro avvenga su iniziativa di un’azienda di pubblicità esterna e di affissioni, perché quando pensiamo alla pubblicità davvero bella ci viene in mente la vecchia cartellonistica di fine Ottocento e dei primi del Novecento. Del resto tutta la storia dei manifesti è costellata di veri e propri capolavori di bellezza e di arte. Noi stessi, come UPA, ci siamo tante volte domandati se la bella pubblicità possa essere di per sé un motivo di efficacia e quindi di buoni risultati. Una decina di anni fa abbiamo addirittura svolto un’indagine su questo tema, affidandola a un istituto di ricerca. Era nostro intento verificare prima di tutto se gli spot televisivi più belli e creativi fossero anche i più efficaci e, in secondo luogo, volevamo stabilire se la stessa bellezza dei programmi e delle trasmissioni televisive desse maggiore risalto allo spot pubblicitario. In poche parole ci siamo chiesti: è vero che se il contesto delle trasmissioni è miserando e comunque di qualità bassa lo spot emerge come una perla in mezzo ai rifiuti, oppure è vero il contrario, cioè che la bella pubblicità è ancora più bella e più efficace quando il contesto è buono. Dall’indagine è uscita una risposta senz’altro univoca: è molto meglio che l’ambito, quello televisivo, sia di elevato livello e metta di buon umore perché lo spot acquisti forza e risalto in un quadro positivo.

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Noi pensiamo che il circolo virtuoso che si instaura attraverso l’inserimento di qualche cosa di bello nella pubblicità ripeta un pò lo stesso meccanismo che viene azionato dai “testimonial”. Spesso infatti si chiamano personaggi prestigiosi e famosi per trasferire sul prodotto il loro carisma e la loro notorietà. Di solito, se ben condotta, l’operazione funziona. Se invece di chiamare un grande personaggio inseriamo nell’annuncio pubblicitario qualche elemento di esaltante bellezza, questo inevitabilmente si trasferisce al bene che vogliamo pubblicizzare. I “testimonial” poi sono molto curiosi, soprattutto se famosi e di spicco, la bellezza invece non costa nulla, soprattutto in Italia dove abbiamo a disposizione tesori artistici e paesaggistici come in nessun altro Paese al mondo. Il tutto è però molto più complesso di quanto non sembri. Ricordiamoci che non è vero, come spesso si dice, che quando le aziende non hanno idee o i creativi non hanno ispirazioni chiamano un testimonial e la cosa è risolta. È un luogo comune che non ha fondamento perché bisogna scegliere bene il personaggio, inserirlo in maniera coerente con il prodotto, soprattutto fare in modo che davvero la notorietà e il prestigio del divo passino al prodotto. L’operazione è difficilissima perché più importante e più noto è il testimonial tanto più questo attrae l’attenzione, togliendo così eccentricità o centralità al prodotto, che è quello che interessa. Con la bellezza si corrono un pò gli stessi rischi. Alcune volte essa è talmente soverchiante di per sé che mette in ombra il prodotto. Oggi il quadro è complicato da altri elementi. Ad esempio:

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spesso non si può mostrare il prodotto per il semplice fatto che moltissime delle campagne che oggi vengono rappresentate in televisione, sulla stampa, nei manifesti e alla radio, non sono fatte a favore di prodotti, ma sono in favore di servizi, legati quindi alla tecnologia, alle forniture assicurative, bancarie o finanziarie nonché ai diversi servizi connessi con Internet, con la telefonia, e con le comunicazioni, tutte prestazioni che non si possono rappresentare, non si possono mostrare. Per cui si rischia di andare a ritrovare una bellezza che, per forza di cose, ha scarsa attinenza con il prodotto. Anche in questi casi gli annunci troppo belli, quelli elaborati in elettronica o quelli con carattere nettamente fantasioso o fantasmagorico, rischiano di attirare in se stessi l’attenzione del consumatore e di mettere in secondo piano il servizio offerto. Il problema è tuttora di difficile soluzione e le stesse nostre agenzie di pubblicità, che per decenni si sono dedicate con successo alla creatività di prodotti di largo consumo o di beni durevoli, stanno facendo un enorme sforzo per dar luogo ad una creatività che, per i servizi, riesca a creare un nesso tra la rappresentazione visiva e la sostanza del messaggio finalizzato. Come si vede l’intera materia è molto più complicata di quanto possa apparire agli stessi addetti ai lavori e infinitamente più complessa di quello che il largo pubblico può pensare (ammesso che vi pensi). Proprio perché il tema è particolarmente affascinante e attuale, si è deciso di raccogliere attorno a questo tavolo alcuni importanti personaggi del mondo istituzionale, creativo, professionale e artistico per intrattenerci su di un tema che può aiutarci a trovare sbocchi interessanti anche sul piano operativo.

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UMBERTO COLLESEI: Master in Comunicazione d’Azienda UPA – Ca’ Foscari

Dei diversi significati cui si può riferire il termine bellezza in pubblicità, vorrei scartare subito quello di bellezza come efficacia del messaggio. È nota e largamente condivisa l’idea che al centro dell’interesse aziendale vi sia il cliente e come la marca costituisca da un lato il perno del rapporto impresa-cliente, dall’altro (brand equity) il metro di giudizio di ogni attività di comunicazione dell’impresa Non può riferirsi nemmeno ai contenuti del messaggio che potranno essere più o meno stimolanti, più o meno impattanti, più o meno ricchi di significati per il target. Bellezza della pubblicità, e più in generale della comunicazione, significa che ha a che fare con lo stile, con il gusto estetico della comunicazione. Una bella pubblicità è quindi frutto di un rigore estetico, di un armonico utilizzo di tutti gli strumenti che concretizzano e veicolano il messaggio pubblicitario. Una pubblicità è bella quando fa piacere vederla, leggerla, ascoltarla. Fare una bella pubblicità vuol dire quindi interpretare i gusti estetici del target di riferimento, suscitando emozione visiva, piacere sensoriale. Se accettiamo almeno in linea di ipotesi che questo sia il significato da dare al termine bellezza, ne derivano conseguentemente la soggettività dei canoni di riferimento e la difficoltà di trovare un forte consenso tra il più vasto pubblico, tale da rafforzare per questa via i clienti nella loro scelta della marca e del prodotto e da creare un clima favorevole al discorso della marca anche fra i non clienti. Pur riconoscendo come tali difficoltà siano tutt’altro che trascurabili, non si può non riconoscere che vi sono delle pubblicità, come delle strutture architettoniche,

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dei prodotto, delle musiche, ecc., che si impongono all’attenzione di una parte significativa della popolazione ottenendo un giudizio positivo, largamente condiviso. Se quindi l’obiettivo di fare una bella pubblicità è quello di arricchire, confezionare in modo piacevole il messaggio è indubbio che è a tale situazione che ci si deve riferire per convincersi della necessità e convenienza di fare una bella pubblicità. Sono perciò i codici più generali e condivisi che vanno ricercati tenendo conto dell’evoluzione dei gusti e dei valori che la società assume come trainanti nei propri atteggiamenti e comportamenti. Se si assume quindi che questo sia il significato da dare al termine bellezza in pubblicità ne consegue che chi pone tra gli obiettivi della comunicazione anche quest’ultimo deve individuare oltre alla coerenza tra prodotto, marca, contenuti, mezzi, target anche quello relativo al contesto in cui la pubblicità si colloca. Riferendoci in particolare alla pubblicità esterna va ricordato come essa abbia uno stretto rapporto con l’ambiente in cui si colloca: il territorio. Una bella pubblicità deve aggiungere senso al messaggio, valorizzare il patrimonio artistico, architettonico e paesaggistico, risultare funzionale a chi la fa e a chi la riceve, contribuire a far crescere il gusto estetico della popolazione, fornire piacere sensoriale e divertire. Concludendo una pubblicità per essere bella deve essere ben costruita ed espressa; il messaggio e la marca devono risultare coerenti con il supporto, il luogo, con ciò che il consumatore/cittadino si aspetta, con i valori estetici che associa alla marca, al mondo che la marca esprime e al contesto ambientale in cui si colloca. Una comunicazione forte, distintiva, che piace, che si fa notare anche perché “cammina sul territorio in punta di piedi”.

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GIOVANNA MAGGIONI: Inpe

Colgo innanzitutto l’occasione per ringraziare Jolly, e cioè una società di pubblicità esterna che tutti gli anni ci dà un appuntamento a Venezia per parlare non di aspetti quantitativi e commerciali di un settore, qual è quello della pubblicità esterna, ma soprattutto di aspetti qualitativi. Infatti l’obiettivo di queste tavole rotonde è quello di parlare e discutere degli aspetti qualitativi di un mezzo in particolare e della pubblicità in generale, fenomeno che spesso viene sottovalutato e di cui invece credo si debba parlare sempre di più in un contesto di affollamento pubblicitario elevato all’interno di una quantità di messaggi a cui il consumatore è sottoposto. Ho fatto parte del Panel intervistato da Enrico Finzi per questa ricerca e devo ammettere che, rispondendo alle domande che mi sono state poste mi sono accorta, nel corso dell’intervista, di essere entrata spesso in contraddizione su che cosa intendevo per bellezza e soprattutto di bellezza in pubblicità. Sono partita da affermazioni grossolane, pensando nella mia mente a bellezza come a qualcosa che poteva “lasciare a bocca aperta”, creare stupore, per arrivare, via via nel corso dell’indagine a parlare di bellezza come efficacia, al concetto di bellezza come risultato finale, a parlare di un giusto equilibrio tra le varie componenti di un annuncio pubblicitario o di un mezzo o di una struttura. Io sono più incline ai numeri, alle quantità e, non a caso, tutte le ricerche a cui ci siamo dedicati in questi anni nel mondo della pubblicità hanno indagato più la quantità della qualità, anche se in realtà un obiettivo parallelo di tutte le ricerche

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quantitative che abbiamo condotto e che stiamo conducendo e che condurremo (nel caso dell’affissione “Audiposter”) è quello di misurare alcuni aspetti qualitativi. Facciamo un esempio facile con la televisione. Se tanta gente guarda uno spettacolo televisivo e non cambia canale vuol dire che trova quel programma utile, interessante, gradevole, se non cambia canale è perché è consono, è in sintonia con le sue aspettative. Proprio la misura del suo comportamento, di come si muove all’interno di questo programma ci dice attraverso analisi e confronti il suo grado di coinvolgimento, il suo interesse per quel programma. Quando andiamo ad analizzare questi dati possiamo dire che quel programma è bello oppure no? No, questo non lo possiamo dire attraverso queste ricerche. Noi andiamo a misurare l’oggettività dei comportamenti e non la soggettività deicomportamenti, d’altra parte non possiamo misurare la soggettività anche perché la soggettività e quindi il considerare bello o meno qualche cosa, sia esso un programma o una pubblicità, al di là dei numeri è un fenomeno che si veste di molteplici aspetti. Il nostro vissuto quotidiano, la nostra cultura, il nostro iter mentale, l’ambiente in cui viviamo ci portano a gradire ciò che per qualcuno è bello e a rifiutare ciò che è brutto e che invece può essere esattamente l’opposto per altri. D’altra parte alcune ricerche condotte nel passato, il dottor Lioy ne ha citata una, ci hanno portato anche a risultati abbastanza sorprendenti. Abbiamo inserito spot ritenuti belli e ben costruiti dal ricercatore in programmi ritenuti brutti e gli

