Tre gradi di profondità fotografica

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Max Ferrero

Tre gradi di profonditĂ fotografica la fotografia da tre diverse angolazioni

I Libri di FOTOZONA


Š Luciano Pratesi/Fotozona


INDICE 6 ................................................................................................................. Prefazione 8 ............................................................................................................. Introduzione

Parte prima - Le basi teoriche della fotografia

15 .......................................................................................... La macchina fotografica 21 ............................................................................................................... L’obiettivo 29 ........................................................................................................... L’esposizione 35 ............................................................................................. I tempi di otturazione 41 ................................................................................. Fuoco e profondità di campo 47 ................................................................... L’inquadratura e la composizione I parte

Parte seconda - La scienza fotografica 55 ............................................................ Le moderne macchine fotografiche digitali 65 .........................................................Focale, luminosità e prestazioni degli obiettivi 69 ............................................................................................. Misurare l’esposizione 79 ................................................................................................ La latitudine di posa 85 .................................................................. Il controllo della profondità di campo 89 ............................................................................ I segreti della distanza iperfocale 97 ................................................................................................. La teoria del colore 105 .................................................................................... Il bilanciamento del bianco 111 ................................................................ L’inquadratura e la composizione II parte Parte terza - La creazione fotografica

119 .................................................................. Dimmi come fotografi e ti dirò chi sei 127 .................................. Equilibri pesi e misure (l’inquadratura e la composizione III parte) 135 ........................................................................... Il sistema zonale nell’era digitale 143 ............................................................................................ Un attimo o l’eternità? 151 ........................................................................ L’anima non ha bisogno di nitidezza 157 .......................................................................................................... Conclusione 158 ....................................................................................................... Ringraziamenti 160 ................................................................................................................. L’autore


© Mauro Trolli/Fotozona

Chissà quanti libri di teoria e di pratica sono stati scritti sull’argomento prima di questo in cento e novantuno anni di storia. Ne serviva un altro? Pensiamo di sì, per almeno due motivi: Primo: l’estrema facilità con cui si possono ottenere buone immagini riduce l’interesse a imparare la tecnica fotografica, ma non ne limita l’utilità. Secondo: questo manuale è fatto in modo che ognuno possa scegliere da dove partire per il proprio percorso di apprendimento e che possa scegliere di fare salti di conoscenza seguendo l’istinto e non la cronologia delle pagine. Il fatto che sia facile ottenere buoni risultati non solo non riduce la necessità di imparare a fotografare, ma forse la aumenta. Infatti, per emergere dalla massa dei fotografi occasionali occorre sapere come si ottengono fotografie ben fatte, secondo la percezione comune: composizione, messa a fuoco,

esposizione. Infatti, solo chi conosce le regole può poi, eventualmente, violarle in nome della creatività, ma con cognizione di causa. Padroneggiare il mezzo, poi, poter scegliere come ottenere un certo risultato – tra l’altro più si sa come fare più aumentano i risultati possibili – affina anche la sensibilità e il senso critico sulle fotografie, proprie e di altri. S’impara facendo, ma anche confrontandosi con quello che creano gli altri fotografi. Il testo è di un maestro di fotografia, ma gli scatti che esemplificano e illustrano i concetti spiegati, sono stati scelti dall’autore tra quelli proposti da fotoamatori comuni (alcuni sono suoi allievi), accomunati dalla passione per la fotografia ma anche dal fatto di formare la community del sito Fotozona.it. Fotozona è dal 2010 punto di riferimento per gli amatori che vogliono, appunto, proporre e confrontare le proprie immagini, ma anche le


proprie idee sulla fotografia e tutto quanto vi gira intorno. Le foto postate sul sito (nella sezione Photo Show) possono essere commentate e votate da tutti gli iscritti. Per poter votare è richiesto anche il commento, questo per invitare a esprimere un voto consapevole e meditato, non frettoloso o casuale. Soprattutto, le immagini postate dagli utenti ricevono un giudizio tempestivo e costruttivo – sia dal punto di vista tecnico sia da quello creativo - da parte di un esperto (che poi è lo stesso professionista che ha scritto questo libro). In questo modo, nel tempo, condividendo le proprie immagini si ha occasione di migliorarsi e veder crescere anche il proprio apprezzamento da parte del pubblico. Periodicamente, poi, all’interno della community di Fotozona si organizzano concorsi a tema, giornate di raduno per incontrarsi e

confrontarsi di persona, e così è nata anche l’idea di questo manuale collettivo. Tutto questo distingue Fotozona.it dai tanti siti di condivisione immagini e dai social network, oltre al fatto di essere un sito completo per tutto quello che riguarda la fotografia. Non solo le fotocamere e la fotografia digitale, ma la fotografia. Ci sono le nuove fotocamere (con le schede tecniche a listino) e i prodotti legati all’immagine, gli eventi aperti al pubblico dalle aziende del settore, ma anche le notizie e le curiosità che coinvolgono il mondo dell’immagine, e poi le mostre, gli incontri con i fotografi, i libri e quanto può aiutare ad arricchire la cultura dell’immagine. Buona lettura e buona pratica fotografica. La redazione di FOTOZONA

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

sul campo. Libri molto tecnici, a volte persino noiosi, però completi. Per chi cercava di capire cosa fosse e come funzionasse la fotografia erano i testi di riferimento. La cosa incredibile è che, sebbene la tecnologia abbia fatto passi da gigante, quei libri continuano ad essere attuali. Le basi su cui si poggia l’intero sapere fotografico sono sempre le stesse: serve un apparecchio in grado di catturare il disegno che la luce crea e un supporto in grado di registrare l’immagine prodotta. Badate bene non intendo rimpiangere quel periodo, tutto l’impegno era speso a comprendere la tecnica, rimaneva poco spazio alla creatività e spesso, in quegli antichi ma gloriosi libri, di consigli sull’estro non ce n’erano per nulla. Oggi è l’inverso, le case produttrici sono riuscite nell’intento di rendere tutto più facile: “Voi premete il pulsante, al resto ci pensiamo noi”, con questa frase George Eastman, fondatore della Kodak, spalancò le porte alla fotografia commerciale, dove l’autore non si deve preoccupare

Un altro libro di fotografia? Ancora un altro trattato sull’arte di scrivere con la luce? Ma è utile o necessario? Ai miei tempi (e non sto parlando di periodi arcaici ma degli anni ‘80) i libri fotografici erano indicati con il nome dell’autore: il “Langford” o il “Feininger”. Il primo me lo ricordo molto bene perché era il testo di riferimento presso la scuola di fotografia dove mi diplomai nel 1983. Il secondo si riferiva a due volumi distinti: “Il libro della fotografia” 1970 e “Il libro della fotografia a colori” 1971. Con questa scarna bibliografia i futuri fotografi si formavano apprendendo le basi per applicarle in seguito

© Salvatore Giordano/Fotozona

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© Alessandro Andreucci/Fotozona

ha saputo approfittarne. Libri specializzati, un tempo rari, ora riempiono interi scaffali nelle librerie. Si può scegliere tra tecnici puri, di lettura dell’immagine, di storia e critica, di analisi o composizione. Una bulimia di parole tutte dedicate alla fotografia. Nei meandri delle disponibilità, tuttavia, continuava a mancarmi un testo completo che sapesse unire i concetti base alle applicazioni

di nulla se non del desiderio d’ottenere una foto nitida. Le difficoltà tecniche o il sapere faticoso sono risolti alla fonte, direttamente dal produttore e dei materiali di consumo. Dal 1888, anno della nascita della Kodak, questa metodologia è imperante, tant’è che non è raro trovare dei “professionisti” che non sanno nulla di tecnica base. Tecnici diventati tali solo per il fatto che il mezzo che usano è progredito così tanto da restituire risultati sempre buoni a prescindere dalle capacità. Già, e se voglio intenzionalmente sbagliare una foto? Se voglio un particolare effetto ottico che i vari software sanno solo imitare? Se voglio distinguermi dalle immagini uniformate nella fase della condivisione di “massa” cosa faccio? E’ proprio in questi casi, quando l’esigenza ci porta a dover conoscere di più, che ci mettiamo alla ricerca di un testo serio in cui porre la massima fiducia per riconquistare quella conoscenza che la tecnologia “facile” ci ha fatto disapprendere. Anche qui l’industria fotografica 9

© Mauro Trolli/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

creative necessarie per plasmare uno scatto. E’ per tale motivo che ho voluto scrivere questo libro, raccontando per tre volte gli stessi argomenti con intensità e profondità diverse. Raggiungere il risultato leggendo un libro trasversalmente, non solo pagina dopo pagina ma anche saltando da un capitolo ad un altro, è per certi versi un’esperienza tipica dei librigame e non dei testi di fotografia. Per ogni lettore sarà un’esperienza diversa in base alla conoscenza di cui era in possesso. Nel primo capitolo “La basi teoriche della fotografia” affronteremo tutto ciò che è alla base della tecnica fotografica. Dedicata a chi sa poco sulla materia, predisporrà il lettore alle fasi successive. L’argomento è totalmente tecnico, per questo motivo lo affronteremo con uno stile semplice e scorrevole. La “mission” sarà di essere esaustivi ma non noiosamente approfonditi. Chi vorrà indagare maggiormente sull’argomento sarà indirizzato alla pagina appropriata del libro o suggerendo testi specifici da consultare. Nel secondo capitolo “La scienza fotografica”, gli stessi argomenti saranno trattati con maggiore attenzione e approfondimenti tecnici. La fisica ottica, la chimica e l’informatica troveranno terreno fertile donando fondamenta scientifiche all’argomento. Le immagini pubblicate, tutte realizzate dai collaboratori di Fotozona,

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona

saranno dei chiari esempi visivi alle tesi proposte e descritte. Il terzo capitolo “La creazione fotografica“, sarà dedicato all’inventiva, all’analisi dell’immagine e al sovvertimento delle regole canoniche. Sarà la degna conclusione di un volume che intende porre delle basi sia sul concetto tecnico sia sull’atto creativo.

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© Luca Scaramuzza/Fotozona

Allora è ancora necessario scrivere un libro fotografico? Per me sì. Ai miei allievi, che negli anni si sono succeduti in molti corsi, non sapevo mai indicare un testo unico per affrontare la materia. Ora le parole che “io considero giuste” le avete tra le mani. La grafica del libro presenta delle bande colorate alle pagine pari; verde per il primo capitolo, rosso per il secondo e azzurro per il terzo. Oltre a contrassegnare visivamente le tre sezioni, hanno anche il compito d’indicare la pagina a cui accedere per dare risposta ai quesiti che potrebbero insorgere nella lettura. Le parole segnalate in ocra individueranno termini importanti a cui dedicare dei “box” di testo specifici oppure

riferimenti bibliografici. Voglio ringraziare sentitamente tutta la community di Fotozona che ha contribuito alla realizzazione del materiale iconografico, senza avere nulla in cambio se non la “gloria” di vedere la propria foto firmata, pubblicata e riconosciuta. Un ultimo e finale ringraziamento va alla redazione di Fotozona che, in tempi difficili come quelli che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, ha permesso alla community di continuare a vivere, incentivando la condivisione fotografica e la realizzazione di obiettivi come il volume che vi state apprestando a leggere. Max Ferrero

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© Gianpaolo Barbieri/Fotozona



Tre gradi di profonditĂ fotografica

Capitolo I

Le basi teoriche della fotografia

Š Angelo Abate/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Luciano Campetti/Fotozona

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LA MACCHINA FOTOGRAFICA E’ strano affermarlo, ma la macchina fotografica è nata molto prima della fotografia stessa. Nel 1826 un appassionato ricercatore di nome Nicephore Niepce, riuscì per la prima volta a fissare una parvenza d’immagine su di un supporto sensibile. Aveva utilizzato una sostanza bituminosa in grado d’indurirsi se esposta all’energia solare ed erano state necessarie circa otto ore d’esposizione. Inventò così la prima pellicola in grado di fissare indelebilmente un’immagine fugace. Ma la macchina fotografica esisteva già da tempo immemore. Il Canaletto impiegava la camera obscura per creare velocemente degli schizzi di prospettive da utilizzare come bozze per la finalizzazione dei suoi quadri. La camera obscura era una scatola con un piccolo foro o con una lente, in grado di riprodurre un’immagine sul lato opposto all’obiettivo. La conoscenza di tale fenomeno risale agli albori della storia. Già lo scienziato arabo Al Hazen, intorno all’anno mille, aveva descritto i suoi effetti. Considerato l’iniziatore dell’ottica moderna, i suoi studi furono ispirati, probabilmente, da alcune osservazioni di Aristotele. Personalmente mi piace pensare che la prima macchina fotografica sia nata in tempi ancora più remoti, quando l’homo sapiens, all’interno di una grotta che fungeva da riparo, osservò che attraverso un foro casuale le scene all’esterno venivano riprodotte sulla roccia come per magia. La caverna era il corpo macchina e la fenditura nella parete l’obiettivo. Questa magia ispirò gli antichi ad adorare le immagini e a rendere loro omaggio come auspicio di fortuna e prosperità.

Oggi siamo convinti che per creare delle immagini ci sia bisogno di complicati apparati elettronici con centinaia di pagine d’istruzioni, la realtà è molto più banale. Descrivere o costruire una macchina fotografica è assai semplice, serve una camera a tenuta di luce e un obiettivo in grado di far convergere i raggi luminosi, riflessi da un soggetto, verso un punto preciso che chiamiamo fuoco. L’oggetto a tenuta di luce può essere un qualsiasi contenitore ermetico ai raggi luminosi, mentre l’obiettivo può consistere in un semplice buco. Nonostante sia facile costruire una macchina fotografica, non si può dire che con la stessa facilità sia possibile creare una fotografia. Occorre dosare

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Tre gradi di profondità fotografica

la quantità di luce che va a colpire il sensore o la pellicola (esposizione). Bisogna mettere a fuoco il soggetto che c’interessa attraverso la specifica regolazione dell’obiettivo. E’ necessario impostare la giusta velocità di otturazione per bloccare l’istante che c’interessa nel modo più appropriato e si deve sistemare correttamente il tutto dentro un’inquadratura dalle precise Joseph Nicephore Niepce -1826 -La prima foto della storia

Nicephore Niepce - è considerato l’inventore della fotografia. Il primo scatto visibile e stabile l’ottenne nel 1826 con un’esposizione di circa 8 ore, riproducendo la visuale di fronte alla finestra del suo appartamento. Per oltre un secolo fu dimenticato dalla fotografia e dalla storia. Solo nel 1956 Helmut Gersheim ritrovò l’originale presso la vedova di Gibbon Pritchard. Per renderla visibile e riproducibile applicò pesanti ritocchi tramite acquerelli. Canaletto - famoso pittore vedutista veneto da molti considerato un pittore “fotografico”. Utilizzò la camera obscura come mezzo facilitante per la cattura delle prospettive. Esposizione pag. 29 - 35 - 65 - 75 - 131

© Roberto Orlando/Fotozona

proporzioni (composizione). Queste operazioni sono i veri cardini della fotografia: bloccare un attimo in una piccola porzione di spazio per renderlo eterno come un’inamovibile icona del nostro ricordo. Il corpo macchina Il corpo macchina è un box impermeabile alla luce. A esso si collega un obiettivo che ha lo scopo di catturare e proiettare la scena reale sul sensore della fotocamera. La presenza di un mirino (elettronico oppure ottico), aiuta il fotografo a comporre l’inquadratura desiderata. Per registrare la scena in modo corretto è necessario regolare la luce che colpirà il sensore, per dosarla correttamente si utilizzano due dispositivi: uno posto sull’obiettivo chiamato diaframma e l’altro sul corpo macchina denominato otturatore. Il diaframma controlla il flusso luminoso attraverso delle lamelle

Velocità di otturazione I tempi pag. 31 congelare o muovere pag. 139 Diaframma pag. 29 - 30 - 45 - 82 - 86 - 90