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stessi in programmi ritenuti belli: i primi perdevano efficacia rispetto ai secondi e la definizione di bello era tendenzialmente non volgare, non sguaiato, non violento in senso gratuito, privo di gradevolezza. Il pubblico intervistato, a seconda che fosse un pubblico che gradiva quel programma ritenuto bello dal ricercatore oppure che lo valutasse brutto, dimostra indifferenza, cioè per il consumatore che riteneva bello lo spettacolo o non lo rifiutava (dove invece il ricercatore riteneva lo spettacolo negativo), il valore della pubblicità bella dava risultati abbastanza simili a quelli dell’altro pubblico che invece riteneva bello l’altro programma e che considerava alla stessa stregua la pubblicità così inserita: ancora una volta la soggettività del bello e del brutto. Probabilmente per lo spettatore il fatto della scelta era l’elemento condizionante dei risultati, la scelta del consumatore, nel caso ad esempio della televisione, era a priori e quindi per il consumatore è bello il programma che sceglie. Nella città, nel caso dell’affissione e quindi del messaggio pubblicitario trasmesso e veicolato attraverso l’impiantistica per le strade, che cosa succede? Il consumatore si trova di fronte al soggetto, in questo caso non fa la scelta di un suo programma, di un libro, di una rivista, ma il consumatore che si trova a circolare per una strada, a compiere determinati percorsi che cosa pensa del bello? La sua strada non è condizionata da belli impianti oppure no. Certo sarebbe bello che alla fine delle nostre ricerche si arrivasse invece a dire che il consumatore cambia il proprio percorso perché trova sulla propria strada impianti più belli di altri. Questo potrebbe essere un ottimo risultato per il mezzo perché

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addirittura potrebbe condizionare i passaggi. Credo che nel caso dell’affissione sia molto importante che la bellezza non sia solo della campagna pubblicitaria ma sia anche la bellezza del mezzo che la veicola, cioè la bella costruzione che c’è intorno ad un impianto, può essere un trespolo, può essere uno stendardo, può essere un poster, ma la bellezza, in questo caso, del supporto che veicola la pubblicità è molto importante per il consumatore. Credo che su questo mezzo abbiamo il dovere di fornire sì delle informazioni quantitative, ma anche delle informazioni che tengano conto del fenomeno nel suo complesso. Dovremo misurare l’audience attraverso Audiposter che si è prefissata proprio questo scopo ma questo strumento conterà, a differenza degli altri mezzi, non quanta gente sceglie un determinato programma perché in sintonia con il proprio senso del bello, dell’utile, del piacevole (e di conseguenza l’audience della pubblicità), ma misureremo quanta gente compie determinati percorsi e quindi quanta gente passa davanti casualmente all’impianto. Secondo me dovremo fare un passaggio in più rispetto agli altri mezzi (è quasi insito nella misurazione quantitativa, cioè si scelga un programma perché piace). Nel caso dell’affissione dovremo, attraverso Audiposter, valutare anche l’aspetto qualitativo del supporto, quindi sì l’efficacia della campagna, ma anche la piacevolezza del supporto. Fare un’indagine che mi auguro un domani ci porterà a valutare che la gente cambia percorso perché si è accorta che su un’altra strada ci sono poster belli, che magari sulle strade che percorre non ha, e considerando la piacevolezza, nel contesto urbano, dell’affissione perché ben veicolata, perché ben condotta.

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ENRICO FINZI Astra - Demoskopea

Vengono qui presentati e riassunti i risultati d’una ricerca qualitativa, commissionata da Jolly Pubblicità e realizzata nei mesi di febbraio e marzo 2000 tramite 16 colloqui “in profondità” con creativi pubblicitari (3), responsabili di concessionarie (2), dirigenti di organizzazioni professionali del mondo della comunicazione (utenti e tecnici pubblicitari: 2), editori (2), docenti di comunicazione, semiologi e ricercatori (2), docenti di estetica (1), giornalisti specializzati (1), urbanisti (1), responsabili dell’arredo urbano di comuni metropolitani (1). Il tema oggetto dello studio è stato quello della “bellezza” in pubblicità: un tema oggetto d’intenso dibattito e di cospicui dissensi, a partire dalla stessa definizione del concetto. Per alcuni la “bellezza” in pubblicità non è e non può essere altro che ordine ed armonia degli elementi che compongono il messaggio. Prevale qui una concezione tecnica, legata alla conoscenza ed all’applicazione delle norme di correttezza formale tipiche della “grammatica” e della “sintassi” dell’advertising, del sapere professionale capace di costruire un annuncio con professionalità, utilizzo proprio del singolo “medium”, abilità di offrire una struttura narrativa chiara, semioticamente corretta, coerente con le caratteristiche del prodotto e con la strategia dell’azienda. Per altri la “bellezza” in pubblicità è, anzitutto, efficacia del messaggio, intesa sia come capacità di attrarre l’attenzione, di essere impattante e memorabile, di emozionare e coinvolgere, di rendere partecipi della magia del mondo della marca,

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di sorprendere attraverso un percorso narrativo originale; sia come abilità nel costruire un preciso posizionamento, congruo con la strategia di marketing che sta alla base della comunicazione. Per altri ancora (ma ovviamente tali “partiti” s’intrecciano variamente) la “bellezza” in pubblicità è, non può che essere creatività, intesa come capacità di aggiungere al prodotto e/o al brand un “di più”, un surplus rispetto alla descrizione dell’insieme degli elementi che li costituiscono, meglio se attraverso l’utilizzazione di modalità di comunicazione originali che colpiscono quella parte dell’immaginario collettivo non ancora occupata, saturata, anestetizzata dal bombardamento di messaggi. Certo, non esiste una pubblicità “bella” in assoluto: tutto dipende dal target (segmentato anzitutto per classe socio-economica e livello di scolarità, per sesso, per età e per livello culturale), tenendo conto dei valori e dei gusti d’ogni gruppo sociale (per esempio, oggi tra i giovani “bello” è ciò che ad altri appare orrendo, allucinante, ecc.); dal tipo di prodotto (la “bellezza” in senso classico risulta più connessa al mondo del lusso); dal mezzo sul quale l’advertising è veicolato (con previlegiamento delle emittenti nazionali televisive e radiofoniche, garantenti un miglior segnale ed una qualificata “impaginazione” dello spot; dei quotidiani e dei periodici che usano un’ottima carta, offrono un “colore” di qualità, costituiscono un contesto o autorevole oppure esso stesso di standing elevato; degli impianti in “esterna” ben progettati e realizzati, adatti al contesto, garantenti affissioni perfette e ben visibili, adeguatamente manutenuti, in luoghi e con angoli di visuale ottimali, pianificabili con facilità e professionalità, magari d’alto impatto e/o allegramente mobili; delle soluzioni in Internet che ne rispettino e valorizzino le

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caratteristiche proprie: dalla dialogicità alla necessità “captativa”). Ma cos’è la “bellezza” in pubblicità? Per una minoranza è la classica bellezza delle modelle e dei modelli, dei paesaggi naturali incontaminati o delle suggestive atmosfere urbane, delle musiche coinvolgenti, ecc.. Per i più è molto di più ed eventualmente di diverso: è l’attrattività del mondo costruito attorno al prodotto e/o al brand, cruciale dal momento che l’oggetto della pubblicità si è completamente desemantizzato e spesso non ha alcun valore distintivo; è la piacevolezza del vivere cacciata nel ‘900 dall’arte, migrata dall’arte alle merci ed alla loro comunicazione; è il riferimento ai desideri, agli stereotipi positivi, alle tendenze, agli stili dominanti in un certo momento storico (nella società o in talune sue frazioni-target), nel tentativo d’esprimere sinteticamente il punto di perfezione delle forme secondo i gusti dell’epoca; è, infine, sogno. Funziona la “bellezza” in pubblicità? In generale sì, se riesce ad essere attrattiva perché non banale, costruente un adeguato posizionamento della marca, esprimente un’atmosfera coerente col tipo di prodotto e di target, orientata ai viewers (e non – o non solo – alle soddisfazioni narcisistiche dei pubblicitari), esprimentesi pure in “bruttezza” se essa è reputata “bella” dai destinatari, correttamente costruita e realizzata. Tanto più che i mega-trend sociali giocano spesso a favore della “bellezza”: la crescita dei livelli di scolarità e cultura delle masse, la diffusione del gusto e della sensibilità estetica, l’incrementata esperienza nel “consumo” di messaggi che si traduce in maggiori sofisticatezza della domanda ed in maggior selettività critica, la stessa ossessione per la bellezza del corpo e per la qualità del vivere, ecc.. Il che ha spinto e spingerà ad un’accelerazione del “circolo virtuoso” tra domanda ed offerta

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di annunci “belli” in quanto distintivi, esclusivi, rari, preziosi perché riconoscibili, realizzati con cura attenta dei dettagli, ironici ed autoironici. A favore d’una pubblicità sempre più “bella” giocano e giocheranno la tecnologia ed il suo utilizzo (dalla pellicola nell’adv televisivo agli effetti speciali cinematografici, dalle magie del montaggio al trionfo del computer pure tale strumento di creatività); il sempre più frequente interscambio tra settori diversi (cinema e tv, fotografia e moda, informatica ed Internet, ecc., ecc.); la rivoluzione dei “new media”; il gusto della sperimentazione delle “nuove leve”, favorito dalla relativa “gioventù” del settore pubblicitario e da un dilagante scambio tra i diversi Paesi (il quale - si dice - porta alla rapida evoluzione della pubblicità italiana). Infine, l’ultimo interrogativo: la “bella”pubblicità migliora la vita? Secondo la grande maggioranza degli intervistati sicuramente sì, almeno per certi versi. Essa è “un sogno che aiuta a vivere”, a volte a ragionare (citata “Pubblicità Progresso” insieme a singole campagne) ed a sentirsi parte d’una comunità non dispersa, spesso ad accedere ad un mondo “parallelo” ove l’impossibile si realizza ed i desideri sembrano diventare realtà. Una minoranza, ristretta ma grintosa, lo nega con forza e parla d’irrilevanza dell’advertising in rapporto con il “bilancio della felicità esistenziale” o - addirittura - di contributo all’infelicità proponendo al consumatore sogni irrealizzabili e desideri non soddisfacibili, volutamente allontanando dalla realtà. E tuttavia un quasi universale consenso emerge ragionando a “contrario” dal momento che pressoché tutti gli intervistati sono certi che la “brutta” pubblicità peggiora la vita.

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In più modi: irritando e disgustando; rendendo ancora meno valida l’offerta dei “media” (la quale invece guadagna assai da annunci frequentemente migliori delle trasmissioni tv o degli articoli che li circondano…); involgarendo assai taluni contenuti editoriali; infiltrandosi nella trama dell’ascolto o della lettura con proposte improprie e mal distraenti; rompendo l’unità stilistica del programma o del prodotto. Tale rovesciamento di prospettiva porta - in conclusione - a valutare positivamente l’apporto delle “belle” affissioni (quelle ordinate, pulite, su bei supporti, allegre, colorate, rallegranti la città, coprenti i cantieri, contrastanti il degrado urbano o favorentine la riqualificazione, omogenee al contesto e spettacolari, con annunci “dedicati” e formule d’“impaginazione” sorprendenti); quello dei begli spot televisivi, spesso capaci di migliorare programmi reputati meno validi dell’advertising e di creare mode (anche linguistiche) e veri e propri standard di riferimento sociale; quello degli spot radiofonici, impregnati spesso di coinvolgente allegria (tanto più utile nei momenti “brutti”: il risveglio, le code nel traffico, l’espletamento delle faccende domestiche, ecc.); quello degli annunci-stampa, incrementanti l’attrattività (ed a volte il contenuto informativo e di servizio) del giornale.

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UGO VOLLI Università di Bologna

Facciamo una premessa utopica. Poniamo che sia vero quello che alcuni sostengono, cioè che la pubblicità (assieme al cinema e ad alcuni altri nuovi mezzi di comunicazione) rappresenti l’arte specifica del ‘900. É chiaro che la letteratura, la pittura, la musica, insomma le arti tradizionali della civiltà europea, hanno affrontato un momento di crisi e insieme di estremo dinamismo in questo secolo, hanno sperimentato soprattutto nuovi linguaggi, trovando difficoltà a svolgere la funzione tradizionale dell’arte come il luogo in cui si esprime una vita sociale. Proviamo dunque qui a interrogarci se possiamo pensare alla pubblicità in questi termini e a porci così il problema della sua “bellezza”. Immaginiamo ora di trovarci qui in questa sala o da qualche parte qui vicino tre o quattro secoli fa e di provare a discutere con Tiziano o con Canaletto se la bellezza sia importante in pittura. La risposta secondo me sarebbe doppia, cioè da un certo punto ovviamente sì, nel senso che la pittura bada alla bellezza perché l’arte ha sempre a che fare con la bellezza, ma questo è un punto di vista esterno, nel senso che è ovvio che chi faccia l’artista, (diciamo in questo caso chi faccia il pubblicitario), si propone il compito di realizzare dei bei “prodotti”: un “brutto” quadro è un quadro riuscito male, sia poco capace chi lo fa, sia sfortunato quel singolo lavoro. Da un altro punto di vista la pittura è sempre pittura di cose belle, i contenuti della pittura o i contenuti della tragedia o del romanzo sono sempre cose belle, persone gradevoli, storie felici? È evidente che la risposta è negativa, basta pensare a

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Caravaggio, ai momenti sanguinosi delle tragedie, ai romanzi che raccontano brutture. Spesso l’arte si fa a partire dal brutto; arte può essere, ad esempio, in una serie di temi canonici, la testa di Medusa, la decollazione biblica, l’amore infelice, la vecchiaia, la morte, l’orrore. Le cose che diceva un attimo fa Finzi sul fatto che la bellezza in pubblicità si può ridurre al saper fare bene il proprio mestiere forse si approfondiscono pensando che questo saper fare bene o sorprendente lo spettatore è tutto sommato sempre stato l’oggetto dell’arte. In greco arte è techne. Techne è sia l’origine della tecnica che la parola greca per arte, perché l’arte è concepita originariamente come una specie di tecnica, una tecnica della comunicazione, una tecnica che è certamente più gratuita e giocosa del sapere dell’ingegnere o dell’artigiano, che non è esattamente la tecnica meccanica che i greci disprezzavano, ma che è pur sempre un saper fare, è un’attività che mira al buon risultato e all’efficacia. Non vorrei proseguire su questa strada se non per stabilire che ci sono due punti di vista sul nostro problema: un punto di vista interno e uno esterno. Ci si può interrogare dell’interno su come funziona bene una pubblicità, potremmo dire una bella pubblicità, che quindi sarebbe una “pubblicità d’arte”. Oppure si può prendere un punto di vista esterno e chiedersi che cosa ha in comune la bellezza della pubblicità con le altre bellezze. In altri termini potremmo usare semplicemente la parola efficacia, che è scappata spesso a Finzi. E però la bellezza è un po’ diversa dall’efficacia, tant’è vero che nel suo discorso sorgeva l’esigenza di ragionamenti abbastanza sofisticati su ciò che è brutto per me, su ciò che invece è bello

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per il target basso e così via. Se seguiamo fino in fondo questa linea ci ingolfiamo un pò perché bisognerebbe dimostrare come potrebbero sovrapporsi il gusto, l’efficacia, la bellezza. Si può avanzare un’ipotesi: forse esiste qualche struttura molto profonda che ha a che fare con la bellezza in generale quanto meno nella nostra cultura se non nella mente in generale come sostengono certi cognitivisti - che ci orienta sulla bellezza. In questo possiamo trovare appoggio in Platone: nel Fedro troviamo un discorso molto interessante sull’importanza del sesso nella vita. La tesi di Platone dice che Eros è importante perché, amando un corpo e di questo corpo amando la bellezza, noi ci ricordiamo dell’idea del bello che è l’idea fondamentale per accedere al mondo spirituale. Perché è importante ricordarsi dell’idea del bello? Perché fra tutte le idee, il buono, dio, la giustizia, eccetera, il bello è l’idea che colpisce di più gli uomini, che è più facile comunicare, che “funziona” di più. In termini platonici: è quella che si ricorda di più rispetto alle altre idee che si potrebbero incontrare nel mondo. Perché questo? È qualcosa di assai vicino al nostro tema, anche se stiamo parlando del Fedro di Platone, perché la bellezza sarebbe in qualche modo l’universale sensibile, cioè, universale o no, sarebbe qualche cosa che parla direttamente alla nostra sensibilità, alle nostre corde corporee, che ci raggiunge direttamente attraverso gli occhi, attraverso le orecchie, che tocca i sensi, e che però ha un carattere universale. Al contrario della giustizia, del bene, degli altri grandi valori che devono passare attraverso una forma di riflessione complicata, la bellezza è l’idea divina che arriva subito alla percezione umana. Questa può essere una bellezza interna, può essere la bellezza

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di una cosa bella, di un paesaggio bello, di una donna bella, ma può essere la bellezza del messaggio. Resta il fatto che una volta che noi riusciamo a stabilire che si tratta di una forma di bellezza, che ha necessariamente a che fare con il discorso dei sensi, essa ha una sua efficacia diretta. Niente ci autorizza a pensare che tutto ciò che è efficace sia necessariamente bello, ci possono essere cose efficaci che sono brutte in qualunque senso ragionevole delle parole, ma che senza dubbio ciò che davvero è bello se è bello è anche efficace. Il problema è che la nostra cultura ha da lungo tempo, e non solo da questo secolo, qualche problema con la bellezza. È il tema della bellezza abbandonata dall’arte. Lo diceva già Goethe due secoli fa: guardate questi artisti francesi, sono quelli che cominciano a fare delle opere naturalistiche, hanno bisogno di distruggere tutto. Stiamo andando, sosteneva il grande artista tedesco, verso un mondo in cui si cerca di mostrare tutto ciò che è estremamente meschino, tutto ciò che è estremamente miserabile, tutto ciò che è estremamente ributtante perché questa è la fase in cui ci troviamo, la decadenza da cui siamo avvolti. Questo discorso si è molto sviluppato. C’è una linea della nostra cultura, quella del nichilismo o della diagnosi del nichilismo, che afferma che i valori tradizionali (e nei valori tradizionali come abbiamo appena detto il primo è la bellezza) non tengono più, non sono più sostenibili: ma questo avviene non con la body art o la pop art e neppure con le avanguardie storiche del primo Novecento; non tengono più però dal 1750, dal 1830. In quel libro di denuncia della cultura di massa molto bello e profetico di McDonald, Masscult and Midcult, si sostiene che l’alta cultura dedita istituzionalmente a fabbricare la bellezza finisce nel 1750, nel 1750 incomincia l’industria culturale, inizia in Inghilterra

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e già Byron è una specie di piccolo Sgarbi, cioè già Byron è dentro la logica della pubblicità, come Defoe in quella dell’industria editoriale. Si cominciano allora a fabbricare prodotti di massa che somigliano molto ai nostri serial televisivi. Quello è già un momento in cui proporre l’idea della bellezza è un gesto del tutto stereotipato, di lì parte una linea che nella cultura europea si afferma in maniera definitiva verso l’inizio dell’800, verso il 1830. Con Baudelaire, con gli ultimi quartetti di Beethoven non è più possibile produrre un’opera d’arte che alla gente sembri “bella”: se una cosa sembra bella alla gente non è bella dal punto di vista artistico. Chiunque ti dice che ti dà il bello ti sta vendendo del kitsch, ti sta vendendo delle cartoline di quarta categoria. Questa situazione, profondamente radicata nella nostra cultura, è profondamente imbarazzante perché almeno negli ultimi cento anni, diciamo a partire dall’espressionismo, ha portato ad un’arte esplicitamente contro il gusto, ad un’arte fatta esplicitamente per non piacere. Ormai, a distanza di ottanta o cento anni, anche un pubblico medio riesce probabilmente a vedere con maggior agio e con maggior distacco una Lulu di Berg o Les damoiselles d’Avignon di Picasso, ma già se uno prende un classico nella storia della musica, come Verklaerte Nacht di Schemberg, che ha più o meno la stessa distanza cronologica, il pubblico medio fa molto fatica a seguirlo - per non parlare di Joyce. C’è stato ormai un plurisecolare divorzio fra l’alta cultura e la nozione di bellezza condivisa, nel senso di ciò che piace. Questo fatto crea una serie di problemi gravi, credo, ad un’arte che voglia piacere in particolare alla pubblicità, che, se è un’arte, è un’arte che vuol piacere, che ha bisogno di piacere perché serve a far piacere i suoi prodotti. Prima Finzi citava Alessi. Alessi è il tentativo di reinventare dei prodotti che siano

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riportati all’alta cultura, che siano affidati in larga libertà a designers e architetti, ma che possono anche andare sul mercato. Il fatto è che i prodotti Alessi che sono riusciti ad andare sul mercato, come dice l’azienda stessa ed è documentano al loro museo, sono una piccolissima minoranza dei tentativi di progetto. Inoltre, la bellezza dei prodotti Alessi è di essere contro la definizione, la tipologia di prodotto normale, per cui un apribottiglie sembra un ragno, un accendigas sembra un fallo, ecc. Il che significa che difficilmente un prodotto Alessi sembra bello al pubblico comune, fa parte di queste cose che sembrano brutte, ma magari appaiono come gadget divertenti, scherzi riusciti. Il dilemma di un’arte “bella” non si risolve su questa strada. Credo che parlare di bellezza della pubblicità imponga di mettere il dito su un problema molto grave, che è quello della distinzione fra ciò che potrebbe essere pensato come frutto di una ricerca estetica che segue la grande linea dell’alta cultura europea e ciò che invece è fatta per piacere al grande pubblico. Finzi se l’è cavata tutto sommato facendo un gioco greco, richiamando implicitamente il concetto di kalos kai agathos. È l’idea che ciò che è bello è anche buono, ciò che è buono deve essere anche bello. Se si interpreta ciò che è buono come quello che funziona, il gioco è fatto. È vero, però io vorrei proporvi una seconda linea di ragionamento possibile, cioè che esista per davvero la pubblicità bella (e dunque anche quella brutta). Credo che valga la pena di partire da un pensiero che do qui in maniera dogmatica, perché non ho il tempo di motivarlo, anche se è stato molto discusso nella storia dell’estetica: tutto sommato la bellezza non è semplicemente il soddisfacimento del gusto; rispetto al piacere puro e semplice nella sensibilità c’è qualche cosa in più. Vi propongo semplicemente di pensare che la bellezza è una specie di eccesso, che non è semplicemente bello ciò che piace,