© Salvatore Giordano/Fotozona

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Le basi teoriche della fotografia

semovibili che possono chiudersi o aprirsi come l’iride dell’occhio umano. L’otturatore, invece, è una “saracinesca”, posta nelle vicinanze del sensore, che si può aprire a velocità regolabili. I due dispositivi sono collegati a un esposimetro (misuratore di esposizione) che valuta l’intensità luminosa della scena suggerendo le regolazioni da impostare. Nel corso del tempo,

per esaudire le esigenze sia professionali sia amatoriali. Sono macchine che permettono l’espandibilità del corredo consentendo agli acquirenti di ampliare le opportunità tecniche del mezzo. Esistono reflex denominate full frame (pieno formato - 24 x 36 mm come nelle vecchie macchine a pellicola), in formato APS (25,1 x 16,7 mm) oppure 4:3 (17,3 x 13 mm). Le dimensioni del sensore influenzano sia il costo finale, sia la qualità dell’immagine, ovviamente sarà tutto maggiore con le dimensioni più generose. Alle macchine appena descritte, si oppongono le moderne mirrorless, il nome descrive l’assenza dello specchio inclinato per essere, a parità di qualità fotografica delle reflex, più compatte e silenziose. Queste caratteristiche si pagano con una inferiore velocità operativa. Una categoria a rischio d’estinzione è quella delle cosiddette compatte. Dal nome si deduce che la loro caratteristica non è determinata dalla qualità ma dalla dimensione e dal peso. Elementi semplici che un cellulare di ultima generazione è in grado d’eguagliare sostituendosi nell’utilizzo. Tra le compatte e le reflex si pone la categoria denominata prosumer (professional consumer), un ibrido tra la fotocamera commerciale, compatta ed economica, e una professionale di buona qualità. Nata ai tempi in cui le reflex digitali erano dei sogni proibiti, causa i costi elevati, oggi è una tipologia di fotocamera che non soddisfa più le esigenze del mercato.

le fotocamere si sono evolute introducendo sempre nuove tecnologie in grado di alleviare le fatiche di un fotografo. Queste tecnologie hanno permesso alle case produttrici, di ricercare e produrre la giusta fotocamera per differenti tipologie di mercato. Le categorie si differenziano essenzialmente per qualità, costo, prestazioni e dimensioni. Le reflex, regine della qualità, delle prestazioni e dell’espandibilità, sono le macchine preferite dai professionisti o dai fotoamatori evoluti. La loro caratteristica principale è data dalla presenza di uno specchio a 45°, posto tra l’obiettivo e il piano pellicola, che ha lo scopo di proiettare e raddrizzare l’immagine catturata sul mirino ottico. Possono sostituire l’obiettivo permettendo una vasta scelta di ottiche e coprono le più disparate esigenze del fotografo. All’interno di questa categoria i prezzi e le prestazioni sono suddivise in ulteriori fasce 17

© Lodovico Ludoni/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

Esposimetro I valori della luce pag. 31 - 61 - 69 La luce incidente e quella riflessa pag. 71 Il sistema zonale pag. 135

La preferenza della macchina con cui iniziare a fotografare è una scelta d’importanza strategica e condizionerà il percorso creativo dell’utilizzatore. Il consiglio che ci sentiamo di dare è che al momento dell’acquisto vi sia preferenza verso fotocamere con tutti gli automatismi disinseribili. Il pensiero e l’azione del fotografo devono liberarsi dalle strabordanti facilitazioni procurate dagli automatismi.

Full frame - APS - questi acronimi si riferiscono alla grandezza del sensore. La full frame ha le misure della vecchia pellicola 135 cioè 24x36 mm. L’APS è un formato più piccolo e ogni produttore ha le sue dimensioni specifiche. La Nikon adotta l’acronimo DX per definire questo tipo di sensori. 4:3, 2:3 o 16:9 - indicano la dimensione proporzionale tra il lato lungo e quello corto del formato. Il loro rapporto è indicato da un numero che è il risultato della divisione tra loro. Il 2:3 avrà un rapporto di 1,5 (3:2=1,5), il 4:3 avrà un rapporto di 1,33, il 16:9 di 1,77. Il rapporto 1:1 indicherà il formato quadrato.

© Luciano Campetti/Fotozona

Compatte e prosumer - sono tipologie di macchine destinate ad entrare nel nostro immaginario storico. Le prime, economiche ma a bassa qualità, stanno perdendo mercato nei confronti degli smartphone. Le seconde non si sono mai affermate e ora si vedono superate dall’incredibile qualità raggiunta delle fotocamere mirrorless.

Per imparare è necessario capire e la comprensione avviene anche attraverso gli errori perché solo sbagliando si incita l’intenzione al miglioramento. Lasciamo i facili risultati ai fruitori di telefonini, loro non hanno esigenze particolari se non produrre e condividere immediatamente un istante catturato. I fotografi, quelli veri, devono impiegare delle macchine che obblighino a comprendere, fase

Mirrorless - letteralmente “senza specchio”, sono fotocamere di fascia alta, in grado di competere con le reflex ma con dimensioni più contenute grazie alla mancanza dello specchio inclinato di 45°. Non hanno una visione diretta della scena ripresa, utilizzano mirini digitali oppure galileiani. Scrivere con la luce - dal greco Phos = luce e Graphos = scrittura. Termine utilizzato per la prima volta da Antoine Hercule Romuald Florence. Ma il termine utilizzato agli albori della tecnica fu Heliografia = scrittura con il sole. 18

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona


Le basi teoriche della fotografia

© Angelo Abate/Fotozona

di scrivere con la luce. Si scrive quando si hanno delle necessità, quando si desidera comunicare o condividere un pensiero, quando si vogliono elargire sensazioni e opinioni. Si scrive quando si hanno delle idee, mettendo in ordine delle lettere che, grazie a regole precise, sono in grado di essere lette, comprese e interpretate da tutti. Quindi la macchina fotografica è molto meno importante della fotografia, la prima può mutare nel tempo e trasformarsi negli oggetti più disparati, la seconda è un atto creativo a cui bisogna dedicare impegno e fatica.

necessaria per impratichirsi della moltitudine di tecniche esistenti. E’ una provocazione, ma l’analogico, con i costi legati al numero di scatti realizzati, obbligava a una comprensione accelerata, ogni fotogramma, ogni errore aveva un valore ben preciso e invogliava tutti ad essere più attenti e meticolosi. La macchina fotografica è come la penna per uno scrittore o il pennello per un artista: un semplice congegno che nelle mani giuste può trasformarsi in uno strumento creativo. Essa deve tornare a manifestarsi solo come un mezzo tecnico con cui saremo in grado

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© Luciano Pratesi/Fotozona


© Andrea Spera/Fotozona


L’OBIETTIVO L’obiettivo è l’occhio del corpo macchina, la sua funzione è di raccogliere e duplicare una copia della scena inquadrata sul piano pellicola/ sensore. Può essere costituito da un semplice foro (stenopeico) o da complessi schemi ottici formati da gruppi di lenti la cui funzione è quella di riprodurre l’immagine con maggiore nitidezza e luminosità. Fondamentalmente gli obiettivi moderni sono costituiti da una serie di lenti ottiche (paragonabili alla cornea e al cristallino dell’occhio), montate all’interno di una calotta cilindrica in cui sono presenti una ghiera di regolazione elicoidale per la messa a fuoco e alcune lamelle metalliche (paragonabili all’iride dell’occhio umano) che costituiscono il diaframma, con compiti di controllo del flusso luminoso e della profondità di campo. Gli obiettivi si distinguono in alcune categorie specifiche. A seconda della tipologia possono cambiare radicalmente qualità, funzioni, risultati e costi.

© Angelo Abate/Fotozona

sono la priorità che ne condizionerà l’acquisto. Ogni casa produttrice ha almeno due linee di prodotti: quelli economici e quelli professionali. Per abbattere i costi si può agire su molti versanti: utilizzare materiale di qualità inferiore, abusare di fabbricazioni meccaniche in cui la plastica sostituisce altri materiali più resistenti e nobili, oppure sfruttare materiale di buona qualità ma dalle dimensioni ridotte e contenute. I maggiori risparmi si ottengono attraverso l’utilizzo di lenti più piccole ma il diametro inferiore causerà una diminuzione di luminosità con conseguenti possibili problemi di esposizione in luoghi a bassa luminosità. L’obiettivo è la parte più longeva e importante del corredo fotografico, sarebbe sempre meglio dedicare la massima attenzione alla sua scelta durante l’acquisto. Differenza di “famiglie” Le famiglie degli obiettivi sono fondamentalmente tre: grandangolari; normali e teleobiettivi. I primi hanno la caratteristica di

© Max Ferrero

Differenze economiche E’ la categoria meno definibile in assoluto ma quando ci ritroviamo a scegliere tra le migliaia di possibilità offerte dal mercato, queste differenze 21


Tre gradi di profondità fotografica

Profondità di campo I parametri pag. 41 - 85 La distanza iperfocale pag. 89

dilatare gli spazi rimpicciolendo gli oggetti ripresi, i normali sono quelli che danno una proporzione similare alla visione dell’occhio umano mentre i teleobiettivi sono apparati ottici in grado d’ingrandire i soggetti ripresi restringendo la visione solo su alcuni particolari. L’appartenenza a una determinata categoria dipende dalla lunghezza focale dell’obiettivo ed è misurata in mm. La lunghezza focale è la distanza che separa il centro ottico dell’obiettivo dal piano sensore/ pellicola. Quando la lunghezza focale di un obiettivo è pari o simile al diametro del sensore siamo alla presenza di un obiettivo normale. Facciamo un piccolo esempio: ipotizziamo di lavorare su una macchina fotografica reflex di buona qualità, se il suo formato sensore è pari a 24x36 mm, la diagonale del formato pellicola sarà pari a 43 mm. Tutti gli obiettivi che avranno una lunghezza focale pari o vicina (dal 35 al 60 mm circa) saranno considerati dei normali. Man mano che il numero si allontanerà verso valori inferiori sarà considerato un grandangolare, viceversa, se si scosterà su valori superiori sarà un teleobiettivo. Se si dovesse cambiare il formato sensore e la relativa diagonale, cambieranno anche i parametri legati alla lunghezza focale. Molte mirrorless ma anche

Obiettivi Luminosità e prestazioni pag. 65 Aberrazioni ottiche pag. 66 Stenopeico - dal greco stenos opaios - foro stretto è un fenomeno ottico in grado di riprodurre immagini dalla bassa definizione. Flusso luminoso o Potenza luminosa - è l’intensità di una sorgente luminescente ed è misurata in lumen. La lunghezza focale - è la distanza tra il centro ottico dell’obiettivo e il piano pellicola. Formato sensore Rapporto formato/lunghezza focale pag. 26 - 65 24x36 mm - è diventato il formato di riferimento nella fotografia. Le sue misure vennero determinate dalla scelta di utilizzare, sulle macchine fotografiche, dei rotoli di pellicola prodotta per il cinema. Zoom - voce di origine onomatopeica per indicare “ronzio”. Tale nome, probabilmente, è dovuto alla costruzione dei primi esemplari che presentavano una meccanica a stantuffo particolarmente rumorosa. I primi zoom furono utilizzati come telescopi ottici “varifocale”, come riportato dagli atti della Royal Society del 1834. Il primo modello costruito in serie fu il Cooke Varo 40-120 mm, realizzato nel 1932 da Bell and Howell per le cineprese a 35 mm. Nel campo fotografico lo zoom fece la sua apparizione nel 1959. Cerchio di copertura - è il cerchio di luce proiettato dall’obiettivo sul piano sensore. Per non provocare vignettature o cadute di luminos22

© Giulio Mandara/Fotozona


Le basi teoriche della fotografia

le reflex di fascia più economica, utilizzano sensori di formato APS (15x23 cm), il normale per queste macchine sarà un 32mm circa.

moltiplicazione delle dimensioni dei sensori. Ciò ha permesso a molti appassionati di acquistare macchine fotografiche di grande qualità a costi contenuti ma ha anche complicato il panorama generale del mercato. L’immagine creata dall’obiettivo fornisce una proiezione circolare della scena ripresa, il diametro del cono proiettato deve essere in grado di coprire tutto il formato del sensore. Questa caratteristica dell’obiettivo si chiama cerchio di copertura. Alcune ottiche riescono a essere vendute a prezzi competitivi perché, ottimizzate a coperture di campo inferiori, sfruttano lenti dal diametro minore ma non possono essere montate sui sensori più grandi (scelta Canon), oppure possono essere utilizzate riducendo automaticamente lo spazio di sensore usabile trasformando una full frame in una APS-DX (scelta Nikon). Come abbiamo già anticipato, è la dimensione del sensore a determinare la famiglia dell’obiettivo. (Per capire quale obiettivo state utilizzando date una lettura a pag 27). Ecco un elenco di misure dei vari sensori: Formato full frame o FX - 24x36 mm Formato DX Nikon - 15,6x23,7 mm Formato APS C Canon - 15x22,5 mm Formato 4/3 Olympus - 13,5x18 mm Formato Nikon One (1 pollice)- 8,8x13,2 mm Formato 2:3 di pollice 4,55x6,17 mm Avere sensori ridotti significa possedere macchine più leggere, compatte e spesso anche economiche. Avere sensori più grandi significa usufruire di una maggiore qualità e nitidezza, generare meno rumore digitale a parità di numero di pixel... ma il tutto si paga con il prezzo e con il peso da reggere.

© Andrea Spera/Fotozona

Ottica fissa oppure variabile La lunghezza focale di un obiettivo può essere fissa, cioè il centro ottico della lente non muta mai e le caratteristiche dell’obiettivo rimangono statiche, oppure il centro ottico può essere spostato con una ghiera presente sul barilotto, trasformandosi in un’ottica variabile comunemente chiamata zoom. Questi ultimi hanno sicuramente il vantaggio di fornire al fotografo più ottiche in una sola, permettendo di variare l’inquadratura senza modificare il punto di ripresa. A loro svantaggio hanno una costruzione ottica più complessa che li rende inevitabilmente più pesanti, costosi e meno luminosi delle ottiche fisse. Negli anni gli zoom hanno saputo conquistare anche la fascia professionale acquisendo qualità ottiche di prima categoria. Nelle macchine fotografiche in cui non è possibile sostituire l’obiettivo, la scelta dei produttori ricade sempre su di uno zoom. Dx - Fx, Full frame o APS? Con l’avvento del digitale si è assistito a una 23

© Angelo Abate/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

ità ai bordi esso dovrà essere di diametro superiore alla dimensione della superficie sensibile. Un obiettivo con scarsa copertura provocherà cadute di luce agli angoli delle foto. Angolo di campo - è l’angolo inquadrato dall’obiettivo di una fotocamera. Un normale ha un angolo di campo tra i 45-60°, un grandangolare supera i 60° mentre i teleobiettivi effettuano riprese al di sotto dei 45°. Gli zoom, proprio perché di focale variabile, hanno un angolo di campo incostante. © Mauro Trolli/Fotozona - Obiettivo catadiottrico

Diaframma pag. 29 - 30 - 45 - 82 - 86 - 90

Obiettivi speciali Alle tre macrocategorie descritte in precedenza, si aggiungono una serie di obiettivi particolari, ideati e costruiti per specifiche situazioni di ripresa. • Fish eye - obiettivi supergrandangolari capaci d’inquadrare angoli di campo superiori ai 160°, distorcono e deformano la scena reale per esaltare le prospettive. • Macro - obiettivi con una ghiera elicoidale di messa a fuoco superiore alla media, sono in grado di riprendere soggetti ravvicinati ingrandendone i particolari. Per essere veri obiettivi macro devono raggiungere il rapporto d’ingrandimento 1:1. Un centimetro ripreso corrisponde ad un centimetro riprodotto. • Catadiottrici - obiettivi/teleobiettivi con l’inserimento di due specchi centrali in grado

STM - acronimo che indica la tecnologia stepper motor technology di Canon. Una tipologia di messa a fuoco passo a passo, non usa la tecnologia a ultrasuoni detta USM.

© Max Ferrero - Obiettivo decentrabile

Stabilizzatore - tecnologia che riduce il rischio di mosso personale attraverso una serie di motori stabilizzanti all’interno dell’obiettivo in grado di contenere o annullare i tremolii del fotografo. 24

© Luca Scaramuzza/Fotozona - Obiettivo Fish Eye


Le basi teoriche della fotografia

di aumentare fittiziamente la lunghezza focale dell’obiettivo attraverso riflessioni interne. Con questa costruzione meccanica si ottengono lunghe focali di dimensioni contenute. Hanno un diaframma fisso e non regolabile pari alla loro massima luminosità, normalmente f/8 - f/6,3. Possiedono il grande pregio di essere economici, creano degli sfocati sui punti luminosi dalla caratteristica forma ad anello ma sono poco maneggevoli, poco luminosi e non è possibile controllare la profondità di campo. • Decentrabili - sono obiettivi professionali in grado di correggere le prospettive cadenti date da riprese inclinate. Molto utilizzati in architettura, hanno costruzioni ottiche e meccaniche complesse. E’ possibile divertirsi con obiettivi simili ma molto più economici alcuni ottimi sono prodotti da Lensbaby.