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ma ciò che piace e che in più possiede qualche altra qualità che non tento neppure di precisare qui. Nelle più diverse società si trovano numerose attività di costruzione, di creazione, che hanno a che fare con il piacere del gusto. Sono quelle che Platone nel Gorgia chiama adulazioni: ci mette la gastronomia e anche la cosmetica, che poi sarebbe la moda, ci mette anche una cosa che somiglia molto alla pubblicità che è retorica. Queste sono adulazioni, dice Platone, poiché si basano sul governo delle apparenze. Poi ci sono delle attività che invece sono scientifiche, dato che si occupano delle realtà e non dell’apparenza e si basano su un sapere vero e non sulla pratica: sono la ginnastica, la politica, la medicina. Che cos’hanno dal punto di vista di Platone queste attività vere di cui le altre sono le simulazioni o perversioni? Secondo me un qualcosa in più, cioè una linea di fuga, una difficoltà di essere afferrate. Vorrei sostenere che se esiste una bellezza della pubblicità, che sia semplicemente distinta dalla sua efficacia, questa bellezza non può essere recuperata a livello della dialettica degli atti linguistici. Una delle linee possibili di analisi della pubblicità è che la pubblicità consiste di atti linguistici. Gli atti linguistici come è noto si possono analizzare secondo tre dimensioni di efficacia. Possono funzionare semplicemente in quanto hanno una loro buona costituzione sintattica e semantica, cioè esercitano efficacemente delle forze locutive. Possono essere efficaci in quanto hanno una capacità di produrre degli effetti dichiarati, cioè esercitano delle forze illocutive. (Per esempio, se io ti dico: scusa, che ora è? Se tu mi dici l’ora io ho ottenuto un risultato, ti ho fatto fare una cosa, ma te l’ho fatta fare chiedendotela esplicitamente).

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Infine hanno una terza capacità, un terzo tipo di forza, che è quella che i filosofi del linguaggio chiamano perlocutiva: la perlocuzione è l’attività della seduzione, è l’attività di far fare qualche cosa senza dirlo esplicitamente. (Per esempio la volpe della favola che riesce a far cadere il formaggio dal corvo non dicendogli: per favore, butta giù il formaggio, perché le avrebbe detto di no, ma: canta, così sento la tua bella voce e quindi ottiene questo effetto laterale). Ora non sto dicendo che la pubblicità sia fatta da persuasori occulti, che è una storia in cui non crede più nessuno, chiaramente la persuasione pubblicitaria è palese, però credo che l’effetto perlocutivo, cioè l’effetto laterale, la mossa del cavallo, il colpo di lato, sia comunque un effetto essenziale di tutta la pubblicità che produce goodwill, che produce buona volontà e simpatia intorno al prodotto, il che ormai rappresenta la maggioranza dei messaggi pubblicitari. Credo che per il pubblicitario non si tratti semplicemente di articolare in maniera corretta un testo su queste tre dimensioni, credo che la pubblicità bella sia quella che contiene in sé una specie di quarta dimensione, oltre alla locuzione, l’illocuzione e la perlocuzione, e che questa quarta dimensione sia di tipo ludico, di tipo gratuita, di eccesso, di spesa comunicativa non giustificata neppure dalla persuasione, che insomma abbia a che fare non tanto con l’espressione del gusto del tempo, che è tautologica sempre, ma tutto il suo contrario, com’è l’arte contemporanea. Abbia cioè il valore, l’interesse e il piacere di contraddire segretamente il gusto e il piacere dominante in un certo tempo e contraddicendolo, rinnovarlo. Credo che l’aspetto interessante e “artistico” dove si rifugia la

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bellezza nella pubblicità siano quei luoghi in cui la pubblicità fa una specie di doppio gioco. Il che succede abbastanza spesso: da un lato la pubblicità gioca con il bello, col piacevole, con i codici dati; dall’altro, in maniera più o meno segreta o più o meno segretamente palese, li contraddice, li arricchisce, ci ironizza, e si presta ad una specie di doppia lettura. Da un lato è perfettamente trasparente, dall’altro è opaco e ha dentro un segreto. Se uno si chiede qual è la pubblicità che piace agli addetti ai lavori, qual è la pubblicità che notoriamente tutti dicono e poi non ha tanto successo, quella che viene premiata a Cannes, quella che ci diverte, quella che guardiamo volentieri anche noi, è questa che ha qualche cosa in più. Credo che sia legittimo dire che la pubblicità di certi prodotti di massa sia brutta, perché non ha questo spessore in più, perché è trasparente, anche se efficace; credo che si possa dire che una pubblicità è brutta ed efficace, in questo ambito, e credo che si possa dire che un’altra possa essere invece bella e un pò meno efficace, e credo che accada spesso che le cose belle siano anche efficaci, ma che questa bellezza consiste in una specie di scivolamento, di vertigine, di eccesso, di punto di fuga, in cui la pubblicità non è più semplicemente del tutto funzionale al momento contingente di quel prodotto, di quella campagna in quel momento che è sempre molto soggetto alle mode, ma afferma, forse in maniera un pò nascosta, un valore, perché la pubblicità afferma valori, con una maggiore complessità, con un arricchimento che va al di là del singolo momento. Se noi andiamo indietro e guardiamo, per esempio, le pubblicità dell’inizio del secolo, scopriamo che certi manifesti di Dudevich o di Depero ci piacciono, e ci piacciono

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al di là del fatto che poi quei prodotti non ci sono più e che comunque forse sarebbe troppo ingenuo mettere quella pubblicità su un muro o su una pagina di giornale adesso, semplicemente perché, in qualche modo, riconosciamo che hanno dentro surrettiziamente, al di là del rappresentare la bottiglia di un cordiale o un’automobile, dei valori in più che non sono semplicemente serviti a promuovere quei prodotti, ma che al contrario ne sono state veicolati. Mi rendo conto che questo è un punto di vista esterno e che è un punto di vista che vede la pubblicità dentro la nostra cultura e cerca di vederne gli aspetti positivi, gli aspetti di arricchimento e la sua eventuale funzionalità artistica, oltre che funzionalità comunicativa. È possibile che, invece di chiedersi cosa fa la bellezza alla pubblicità, uno può chiedersi cosa fa la pubblicità con la bellezza, allora questo è un discorso che si riapre continuamente, in cui le considerazioni di efficacia diventano prevalenti. Ma tutto sommato, come Platone sapeva già benissimo, la bellezza è un fine in sè, che sopravvive spesso alle utilità concrete per cui è stata realizzata.

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EUGENIO BONA Media Italia

La bellezza per me, essendo responsabile di una centrale media e abituato a convivere coi numeri, deve essere efficacia; non può che essere altrimenti perché comunque la pubblicità fa vendere anzi, meglio, oggi ho imparato che crea un’immagine che fa vendere, per citare le parole di Finzi. Questa è la missione della pubblicità. Volevo fare anche qualche considerazione sui diversi mezzi perché secondo me c’è una profonda differenza nell’interazione che c’è tra la gente normale (il consumatore, il pubblico) e i singoli mezzi e questo è molto rilevante ai fini anche della bellezza in pubblicità. Se ci pensate un attimo la pubblicità in televisione e in radio è sicuramente intrusiva. Uno se ne sta comodamente seduto in poltrona davanti alla televisione, ad un certo punto ecco arriva la pubblicità. È vero che la pubblicità è migliorata, è vero quello che si dice come battuta che ha ripetuto Finzi, cioè che oggi la pubblicità è molto più accettata che non prima e quindi forse l’intrusione è molto minore; comunque, uno mentre se ne sta guardando un programma potrebbe volentieri farne a meno, tant’è vero che ci sono delle pay-tv che fanno il proprio cavallo di battaglia il fatto di non avere interruzioni pubblicitarie. Per la radio è la stessa cosa. Uno va in macchina, a me succede molto spesso di andare in macchina, praticamente vivo in autostrada durante la settimana, ascolto la radio e a un certo

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punto ecco che arriva il comunicato pubblicitario. Anche qui è inaspettato e quindi può essere intrusivo. Questa intrusione ha degli effetti diversi, rispetto ad altri mezzi come la stampa e l’affissione, nella modalità di ricezione della pubblicità. Una pubblicità efficace può essere quella che, per esempio, ti strappa un sorriso, una pubblicità molto gradevole. Credo che tutto sommato la pubblicità in televisione e in radio abbia un pò, in fondo, il compito di farsi perdonare l’intrusione e quindi quando una pubblicità è ironica o autoironica forse ci riesce meglio. Quando parliamo di stampa e affissione il discorso è molto diverso. Difficilmente la pubblicità in stampa strappa un sorriso, mi provoca altre sensazioni, probabilmente consente di avere delle illustrazioni molto in profondità sul prodotto, comunque provoca delle sensazioni e delle emotività anche in questo caso. Curiosamente mi è capitato ieri di sfogliare una rivista di automobili molto sottile e dico: che cos’è questa cosa, una schifezza! Perché? Perché manca la pubblicità. Ormai siamo abituati alle pagine pubblicitarie nel consumo delle riviste; quando magari d’estate le riviste diminuiscono di spessore, in fondo ci sembra che ci manchi qualche cosa. Il rapporto con la pubblicità stampa quindi è un rapporto molto meno intrusivo; se non c’è ci manca. Nel caso dell’affissione è ancora diverso. Però prima volevo parlarvi di internet. È il mezzo nuovo, anche se oggi è ancora molto poco utilizzato, ha delle dinamiche completamente diverse, non sappiamo neanche noi bene come verrà fruita la pubblicità su internet.

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Probabilmente è una pubblicità intrusiva anche questa perché tutto sommato, quando uno cerca di navigare in rete, vede i banner e dice: cosa ci sta a fare qui? Ma è un’intrusione che non dà fastidio o può non dare fastidio come quella televisiva dove a un certo punto proprio non vedi più il programma ma vedi solo la pubblicità; qui invece continui a navigare e questo tipo di pubblicità può essere molto più funzionale, più accettata dalla gente, soprattutto se si inventa un qualche cosa per cui, proprio grazie alla pubblicità, si può fruire di servizi che possono essere gratuiti invece che a pagamento. Questa è tutta un’area ancora da esplorare. Il mio intervento sarà fondamentalmente sull’affissione, quindi assolutamente limitato rispetto al tema generale della “Bellissima cercasi” che è un tema universale. Perché? Prima di tutto perché sono stato invitato dalla Jolly e quindi mi sembra giusto parlare di affissione. Secondo perché mi piace profondamente, è un mezzo che adoro. Terzo perché credo che questo mezzo, ancora poco capito da molti clienti, abbia delle potenzialità inespresse. Un particolare che secondo me va detto, a parte i tanti meriti che può avere: non ci sono i problemi di affollamento che invece esistono negli altri mezzi. Anche se è difficile trovare gli spazi oggi, però l’affollamento non dà fastidio salvo qualche caso particolarissimo, non è come in televisione dove c’è uno spot dietro l’altro che a un certo punto ti rompe un pò le scatole. Avvicina il prodotto ai punti vendita; i particolari positivi sono molti. Una caratteristica in particolare, che può essere positiva ma può essere anche negativa, ma comunque è rilevante, è che il target esposto è molto più ampio. Tutti vedono la pubblicità

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in affissione. Mentre sugli altri mezzi si cerca sempre di mirare la pubblicità,e questo è molto importante perché evita le dispersioni, nell’affissione no, chiunque passa se la becca. Faccio riferimento ai discorsi che faceva Finzi prima, la differenza valoriale, di contenuti, di apprezzamento, di bellezza, se una pubblicità è bella o brutta a seconda se uno sia giovane oppure vecchio. Qui non c’è santo, a un certo punto un tipo di pubblicità viene esposta a tutti quindi il giovane la può considerare brutta, la persona più anziana può considerarla molto bella, e viceversa. Adesso vi farò vedere degli esempi, ho cercato di radunarli in 5 tipologie, in cui questo famoso binomio fra efficacia e bellezza coincide perfettamente, e quindi quasi tutti possono essere d’accordo che quel tipo di pubblicità è bella. Cerchiamo di capirne il perché. Il primo esempio è assolutamente macroscopico, quasi banale. È una serie di immagini, campagna Barilla, qui il plus è l’appetibilità. Teniamo presente una cosa: queste sono campagne multimediali per cui dietro c’è una costruzione d’immagine di marca attraverso altri mezzi, il ruolo dell’affissione è un ruolo tattico, di far venire voglia di comprare il prodotto, proprio di mangiarselo. Questo è il “saccottino”. Questa è un’altra. Siccome sono campagne realizzate dall’Armando Testa ma non pianificate da noi, non so neanche quando escono quindi me le vedo uscire mentre esco di casa. Mi ricordo una mattina mi è venuta voglia di comprarla. Ecco una seconda tipologia. Abbiamo parlato prima di arte, la pubblicità è l’arte del ‘900, qui c’è una serie di immagini

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che probabilmente sono parenti strette, tant’è vero che sono state esposte al Louvre, al padiglione dell’Affiche del Louvre e sono anche state esposte a Tokyo e sono le campagne di Esselunga...Topolino o rapanelli, ecc. qui si gioca sui significati, sui simboli. Un terzo esempio è simpatia ed emotività allo stato puro: è una campagna che è fuori adesso, si gioca sui pulcini. Questa è un’affissione Lines che vi ricorderete, credo abbia 15 anni, probabilmente, voi dite “facile giocare sui bambini”, però non è così vero, bisogna proprio che la fotografia, l’immagine siano una cosa ben fatta, proprio tecnologicamente: in questo caso si è raggiunto un buon risultato. Quarto caso, in cui la pubblicità partecipa ad una specie di gioco collettivo, anche qui ci deve essere il coordinamento ed il supporto di una campagna multimediale dietro. “Tanti auguri Pietro”, campagna della fine del ‘96, in cui la Lavazza aveva voluto rilanciare il caffè top di gamma, Qualità Oro, e mentre c’erano dei teaser in televisione che precedevano tutta una campagna televisiva, che era l’ossatura base della campagna, è uscita un’affissione di questo tipo, che ha scatenato veramente la corsa della gente a telefonare, ha intasato i centralini della Lavazza: ma chi è questo qui, San Pietro, il Signor Lavazza, poi qualcuno l’ha collegato con la campagna televisiva dove c’era San Pietro, è stato un gioco a cui tutta la collettività ha partecipato, credo divertente, fra l’altro, per cui è un caso positivo, ha provocato gioia e partecipazione. Questo è un altro esempio: quando uscite di casa e trovate un angelo che vuole offrirvi un caffè, chiaramente anche qui c’è un riscontro televisivo...

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L’ultimo esempio di questo tipo è Vieri: 90 miliardi, nessun limite di spesa prefissato per la Diners, anche qui si è giocato, poi questo può essere stato recepito magari in maniera un po’ offensiva da qualcuno, comunque è un altro esempio di come la pubblicità può inserirsi in un contesto sociale. Ultimo esempio, ultima tipologia. Sorpresa, immagine di forte impatto, si è detto: qui c’è qualche esempio, questo dell’acqua brillante Recoaro San Pellegrino...una bella martellata invece che sulla testa, sulla tua sete. C’è quest’ultima campagna che credo quasi nessuno ha visto, perché ha avuto pochissime posizioni per uno stampatore, Litorama: molto aggressiva. Diciamo che in tutte queste declinazioni che avete visto, c’era un denominatore comune che non è stato citato prima e che è sicuramente vero quando parliamo dell’affissione, mentre può essere non importante quando parliamo di altri mezzi: la semplicità. L’affissione è proprio un mezzo che richiede una sintesi pazzesca, estrema, probabilmente è uno dei motivi per cui la amo. Mettere una pagina bellissima su un muro non ha senso e spesso c’è questo errore; purtroppo, ci sono un sacco di affissioni brutte in Italia. L’affissione si sta sempre più conquistando un terreno di prestigio, anche grazie ai mega formati, le innovazioni. Gli stilisti si sono impadroniti di questi mega formati, adesso grandi aziende come Fiat, L’Orèal a loro volta sono molto presenti su questo. È tutto un qualcosa che dà un contributo al problema della bellezza in senso proprio sociale. Penso che l’affissione, da questo punto di vista, abbia un ruolo sociale, perché contribuisce al bello in generale.

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GABRIELLA SCARPA: Gruppo “Chanel”

Buongiorno. Credo di essere invitata qui in qualità di rappresentante dell’imprenditoria e sicuramente dell’imprenditoria del bello, anche se curiosamente poi noi il termine bello non lo usiamo mai. Io rappresento il gruppo Chanel, che è il primo gruppo mondiale del lusso, all’interno del quale esistono dei marchi prestigiosissimi, tra i quali Dior, che è moda e cosmetica: quindi già vedete che non parliamo quasi mai di bellezza e se parliamo di bellezza, parliamo di un settore merceologico. Siamo proprio terra-terra, nel senso che per noi la bellezza è un mercato. Quando ci riferiamo invece ad una collezione, quando ci riferiamo ad un prodotto, ad una produzione o ad una comunicazione, parliamo di altre cose, usiamo un’altra terminologia, difficilmente diciamo che una comunicazione è bella. Quello che noi ricerchiamo nella comunicazione, quando diamo un brief ad un’agenzia, quando la valutiamo tra di noi, cerchiamo la coerenza, che è un’altra cosa. Prima di tutto, poiché rappresentiamo marche che sono al top dell’immagine, e questo è uno degli elementi fondamentali, dobbiamo ricordare che per noi la bellezza è immagine. L’immagine fa parte del nostro DNA di gruppo, di azienda e l’immagine è sovrastante, quindi quello che noi cerchiamo in ogni tipo di comunicazione, non solo nella comunicazione pubblicitaria, ma anche nelle P.R., che sono fondamentali per noi in ogni tipo di espressione che abbiamo, è proprio questa coerenza con l’immagine della marca o comunque con la brand equità.

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L’altro aspetto di giudizio di una comunicazione o di ogni nostra azione e prodotto è sicuramente un’altra volta la coerenza con il marketing-mix, perché ogni nostro prodotto nasce comunque da un concept, quasi mai un prodotto nasce casualmente, noi non lavoriamo nel mass-market, lavoriamo in un segmento che si chiama selettivo, proprio per distinguersi dal mass, perché il mass fa volumi e noi facciamo qualità e immagine; sono due cose diverse, non che una sia meglio dell’altra, ognuna rappresenta un settore, un segmento. Per noi la coerenza a tutti questi elementi è fondamentale. Quando poi entriamo nell’ambito proprio della comunicazione, quando veramente parliamo dell’insieme della comunicazione, chiediamo e valutiamo un altro elemento, ovvero l’efficacia. L’efficacia di una comunicazione, come tutti sapete, si esprime sostanzialmente in due direzioni: da una parte la creatività che ha tenuto conto di tutti gli elementi che abbiamo detto prima, e che è stata testata, perché questo è un altro elemento fondamentale: viene testata prima, dopo e durante, deve essere comunque impattante, innovatrice. Questo è un altro degli elementi che credo dobbiamo tutti considerare parlando di comunicazione, la comunicazione deve essere innovatrice, anche per marche come le nostre che possono avere 100 anni; noi abbiamo marche di champagne che datano 200 anni, o marche di altro genere che datano di molti anni, la marca ha una awareness incredibile quindi è inutile insistere sulla marca o sul prodotto che spesso e volentieri può essere un prodotto decennale o ventennale, è l’innovazione che fa la differenza. In questo caso, quando noi parliamo di efficacia parliamo quindi dell’impatto della comunicazione, il quale deve essere recepito da parte del consumatore. Intendiamo recepito

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il messaggio quando riscontriamo la conoscenza del prodotto, attraverso i test che conduciamo spesso e quando questa si traduce in acquisto, in loyalty. L’efficacia della campagna avviene in modo fondamentale anche attraverso la pianificazione. Per noi la pianificazione è un vero stress, ve lo dico con grande sincerità, perché io, che faccio l’Amministratore Delegato, personalmente passo il 25-30% del mio tempo sulla pianificazione, non vi dico i miei collaboratori del marketing i quali impegnano quasi il 50% del loro tempo sulla pianificazione, nonostante siano appoggiati da una centrale media tra le più importanti anche a livello internazionale. Perché abbiamo questo stress nella comunicazione? Perché avremmo vanificato tutti i nostri sforzi predetti se non avessimo scelto i mezzi coerenti con il nostro mix, coerenti con la nostra immagine. Questo tipo di coerenza diventa sempre più difficile, credo sia noto a tutti che le marche del lusso sono presenti in comunicazione da tempi molto recenti, non è abitudine delle marche del lusso fare comunicazione di “massa” perché il lusso, da sempre, è appannaggio dei salotti buoni, del passaparola, quindi delle pubbliche relazioni e del retail. Il lusso si è sempre trasmesso attraverso il retail specifico della marca che va ricercata, bisogna fare chilometri, si trova solo a Parigi, New York, Londra, etc.. Ancora oggi è una forma di comunicazione fondamentale il fatto che le marche siano poco diffuse. Per noi il mezzo di comunicazione che abbia gli stessi criteri (che possa salvaguardare l’immagine della marca, l’immagine

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del prodotto, il concept, il prolungamento della vita della marca stessa) è quanto mai complesso da individuare. Credo che Finzi mi abbia invitato qui proprio perché sono brutalmente conosciuta nel mondo della comunicazione per essere una rompiscatole, perché ovviamente stiamo a spaccare il capello in due. Cosa vuol dire tagliare il capello in due? Vuol dire che ogni aspetto della pianificazione viene vagliato con cura meticolosa. Vuol dire che se la nostra creatività, per dire, ha fondo nero e prodotto giallo, non andremo mai a posizionare l’annuncio a fianco di rubriche che abbiano dei titoli rossi, verdi e gialli perché, è una banalità, ma questa comunicazione perde completamente d’impatto. Nell’andare a scegliere la posizione che può essere la prima di destra, la prima di sinistra, quello che vogliamo, dobbiamo tenere conto anche della creatività stessa del giornale, quindi pensate a che selezione si arriva. Il posizionamento è una vera e propria paranoia, ve lo dico, perché c’è un continuo inseguimento tra noi e gli editori sul posizionamento, non siamo mai soddisfatti. Negli anni sono stata portavoce di una durissima battaglia contro i promozionali, i gadget sulle riviste, che trovo abbiano danneggiato fortemente la comunicazione e la qualità del giornale, in pratica siamo iperselettivi anche nella comunicazione. Facciamo più stampa perché la stampa fa più immagine quindi non siamo alla ricerca forzatamente del volume, siamo alla ricerca di una costruzione doppia - l’immagine della marca e la fedeltà - quindi facciamo più stampa.