Foto esempio 1 - © Stefanizzi Fioravante/Fotozona

alcune nozioni per comprendere quale “occhio” abbiamo montato sul nostro corpo macchina. Ciò che ci serve sapere, è stampato sulla parte frontale dell’obiettivo: ovviamente la marca sempre riprodotta in bella vista ma anche la lunghezza focale, riconoscibile dal numero seguito dall’unità di misura in mm. La luminosità massima è indicata con un rapporto numerico. Nella foto di esempio 1 possiamo notare la sigla 1:1,4 cioè il diaframma più luminoso utilizzabile è pari a f/1,4. In alcuni casi potrebbero presentarsi due numeri, ciò avviene con le ottiche zoom di fascia medio bassa e indicano la luminosità massima ai due estremi della lunghezza focale dell’obiettivo zoom. Negli obiettivi professionali la luminosità massima rimane fissa anche sulle ottiche a focale variabile. Nella foto di esempio 2 possiamo notare l’indicazione del diametro dei filtri che possono

© Daniele Napoli/Fotozona

• Obiettivi low fi - si sono fatti largo sul mercato una serie di strani obiettivi a metà tra il giocattolo e l’oggetto di culto vintage. Sono tutte ottiche con lenti di plastica o materiali affini. Hanno lo scopo di fornire immagini a bassa nitidezza utili per specifiche ricerche stilistiche. • Foro stenopeico - è un’ottica base costituita da un semplice foro. Può essere acquistata o autocostruita. Sul web è possibile trovare diversi articoli che aiutano gli appassionati a produrre questo primordiale apparato ottico. Tutti i numeri di un obiettivo Dopo aver descritto le varie differenze che possono intercorrere tra le varie ottiche presenti sul mercato, diventa importante dare ancora 25

Foto esempio 2 - © Salvatore Giordano/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

essere montati (Ø), la scritta STM che descrive il tipo di meccanismo di messa a fuoco utilizzato, EF-S specifica il tipo di attacco (Canon solo APS-C) e la scritta IS dopo l’indicazione delle luminosità massime, ci suggerisce che l’obiettivo è stabilizzato. Lo stabilizzatore è un motore inserito sui gruppi ottici degli obiettivi con il compito di creare dei movimenti pari e contrari alle vibrazioni percepite. Ciò evita di ottenere dei micromossi quando si compiono riprese con bassi indici di luminosità e lenti tempi di otturazione. Le terminologie scelte dalle varie case produttrici complicano il panorama generale. Se nelle Canon la denominazione dello stabilizzatore s’identifica con IS (image stabilizer) nel marchio Nikon è riconoscibile con la dicitura VR (vibration reduction). Nelle macchine Pentax e Sony lo stabilizzatore è posto direttamente sul sensore e non negli obiettivi riducendo i costi del parco ottiche.

normale montata su una Full Frame non avrà le medesime caratteristiche se utilizzata su un altro formato. C’è bisogno di un lungo esempio: Il normale è l’obiettivo con lunghezza focale simile alla lunghezza della diagonale del sensore. Per calcolare la diagonale di un sensore bisogna tornare alla vecchia formula matematica del teorema di Pitagora:

Il rettangolo è un quadrilatero che ha i lati a due a due paralleli e della stessa lunghezza, con tutti gli angoli a 90°. E’ dotato di due diagonali corrispondenti, ciascuna delle quali suddivide la figura in due parti simmetriche con la stessa forma e la stessa area. Tracciando una diagonale si creano due triangoli rettangoli (rettangolo perché uno degli angoli creati è di 90°). I due lati perpendicolari del triangolo (AB e BC) sono detti Cateti, il lato opposto all’angolo retto (CA) è chiamato Ipotenusa. Per ricavare la lunghezza dell’ipotenusa bisogna applicare il teorema di Pitagora che asserisce: il quadrato dell’ipotenusa è pari alla somma del quadrato dei cateti. AB2 +BC2 = CA2 visto che a noi interessa la lunghezza di CA e non il suo quadrato, dovremo applicare una radice quadrata su entrambi i cateti, quindi la formula finale è la seguente:

Obiettivo a foro stenopeico

Ritorniamo ancora un attimo sulla questione della dimensione del sensore e della lunghezza focale di cui abbiamo accennato a pag. 23. Il loro rapporto è fondamentale per capire cosa significa il concetto di obiettivo normale, di conseguenza anche grandangolare e tele. Un obiettivo mantiene sempre costante la sua lunghezza focale ma montandolo su macchine fotografiche con sensori di dimensioni differenti provocherà ingrandimenti diversi secondo la grandezza del sensore utilizzato. Un’ottica 26


Le basi teoriche della fotografia

sensore da 1 pollice e quello viola il 2:3 di pollice. La tabella che riportiamo potrà esservi utile per capire con il sensore che state utilizzando quale ottica corrisponda esattamente all’obiettivo normale.

La diagonale di un sensore Full Frame, 24x36 mm, è di 43 mm circa.

Cambiando la dimensione di un sensore cambia anche la misura della diagonale, di conseguenza si modifica il rapporto con la lunghezza focale utilizzata. Un normale di 50 mm sarà un piccolo teleobiettivo se adoperato su di una macchina APS-DX. Nella foto sottostante, che riportiamo come esempio, si può notare la differenza d’inquadratura che si otterrebbe se rimanendo sempre nello stesso punto e con lo stesso obiettivo potessimo cambiare il sensore. La foto intera è il Full Frame realizzato con un 50mm. Il rettangolo rosso rappresenta il formato DX Nikon, quello giallo l’APS Canon, l’azzurro il 4:3 dell’Olympus. Il verde riproduce il formato

Nel caso stiate adoperando un obiettivo diverso dal normale il fattore d’ingrandimento (meglio quello semplificato per approssimazione) vi permetterà di capire con che obiettivo state lavorando realmente. Ad esempio, sfruttando una focale da 20 mm su un formato DX (1,5x) corrisponderà a una focale di 35 mm sul Full Frame. Lo stesso 20 mm, montato su una fotocamera con un sensore di 2:3 di pollice, corrisponderà a un 112 mm. I formati più piccoli potranno beneficiare di potenti teleobiettivi dal costo contenuto ma avranno limitazioni sui grandangolari, succederà l’inverso con le Full Frame.

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© Mauro Trolli/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Gianpaolo Barbieri/Fotozona


L’ESPOSIZIONE al sensore. Non sono solo dei regolatori di luminosità, hanno anche delle caratteristiche peculiari legate alla fisica ottica. Il diaframma e l’intensità luminosa Il diaframma è composto da una serie di lamelle poste a ventaglio al centro dell’obiettivo. Esse si chiudono durante lo scatto al valore impostato precedentemente sulla fotocamera. Il diaframma scelto determina il diametro delle lamelle che regolano la luce passante. Un diaframma chiuso farà passare poca luce, uno aperto permetterà a tutto il flusso luminoso di attraversare le lenti dell’obiettivo. Ogni apertura ha dei numeri di riferimento e sono identificati da una sigla: f/. I diaframmi con valori interi sono i seguenti: F/ 1 - 1,4 - 2 - 2,8 - 4 - 5,6 - 8 - 11 - 16 - 22 - 32. Minore è il numero, maggiore sarà l’apertura del diaframma. I numeri F/2,8 - 2 o ancora inferiori, permettono il passaggio di molta luminosità, i diaframmi più chiusi: 16 - 22, invece, l’impediscono. Tra un valore e un altro c’è un passaggio di luce doppio o dimezzato. Ad esempio: procedendo da f/4 a f/5,6 avremo una maggiore chiusura che farà passare la metà

Fino ad ora abbiamo solo descritto degli oggetti. La fotografia si crea tramite la macchina fotografica ma nasce da un’azione della radiazione luminosa su di un supporto sensibile. La giusta esposizione del sensore all’azione della luce è alla base della creazione d’immagini. Saperla regolare è il pilastro fondamentale di questa magnifica arte. Quando premiamo il pulsante di scatto, incarichiamo la nostra macchina fotografica di catturare l’intensità luminosa di un preciso punto della realtà, per proiettarlo e riprodurlo sulla superficie sensibile. Calibrare il quantitativo di energia luminosa è importante per il conseguimento di una foto dai toni corretti. Se troppa luce dovesse passare, otterremmo una sovraesposizione con risultati molto chiari, viceversa, se dovesse entrare poca luce, avremmo una foto scura, che in questo caso si chiamerà sottoesposizione. La regolazione del flusso luminoso avviene attraverso due apparati a cui abbiamo già accennato: l’otturatore (presente all’interno del corpo macchina) e il diaframma (posto all’interno dell’obiettivo). Il loro compito è di controllare l’intensità della luce che giungerà

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© Max Ferrero


Tre gradi di profondità fotografica

Sovra e sottoesposizione L’esposizione pag. 29 Misurare l’esposizione pag. 65 La latitudine di posa pag. 75 Il sistema zonale adattato pag. 131

dell’intensità luminosa. Se da f/4 decideremo di utilizzare f/2,8, permetteremo il passaggio di un quantitativo doppio di luce. I diaframmi che abbiamo indicato sono definiti interi, tra due di questi valori ci sono altri diaframmi (detti intermedi), che hanno una variazione di luminosità pari a 1/3 o 1/2 che si può impostare dal menù della fotocamera. Il passaggio da un diaframma intero a un altro s’indica con il termine stop. Il diaframma lo possiamo considerare come un rubinetto che, maneggiato nel modo opportuno, può aprire e chiudere il flusso della “corrente” luminosa. Esso ha anche altre funzioni importantissime nell’ambito della composizione e del linguaggio fotografico essendo uno dei parametri fondamentali per la gestione della profondità di campo. L’otturatore e i tempi di esposizione L’otturatore è il dispositivo che determina per quanto tempo il sensore resterà esposto alla

F/n - indica il rapporto lunghezza focale/diametro del diaframma. La divisione tra F (focale) e il valore del diaframma n determinerà il diametro effettivo dell’apertura espresso in mm. 1/3 - dal menù della fotocamera è possibile selezionare i passaggi di stop impostando i valori su 1/3 (tre scatti di rotella per passare a uno stop successivo) oppure su 1/2 (due scatti di rotella per passare al valore seguente). Il primo caso è quello più preciso e performante.

© Max Ferrero

Stop - terminologia che indica un valore generico riferentesi indistintamente ai tempi o ai diaframmi. Aumentare di uno stop significa raddoppiare l’esposizione utilizzando, a propria scelta, il fattore tempo oppure il diaframma che si desidera. Profondità di campo I parametri pag. 41 - 81 La distanza iperfocale pag. 85 Il mosso I vari tipi di mosso pag. 35 Effetti creativi del mosso pag. 139

luce. Facendo un paragone con l’occhio umano, se il diaframma può essere rappresentato dall’iride, l’otturatore è la palpebra. E’ posto all’interno della fotocamera a protezione del sensore ed è costituito da una doppia tendina di lamine al titanio che si aprono al momento dello scatto per richiudersi in base ai tempi scelti sulla fotocamera. Tempi di otturazione lenti permetteranno il passaggio di un’ampia energia luminosa, mentre intervalli veloci ne ridurranno il flusso. Le velocità di otturazione che si possono impostare sono le seguenti: 30 - 15 - 8 - 4 - 2 - 1 - 2 - 4 - 8 - 15 - 30 - 60 -

Tempi di esposizione e velocità d’otturazione - i primi indicano per quanto tempo il sensore rimane esposto alla luce, il secondo termine si riferisce alla velocità di apertura e chiusura delle due tendine dell’otturatore. 1/125 di secondo sarà un tempo veloce ma produrrà un breve tempo di esposizione. Coppie tempo/diaframma - la stessa esposizione può essere raggiunta con diverse coppie tempo diaframma. Questo fenomeno 30


Le basi teoriche della fotografia

125 - 250 - 500 - 1000 - 2000 - 4000 - 8000. I numeri colorati in rosso rappresentano valori interi e sono espressi in secondi. Quelli in nero sono frazioni: 1/2 - 1/4 - 1/8. Non dobbiamo confonderne il significato di tempi di esposizione e velocità d’otturazione, l’una è l’opposto dell’altra pur utilizzando gli stessi valori espressi in unità di tempo. Nei numeri interi (secondi) un aumento di valore indica una crescita del tempo di esposizione. Nelle frazioni, un aumento del valore numerico indica un incremento della velocità dell’otturatore, quindi, una diminuzione dell’esposizione. Anche l’otturatore ha delle funzioni che vanno al di là della semplice regolazione luminosa, permette di bloccare o di muovere i soggetti ritratti, impedendo o creando appositamente un effetto chiamato mosso. I due dispositivi descritti lavorano in sinergia per regolare la luce che colpirà il sensore. Per impostare la giusta coppia tempo/diaframma avremo bisogno di utilizzare un “misuratore” di esposizione denominato esposimetro. Ogni macchina fotografica moderna ha un esposimetro integrato in grado di valutare la luce della scena e impostare o suggerire i parametri da impostare. L’esposizione manuale Esporre manualmente significa impostare sia i tempi sia i diaframmi. La macchina si limita a dare delle indicazioni di massima attraverso l’uso dell’esposimetro. Posizionando il cursore della modalità di esposizione su M, avremo la totale scelta della giusta coppia

© Luciano Pratesi/Fotozona

tempo/diaframma. La velocità operativa sarà ridotta, ma avremo il completo controllo delle regolazioni di luminosità e anche la colpa in caso di errori. E’ il modo migliore per comprendere cosa sia l’esposizione e come la si possa dominare. In modalità manuale si deve scegliere l’inquadratura, attivare la lettura esposimetrica, leggerne i dati per impostare il giusto tempo di otturazione e il diaframma. L’esposimetro non indica delle unità di misura precise, interpreta i valori della scena e fornisce dei suggerimenti attraverso un grafico. Normalmente mostra con lo 0 la misura corretta d’esposizione. Una barra verticale indica il valore raggiunto con i parametri impostati che si sposta al variare dei tempi o dei diaframmi. Valori positivi indicano sovraesposizioni (foto chiare) mentre numeri negativi determinano sottoesposizioni. L’esposimetro si limita a puntualizzare se la quantità di luce è eccessiva o insufficiente, il fotografo è incaricato d’applicare la giusta coppia tempo/diaframma. Se valutassimo solamente l’intensità luminosa impostare f/4 e 1/125” darà gli stessi risultati di un altro scatto effettuato con f/5,6 e 1/60” (da f/4 a f/5,6 passa la metà della luce - da 1/125 a 1/60 passa il doppio della luce compensando il primo parametro). Ovviamente le due coppie hanno caratteristiche diverse, con 1/125” avremo più possibilità di fermare un oggetto in movimento rispetto al 1/60” della seconda coppia. Se siete dei novizi della fotografia concedetevi molto tempo, impostate la macchina su Manuale e prendete 31


Tre gradi di profondità fotografica

appunti su tutto ciò che fate. Ogni errore sarà esclusivamente vostro, la macchina non avrà contribuito e ciò aiuterà l’accrescimento della conoscenza sulla fotografia. Esposizione automatica Gli automatismi dell’esposizione si dividono tendenzialmente in due categorie ben distinte. La prima, molto utile, è chiamata “a priorità” la seconda “program”. I program sono degli algoritmi che scelgono sia il tempo sia il diaframma in base a impostazioni calcolate dal costruttore. Sono impostazioni che sollevano l’utilizzatore da qualsiasi difficoltà, mantenendo il fotografo in una costante situazione di non controllo. Inopportuni per chi desidera imparare, sono alla base della tecnologia fotografica degli smartphone: punta e scatta. Gli automatismi a priorità, invece, permettono di velocizzare le operazioni senza rinunciare alle decisioni personali. La parola “priorità” indica quale valore sarà impostato dal fotografo mentre il secondo fattore sarà scelto