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Pianifichiamo la televisione ma serve soprattutto per creare immediata awarness sul prodotto o sulla marca in quel momento, è un mezzo più tattico, non è strategico ed anche in televisione siamo selettivi. Cerchiamo infatti di non essere presenti nei film violenti dato che parliamo di eleganza, di raffinatezza, di lusso, e la violenza, il sangue non sono certo in linea con le nostre comunicazioni. Anche per il cinema abbiamo le stesse preclusioni, la stessa selezione: solo sale di prima visione, grandi città, centri città, solo film che non abbiano niente a che vedere con la violenza. Non pianifichiamo l’esterna in Italia mentre la facciamo internazionalmente, soprattutto a Parigi, perché esiste un sistema di affissione che si chiama abribus, che credo conoscerete tutti, che è estremamente qualitativo, forse non così impattante come i grandi cartelli. Questo sistema di affissione è molto diffuso, presente su tutti gli angoli delle strade, a tutte le pensiline degli autobus, ed è luminoso, all’interno quindi dà un’altra efficacia al messaggio, specialmente al messaggio qualitativo. Questi abribus sono un sistema molto usato dal mercato del lusso a Parigi o in Francia, che però non si replica in Italia, immagino anche perché non ci sono le condizioni per poterlo replicare. Sempre in Francia ancora, c’è un altro sistema di affissione o di pubblicità luminosa che è quello a cristalli liquidi e rotante. Anche quelli sono impianti molto usati dal mondo del lusso. In Italia non facciamo affissione, non perché non vogliamo

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farla, per quanto non siamo abilissimi a diversificare la comunicazione per i vari mezzi di comunicazione come invece andrebbe fatto. Citavate prima marchi che stanno entrando adesso in esterno ma che non hanno ancora la capacità di fare veramente comunicazione perché non hanno adattato il loro messaggio a questo media. Prima di tutto bisognerebbe fare questo, ma soprattutto non siamo in affissione in Italia, e questo l’avete già detto e ridetto, perché non c’è il contesto idoneo. Se tutta l’iperselezione che facciamo a livello di mezzi la dovessimo applicare all’affissione, va da sé che non c’è proprio il contesto nel quale investire perché i muri sono imbrattati, perché le pensiline dei pullman o dei tram sono indecenti, perché le case sui quali applichiamo questi manifesti sono diroccate e via via, perché le zone non rispondono alle esigenze della qualità e dell’immagine, perché..., per tutte le cose che sappiamo. Viceversa oggi si è dimostrato che si può uscire da questo tipo di situazione, creare una situazione ad hoc sulla quale andare a investire personalizzando il mezzo. Questa probabilmente è la strada, però certamente, come qualcuno ha già citato, è l’Amministrazione che deve rendersi conto che parlare, comunicare in un certo modo pretende un certo tipo di supporto perché altrimenti non sarà mai compatibile per una marca anche minimamente selettiva. Non stiamo parlando di marchi come i nostri, che sono forse anche troppo alti per questo tipo di mezzo, però anche altri mediamente alti, sicuramente avranno difficoltà ad entrare in queste aree. Ben vengano questi tipi di esperienze, siamo sempre alla ricerca di mezzi nuovi, di mezzi che diversifichino la nostra attività, che ci portino a contatto col nostro target, certamente quello che abbiamo di fronte oggi in Italia non

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è un esempio di buon outdoor. Sicuramente dobbiamo lavorare tutti: per migliorare devono lavorare le imprese, le agenzie, le amministrazioni e sicuramente i produttori.

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ROBERTO PIZZIGONI: Pirella Gottsche Lowe

Un saluto a tutti e grazie. Sono molto contento di essere qua a portare la mia testimonianza, che sarà molto concreta e molto poco teorica. Sarà la testimonianza di un direttore creativo, che tutte le mattine va in ufficio, o meglio, in agenzia, a occuparsi di ideare campagne pubblicitarie, oltre che a giudicare quelle dei creativi più giovani. La bellezza in pubblicità. Anch’io rientro fra quelle persone sentite prima nella ricerca di Finzi, e devo dire che quando mi è stato presentato questo tema, sono rimasto sorpreso e ho dovuto fermarmi un attimo a riflettere. E la prima risposta che mi è venuta in mente è stata quella di pensare che la bellezza in pubblicità non ha senso se non poggia su un’idea. Perché è fondamentale che alla base ci sia un’idea, di cui la bellezza sarà poi lo straordinario condimento. Come ho detto, io faccio il creativo, e il mio compito è quello di inventare ogni giorno delle campagne, capaci di sorprendere e convincere il target a cui si rivolgono. Però, quotidianamente, il primo passo che devo affrontare è la ricerca di un’idea. E solo in un secondo tempo penso a come realizzarla al meglio, a come portarla a buon fine, a come renderla, in una parola, “bella”. E proprio su questa nascita iniziale dell’idea, il mio copywriter, Aldo Cernuto, ed io abbiamo scritto un libro, “Il mal di idea”, che conferma quanto per noi sia importante questo primo passo. Ma non è importante solo per noi: giusto qualche minuto fa, mentre prendevamo un caffè nella pausa, un cliente mi ha tirato le orecchie.

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È venuto da me a lamentarsi del fatto che “la vostra creatività non è più come un po’ di tempo fa”. Non ha detto che le nostre campagne sono meno belle, ma che non sono più tanto creative. Evidentemente c’è bisogno di più idee. Vi farò un esempio: immaginatevi un’insalata; quel che occorre sono olio e sale, il condimento. Bene, diciamo che l’insalata è l’idea e il condimento la bellezza. Di certo, insalata e condimento è giusto che vadano insieme, ma cosa viene prima? Direi l’insalata cioè l’idea. E permettetemi una minima polemica contro quel bello vuoto, spesso senza alcun contenuto, tipico delle campagne degli stilisti: immagini meravigliose, ma appunto solo immagini. La firma di un grande fotografo, belle ragazze, bei sorrisi, belle anoressiche, belle sexy, ma nessuna idea. Ed è proprio questo atteggiamento che fuggiamo noi creativi, noi che crediamo nelle idee e consideriamo la bellezza soprattutto un mezzo per arricchirle. A questo proposito, mi piacerebbe mostrarvi questa affissione proveniente dalla mia agenzia. In questa affissione Volvo, realizzata come campagna sulla sicurezza, certamente la bellezza ha un ruolo importante, a cominciare dal taglio della fotografia, dall’eleganza della ragazza, dal suo sorriso, dalla disposizione delle ciocche di capelli, ma anche da elementi grafici, come l’impaginazione del titolo fatta in un certo modo. Però questa bellezza arriva a cavallo di un’idea. Ed è un’idea forte, sorprendente, che fa emergere un nuovo modello estetico: quello di una ragazza che può essere dolce e carina anche con l’apparecchio per i denti, lo stesso apparecchio di cui oggi le bambine - ma anche le donne - tendono a vergognarsi sempre meno.

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Un altro aspetto concreto e curioso del nostro mestiere di creativi è quello di essere perennemente alla ricerca di volti nuovi, di belle facce, in grado di bucare il video e colpire il pubblico. Certo, una soluzione comoda sarebbe quella di aprire il portafogli e ingaggiare top-model da centinaia di milioni, ma non sempre è possibile, per ragioni di budget. È molto più divertente scoprirli, i talenti. Ricordo che la ragazza raffigurata in questa foto, Megan, girava nella mia agenzia con il portfolio sottobraccio, e si offriva per servizi fotografici a prezzi assolutamente convenienti. Eppure, nessuno dei miei art director l’ha mai usata e, devo dire, neanch’io, perché aveva il seno un pò basso, la bocca un pò larga, il portamento non troppo elegante. Qualcuno, invece, ha deciso che era bella, che funzionava, e cos’ha fatto? Ha fatto quello che non abbiamo fatto noi, ossia l’ha messa davanti a una macchina da presa. E sapete che ne è stato di Megan Gale? Ne è stato che adesso non gira più per la mia agenzia e se vogliamo ingaggiarla, credo che il suo cachet parta dai 50 milioni in su. Questa è una prova di come si possa vedere la bellezza anche dove si direbbe che non c’è, vedere un volto che funziona anche quando apparentemente non sembra funzionare. È capitato anche a me di scoprire una faccia interessante, che coronava perfettamente un’idea, ma non ho nessun merito, perché mi è successo per caso: stavamo girando uno spot per le scarpe Superga in Sicilia, e all’ultimo momento la ragazza protagonista si è ammalata. Allora l’agenzia di modelle ci ha mandato una sostituta, senza che né io né il regista Alessandro Dallatri l’avessimo vista prima. Noi siamo già sul luogo delle riprese, pronti per girare...questa ragazza scende dal taxi...

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e ci sembra un disastro! È decisamente magra, ha la bocca un pò troppo larga, i capelli troppo corti. Decidiamo comunque di farle un veloce provino con la digitale, e, neanche a dirlo, la ragazza funziona. Funziona benissimo. Sapete chi era? Lorena Forteza, che non solo si è rivelata perfetta per lo spot, ma qualche mese dopo è stata scelta da Pieraccioni per il suo film campione d’incassi, “Il ciclone”. Forse la Forteza non diventerà la Magnani del 2000, però è interessante notare come questo viso, che dal vivo sembrava piuttosto “qualunque”, si sia trasformato attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Ma adesso parliamo d’altro, parliamo di sederi, se non vi scandalizzate. E a questo proposito, vorrei mostrarvi un annuncio datato, che risale a una trentina d’anni fa, realizzato da quel grande maestro della pubblicità che è Emanuele Pirella: “Chi mi ama mi segua.”, per i jeans Jesus. Non so quanti tra voi se lo ricordano, ma è sicuramente una campagna entrata nella storia. E ancora una volta, lasciatemelo dire, c’è sotto un’idea, anzi, una grande idea. E ne è risultato un annuncio forte, scandaloso, provocante, straordinario. Ai tempi io ero un ragazzo, ricordo che un giorno ero in macchina con mia madre e lei rimase letteralmente scandalizzata di fronte a quel manifesto. È molto bello anche il lay-out, senza dubbio, e infatti la grafica usata è, per certi versi, valida ancora oggi: il posizionamento della scritta, la simmetria dei glutei, la magia del fondo bianco, una grande pulizia, una grande sintesi, quel tanto di corpo nudo che era giusto far vedere. Ma la forza dell’annuncio è partita da un’idea che è stata poi abbellita grazie all’art direction, al lettering, e a una bella foto di Oliviero Toscani allora giovanissimo. Tutti elementi estetici necessari per far

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diventare l’idea vincente e unica. Adesso analizziamo un annuncio molto più recente, che sta uscendo in questi giorni per promuovere la vendita in edicola del CD-Rom di Tom Raider II. Anche qui c’è un sedere, ma è un sedere virtuale. Un sedere che non esiste. E questo è interessante, perché ci fa capire come cambiano i canoni e i concetti di bellezza. Un altro cliente, un altro prodotto: là vendevamo jeans, qua vendiamo un CD-Rom. E ciononostante, il titolo può essere lo stesso: “Chi mi ama mi segua. (in edicola.)”. Guardate come è cambiata la bellezza; eppure questo secondo annuncio conserva alcuni elementi grafici che rimangono immutati nel tempo. Tanti anni fa avevo una zia che usava una crema quando voleva farsi bella. Era un barattolino rosa e c’era scritto “Cera di Cupra”. Lei si metteva questa crema, di poco prezzo, e si sentiva bellissima. Questo ricordo mi è tornato in mente il giorno in cui sul mio tavolo in agenzia è arrivato questo prodotto, perché ne studiassi una campagna stampa. Naturalmente ho cercato un’idea e un condimento che innalzasse un pò questo prodotto non certo esclusivo, qualcuno che lo rivestisse di eleganza e di bellezza. Ed ecco ciò che l’agenzia ha fatto. L’idea di base è quella di una ragazza che viene abbandonata perché il suo uomo si è innamorato di una quarantacinquenne. Il titolo gioca con la domanda “Cos’ha lei che io non ho?”, e la risposta è appunto Cera di Cupra. L’idea della campagna stampa mi sembra efficace. E a questa idea si aggiungono l’eleganza e la cura nella realizzazione dell’immagine. Una grande fotografia di Zoe Di Lorenzo, che ha creato un’autentica esplosione di bellezza, in cui non è difficile scorgere richiami ai

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grandi pittori del ‘700. Tanta eleganza si è resa necessaria per spingere un prodotto che aveva proprio questo problema, diventare straordinariamente elegante senza esserlo. E comunque, alla base del progetto, ancora una volta c’è voluta un’idea. C’è anche la possibilità che una noce si trasformi in un leone d’oro, quando il leone d’oro è il premio più ambito per noi pubblicitari, quello che si vince al Festival della Pubblicità di Cannes. E questo traguardo si può raggiungere se si riesce ad avere una buona idea, molto sintetica, molto forte, condita come sempre con l’ingrediente della bellezza. L’idea è questa: una noce rotta con dentro un’altra noce intera, senza headline, semplicemente con il marchio Volvo che è sinonimo di sicurezza. Un simbolo della possibilità di avere una seconda vita. Abbiamo dovuto rompere più di 200 noci per trovare quella giusta, per farne stare al suo interno un’altra, naturalmente abbiamo chiamato per la fotografia un bravissimo professionista. Così è nato un manifesto bello, semplice e immediato, in cui quel che c’è da dire risulta subito chiaro già dal suo visual. Ancora una volta l’eleganza è servita, ma solo per portare a buon fine l’idea. Un altro aspetto interessante degli strumenti che usiamo per pubblicizzare i prodotti sono i richiami al mondo dell’arte, di tutti i tempi. Ma devo precisare che è un terreno minato, nel senso che c’è il boom di “Gioconde” che strizzano l’occhio agli assorbenti, di “Pietà” che si animano per inghiottire dolcificanti o altro. Insomma si vede di tutto e di più, spesso in modo gratuito, e a volte irritante, per lo spettatore e per il valore culturale degli artisti. Parlando di ispirazioni al mondo dell’arte, ecco un annuncio

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che è proprio di questi giorni. Qualcuno, prima, citava Alessi. Bene, ecco un’idea che reputo eccellente, ancora una volta impreziosita da una realizzazione di grande bellezza. Abbiamo scomodato Lucio Fontana, che tutti avrete riconosciuto in uno dei suoi tagli, per parlare di posate, più precisamente di un coltello. Ma credo che l’artista non si rivolterà nella tomba. Anzi, ho la sensazione che in questo annuncio ci sia grande rispetto per la sua arte, e che pertanto nessuno si debba offendere nè scandalizzare. Probabilmente neanche questa volta ci sarebbe bisogno del titolo, la firma di Alessi è sufficiente per comunicare interamente il messaggio. Adesso osservate questo annuncio, realizzato per Artemide, in cui i testimonial sono persone non vedenti. È un mio personale omaggio al bianco e nero, il non-colore che amo molto e che cerco di usare tutte le volte che posso nei miei annunci e nei miei spot. Stiamo parlando dell’unica campagna stampa italiana premiata quest’anno al Festival di Cannes. Ho portato con me un annuncio solo, ma in realtà sono una serie, che comprende un giocatore di scacchi, un filosofo e un musicista. A questi non vedenti è stato chiesto di raccontare come loro si immaginano la luce, parlando ogni volta di un prodotto diverso, e il tutto viene colto dalla straordinaria forza espressiva di Elliott Erwitt, grandissimo fotografo maestro del bianco e nero. Non vedevo l’ora di presentarvi questo annuncio, perchè lo amo moltissimo. Ancora una volta, su un’idea forte, impattante, straordinaria e sorprendente, il condimento dell’eleganza e della bellezza arriva puntuale a rendere perfetto l’annuncio. E mi avvio a chiudere ricordando una frase che può sembrare gratuita, ma non lo è: “Mi raccomando, Pizzigoni, questa cacca facciamola bella.” È una frase che un giorno mi ha detto un cliente, e contiene

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una verità, perché la bellezza, in pubblicità, c’entra sempre, e i clienti la vogliono in ogni momento. Ma andiamo con ordine. Sto parlando di uno spot che ho girato qualche anno fa per la Volvo Polar, una station wagon che probabilmente conoscete tutti. Nel filmato si vedeva questa macchina impegnata a evitare una serie di piccoli ostacoli. Poi passava una mucca che depositava in mezzo alla strada una grossa popò, ma l’auto, poiché era una Volvo agile e sicura, riusciva a evitarla. La cosa divertente è che prima di girare lo spot, durante una di quelle riunioni che si fanno per decidere ogni minimo dettaglio, mi sono ritrovato in una valle, davanti a un grande tavolo su cui erano posate tante popò di mucca (una più chiara, una più scura, una più grande, una più piccola). C’erano anche il cliente, il regista e il direttore della fotografia, e tutti quanti esaminavano le popò in fila sul tavolo. C’era anche un signore, il creatore di queste popò che erano ovviamente finte. Nel linguaggio del cinema si chiama il mago degli effetti speciali. A un certo punto, in qualità di art director, sono stato chiamato a scegliere quella che ritenevo la popò più adatta. Ero lì, compenetrato nel mio ruolo, a scrutarle una dopo l’altra con una faccia molto assorta, e intanto pensavo a mia madre che non ha ancora capito bene che mestiere faccio. Vedendomi dubbioso su quale popò scegliere, il cliente mi disse: “Mi raccomando, Pizzigoni, scegliamo bella, questa popò”. E da questa frase ho capito che anche la popò, in pubblicità, deve essere bella.

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FRANCESCO MENDINI Atelier Mendini

Sarò brevissimo perché avevo preparato un intervento sull’arte e in particolare sull’arte del 900, ma prima di me è stato affrontato l’argomento molto esaurientemente; tutto è già detto meglio di quello che avrei potuto dire io e sono felice di questo. Vorrei aggiungere un parallelo tra quest’arte del 900 che è la pubblicità e un’altra arte del 900 che è il design. Penso che la situazione delle due discipline sia simile: la pubblicità è un’arte applicata come il design, e queste sono ormai forme d’arte accettate, tanto da essere normalmente presenti nei circuiti delle esposizioni e nei musei. D’altra parte va anche notato l’interesse del mondo dell’arte nei riguardi della pubblicità. È un interesse abbastanza consolidato: è tanto tempo che gli artisti guardano alla pubblicità. Direi che questo rapporto arte-pubblicità, che era stato portato a questo tavolo in modo un pò dubitativo, retoricamente dubitativo, è una realtà che ritengo possa essere considerata assodata. Vorrei poi riportare alcune esperienze mie - nostre - sull’importanza che ha una pubblicità di qualità in quello che è il nostro mestiere di progettisti di spazi urbani, di spazi pubblici. Un primo esempio riguarda un progetto che non è nostro, Malpensa. All’apertura dell’aeroporto molti hanno detto: è brutto, è spoglio, è triste. Se lo andate a rivedere adesso potete notare come l’ambiente sia mutato profondamente proprio perchè nel frattempo è stata inserita la pubblicità, di grande qualità. Certi spazi di tipo pubblico hanno

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attualmente necessità della pubblicità e la pubblicità fa parte della progettazione di questi ambienti. Al mio studio è capitato recentemente di lavorare all’interno della stazione Termini, nella parte Mazzoniana - l’ala fascista che è questi giorni in corso d’apertura. Anche in quel caso abbiamo preso in attenta considerazione il problema dell’inserimento della pubblicità e lo abbiamo trattato in modo analogo a quello delle opere d’arte. Infatti abbiamo, per esempio, proprio in questi ambienti, collocato una grande opera di Cucchi, una ceramica di 11m x 12, un’opera d’arte canonica. Abbiamo poi anche inserito delle opere che provenivano dai magazzini della Galleria d’Arte Moderna di Roma. Ma poi, con la stessa metodologia, abbiamo fatto realizzare anche delle grandi cornici che conterranno pubblicità. Non sappiamo quale pubblicità sarà montata nelle cornici, ma consideriamo positivo che ci siano delle parti variabili, in tal modo gli ambienti saranno anche rinnovati in modo automatico evitando la tristezza tipica degli ambienti statici. Una situazione diversa invece è quella di un altro progetto in corso adesso: delle stazioni della metropolitana di Napoli. Una di queste è in ambito urbano veramente sfasciato, di speculazione anni ‘50, con ruderi ed ossature di edifici non finiti, con testate cieche e in generale una situazione di degrado. In questo caso, abbiamo ritenuto non utile inserire la pubblicità perchè, se ci fosse stata, sarebbe stata di livello scadente e avrebbe dequalificato invece di riqualificare. Abbiamo quindi messo proprio delle opere d’arte, abbiamo chiamato Palladino e altri artisti e abbiamo fatto una specie di gran museo all’aperto. Un’altra annotazione che vorrei fare su un altro argomento

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trattato riguarda il marketing e l’innovazione. Come l’arte interessante è avanguardia, anche se a volte appare sorprendente o sconvolgente, così il design interessante è innovativo, è d’avanguardia. Una delle regole di casa Alessi quando si imposta un nuovo prodotto, ormai sempre, sta nel fatto che non ci si basa pedissequamente sui risultati delle ricerche di marketing, considerate utili solo per capire quello che sta succedendo, quello che è sul tavolo, per conoscere lo stato dell’arte. Tuttavia se si vuole arrivare a qualcosa di nuovo, occorre prefigurarsi nuovi scenari e questo è un concetto che si è applicato con successo.