© Giulio Mandara/Fotozona

può essere spiegato con una semplice somma matematica: un risultato pari a “10” può essere ottenuto sommando diverse coppie di numeri: 1+9; 5+5; 3+7. Il risultato rimane inalterato (esposizione) ma le coppie cambiano e di conseguenza anche i risultati visivi. M - indica sempre una funzione manuale. E’ utilizzato sia nell’ambito dell’esposizione sia negli obiettivi per indicare la disabilitazione dell’autofocus. Priorità - il fotografo sceglie di controllare un parametro tra i tempi o i diaframmi mentre la macchina controllerà quello rimanente. Il parametro selezionato manualmente determinerà il nome della priorità. Program Sono degli automatismi forniti dai costruttori per facilitare i calcoli di esposizione e di scelta della giusta coppia tempo/ diaframma. 50 - 100 - 200... ISO. L’aumento dei valori indica una maggiore sensibilità alla luce, valori doppi hanno doppia sensibilità. Rumore. Si evidenzia con una trama puntinata monocromatica (rumore da luminosità) oppure con macchie colorate (rumore cromatico). Si può contenere riducendo gli ISO in ripresa o con Filtri in fotoritocco che riducono anche la nitidezza generale delle foto. 32

© Gianpaolo Barbieri/Fotozona


Le basi teoriche della fotografia

automaticamente dalla fotocamera in base alla lettura esposimetrica della scena ripresa. L’automatismo a priorità di tempi (indicato con Tv - time value sulle macchine Canon e Pentax, con S - speed su Nikon - Sony - Olympus - Fuji) permette d’impostare il tempo di otturazione mentre la macchina sceglierà automaticamente l’apertura del diaframma. L’automatismo a priorità di diaframma (AV - aperture value su Canon, A - aperture su macchine Nikon), funzionerà invertendo i criteri di scelta. Sensibilità - ISO Oltre ai due parametri descritti, ce n’è un terzo in cui il fotografo sceglie quanto vuole che la sua macchina sia reattiva alla luce. La sensibilità, impostata tramite i valori ISO, è il terzo dispositivo che determina la corretta esposizione. Maggiore sarà il valore stabilito, maggiore sarà la sensibilità alla luce. Le macchine attuali possono impostare valori da 50 ISO a oltre 100.000. Questa corsa alla sensibilità elevata è una tendenza del mercato che vuole illudere l’utente di poter scattare foto anche al buio più totale. In pratica aumentare gli ISO significa amplificare elettronicamente il segnale raccolto dal sensore, oltre alla scena reale si esaltano anche le interferenze che si presentano come variazioni casuali di luminosità. Questo effetto è chiamato rumore, se eccessivo influisce negativamente sulla qualità fotografica riducendone la nitidezza. La migliore considerazione che si possa fare è quella di sfruttare sempre valori ISO bassi, incrementandoli solo quando strettamente necessario, ad esempio quando, causa bassa illuminazione della scena, è impossibile impostare le coppie tempo/diaframma che ci

occorrono. Non utilizzate mai l’impostazione degli ISO automatici, la sensibilità è un fattore troppo importante per lasciarlo decidere a una macchina. Riassumendo: per ottenere una corretta esposizione componete l’immagine, valutate i suggerimenti che indica l’esposimetro, impostate la coppia tempo/diaframma più indicata per voi e utilizzate sempre gli ISO con moderazione. Per tutta l’operazione potrebbero essere necessari minuti interi, iniziate con soggetti semplici e immobili, in seguito, quando vi sarete impratichiti, potrete permettervi di eseguire tutte le azioni anche con soggetti in movimento.

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© Luciano Campetti/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Andrea Spera/Fotozona


I TEMPI DI OTTURAZIONE Come abbiamo appena visto, esporre correttamente significa applicare i giusti parametri di diaframma e tempo d’otturazione per ottenere una foto dai toni equilibrati. Attraverso il loro dosaggio si regola il flusso luminoso che colpirà la superficie sensibile, ovviamente, le coppie tempo/diaframma possono essere svariate, ma non tutte daranno

non può cogliere, è un modo per ottenere messaggi visivi stupefacenti. Il mosso è un risultato di parziale o totale perdita di nitidezza dell’immagine, dovuto all’instabilità della fotocamera o al movimento dell’oggetto che stiamo fotografando. Il soggetto ripreso con effetto mosso presenta una sensazione di sfocato ma con un’impressione di direzionalità. E’ sbagliato pensare che il mosso sia sempre un errore, ma è anche vero che senza le necessarie cognizioni, il mosso ha altissime probabilità di presentarsi come elemento fastidioso. Si ottiene quando i tempi di otturazione sono più lunghi del necessario. Un tempo sbagliato può generare due tipi di mosso: quello originato dalla propria instabilità o quello dell’incapacità di bloccare il soggetto. Il mosso da instabilità della fotocamera possiamo definirlo anche come mosso personale o soggettivo. Se scattiamo a mano libera, cioè senza l’ausilio di un cavalletto o di un monopiede, siamo sempre instabili. Ci muoviamo, dondoliamo, respiriamo, abbiamo dei leggeri tremolii delle mani che potrebbero essere amplificati dal tipo di obiettivo che stiamo utilizzando. Esiste una regola orientativa, di facile comprensione,

© Anna Rita Canone/Fotozona

gli stessi risultati, la diversità degli esiti sarà ottenuta proprio dalla diversificazione dei parametri impostati, i diaframmi determineranno la profondità di campo e la profondità di fuoco. I tempi avranno il compito di regolare e controllare il movimento. La rappresentazione del movimento o la sua assenza, sono un abile gioco che la fotografia esegue sulla quarta dimensione della realtà: il tempo. Sembra strano parlare di quarta dimensione spiegandola attraverso un’arte che non ha nemmeno le qualità della terza (la profondità), eppure il controllo del tempo è una delle enormi potenzialità della fotografia. Poter bloccare un istante passeggero o dilatarlo in una forma che l’occhio 35

© Mauro Trolli/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

che suggerisce il tempo limite che possiamo utilizzare evitando il tanto fastidioso mosso personale. Essa afferma che: “La velocità d’otturazione deve essere pari alla lunghezza focale dell’obiettivo utilizzato, approssimato per eccesso”. La lunghezza focale di un obiettivo è pari alla distanza tra il suo centro ottico e il piano della messa a fuoco (sensore/pellicola), è espressa in mm ed è indicata su tutti gli obiettivi. La velocità di otturazione è il tempo impiegato dalla macchina per aprire e chiudere l’otturatore alla luce. Ora che conosciamo meglio i parametri della regola possiamo fare alcuni esempi: se stiamo fotografando un paesaggio con un obiettivo 50 mm, il tempo di sicurezza (oppure limite, chiamatelo come preferite) sarà la velocità pari o superiore a 50 cioè 1/60”. Se scattiamo una foto in interni con un obiettivo grandangolare da 28 mm, il tempo limite che potremo utilizzare sarà 1/30”. Per evitare il mosso con un obiettivo da 200 mm il tempo ottimale sarà 1/250”. Per eludere il mosso personale è obbligatorio conoscere l’ottica che si sta usando. I teleobiettivi hanno la caratteristica d’ingrandire sia i soggetti sia i movimenti personali che determinano la creazione di foto affette da micromosso, meno nitide e incise. I grandangolari diluiscono i

© Coromax/Fotozona

Coppie tempo/diaframma pag. 30 Profondità di fuoco si riferisce alla tolleranza di fuoco che si ottiene sul piano pellicola. Un’alta profondità di fuoco permette la correzione del fenomeno del back focus (errore di messa a fuoco da parte dell’obiettivo). Funziona in modo analogo alla profondità di campo ma è influenzata solo dalla scelta del diaframma. Diaframmi chiusi eviteranno il fenomeno del back focus tipico di alcuni obiettivi di fascia economica. Nel cinema il movimento è rappresentato da 25-30 fotogrammi al secondo. Lo spostamento del soggetto è riproposto tale e quale attraverso la proiezione dei vari scatti ripresi in sequenza. Se si utilizza un solo fotogramma, il movimento della scena si traduce in una scomposizione del soggetto in linee più o meno pronunciate a seconda della loro velocità. Si possono ottenere risultati che il nostro occhio non è in grado di recepire. Tempo limite - la regola riportata è solo un suggerimento, non si può applicare in modo matematico a a tutti gli esseri umani, è sicuro però che ognuno ha il suo tempo limite. Quando lo troverete redistribuire le forze tra i vari sostegni, cioè, quando i tempi rallentano, trovate un 36


Le basi teoriche della fotografia

stessi spazi con velocità diverse, per essere catturati nitidamente hanno bisogno di tempi di esposizione diversi tra loro. Su questo tema non si possono dare delle regole precise, solo piccoli consigli logici che potranno essere affinati con l’esperienza. Se il desiderio del fotografo è la nitidezza è consigliabile impostare sempre un tempo sensibilmente più veloce rispetto al necessario, ma tale consiglio non è sempre realizzabile. Nel capitolo sull’esposizione abbiamo visto che maggiore è la velocità di otturazione minore sarà la quantità di energia luminosa che raggiungerà il sensore. Di conseguenza, avremo bisogno di recuperare la luce mancante aprendo proporzionalmente il diaframma, ma gli obiettivi molto luminosi sono anche molto costosi e non disponibili a tutti. Potremmo in alternativa innalzare gli ISO, ma incrementarli significherà creare rumore digitale sui file realizzati. Il giusto equilibrio, dunque, è realmente un’alchimia di conoscenze sui propri gusti e sui limiti dell’attrezzatura fotografica. Nel mosso oggettivo, s’insinua il mosso relativo. Esso descrive le possibili differenze di risultato fotografico a parità di velocità del soggetto inquadrato. L’effetto dipende essenzialmente dalla posizione e dalla distanza tra soggetto/ macchina fotografica. Immaginate di essere seduti sulla carrozza di un treno in corsa. Il convoglio, sfrecciando a 150 km/h, farà apparire tutti gli alberi o le sterpaglie vicine al binario come strisce indistinte. Il

© Alessandro Andreucci/Fotozona

movimenti personali su un più ampio raggio visivo e possono tollerare tempi d’esposizione relativamente più estesi. Questa è una regola empirica, potrebbe non essere sufficiente per chi soffre di tremolii oppure risultare troppo conservativa per chi ha il dono dell’immobilità. La stabilità del fotografo, e quindi anche della fotocamera, può essere incrementata con piccoli espedienti tecnici quali l’appoggiarsi a un manufatto stabile (trasferendo parte del movimento personale all’oggetto immobile), trattenendo il respiro durante lo scatto oppure assumendo una postura dalla forte stabilità: gambe ben poggiate a terra, piedi leggermente divaricati, gomiti bassi e ancorati al busto. Il mosso del soggetto, che potremmo chiamare mosso oggettivo, è strettamente collegato alla sua velocità di movimento nello spazio. Un pedone, un ciclista o una macchina in piena corsa affrontano gli 37

© Lodovico Ludoni/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

appoggio, una parete o uno steccato, oppure allargate la vostra base di appoggio sedendovi o, ancor meglio, distendendovi proni a terra. E’ lo stesso principio utilizzato negli archi a volta delle chiese gotiche: la redistribuzione delle forze.

vostro occhio cercherà d’inseguirli per ottenere la massima nitidezza senza riuscirvi. I pali della luce, a qualche decina di metri di distanza, si muoveranno molto velocemente ma in modo tale da essere ancora riconosciuti e osservati. Le cascine e le case, distanti un centinaio di metri, sembreranno spostarsi con un movimento gradevole e continuo. L’occhio non dovrà inseguire i monti o il mare all’orizzonte, appariranno immobili e permetteranno una visione più semplice e rilassata. Ogni oggetto avrà un suo movimento relativo, anche se il vero moto (il nostro a 150 km/h) è continuo e costante. La stessa cosa avviene se, fermi, cercheremo di fotografare il movimento di un oggetto che viaggia a 150 km/h. Servirà un tempo decisamente rapido se saremo vicini (1/500 - 1/1000 potrebbero essere sufficienti), oppure più lento se potremo distanziarci. Il mosso relativo è influenzato anche dalla direzione del soggetto rispetto a noi. Il soggetto si sposterà con angolazione parallela o perpendicolare? Con un movimento perpendicolare (direzione verso la fotocamera) si avrà una velocità relativa inferiore rispetto a un movimento

Lunghezza focale pag. 22 - 26 - 27 Il mosso nel cinema Il mosso nel cinema è molto più difficile da individuare rispetto alla fotografia. Si percepisce il movimento attraverso una mancanza tipica dell’occhio: quella di non saper distinguere due immagini diverse se proiettate in sequenza con tempi inferiori a 1/10 di secondo. La fotografia non può sfruttare questa peculiarità creando, quindi, degli effetti non riproducibili con altri metodi. Un fiume ripreso con la telecamera riprodurrà la sensazione del fiume reale: un flusso di acqua in movimento che procede con movenze fluide e ripetitive. Fotografare la stessa scena con tempi lenti significherà addentrarsi nell’astrazione, si creerà un corso d’acqua che né l’occhio umano né cinema sarebbero mai in grado di percepire. Delle linee caotiche si sovrapporranno man mano che l’esposizione aumenta. La scienza ha saputo sfruttare la tecnologia fotografica per bloccare e studiare fenomeni non percepibili direttamente dall’occhio. Uno dei primi esperimenti fu effettuato da Eadweard Muybridge (riferimento a pag 143). Mosso pag. 143

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Le basi teoriche della fotografia

© Roberto Orlando/Fotozona

parallelo (direzione tangente alla fotocamera). Speriamo di non aver creato maggiori dubbi di quanto bisognerebbe porsi, il problema è che non esistono risposte concrete e precise alla domanda qual è il tempo d’otturazione migliore da utilizzare. Esso è troppo dipendente da parametri fisici quali velocità; angolazione; distanza, ma anche da fattori strettamente culturali e creativi. Non sempre un soggetto mosso è sintomo di errore e non sempre un oggetto perfettamente nitido e definito può essere considerato la miglior scelta che un fotografo aveva a disposizione. Ma queste sono considerazioni che prenderemo in esame solo nell’ultimo capitolo. A questo punto conviene

specificare che in ogni autore, al momento dello scatto, avviene una scelta che potremmo chiamare priorità. Avendo due parametri da impostare (tempo - diaframma) che agiscono in sinergia sulla luce ma anche su parametri compositivi diversi, il fotografo deve scegliere se la sua fotografia avrà una predisposizione creativa sui tempi (mosso-nitido) oppure sulla profondità di campo. E’ su questo concetto che si fondano gli automatismi intelligenti, quelli che ci aiutano nella velocità operativa e realizzativa mantenendo intatta la possibilità di scelta attraverso la nostra intelligenza e non per merito di formule algoritmiche.

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© Luca Scaramuzza/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Pierlorenzo Marletto/Fotozona

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FUOCO E PROFONDITÀ DI CAMPO Parlare degli effetti che può provocare l’utilizzo di un tempo sbagliato è argomento abbastanza intuitivo, tutti gli appassionati di fotografia, anche quelli alle prime armi, sanno riconoscere una foto mossa. Cosa più difficile è spiegare la funzione che ha il diaframma sul risultato finale di una foto, perché le differenze apportate all’immagine hanno un impatto meno diretto sull’osservazione. Gli effetti si concentrano maggiormente sullo sfondo rispetto al soggetto principale. Ciò determina una difficile individuazione del fenomeno da parte di chi è agli inizi dell’esperienza fotografica perché si tende a osservare solo un soggetto e non l’insieme dell’inquadratura. L’effetto di cui ci apprestiamo a parlare si chiama Profondità di campo. Essa definisce l’estensione della messa a fuoco prima e dopo il soggetto ed è in grado di alterare l’equilibrio tra soggetto/sfondo. Il diaframma, quindi, non è solo un apparato in grado di regolare il flusso luminoso che colpirà il sensore, ma è anche uno dei fattori, forse il più importante tra tutti quelli coinvolti, al controllo della profondità di campo (che da ora chiameremo PdC). Cerchiamo di definire lo sfocato Vi sono molte analogie con l’occhio umano: i raggi luminosi riflessi dal soggetto sono catturati tramite la cornea e il cristallino per farli convergere in un preciso punto

dove la retina trasforma i raggi luminosi in impulsi elettrici interpretati dal cervello e successivamente rielaborati in immagini. Le lenti di un’ottica hanno il compito di convergere i raggi luminosi proiettati dal soggetto e farli coincidere sulla zona sensibile della macchina. Per osservare soggetti a distanze diverse l’occhio contrae

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona

o dilata il cristallino, l’obiettivo, invece, sposta le lenti interne appropriatamente. Tale movimento si chiama messa a fuoco, una ghiera elicoidale permette il movimento delle lenti, ma oggigiorno si preferisce affidarsi ai sistemi autofocus presenti nelle macchine fotografiche. La messa a fuoco è forse il momento creativo più importante della composizione fotografica, perché determina il soggetto principale dello scatto. Sbagliare la messa a fuoco è di solito un errore grave perché evidente, sbagliare la scelta del soggetto a fuoco può influire negativamente nella forza d’impatto della fotografia o nel suo messaggio. Se il mosso ha buone probabilità di essere percepito come scelta creativa, lo sfocato è come una frase grammaticalmente sbagliata, stride e infastidisce. Lo sfocato fotografico è un effetto comunemente non voluto, l’immagine riprodotta presenta una mancanza generica di nitidezza, i contorni sono confusi, c’è 41


Tre gradi di profondità fotografica

una mancanza generale di precisione e definizione. Tutti questi effetti sono provocati da un’erronea convergenza dei raggi luminosi sul piano sensore. Per fare un esempio possiamo dire che un punto è riprodotto come un punto solo se la sua immagine cade perfettamente sul piano focale. Se dovesse convergere prima o dopo, sarà riprodotto come una sfera dai bordi sfumati, tanto più grande quanto più ampia sarà la sua distanza dal piano focale.