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RAFFAELE TECCE Comune di Napoli

Ovviamente non riuscirò a rispondere a tutte le sollecitazioni e non farò nessuna considerazione conclusiva se non per tentare di dare qualche risposta a quelle che mi sono state poste. Porterò invece esplicitamente il punto di vista di un amministratore per cui, per iniziare con una provocazione, non mi occuperò prevalentemente della bellezza del messaggio pubblicitario ma del suo sostegno, del suo contesto. Non basta infatti che la pubblicità sia bella, è importante, dal mio punto di vista di amministratore, che la pubblicità aiuti le città ad essere più belle sotto forma di arredo urbano o addirittura finanziamento di pubblici servizi. Bellezza non è ciò che bello, diceva Finzi, ma ciò che è costruito bene. A me viene una sorta di proporzione visto che ho lavorato nel mondo dell’artigianato: la bellezza sta alla pubblicità come la qualità artistica sta all’artigianato. Non è un caso che il professor Volli ci ha ricordato l’etimologia dell’arte come tecnica. Io ho sempre sostenuto che si salvaguarda l’artigianato artistico non in una concezione puramente romantica o bucolica, ma se, con idonei e moderni strumenti di formazione, di promozione, di controllo di qualità, si fa i conti col mercato e con l’aumento della commercializzazione: solo così si salvaguarda la qualità e la manualità e, per continuare in questo paragone, solo così, se conveniente con i pubblici interessi, non se si vende soltanto, la pubblicità ad alta qualità può affermarsi come componente del contesto urbano ed essere un elemento del suo arredo. Ora voglio qui tentare di rispondere alla provocazione che

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emerge dalla ricerca. La bella pubblicità, mi è sembrato di capire, aiuta a rendere felici nelle città contribuendo a contrastare il degrado urbano. Sono convinto che ciò è possibile, che questa simbiosi fra bellezza ed efficacia è un’esigenza anche delle amministrazioni locali, delle istituzioni, proprio perché utilizza la pubblicità come risorsa e come elemento di qualificazione del contesto urbano. Qui vorrei proporre una brevissima riflessione. Tutto questo avviene perché c’è stata nell’ultimo decennio una rivoluzione copernicana, segnata da un punto di vista amministrativo dalla riforma dei Sindaci della Legge 81/93, della quale però in queste ore vediamo anche qualche elemento di controtendenza. Qual è la rivoluzione copernicana? In qualche modo le amministrazioni locali devono fare i conti con la scarsità delle risorse e col fatto che le risorse non vengono più dall’alto. Negli anni ‘60 e ‘50 molte risorse dei Comuni venivano oltre che dallo Stato anche dagli organi concessori dell’edilizia: chi di voi fa l’architetto in campi legati all’urbanistica e all’edilizia sa bene che oggi nelle città, penso a Napoli ma penso a Venezia, c’è poco da costruire, c’è un problema piuttosto di recupero che pure va ben gestito con progettazioni, con controllo dai Comuni, ma non dà introiti ai Comuni stessi, mentre lo dava il permettere le grandi concessione edilizie talora giuste, talora ingiuste, ma non entro in questo merito. La pubblicità, argomento che abbiamo trattato in un convegno organizzato a Roma con la Lega Ambiente, può essere entro certi versi considerata un finanziamento pubblico di operazioni di arredo e di recupero, regolamentato attraverso regole molto chiare e trasparenti e senza nessun elemento di accaparramento da parte dei singoli gruppi che

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non sia legato a procedure pubblicistiche. Ciò avviene attraverso il piano dell’impiantistica, quello previsto da un’apposita legge, la 507, che disciplini l’individuazione delle tipologie degli impianti pubblicitari e della loro locazione sul territorio. Questo l’abbiamo tentato di fare anche a Napoli con un apposito strumento di pianificazione approvato dal Consiglio Comunale, il piano regionale degli impianti, cui guarda caso abbiamo dovuto accoppiare un regolamento tale da permettere che la bella pubblicità possa contribuire a dare risorse e strumenti contro il degrado e per salvaguardare l’ambiente urbano, anche quello periferico. Non mi voglio soffermare in questa sede su quel piano che negli aspetti operativi partirà con una serie di momenti pubblici di gara proprio di qui a qualche mese. Solo per dare qualche idea dei problemi affrontati, ci siamo posti il problema di una zona del centro cittadino, il casco antico, che abbiamo chiamato zona rossa, dove la pubblicità diventa solo arredo; abbiamo definito tipologie da localizzare sul territorio e abbiamo affrontato il problema dei cantieri pubblici e privati, come la pubblicità possa coprire questi cantieri diventando elemento di finanziamento sia dei lavori privati che dei lavori pubblici; ci siamo inoltre posti il problema, che già si era evidenziato in Comuni come Milano, del finanziamento e la manutenzione del verde attraverso la pubblicità e per altri versi dei tabelloni elettorali visto che, in un paese in cui si vota una o due volte all’anno, questi tabelloni elettorali potrebbero diventare elementi meno brutti, al di là della loro indubbia utilità. Per brevità salto una serie di riflessioni per arrivare a 2-3

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considerazioni specifiche su questo argomento. Sicuramente serve una nuova qualità della progettazione della pubblicità nel contesto urbano. Sono molto attento da questo punto di vista alle cose che avete detto perché sono convinto che - per fare un minimo di storia - solo dopo che il tema del decoro urbano fu affrontato in maniera pianificata con un decreto napoleonico dell’806, che istituì le delegazioni del pubblico ornato e successivamente un insieme di regole, poi si andò ad incentivare l’invenzione e la produzione di oggetti che allora erano nuovi, appositamente studiati nel trionfo tecnologico del ferro e della ghisa; penso ai chioschi, ai lampioni, ai paletti, alle pensiline e alle fontane, penso a come allora si avviò tutto questo. Su questo aspetto potremmo continuare in una ricostruzione storica, ma oggi si pone il problema di un rapporto fra oggetti e contesto: un rapporto, l’avete detto voi, non semplice. Voglio porre qui con forza il tema della manutenzione di ciò che si fa, ne parlavo prima con Mendini rispetto a delle esperienze che lui ha fatto a Napoli: qualunque cosa noi facciamo sul territorio, a Napoli questo probabilmente è ancora più grave che a Venezia, ma il problema riguarda tutte le grandi città, c’è un problema di manutenzione. Si può discutere sugli chalet che Mendini ha disegnato e diretto nella realizzazione alla Villa Comunale di Napoli, come dei progetti che tra l’altro non ho avuto occasione di vedere e che riguardano la stazione della metropolitana, ma quel che è certo e che se non c’è una gestione e una manutenzione di ciò che si fa, la qualità che voi da architetti avete disegnato verrà poi man mano a degradare. Questo è un grande tema. Una parte importante sta nell’irrazionalità di questo aspetto, di come cioè nella riflessione sull’arredo urbano ci sia

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un elemento di indifferenza rispetto alla qualità degli spazi costruiti, rispetto alla loro dignità; si evidenzia quindi un problema di coerenza fra azioni e risposte sui temi posti dall’architettura urbanistica. Esiste un problema, mi permetta Mendini, di utilizzo dell’arte contemporanea in alcune opere pubbliche, ma è evidente che come l’abbiamo fatto finora a Napoli è del tutto sbagliato perché ha creato elementi di non uso. Penso ad esempio alla fontana di Tatafiore in via Scarlatti che è diventata un ricettacolo di immondizie, e posso dirlo perché nessuno se la può prendere visto che di questo, in termini amministrativi, sono in qualche modo responsabile. Arrivo ad altre due considerazioni conclusive. Uno dei motivi di questa irrazionalità, oltre all’aspetto ed impatto culturale, è dato da un fatto che attiene alle Pubbliche Amministrazioni. Lo diceva qualche settimana fa il Sole 24 Ore, dove si leggeva che sovente le competenze dei settori e degli enti che gestiscono gli interventi nello spazio pubblico in una città media o grande sono quantificabili in un numero maggiore di venti: vi sono gli uffici tecnici sull’arredo urbano, il settore strade e segnaletica, il demanio, l’ufficio tributi, il verde pubblico, i servizi del sottosuolo, l’edilizia comunale, l’illuminazione pubblica, ognuno con i suoi sottoreparti e le sue unità operative, poi ci sono anche le nettezza urbane, i telefoni, i trasporti e l’elettricità. Ogni soggetto gestisce un pacchetto di cose da posizionare, da mantenere, così in uno stesso marciapiede possiamo trovare una pensilina per la fermata degli autobus, un palo della luce, un cestino porta rifiuti, una cabina telefonica, un cartello pubblicitario, una panchina, una fioriera. Tutto questo avviene in un miscuglio incredibile dal punto di vista della qualità; ma soprattutto ai manufatti di proprietà

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pubblica si aggiungono gli elementi collocati dai privati, talora in maniera autorizzata, talora in maniera abusiva, il tutto dando origine a quella immagine di degrado, di abbandono, di disuso che è esattamente l’opposto dell’effetto di bellezza, che va al di là della bellezza del singolo elemento. Ecco il tema del supporto e del contesto che vorremmo fare. Per far questo, e qui la riflessione deve qui soltanto essere avviata e non può certamente essere conclusa, è necessario a mio avviso pensare a riordinare l’esistente togliendo tutto ciò che appare in eccesso. Questa pulizia, mi si scusi per il termine, potrebbe avere 3-4 criteri. In primo luogo le mansioni di arredo urbano andrebbero affidate da parte dei Comuni a soggetti unici, anche privati, come avviene in molte città europee, mantenendo all’Amministrazione il controllo della progettazione e la richiesta di collocare materiali di qualità in coerenza con la progettazione di luoghi urbani. In secondo luogo bisognerebbe imporre ai privati con apposite forme giuridiche, fissate dalle convenzioni derivanti da gare su cui stiamo lavorando, il mantenimento del decoro e dell’abbellimento degli spazi e dei manufatti di loro proprietà sia a livello di colori, di verdi e di pulizia. Tutto ciò, ed è davvero l’ultima considerazione che vorrei fare, è sicuramente oggi più possibile da un punto di vista di cultura amministrativa rispetto a 10 anni fa. Tutta la legislazione sul commercio, legata al cosiddetto Decreto Legislativo Bersani, pone agli amministratori il tema della pianificazione delle attività commerciali sul territorio non più come regolamentazione numerica ma come pianificazione qualitativa, cioè come si insediano sul territorio la grande distribuzione, i chioschi, i distributori, la pubblicità, etc.

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Tutto questo in un’ottica possibilmente unitaria, non dico nel senso di univoca, ma nel senso di un’idea coerente di città. È questa la motivazione che ci ha portato a Napoli a fare un nuovo piano, ma soprattutto un nuovo regolamento. Per usare una battuta che qui è gia stata usata: per permetterci di superare il massimo della bellezza privata e della bruttura pubblica serve una nuova normativa. Ecco il tema con cui voglio concludere la mia riflessione di oggi: serve una normativa sulla quale stiamo lavorando anche come associazione dei Comuni e da questo punto di vista i vari soggetti che qui sono presenti (agenzie pubblicitarie, associazioni di categorie) possono dare un contributo. Bisogna lavorare per una nuova normativa che, superando un approccio economicistico e tributario, permetta realmente alla pubblicità di affermarsi legandosi all’arredo e al paesaggio.

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Progetto e coordinamento grafico Paolo Casti Elaborazioni grafiche e impaginazione Ilaria Bettini Composto con carattetri Bodoni BI Bodoni BoldItalic I Bodoni Italic Stampato su carta Sirio White 130 g Carta di copertina Sirio White 200 g Fotolito e stampa Gruppo Immagine Verona Finito di stampare Verona, Aprile 2000



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