© Salvatore Giordano/Fotozona

Il soggetto è l’elemento principale della foto su di lui si focalizzano i significati e i significanti dello scatto. In fotografia alcuni oggetti hanno maggiori probabilità di essere considerati soggetti, primo fra tutti la figura umana. Profondità di campo I parametri pag. 41 - 81 La distanza iperfocale pag. 89 Rapporto soggetto/sfondo pag. 50 La messa a fuoco è un’azione che nel nostro occhio avviene continuamente. Il cristallino si contrae e si dilata per ottimizzare la nitidezza della scena osservata. Ponendo un dito vicino a noi e alternando la vista su di esso e poi sullo sfondo verificheremo il cambiamento del fuoco anche attraverso lo sforzo applicato al muscolo ottico.

Tale errore può essere il risultato di procedure sbagliate in ripresa, oppure per situazioni caratterizzanti del soggetto o dalla distanza tra i soggetti (se più di uno). Nel primo caso ricadono gli errori di puntamento con conseguente inesattezza dell’autofocus (controllare l’impostazione dei metodi di messa a fuoco), problemi di vista se si utilizza la messa a fuoco manuale o causati da movimenti all’ultimo istante del soggetto. Il secondo caso è normalmente determinato dalla dimensione del soggetto che, se troppo grande, sarà difficile da riprodurre nitido mettendo a fuoco un solo punto, oppure la fotografia è composta

Metodi di messa a fuoco pag. 58 65 - il numero di punti all’interno del mirino è in continua espansione. Fino a qualche anno fa se ne contavano una decina al massimo. Incrementare i punti permette di coprire maggiormente l’area di controllo dell’autofocus. Se da un lato permette di posizionare soggetti anche ai lati, tutto 42


© Mauro Trolli/Fotozona

da due o più soggetti di pari importanza posti a distanze disuguali con conseguenti fuochi dissimili. Per ogni grattacapo esistono svariate soluzioni ed è proprio la conoscenza della tecnica fotografica a permetterci di trovare la giusta soluzione ancor prima del generarsi del problema. Tecnologie per evitare lo sfocato L’autofocus è un sistema che evita al fotografo di dover girare la ghiera elicoidale dell’obiettivo velocizzandone l’operatività, agisce rapidamente ed è attivato schiacciando leggermente il pulsante di scatto. Il controllo multipunto è una funzione che permette di attivare tutti i sensori di messa a fuoco presenti all’interno della macchina fotografica. L’esempio che riportiamo è la disposizione della messa a fuoco di una moderna reflex digitale. Si può notare la dislocazione dei sensori di fuoco e la presenza di ben 65 punti di controllo. Utilizzando la modalità

multipunto, la macchina fotografica sceglie automaticamente quello che lei considera migliore per eseguire la messa a fuoco. E’ un’impostazione complessa che può generare alcuni errori, soprattutto in

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona

presenza di molteplici soggetti. La scelta della messa a fuoco potrebbe ricadere sul soggetto sbagliato perché a decidere sarà la macchina e non il fotografo. Meglio disabilitare la funzione multipunto (almeno nelle fasi iniziali dell’esperienza fotografica) e selezionare quella a punto singolo, più indicata a decidere autonomamente cosa debba essere nitido. Il modo in cui mette a fuoco la macchina è un altro parametro 43


Tre gradi di profondità fotografica

© Roberto Orlando/Fotozona

fondamentale, i due più importanti da conoscere sono le modalità di messa a fuoco singola o continua. Nel primo caso la messa a fuoco si attiva e si blocca schiacciando e tenendo leggermente premuto il pulsante di scatto. Nel secondo caso, la macchina continua a seguire il soggetto cambiando continuamente la messa a fuoco per adattarsi ai suoi movimenti. Le impostazioni della fotocamera devono essere delle scelte ben ponderate in base alle esigenze e alle situazioni differenti che si possono presentare. Conoscere le funzioni e le possibilità della propria macchina diventa un elemento fondamentale. La profondità di campo Quando mettiamo a fuoco, riproduciamo nitidamente solo il punto selezionato. Appena prima e subito dopo tale spazio, tutti gli altri oggetti saranno sfocati in modo proporzionale alla distanza cui si trovano rispetto al soggetto principale. Mantenere questa situazione significa lavorare con bassa PdC. Viceversa, recuperare parzialmente il fuoco nelle zone adiacenti al soggetto, significa lavorare con ampia PdC. Questo fenomeno avviene perché il nostro occhio non percepisce degli sfocati leggeri, pertanto se le zone poco nitide saranno al di sotto della tolleranza del nostro occhio, le percepiremo ancora

questo proliferare di punti può generare confusione sia nella macchina sia nell’operatore non avvezzo. Per tale motivo è stato introdotto un ulteriore tecnologia chiamata face detection in grado di riconoscere il volto umano e di dargli precedenza di messa a fuoco. Nonostante ciò l’errore è sempre in agguato, soprattutto in presenza di molti volti e un solo soggetto desiderato. Punto singolo - Messa fuoco singola - Messa a fuoco continua pag. 58 La tolleranza del nostro occhio è la sua incapacità di poter distinguere un punto nitido da un altro leggermente sfocato. La tolleranza si misura in millesimi di millimetro (micron) ed è proprio grazie a questo deficit visivo che ci è consentito, in fotografia, di creare visioni particolarmente attraenti. I cerchi di confusione “tollerati”, quindi visti ancora come dei punti nitidi, non devono superare i 0,25 mm (250 micron) su di una stampa formato A4 visti a 30 - 35 cm di distanza. Aperti - Chiusi - vedi Profondità di campo e diaframmi Rapporto soggetto sfondo pag. 123 44


Le basi teoriche della fotografia

definite e perfettamente leggibili. Sfruttare questo effetto fisico/ottico permette di ampliare l’estensione del fuoco creando un risultato di “nitidezza dilatata” cui il nostro occhio non è abituato. I parametri che determinano l’aumento o il contrarsi delle aree a fuoco sono quattro: diaframma; lunghezza focale dell’obiettivo; distanza soggetto/ piano pellicola e l’ingrandimento del file per la stampa finale. Analizzeremo tutti questi fattori nel secondo capitolo, quello dedicato alla tecnica, ma è già importante definire che l’elemento più importante nella determinazione della PdC è dato quasi esclusivamente dalla scelta del diaframma. Quelli aperti produrranno una bassa PDC e saranno utili per isolare il soggetto dal resto della scena; sfumeranno tutti gli elementi anomali o di disturbo sia dietro sia davanti al soggetto; permetteranno di creare sfondi sfocati ma dal grande impatto cromatico. I diaframmi chiusi genereranno un’ampia PdC e si dimostreranno fondamentali quando avremo nello stesso scatto l’esigenza di rendere nitidi più soggetti posti a distanze diverse. La scelta dei diaframmi, quindi, ha funzionalità ben superiori rispetto al semplice controllo del flusso luminoso. La sua regolazione ha il potere di cambiare il rapporto figura/sfondo, modifica la relazione

© Saverio Barbuto/Fotozona

tra vari oggetti/soggetti cambiandone il significato generale. Un ritratto con bassa PdC sarà la foto che descriverà tutto il soggetto attraverso l’analisi e la descrizione di un volto o di un solo particolare. Uno con alta PdC potrà mescolare i significati dei soggetti presenti e sarà proprio la nitidezza estesa a renderli più soggetti che sfondo.

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© Luca Scaramuzza/Fotozona


Š Alessandro Landozzi/Fotozona

Tre gradi di profonditĂ fotografica

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LA COMPOSIZIONE FOTOGRAFICA PARTE I Se abbiamo imparato le nozioni base di esposizione, messa a fuoco e scelta degli obiettivi. Se abbiamo messo in pratica tutte le nozioni teoriche. Se abbiamo cominciato a considerare la macchina fotografica come un mezzo per esprimerci e non come un oggetto misterioso, allora possiamo dire di essere maturi per una delle parti più importanti della fotografia: la composizione. L’inquadratura di un’immagine è una complessa armonizzazione degli elementi riprodotti sulla fotografia. Vi possono essere essenzialmente due modi per procedere alla sua attuazione: il primo è quello che si avvicina alla pittura. Il mirino o il sensore sono le superfici che devono essere “riempite”. Il fotografo si preoccuperà di occupare gli spazi con tutti gli oggetti/soggetti e sfondi adatti a comporre armonicamente le zone. Questo metodo di lavoro è una prerogativa dei professionisti di studio. Con questo metodo essi hanno la possibilità di dominare e posizionare non solo le luci, ma anche gli elementi che comporranno l’immagine finale. Il secondo metodo, quello utilizzato dalla maggior parte degli “amatori” e dai fotografi “on the road”, si avvicina molto di più alla scultura. La realtà da documentare è normalmente sempre più caotica rispetto a quello che si desidererebbe. Il compito del fotografo è di eliminare tutto il superfluo e l’inutile, rendendo l’immagine fluida e leggibile, immediata e coinvolgente. Premettendo che le regole della composizione non sono assolutamente dei dogmi ferrei, è pur vero che alcune nozioni fondamentali è bene conoscerle. Intanto perché per chi inizia a scattare è importante avere degli esempi da seguire, e poi perché è sempre utile conoscere alla perfezione le regole “nobili” che seguono tutti, per superarle in seguito, cercando un cammino personale. Vediamo una alla volta alcune delle regole più importanti da memorizzare e mettere in pratica.

© Roberto Orlando/Fotozona

Orizzontale e verticale La scelta dell’orientamento di una fotografia non è cosa immediata. La logica vorrebbe che si preferisca l’orientamento della fotocamera in base alla direzione dell’elemento principale. Se fotografiamo un soggetto orizzontale, è naturale riprenderlo con la macchina fotografica sistemata nello stesso verso, evitando così di dover indietreggiare eccessivamente per inquadrare l’intero soggetto, o di ottenere un taglio esagerato dell’immagine. Una persona fotografata a figura intera, normalmente, avrà bisogno di un orientamento verticale per ritrarla senza spazi inutili. Fin qui tutto semplice, ma le foto che si creano non sempre sono composte da un unico soggetto. A volte i contenuti possono essere multipli e si completano solo interagendo fra loro. In questi casi la scelta del formato migliore è quello che riesce a “incorni47


Tre gradi di profondità fotografica

ciare” tutte le parti necessarie. In altre occasioni, forse un po’ più complesse, la scelta della direzione è determinata dalle parti della scena originale che s’intendono eliminare. Oltre a queste regole di buon senso, l’orizzontale e il verticale hanno delle caratteristiche specifiche che possono aiutare il fotografo ad incrementare la forza dello scatto. Il formato verticale è una peculiarità della fotografia; cinematografia e televisione non usano facilmente questo formato. Lo spazio verticale è intrinsecamente originale perché obbliga l’osservatore a guardare secondo una prospettiva insolita rispetto alla visione oculare cui siamo abituati. Il verticale non è adatto alle presentazioni su monitor, videoproiettori e televisori che ne ridurrebbero le dimensioni finali perché tutti predisposti a una visione con base allargata. L’orizzontale è l’esatto opposto: fornisce una visione che potremmo definire “tradizionale”, a cui l’occhio e il pensiero sono abituati. Non ha un impatto travolgente ma possiede il grande pregio di essere utilizzabile da qualsiasi apparato e permette al fotografo una postura più naturale durante lo scatto. Entrambi questi formati possono essere usati con proporzioni diverse. Le proporzioni sono date dal rapporto tra il lato lungo e quello corto. Avremo così formati denominati 2/3 (il lato lungo sarà 1,5 volte il lato corto). Po-

La foto Cesco Ciapanna Editore di Erns A. Weber Uno dei primi libri tradotti in Italia in cui si cominciò a parlare di fotografia in termini compositivi. Il volume, ormai fuori catalogo, è quasi introvabile. Se dovesse capitarvi di vederne una copia in un mercatino dell’usato non esitate ad acquistarlo.

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© Alessandro Andreucci/Fotozona


Le basi teoriche della fotografia

La regola dei terzi E’ un principio che tende ad essere sopravvalutato, troppo generico per adattarsi a tutte le scene inquadrabili. E’ indubbio però che abbia delle qualità tecnicamente dimostrabili, per chi inizia a fotografare comporre seguendo questi consigli è un buon inizio. Cerchiamo di descriverla: suddividendo una fotografia con due rette verticali e due orizzontali tutte equidistanti, otterremo 9 sezioni perfettamente uguali. Le linee in questione si chiamano linee di forza e descrivono approssimativamente il percorso di un occhio che osserva velocemente delle immagini. I punti d’intersezione delle rette sono denominati punti forti, punti focali oppure punti aurei e indicano le zone in cui l’occhio ha maggiore probabilità di soffermarsi durante la visione. La sezione centrale è denominata zona aurea, ed è l’area maggiormente interessata

© Saverio Barbuto/Fotozona

tremmo utilizzare un taglio panoramico 16/9 (già adottato dai moderni televisori) per offrire visioni ampie e spettacolari. Saremo liberi di realizzare fotografie con proporzioni ancora più azzardate, magari un 16/7 o ancora oltre. Esistono anche dei formati più quadrati denominati 4/3 adottati da molte fotocamere mirrorless o compatte. Anche se caduto un po’ in disuso esiste la possibilità di sfruttare il formato quadrato. Le sue caratteristiche sono legate all’eleganza e al senso di equilibrio tipico delle sue forme. Conferisce all’immagine una sensazione di stabilità, ma allo stesso tempo d’immobilità o staticità. E’ un formato difficile da impiegare perché molto diverso da ciò che vediamo sia nel mirino sia nella realtà.

© Alessandro Landozzi/Fotozona

dall’osservazione perché circondata dalle linee di forza e dai punti focali. Visto che la fruizione dell’immagine avviene come la lettura di un testo, il punto forte d’ingresso sarà il primo in alto a sinistra, quello di uscita l’ultimo in basso a destra. Questo, almeno per la cultura occidentale, che legge i propri testi in questo senso, per altre culture, come quella araba, le direzioni s’invertono. Pur essendo tutti importanti, i “punti focali” più rilevanti sono il primo (punto d’ingresso) e l’ultimo (punto d’uscita) perché facilmente memorizzabili. © Alessandro Landozzi/Fotozona

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Tre gradi di profondità fotografica

Le linee forti suggeriscono le zone in cui disporre i limiti dell’orizzonte o le eventuali linee rette verticali, evitando così di distribuire tutto al centro, rischiando di rendere meno interessante la composizione. A questa regola s’ispirarono sia i pittori, sia i protofotografi dell’800 che provenivano dalle accademie d’arte. Il suo successo è ancor’oggi talmente popolare che le macchine fotografiche fornite di Live-View, hanno la possibilità d’impostare la griglia sul visore o direttamente nel mirino a traguardazione. Imparare e comprendere la logica della regola dei terzi è importante, divenirne schiavi è un grave errore. Utilizzare sempre e solo questi dettami porta irrimediabilmente alla creazione d’immagini sempre uguali e ripetitive. Obbliga i fotografi a disporre gli oggetti sempre sulle stesse linee, standardizzando tutti gli scatti realizzati. Il rapporto figura/sfondo Per figura intendiamo il soggetto che nella nostra fotografia è fonte o protagonista del messaggio. Lo sfondo può essere uno spazio uniforme o definito che esalta e non intralcia la figura in primo piano. Un buon rapporto figura/sfondo permette di riconoscere immediatamente il messaggio della foto, individuando gli elementi necessari alla comprensione dell’immagine e quelli che fanno solo da contorno. Per ottenere ciò non è sempre necessario che il soggetto sia grande e dominante, è sufficiente che si stacchi netta-

L’occhio del fotografo Logos Editore di Michael Freeman Un libro in cui le parole sono più interessanti delle foto che illustrano i concetti. L’autore sembra aver spalmato tutta la sua sapienza nei vari libri che ha pubblicato. Interessante ma non essenziale. Dello stesso autore su argomenti simili segnaliamo: “La visione del fotografo” - “Composizione” - tutti editi dalla LOGOS. La composizione fotografica parte II pag. 107 parte III pag. 123

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© Fioravante Stefanizzi/Fotozona


Le basi teoriche della fotografia

© Andrea Spera/Fotozona

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona

mente, senza intralci o digressioni dal fondo. Una texture ripetitiva o un colore uniforme possono diventare un retroscena interessante in grado di valorizzare il soggetto, grazie al contrasto e alla diversità dei molteplici elementi della composizione. Quando si ha un cattivo rapporto tra figura e sfondo, il soggetto può risultare poco interessante o visibile, in particolare, uno sfondo invasivo, pieno di elementi di disturbo, è capace di minimizzare il soggetto. Anche i toni possono aiutare a determinare il rapporto figura/sfondo. Il vecchio e abusato modello del vaso di Rubin è un esempio tipico di ciò che il nostro cervello è in grado di percepire. L’immagine è formata da due distinti oggetti: uno è il calice bianco, l’altro sono i profili neri. Essi coesistono contemporaneamente ma il nostro cervello ne individuerà solo uno alla volta, l’altro si trasformerà in sfondo. Questo esempio, studiato nel 1915, rappresenta la teoria per cui il bian-

co tende sempre a essere considerato sfondo perché analogo alla luce e quindi non materico, mentre il nero, paragonato all’ombra o al controluce, si considera frutto di un oggetto tangibile. L’esempio può essere applicato anche ai colori. Un soggetto, anche piccolo, ma che presenta colori contrastanti con lo sfondo beneficerà della diversità risultando in evidenza rispetto allo sfondo. La stessa cosa avviene per le forme a cui il cervello assegna determinati contenuti in base a precise esperienze vissute: questi temi saranno oggetto di una trattazione nei capitoli successivi. La composizione fotografica è un mondo vasto da approfondire e studiare continuamente. Un luogo dove le regole hanno lo stesso valore del loro opposto. La “giusta” composizione è anche il frutto di un percorso che ciascun fotografo, artista o semplice compositore d’immagini, deve intraprendere per trovare il suo esclusivo e personale equilibrio. 51



Tre gradi di profonditĂ fotografica

Capitolo II

La scienza fotografica

Š Angelo Abate/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Luciano Pratesi/Fotozona

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LE MODERNE MACCHINE FOTOGRAFICHE DIGITALI Nel primo capitolo abbiamo descritto la macchina fotografica come un semplice apparecchio a tenuta di chiarore collegato a un obiettivo in grado di catturare la luce. Se avete davanti a voi il manuale utente di una qualsiasi macchina fotografica vi accorgerete che quanto abbiamo scritto era solo una provocazione e che l’offerta tecnologica odierna è decisamente esagerata.

poteva passare al lato pratico. Ora, nella facilità generale del pigiare il pulsante di scatto, si è complicato tutto. Non c’è più una pellicola da inserire ma migliaia di menù e sottomenù, personalizzazioni e rotelle che potrebbero migliorare i nostri scatti ma complessi da trovare e da capire. Non è facile seguire le istruzioni di un manuale con centinaia di pagine. Spesso la buona volontà è uccisa da spiegazioni complesse ideate da tecnici che non hanno il dono dell’insegnamento, generando sconforto, si smette di studiare i meccanismi principali della fotocamera per utilizzarla, infine, in modo totalmente automatico. Ci si arrende affidandosi a un oggetto fatto di metallo, plastica e silicio. Proviamo a capire come sia possibile personalizzare il gioiello meccanico in vostro possesso. Rimarremo molto sul generico perché le variabili sono infinite e anche le terminologie potrebbero differenziarsi tra le varie marche presenti sul mercato. Seguite le nostre descrizioni tenendo a portata di mano il manuale della fotocamera e procediamo a comprendere, se non tutto, almeno le funzioni più importanti, quelle che effettivamente potrebbero cambiare e migliorare la maggior parte degli scatti.

© Luca Scaramuzza/Fotozona

Solo una ventina di anni fa le istruzioni della macchina si limitavano a poche decine di pagine. Una volta spiegato come collegare la batteria e inserire il rullino seguiva una veloce spiegazione del funzionamento del diaframma, dell’otturatore e dell’esposimetro. Rimaneva una parte, di solito superficiale e ingenua, che tendeva a dare brevi suggerimenti sulla ripresa. Non c’erano molti optional che differenziassero le offerte delle varie case produttrici. Tutte le macchine fotografiche erano simili, i controlli posizionati nella stessa parte della macchina e si poteva passare da una marca all’altra con facilità estrema. La didattica fotografica ne era facilitata, spiegata una procedura, per quanto generica, funzionava per tutte le macchine e con poche lezioni si 55

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

© Andrea Spera/Fotozona

Pulsanti e menù Le fotocamere digitali ci hanno abituati alla presenza di un gran numero di pulsanti e ghiere, nonostante tutti questi selettori essi non sono sufficienti a settare l’enorme varietà di parametri. I costruttori, tutti indiscriminatamente, inseriscono nei pulsanti esterni i controlli di maggior importanza e utilizzo. Nel menù generale, controllabile da un solo pulsante, collocano le impostazioni di uso generico e i settaggi personalizzati della macchina. Le rotelle servono normalmente per il controllo dei tempi e dei diaframmi, se siete in presenza di una sola ghiera per passare da un valore all’altro sarà necessario schiacciare anche un pulsante specifico indicato sul manuale. Le macchine fotografiche a ghiera singola sono normalmente quelle più economiche. Il controllo a doppia ghiera è più pratico e funzionale, una rotella è posta sull’indice della mano destra l’altra sul pollice, permettono di modificare i due parametri fondamentali dell’esposizione in modo veloce. Spesso la rotella sul pollice diventa anche il controllo dei valori di compensazione dell’esposizione. Dalle reflex di seconda fascia a quelle più professionali è presente un secondo monitor in cui è possibile accedere all’osservazione dei parametri di maggiore utilizzo quali

Il manuale utente della macchina fotografica 5D MK IV, disponibile gratuitamente anche in rete, è composta da 610 pagine. Un “mattone” improponibile anche per un professionista avido di conoscenza sull’uso della sua apparecchiatura. Compensazione dell’esposizione - quando si opera in automatismo dell’esposizione e la macchina sbaglia il calcolo della luce, per i motivi riportati a pag. 63, l’unica possibilità di correggere l’errore è quella d’impostare una compensazione, cioè si inganna la macchina consapevolmente per correggere l’errore di base. ISO pag. 33 - 69 modalità di esposizione pag. 73 Bilanciamento del bianco pag. 101 Automatismi a priorità pag. 32 ISO bassi per definizione - dovete immaginare l’incremento degli ISO come la manopola di un altoparlante o di una radio. Girare la manopola significa amplificare il suono e con esso anche tutti i valori di rumore presenti nel segnale. Una radio o un amplificatore arriveranno a distorcere il suono. In fotografia l’incremento esasperato dei valori ISO comporterà 56


La scienza fotografica

l’impostazione ISO, il bilanciamento del bianco, la metodologia di lettura esposimetrica e la tipologia di scatto. (tutte le immagini e gli esempi visivi che riporteremo sono tratti dalla reflex Canon 5D MK IV - anno di produzione 2017, per trovare la disposizione precisa sulla vostra macchina dovete munirvi del manuale utente e seguire le nostre indicazioni con quelle riportate sulla vostra guida). A destra del pentaprisma, di solito vicino al secondo monitor, troviamo alcuni controlli legati alle funzionalità più importanti da modificare. Per ogni pulsante ci sono due valori regolabili, uno dalla rotella anteriore e uno attraverso quella posteriore. Pulsante modalità esposizione/bilanciamento del bianco (WB). La modalità di esposizione regola il metodo di misurazione con cui l’esposimetro calcola la giusta esposizione. Il bilanciamento del bianco regola la taratura dei colori che riproduce la macchina in funzione della qualità della luce presente sulla scena.

Sulla parte sinistra della calotta è solitamente posta la rotella per la scelta dei vari modi d’esposizione. Se trovate un’impostazione colorata di verde evitatela! E’ il program di base calcolato dai produttori per risolvere ogni problema trasformando la vostra macchina in un robot automatico con nessuna possibilità di controllo. Come abbiamo già ampiamente spiegato nella prima parte di questo libro, le impostazioni realmente utilizzabili sono quelle legate all’esposizione manuale o agli automatismi a priorità (tempi e diaframmi). Nelle macchine meno professionali sono presenti una moltitudine di disegni rappresentanti i vari program ottimizzati, sconsigliabili anche questi se si vuole imparare a scattare foto.

Pulsante modalità di scatto/autofocus Con la modalità di scatto possiamo decidere se impostare la macchina su fotogramma singolo, a ogni pressione del pulsante la macchina effettua un solo e unico scatto, oppure continuo, la macchina procede in una serie di riprese ininterrotte finché la memoria (buffer) della macchina si esaurisce. La modalità a scatto continuo potrebbe avere ulteriori precisazioni con delle lettere tipo L (low - lo scatto continuo procede a una velocità ridotta e più silenziosa) oppure H (high - la raffica avanza alla massima velocità consentita ma il 57


Tre gradi di profondità fotografica

l’incremento di elementi di disturbo chiamati “rumore”. Un effetto che in qualche modo riporta alla memoria la grana della pellicola ma senza lo stesso grado di bellezza.

suono dello scatto potrebbe essere evidente). Sempre tramite questo pulsante è possibile accedere alle selezioni d’autoscatto con ritardi variabili. Con quello impostato a 10/12 secondi è possibile realizzare il vecchio selfie, consentendoci di avere il tempo per correre in posa dopo aver premuto il pulsante. Quello con ritardo di soli 2 secondi è utilizzato per evitare di trasmettere il movimento e le vibrazioni della pressione sul pulsante di scatto alle esposizioni con lunghi tempi di posa. Con il pulsante dell’autofocus possiamo scegliere fra tre opzioni. • One Shot Canon o AF S-Singolo in Nikon. La messa a fuoco viene attivata schiacciando leggermente il pulsante di scatto e mantenuta inalterata finché il pulsante rimane premuto (E’ il metodo consigliato su soggetti statici o con leggeri e brevi movimenti). • AI-Servo Canon oppure AF C-Continuo in Nikon. La macchina fotografica effettua la messa a fuoco con la pressione del pulsante per continuare a seguire il soggetto modificando continuamente la focheggiatura in base ai movimenti del soggetto inquadrato (utilizzato nelle foto sportive o dinamiche). • AI-Focus Canon o AF A-Automatico della Nikon. Sono impostazioni che dovrebbero capire automaticamente quando impostare lo scatto singolo o continuo analizzando il soggetto. Sarebbe l’impostazione perfetta se funzionasse bene sempre, cosa non frequente. Con il pulsante degli ISO e della Compensazione d’esposizione possiamo regolare la sensibilità della macchina alla luce. Maggiore sarà il valore impostato e maggiore sarà la ricettività. L’illusione delle altissime sensibilità che promettono di scattare anche nel buio più

Blocco dell’esposizione e della messa a fuoco - sono controlli che possono essere affidati ad un unico pulsante. Nelle fotocamere di fascia medio alta si presentano, invece, due pulsanti ben distinti. La loro funzione è quella di bloccare i parametri legati alla lettura esposimetrica o al fuoco senza gravare il tutto sul pulsante di scatto. E’ un metodo operativo che deve essere scelto dal fotografo, può migliorare la velocità operativa generale ma c’è bisogno di molta applicazione e pratica prima di ottenere dei risultati. Jpeg e Raw - sono i file utilizzati per la registrazione delle fotografie. Il primo è l’acronimo di Joint Photographic Experts Group, è uno standard che utilizza un algoritmo di compressione con perdita dei dettagli. Il RAW, dall’inglese crudo/grezzo è una tecnica di registrazione che le singole case costruttrici formattano secondo dei dati proprietari. La caratteristica è di non avere perdite d’informazioni e di non essere modificabile da altri programmi. Le elaborazioni dei RAW aggiungono delle specifiche informatiche al file originale ma che, per essere realmente applicate, necessitano di una conversione e salvataggio in un altro formato quale jpeg o tif. 8 - 14 Bit - dall’inglese Binary Digit, indica la quantità minima di informazione che serve a discernere tra due possibili eventi. Ciò specifica la capacità di registrare due toni di luminosità o il nero o il bianco. Un file a 8 bit può registrare 256 livelli di luminosità diversi (2 elevato a 8). Visto che le fotografie sono create dall’utilizzo da 3 canali colore diversi con 256 livelli di luminosità ciascuno il risultato sarà che le nostre foto saranno riprodotte con (256x256x256) circa 16 milioni e 800 mila punti cromatici diversi. Questo valore indica anche la profondità colore di un file immagine. In un file a 14 bit la profondità 58


La scienza fotografica

assoluto sono solo speranze mal riposte. Gli alti valori ISO portano a una perdita di nitidezza e di cromie attraverso un aumento del rumore digitale, fastidioso e difficile da eliminare in postproduzione. I valori ISO automatici sono da evitare, l’apparente comodità non ci permette di controllare la seguente regola basilare: mantenetevi sempre con con i valori di sensibilità più bassi disponibili. La compensazione dell’esposizione è utile quando si sfrutta una qualsiasi forma di automatismo dell’esposizione. Permette d’ingannare l’esposimetro obbligando la macchina a sovraesporre, quando l’esposizione automatica fornisce foto scure, oppure a sottoesporre quando l’esposizione automatica tende a procurare foto chiare e slavate.

a fuoco si indica alla macchina se focheggiare su di un unico punto oppure su di un’area più estesa e su più zone. Quest’ultima possibilità è utilizzata solitamente con l’AF continuo in ambiti sportivi, quando non si può sapere in che direzione potrebbe muoversi il soggetto. Il blocco dell’esposizione serve a misurare l’esposizione di un’area diversa da quella della messa a fuoco per poi bloccarla impedendo alla macchina di modificare i parametri di tempo/ diaframma durante il successivo scatto. Il blocco della messa a fuoco può anche sostituire la mezza pressione del pulsante di scatto. Per alcuni fotografi è inutile mentre per altri è una funzione indispensabile per separare nettamente la scelta del soggetto a fuoco dall’azione dello scatto. Dovremmo ora entrare nel cuore della macchina cioè nel menù principale ma non ci è concesso realizzare una spiegazione approfondita e curata. Sono troppe le differenze tra ogni marca e ogni modello, procederemo per esempi di massima rimandando, più volte la vostra attenzione, al manuale della macchina che avete in possesso.

Un ultimo pulsante, con l’icona di una lampadina, è l’interruttore della luce per illuminare il display. Consuma batteria ma quando non si vede nulla diventa il pulsante più importante di tutti. Posizionati in posti comodi al pollice si trovano funzioni quali la selezione dei punti di messa a fuoco, il blocco dell’esposizione e quello della messa a fuoco. Selezionando i punti di messa

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© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

colore sale a 16.384 livelli di luminosità per canale con una capacità finale pari a 4.398 MILIARDI di punti cromatici diversi. Un file RAW ha una capacità di registrazione pari a 262.000 volte il Jpeg. Se non bastano questi numeri per abbandonare il Jpeg e abbracciare i RAW allora non c’è più alcuna speranza.

Un pulsante con la dicitura “menù” farà apparire le varie voci sul display. Il simbolo della chiave inglese indica i settaggi fondamentali della macchina. In quest’area è possibile scegliere il linguaggio utente, l’orario la data e il fuso orario. Si possono impostare i tempi di visualizzazione delle foto

Compressione - scegliendo il file jpeg è possibile determinare sia la sua risoluzione sia la compressione. La prima indica il numero di pixel totali della foto, il secondo è l’indicazione con cui si indica alla macchina quanto comprimere il file con conseguente perdita d’informazioni e di dettagli. Visto il basso costo delle attuali schede di memoria è vivamente sconsigliato utilizzare alte compressioni e basse risoluzioni. Tenete tutto alla massima qualità che, in qualsiasi caso sarà sempre molto inferiore al Raw. Accoppiato - è possibile scegliere la doppia registrazione con file RAW + Jpeg. L’apparente 60


La scienza fotografica

appena scattate, la brillantezza del display o l’esaltazione dei colori. E’ il primo menù a cui dobbiamo accedere al momento dell’acquisto ma in seguito lo utilizzeremo solo per cambiare l’ora e per formattare (cancellare) le schede fotografiche. Il menù con l’icona della macchina fotografica ha tutte le specifiche tecniche che personalizzano l’operatività della fotocamera.

un fotografo consapevole delle proprie potenzialità.

Una delle preferenze più importanti da stabilire è quella del formato di registrazione delle fotografie. Le possibilità a nostra disposizione sono due: possiamo impostare la macchina fotografica sul formato Jpeg (è già la scelta dei produttori di default) oppure optare per il RAW. Il primo è un file compresso a 8 bit, può registrare milioni di colori e genera file piccoli, compressi e parzialmente elaborati dalla macchina fotografica attraverso i parametri impostati dai picture style (stili fotografici) anche questi personalizzabili dall’utente o preconfezionati dal produttore. Il pregio di questo formato è dato dal fatto che i file sono quasi pronti anche senza elaborazioni dopo lo scatto. I file sono generalmente contenuti come dimensione permettendo di salvare molte fotografie sulla stessa scheda di memoria.

La scritta AF permette l’ottimizzazione della regolazione autofocus, è un menù professionale e lo si ritrova nelle macchine di fascia alta per consentire al fotografo d’impostare o creare la messa a fuoco automatica più performante rispetto allo sport/soggetto che si sta riprendendo. Oltre alle impostazioni fornite dalla macchina, con le icone che ricordano lo sport a cui sono dedicate, è possibile selezionare alcuni valori basati su accelerazione - decelerazione del soggetto, tipologia dei punti di controllo e sensibilità al movimento, rendendo la macchina unica per ogni fotografo. Le ultime due icone del menù rappresentano i set di personalizzazione. Si possono memorizzare una serie di variabili su di un unico set personalizzato. E’ possibile registrare set, ognuno con le sue specifiche per determinate situazioni per poi richiamarli e impostarli velocemente in un unico richiamo. I settaggi obbligatori Anche se tutto è opinabile, ci sono indubbiamente dei settaggi che permettono d’ottenere il miglior risultato in assoluto, non sono molti e vogliamo indicarli per consentire che da queste pagine possa nascere e crescere

I lati negativi sono molti: il file a 8 bit non è sufficiente alla registrazione di scene dall’alto contrasto; anche se la macchina applica delle 61


Tre gradi di profondità fotografica

regolazioni, la foto ha bisogno ugualmente di una messa a punto attraverso dei programmi di elaborazione e ritocco. I dati sono compressi per generare file “leggeri”, limitandone la nitidezza, la profondità dei toni e la qualità generale delle fotografie. Il RAW, dall’inglese Grezzo, Puro, Schietto, è il file originale e non elaborato che la macchina registra al momento dello scatto. E’ un file a 14 bit (12 nei modelli più vecchi) e ha la capacità di registrare miliardi di toni. Questa incredibile capacità d’immagazzinamento dati genera dei file molto pesanti ma con enormi informazioni che permettono il recupero di scatti sovra o sottoesposti, immagini sbagliate nel bilanciamento del bianco o con evidenti dominanti di colore. I toni presenti all’interno dei file sono persino superiori alle capacità visive dei normali monitor, questo significa che, attraverso specifici software, è possibile recuperare tonalità che appaiono senza trame ricreando dettagli sia nelle ombre sia nelle luci. Ovviamente scegliere il file RAW comporta il dover mettere in conto alcuni inconvenienti: • I file generati sono molto grandi, persino 10 volte di più rispetto ai loro corrispettivi file Jpeg. • Le immagini create sono, come da nome inglese, grezze e poco appariscenti. Impossibile utilizzarli senza elaborazione fotografica. • Per “sviluppare” i file RAW è necessario possedere dei programmi specifici quali Photoshop o Lightroom capaci di leggere ed

© Alessandro Andreucci/Fotozona

aumento dello spazio registrato sulla scheda di memoria permette di avere in contemporanea file già parzialmente elaborati e pronti per la spedizione via web o rete telefonica (jpeg) o file di altissima qualità in grado di restituire foto spettacolari dopo una attenta postproduzione con software dedicati. Regola dei terzi pag. 49 Valori puri pag. 29 - 31 Firmware - è un programma creato dal costruttore, installato direttamente dentro la memoria della macchina fotografica con specifiche sequenze d’istruzioni. Rappresenta il punto d’incontro tra software e hardware. 62


La scienza fotografica

elaborare file a 14 Bit. In caso contrario, dei programmi più limitati ma più semplici, sono forniti dalle case produttrici nel software in dotazione della macchina. • Obbligando a elaborare le foto, il flusso di lavoro generale di un file RAW è più lungo rispetto a quello del Jpeg. Se tutto ciò vi spaventa sappiate che forse l’unico vero trucco per ottenere delle foto tecnicamente perfette è proprio passare dal formato compresso al RAW. Per continuare, oltre alla scelta del file di registrazione, consigliamo d’inserire la visualizzazione a griglia sia nel live view sia, quando possibile, direttamente nel mirino della fotocamera. Questo metodo permette d’inquadrare con l’ausilio di una grata elettronica capace d’indicarci se siamo storti, se il soggetto ripreso ha delle cadute prospettiche oppure, il caso più eclatante ma consueto, se il mare all’orizzonte pende. E’ un ottimo aiuto per gli appassionati della regola dei terzi, mentre sarà un po’ condizionante per chi questa tecnica la vorrebbe superare ricercando forme più moderne e dinamiche di composizione. Ultimi consigli Sempre nel menù è possibile impostare la macchina su passaggi di 1/2 o 1/3 tra i valori di diaframma e quelli riguardanti i tempi d’otturazione. Con la prima impostazione obbligheremo la macchina a fornirci un solo numero intermedio tra i valori puri di tempo/ diaframma. Nel secondo, i numeri disponibili sono 2. Quest’ultima è forse la scelta migliore perché fornisce regolazioni più accurate nel registrare l’esposizione migliore.

Per chi si ostina a fotografare con il Jpeg evitando coscientemente tutti i consigli elargiti, consigliamo di dare un occhio allo spazio colore di registrazione. Solitamente impostato su Srgb fornirà ottimizzazioni dei colori sulle alte luci (utile per immagini da visionare su monitor, videoproiezioni o pubblicazione su siti internet). L’impostazione su Adobe RGB ci permetterà un maggior controllo dei colori nelle ombre (ottimo per le foto che avranno come utilizzo finale una stampa inkjet). Last but not least, è la possibilità di aggiornamento firmware. Questa operazione consente di ammodernare la macchina sfruttando miglioramenti software che la casa produttrice rilascia sul suo sito ufficiale. E’ sufficiente scaricare il file su una scheda di memoria della macchina e richiamarla direttamente dallo specifico menù. Il programma sarà scompattato e installato automaticamente sull’hardware della fotocamera. Aggiornare un firmware equivale ad avere una macchina nuova e più performante. I miglioramenti sono solitamente concentrati sulla gestione dei file video, alla riduzione del rumore o al controllo dei colori.

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Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Giulio Mandara/Fotozona


FOCALE, LUMINOSITÀ E PRESTAZIONI DEGLI OBIETTIVI Facciamo un brevissimo ripasso: la lunghezza focale di un obiettivo è la distanza tra il suo centro ottico e il piano di messa a fuoco di un soggetto posto all’infinito. Questa lunghezza è espressa in millimetri e ci permette di definire la categoria e le caratteristiche di un obiettivo con una sola unità di misura. La luminosità di un obiettivo è data dal rapporto tra la lunghezza focale e il diametro della sua lente frontale. Più la lente sarà ampia più grande sarà la sua luminosità. La scritta riportata sulla parte frontale degli obiettivi riguardante il diaframma (Es. 1:2,8) è l’indicazione della sua luminosità massima ed è calcolata con la seguente formula: F/ = mm/ Ø dove F/ si riferisce al valore del diaframma, mm alla lunghezza focale e Ø è il diametro della lente frontale. Questa formula ci permette di affermare due principi: • il valore dei diaframmi, che fino al capitolo precedente aveva dei valori poco chiari e definiti, è il rapporto tra la lunghezza focale utilizzata e il diametro della prima lente. • un obiettivo è tanto più caro quanto più è luminoso. Ciò dipende dal quantitativo di vetro ottico utilizzato e dal complicarsi dei conteggi che il produttore deve calcolare per ridurre le aberrazioni che tutti gli obiettivi possiedono. Se i grandangolari non hanno bisogno di lenti frontali esagerate per essere luminosi, necessitano di complicate costruzioni ottiche per attenuare le aberrazioni di cui sono affetti. I teleobiettivi, proprio

perché a lunga focale, tendono ad essere enormi e costosi nelle versioni professionali più luminose. Negli zoom economici è frequente vedere due numeri di diaframma di riferimento. Rappresentano la differenza di rapporto alle due focali estreme. Se la formula dice che la luminosità è pari alla lunghezza focale (mm) diviso il diametro della lente frontale (Ø), a parità di diametro e al cambiare della focale cambierà il loro rapporto. Gli zoom di fascia alta presentano una luminosità fissa al mutare della focale, ciò è dovuto a particolari calcoli ottici e meccanici con cui i produttori riescono a sopperire alla caduta di luminosità ottica. Un obiettivo di pari focale (ad esempio il 50mm) ma con una luminosità doppia (f/1,2 rispetto a f/1,8) può costare anche dieci volte in più rispetto all’ottica meno luminosa. Il prezzo vale la prestazione? L’importo non è legato solamente al fattore luminosità ma dipende anche dalle prestazioni e alla cura ottica offerta dai costruttori. In un obiettivo professionale la massima attenzione è distribuita

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© Max Ferrero


Tre gradi di profondità fotografica

Lunghezza focale pag. 22

su ogni aspetto che potrebbe intaccare la qualità finale del prodotto e i problemi ottici che si possono presentare sono i seguenti: Aberrazione sferica I raggi rifratti nella zona laterale dell’obiettivo vanno a fuoco in “anticipo” rispetto a quelle rifratte nella zona centrale. L’aberrazione sferica è l’incapacità di un obiettivo di mettere a fuoco contemporaneamente i raggi della parte centrale dell’obiettivo rispetto a quelli laterali. Quest’errore si riconosce per la perdita di nitidezza ai margini della foto. Può avvenire anche con obiettivi eccezionali se accoppiati ad aggiuntivi ottici non adeguati, quali filtri addizionali per macrofotografia o moltiplicatori di focale. La sua riduzione avviene con l’utilizzo di diaframmi più chiusi, con l’uso di gruppi ottici a più lenti in cui ognuna corregge il difetto dell’altra. Si utilizzano anche dei cristalli speciali denominati asferici, che presentano curvature non costanti della lente. Aberrazione cromatica I raggi di luce bianca (composta da tutti i colori visibili dallo spettro luminoso) sono rifratti con diverse incidenze. L’aberrazione cromatica è l’incapacità dell’obiettivo di mettere a fuoco nello stesso punto raggi di luce di diverso colore. Diaframmi più chiusi, con conseguente aumento della profondità di fuoco, correggono tale aberrazione. Per correggere l’errore a livello costruttivo è necessario accoppiare alla lente positiva, o convergente, una lente negativa, o divergente. Usando lenti di vetro ottico con diversa rifrazione dei colori si ottiene un’ottica acromatica, ma la vera correzione si

Infinito (∞) - ha molti significati legati alla nozione di limite. In fotografia rappresenta tutte le distanze che vengono messe a fuoco automaticamente dopo un certo limite. Il punto infinito cambia molto a seconda dell’obiettivo. In alcuni grandangolari appare già dopo la segnalazione di 3 - metri. Per i teleobiettivi comparirà anche dopo i 20 - 30 metri. valore dei diaframmi - un diaframma f/8 in due obiettivi diversi NON avrà la medesima apertura ma farà passare il medesimo flusso luminoso. filtri addizionali - sono degli aggiuntivi ottici di basso costo e qualità che permettono al fotografo d’avvicinarsi maggiormente al soggetto da fotografare con conseguente ingrandimento della scena ripresa. moltiplicatori di focale - sono lenti aggiuntive posizionate tra fotocamera e obiettivo in grado di modificarne la focale. Possono arrivare a fattori di moltiplicazione pari a 2x a costi contenuti ma con perdita di 2 f/stop di luminosità. Gli aggiuntivi ottici che accorciano la focale si montano sulle lenti frontali. luce bianca La teoria del colore pag. 93 Il bilanciamento del bianco pag. 101 profondità di fuoco pag. 36

© Luca Scaramuzza/Fotozona

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© Max Ferrero


La scienza fotografica

ottiene solo con obiettivi apocromatici, che aggiungono tre lenti specifiche per i tre colori primari della sintesi additiva.

dall’asse ottico. Astigmatismo È un’aberrazione grave: l’immagine di un punto appare allungata, fino a trasformarsi in una linea. Si presenta maggiormente ai bordi dell’immagine e può essere corretta da un diaframma chiuso. Curvatura di campo Una semplice lente non è in grado di riprodurre le stesse grandezze di un oggetto piatto su di una pellicola anch’essa piatta. L’accentuazione di tale effetto è proporzionale al tipo d’obiettivo: i grandangolari avranno sempre una curvatura

© Luca Scaramuzza/Fotozona

© Mauro Trolli/Fotozona

Aberrazione cromatica laterale Questo difetto ottico si nota fotografando oggetti bianchi a lato dell’immagine. Se l’obiettivo è affetto da tale errore si noteranno degli aloni colorati ai bordi dell’oggetto. L’aberrazione cromatica laterale è l’incapacità di un obiettivo di mantenere la medesima dimensione di soggetti dalle medesime dimensioni ma di diversi colori. Per quest’anomalia i progetti ottici devono essere attentamente studiati, l’utilizzo di diaframmi più chiusi (come viene sempre consigliato) non serve a ridurne l’effetto. Coma Il nome deriva da “cometa”, che è la forma che si produce quando oggetti puntiformi e molto luminosi entrano nell’inquadratura. Il coma è l’incapacità di un obiettivo di trasformare in immagini puntiformi oggetti piccoli e lontani

di campo superiore ai teleobiettivi. La chiusura del diaframma ne riduce l’effetto. Distorsione E’ l’unica aberrazione che influisce sulla forma degli oggetti riprodotti e non sulla nitidezza. Non si riduce con la chiusura del diaframma ma dipende dalla sua posizione all’interno dell’obiettivo. Se il diaframma è posto prima del centro ottico produrrà una distorsione a barilotto, tipica dei grandangolari, che ingrassano. Se posto dietro, ne formerà una a cuscinetto, quella dei tele che smagriscono. La correzione è possibile tramite costruzioni ottiche con simmetrie ante e post centro ottico. 67


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Andrea Guarise/Fotozona


MISURARE L’ESPOSIZIONE L’esposizione fotografica è il risultato dell’intensità luminosa per il tempo cui vi è sottoposto il sensore della macchina fotografica. L’intensità luminosa è regolata dall’apertura del diaframma e dal tempo di otturazione. Esposizione = Intensità x Tempo Se sostituiamo i valori generici con quelli della macchina, la formula sarà: E = f/ x T (esposizione = diaframma x tempo d’otturazione).

Come abbiamo già visto e affrontato nel primo capitolo, l’esposizione è la somma d’intensità luminosa che permette d’ottenere fotografie corrette dal punto di vista luminoso cioè senza sovraesposizioni (zone troppo chiare e illeggibili) o sottoesposizioni (zone troppo scure e poco visibili). Il valore dell’esposizione corretta è anche influenzato da un terzo parametro: gli ISO. Essi definiscono la sensibilità del sensore/pellicola alla luce e la sua misurazione è affidata agli esposimetri delle fotocamere. Gli esposimetri sono dei sensori in grado di misurare l’intensità luminosa, traducendo i valori fisici convenzionali (misurati in lux o in lumen) in valori di diaframma e tempi d’esposizione. Questi strumenti di misurazione luminosa sono tarati su un parametro “convenzionale”,

© Lodovico Ludoni/Fotozona

E’ possibile ottenere la medesima esposizione variando i due fattori facendo sempre in modo che all’aumentare di un fattore ci sia una proporzionale diminuzione del secondo. Cambiare i parametri non produrrà la medesima fotografia (varierà la profondità di campo e il mosso), ma riprodurrà immagini dalle luminosità simili. Parafrasando con un giochetto matematico, si potrebbe osservare che per ottenere il valore numerico 10 si possono sommare più coppie di numeri: 2+8 5+5 - 4+6 e così via. I numeri possono cambiare ma il totale rimane costante.

Sotto la targhetta sono posti 2 cartoncini grigio Kodak

cioè su di un valore intermedio individuabile nel Cartoncino grigio Kodak al 18% di riflessione. Per capire meglio cosa significhi avere un esposimetro tarato in questo modo, occorre un esempio: all’interno di una scena reale non c’è solamente un valore di

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© Luciano Pratesi/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

Lux e Lumen sono due unità di misura del flusso luminoso ma mentre il Lumen indica l’intensità della fonte il Lux misura quella che colpisce l’area illuminata. 1 Lux è uguale a 1 Lumen su di un’area di 1 m2. Mentre 1 Lumen concentrato su di 1 cm2 corrisponde a 10.000 Lux. Kodak - casa produttrice storica al tempo dell’analogico, ha visto un lento e inesorabile declino. Nonostante fosse una delle case fotografiche ad aver studiato le prime forme di fotografia digitale non seppe mai percorrere le nuove tendenze. I recenti ritorni di passione verso la vecchia fotografia analogica hanno rinvigorito la produzione di vecchie pellicole che sembravano in totale abbandono.

© Mauro Trolli/Fotozona

luminosità, esistono oggetti sottoposti alla luce diretta e altri in ombra, alcuni al buio totale altri parzialmente illuminati da riflessi o diffusioni varie. Su quale di queste lucentezze dovremmo porre la massima attenzione? Per il momento la risposta è fidarsi della misurazione esposimetrica della fotocamera che esegue una valutazione generale della scena e la pondera attraverso la comparazione al valore medio stabilito (il grigio al 18% appunto) fornendo la miglior percentuale di successo. Come detto si tratta di una mediazione e non tiene conto di situazioni difficili, con aree di luci e ombre molto sproporzionate. Il compito dell’esposimetro è quello di elaborare una valutazione mediata delle scene. Se le ambientazioni sono equilibrate l’esposimetro non sbaglierà la misurazione. Quando le ambientazioni cominceranno a complicarsi con contrasti forti o controluce, entrerà in funzione l’intelligenza artificiale della fotocamera per “interpretare” ed eventualmente correggere la misurazione. Purtroppo esistono delle scene limite in cui

Il caso limite che non riesce ad essere risolto, anche con le moderne tecnologie, è la semplice riproduzione di un foglio bianco o uno nero. Affidandoci all’esposimetro della macchina, in una condizione di luce costante e uniforme, i valori che misurerà saranno diversi. Entrambe le esposizioni tenderanno a trasformare il bianco e il nero in una tinta grigia che si avvicina alla riflessione del

© Alessandro Landozzi/Fotozona

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La scienza fotografica

è garantito che l’esposimetro della macchina sbagli, queste zone pericolose sono sempre legate a presenze sproporzionate tra luci e ombre. Se dovessimo scattare una foto con prevalenza di tonalità scure, la macchina fotografica interpreterà e trasformerà quelle stesse tonalità cupe in grigi medi al 18%, schiarendoli e sovraesponendoli. Viceversa, misurando un’area molto luminosa, l’esposimetro sarà falsato dalla sfolgorante situazione e tenderà a sottoesporre la scena, procurandoci un grigio medio al 18% che sostituirà i bianchi. Solamente la grande esperienza dei fotografi e il progresso tecnologico hanno saputo limitare il margine di errore ben presente nelle apparecchiature di pochi anni fa, i risultati ne hanno beneficiato ma hanno reso succubi i fotografi principianti che faticano a risolvere le situazioni più complesse sempre presenti. Conoscere questi limiti non è solo un esercizio tecnico, significa rendersi conto che quando lavoriamo in totale automatismo, siamo sempre in balia delle decisioni di una macchina che consideriamo, a torto, perfetta. Esistono tecniche per avere misurazioni più precise dell’ordinario, è utile conoscerle per applicarle al momento più indicato. Luce incidente e luce riflessa Ci sono due modi di misurare l’esposizione: attraverso la luce riflessa, il flusso luminoso rimbalza sugli oggetti da fotografare e colpisce il sensore della macchina fotografica; oppure mediante la luce incidente, l’energia luminosa è misurata prima che raggiunga il soggetto

quindi prima di essere assorbita e modificata dai colori e dalle caratteristiche del soggetto. La misurazione con luce riflessa è il metodo utilizzato comunemente da tutti gli esposimetri incorporati negli apparecchi di riproduzione visiva: macchine fotografiche, telecamere, cellulari. E’ comodo perché permette di compiere il controllo della luce “in camera” senza doversi spostare dal luogo di ripresa

© Mauro Trolli/Fotozona

ma è molto imprecisa causa l’influenza che subisce dal grado di assorbimento luminoso dei soggetti ripresi. Nei casi limite si può arrivare al 100% di errore. Se fotografiamo una scena con illuminazione costante, dovremmo, in teoria, avere la medesima esposizione per ogni oggetto. Invece con la misurazione a luce riflessa si otterranno letture discordanti a seconda se il soggetto si disporrà alternativamente su sfondi scuri oppure chiari. Questo fenomeno è dovuto ai differenti gradi di assorbimento luminoso alle spalle del soggetto. Un esempio comune a migliaia di scatti è il tipico controluce: il soggetto in primo piano riceve solo una porzione della luce presente nella scena, ma l’intensità luminosa proveniente alle sue spalle sarà preponderante e altererà la misurazione esposimetrica. Tali situazioni ci faranno ottenere uno sfondo corretto e un soggetto scuro e irriconoscibile. Un esposimetro a luce incidente non si fa ingannare dagli sfondi perché non tiene conto dell’assorbimento luminoso o delle luci provenienti da tergo, misura solo la luminosità che colpisce il soggetto. Questi esposimetri sono manuali, devono essere posti sul soggetto con la cupola traslucida rivolta verso il punto 71


Tre gradi di profondità fotografica

cartoncino Kodak. Street Photography - genere fotografico che si prefigge di riprendere e documentare scene in situazioni reali. Il termine street potrebbe trarre in inganno, il genere non è determinato dai luoghi bensì dalle situazioni. Molto di moda ultimamente, è una palestra eccezionale per il fotografo che non ha paura di camminare molto e osservare attentamente l’ambiente circostante. Ansel Adams pag. 136 Live view - è l’utilizzo del monitor al posto del classico mirino ottico. Anche i mirini elettronici utilizzano la tecnologia del live view, che permette di “vedere dal vivo” la scena ripresa. Il vantaggio di questo metodo è dato dalla possibilità di rendersi conto subito se la ripresa ha delle anomalie espositive tramite la simulazione di esposizione. Istogramma - la visione degli istogrammi può essere totale (tutti i canali colore vengono analizzati sulle luminosità e riproducono un unico grafico), oppure separata (i tre canali colore generano tre differenti istogrammi che sono visualizzati in modo separato per individuare delle eventuali dominanti nelle aree di luce o di ombre). Questa seconda visualizzazione è assai complessa e meno

di ripresa da cui si eseguirà lo scatto. Già dalla descrizione operativa si può intuire che sono dispositivi dediti a un uso professionale, particolarmente indicato a chi lavora in studio o per chi ha bisogno della massima precisione esposimetrica anche in condizioni luminose estreme. Non sono indicati per riprese istantanee o per chi si occupa di “street photography”. La cupola dell’esposimetro è una superficie parzialmente trasparente in grado di catturare i raggi luminosi, anche laterali, calcolando automaticamente il 18% di riflessione. E’ sicuramente il metodo di misurazione più preciso e affidabile in condizione di luminosità controllata e bilanciata. Purtroppo anch’esso non è immune da errori, anche se le sue situazioni critiche sono inferiori di numero al metodo a luce riflessa. Negli anni, i produttori di macchine fotografiche, hanno tentato in tutti i modi di ovviare alle problematiche della lettura esposimetrica. Pur non trovando una soluzione universale e totale al fenomeno, 72


La scienza fotografica

© Lodovico Ludoni/Fotozona

luminosità dello sfondo retrostante. Sconsigliato per chi è agli inizi, può essere utilizzato solo in particolari condizioni luminose. La Misurazione Spot è la più precisa in assoluto ma è anche la più complicata da comprendere e d’applicare. La valutazione della luce avviene esclusivamente in una piccola zona del mirino, tendenzialmente nel punto di messa a fuoco utilizzato. Se ciò che misuriamo ha una superficie riflettente del 18% o simile (come

© Luca Scaramuzza/Fotozona

hanno comunque saputo ridurre notevolmente l’incidenza degli errori di misurazione. Le tecnologie più avanzate a disposizione del fotografo odierno sono da ricercare nei menù personalizzabili per la lettura esposimetrica. Le valutazioni disponibili sono: Misurazione ponderata al centro, Spot, Multizona/ Valutativa e Parziale. La Misurazione ponderata al centro è la più “antica” tra quelle disponibili sulla fotocamera. La lettura standard sulla riflessione al 18% è misurata con prevalenza al centro e in modo parziale nel resto dell’inquadratura.

nel caso del cartoncino Kodak) la precisione di questo sistema sarà paragonabile alla misurazione degli esposimetri manuali a luce incidente. Se disgraziatamente, ciò che stiamo misurando non è pari alla riflessione del cartoncino Kodak, allora il risultato sarà certamente sbagliato con errori proporzionali allo scostamento di luminosità dal parametro di riferimento. Se vogliamo adottare questo metodo di misurazione, dobbiamo munirci del cartoncino Kodak e disporlo sempre sul soggetto che intendiamo fotografare, oppure dobbiamo imparare a utilizzarlo con il metodo del sistema zonale di Ansel Adams applicando le opportune modifiche per il mondo digitale. La Misurazione Valutativa o Multizona (il nome

Questa misurazione è stata la prima introdotta nelle fotocamere con tecnologia TTL (through the lens, attraverso le lenti). Da questo metodo sono nati i successivi, più progrediti e di maggiore affidabilità. Nonostante le varie imprecisioni cui può essere soggetto, funziona ancora bene in quelle situazioni particolari dove un soggetto centrale si stacca nettamente dallo sfondo. La misurazione ponderata considererà maggiormente il soggetto centrale facendosi influenzare solo parzialmente dalle 73


Tre gradi di profondità fotografica

immediata rispetto al grafico singolo. 256 livelli di luminosità pag. 58 - 60 256 livelli di luminosità - la capacità di registrazione dei file 8 bit è di 256 livelli di luminosità per ogni canale colore (16 milioni di colori). Quando realizziamo un bianco e nero abbiamo 254 diverse tonalità di grigio una di nero (livello 0) e una di bianco (livello 255). Sembra un numero limitatissimo di tonalità eppure sono più che sufficienti a realizzare immagini monocromatiche dall’alto impatto visivo. Secondo alcuni recenti studi l’occhio umano è in grado di distinguere oltre 10 milioni di sfumature cromatiche mentre le sfumature luminose che è in grado di percepire sono inferiori a 50. Quindi i 256 livelli di grigio sono ugualmente 6 volte superiori rispetto alla nostra capacità di visione.

© Roberto Orlando/Fotozona

cambia a seconda dei produttori) è quanto di meglio possa offrire la tecnologia moderna. La macchina suddivide l’inquadratura in varie zone e assegna a ognuna un sensore di misurazione. Il metodo di valutazione di ogni singola zona è simile a quella della misurazione ponderata al centro, ma, essendo applicata a più aree, risulta maggiormente precisa e funzionale. L’accuratezza del metodo è legato al numero di

aree controllate e al microprocessore interno della macchina che ha il compito di elaborarne i dati applicando gli appropriati algoritmi d’interpretazione dati. Aumentare il numero delle zone da controllare impedisce che una singola area possa alterare la misurazione generale della luce: più aree ci saranno, più il calcolo diventerà complicato e minuzioso. Sarà necessaria un’alta potenza di computo: difatti, le macchine di fascia professionale, si presentano con doppio processore. L’algoritmo della fotocamera dialogherà 74


La scienza fotografica

con il database interno della macchina elaborando le misurazioni con l’archivio delle possibili situazioni luminose. Un simile processo permetterà alla fotocamera di superare i classici errori da controluce: la presenza di forti sbalzi luminosi tra sfondo e soggetto. Molte di queste tecnologie sono sotto segreto industriale e solo il costo della macchina fotografica è indice di maggiore o minore precisione di calcolo. Consigliato nella maggior parte dei casi, è il metodo di misurazione obbligatorio per chi non ha ancora dimestichezza con il cartoncino grigio e le misurazioni incidenti. Purtroppo non è infallibile, ha solo ridotto la percentuale di errori e ha la brutta abitudine ad assuefare chi ne sfrutta le potenzialità. Si consiglia di controllare sempre il risultato a monitor, se non dopo ogni scatto, certamente dopo ogni situazione di cambio luminosità. La Misurazione Parziale è un ibrido tra la ponderata al centro e lo spot. L’area di misurazione è maggiore rispetto allo spot ma esclude totalmente le aree laterali. Più che sommare i meriti delle due metodologie di misurazione, esalta le manchevolezze dei due sistemi. Non aggiunge nulla agli altri tre metodi con cui è già possibile affrontare la maggior parte delle condizioni esposimetriche. Se non fossero sufficienti, allora si dovrebbe passare a metodi più professionali di misurazione. La nuova frontiera per la corretta esposizione

© Max Ferrero/Fotozona

si avvale delle fotocamere con tecnologia Live View, in grado di riprodurre a monitor la previsualizzazione del risultato finale. E’ possibile osservare, direttamente nel mirino laterale o in quello oculare, se l’esposizione che stiamo impostando ci darà i risultati desiderati. Le macchine mirrorless utilizzano tutte questa tecnologia e hanno abbandonato la classica visualizzazione ottica. Il mirino digitale e il monitor ci permetteranno di previsualizzare il risultato finale sollevandoci da tutte le teorie fin qui spiegate faticosamente. Bisogna ammettere che con i mirini digitali (live view) la vita del fotografo è stata facilitata portando anche i professionisti ad avvalersi delle tecniche di semplificazione che da alcuni anni erano a esclusivo appannaggio dei cellulari o delle fotocamere “entry level”. Il lato debole di questa tecnologia è l’alto consumo di energia elettrica a discapito del numero di scatti effettuabile con una singola batteria. La qualità del monitor, soprattutto di quello oculare, sarà inferiore al risultato finale, la tendenza del nostro cervello a migliorare le immagini ci impedirà di vedere i piccoli errori d’esposizione sempre pronti a tendere un agguato sullo scatto più bello. C’è ancora un metodo per l’accurato controllo delle esposizioni e si avvale dell’utilizzo di un particolare diagramma denominato istogramma. Gli istogrammi sono una rappresentazione 75


Tre gradi di profondità fotografica

Tagli - avere un taglio delle luminosità su di un istogramma significa avere delle perdite d’informazioni sui lati estremi del grafico. Esse si riferiscono ai neri e alle ombre più scure oppure alle luci e ai bianchi. Una situazione di “tagli“ porta a perdita di dettagli e informazioni visive nelle aree colpite, recuperabili parzialmente solo utilizzando file con bit superiori a 8. Le zone colpite, oltre alla visualizzazione di un grafico mozzato sull’istogramma, possono essere visualizzate a monitor attraverso dei lampeggiamenti luminosi o cromatici nelle aree bruciate.

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona

grafica di come i pixel della nostra macchina fotografica abbiano registrato le varie luminosità presenti nella scena. Sull’asse delle ordinate è riportato il numero di pixel presenti in una determinata luminosità, più il grafico s’innalza più è alto il quantitativo di pixel presenti in quell’area. Molto più importante per i fotografi è l’asse delle ascisse. Essa rappresenta i 256 livelli di luminosità registrabili e indica in modo preciso se l’esposizione che abbiamo realizzato è corretta, bilanciata, sufficiente o completamente errata. L’interpretazione degli istogrammi è semplice anche se non esente da casi particolari. Se i picchi si ritrovano tutti all’interno del grafico e non vi sono pendii mozzati allora saremo in presenza di una scena correttamente esposta. In fase di post-produzione potremo elaborare i valori a nostro piacimento sicuri di non aver

RAW pag. 58 - 60 - 109

© Mauro Trolli/Fotozona

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La scienza fotografica

perso alcun tono della scena. Se i picchi sono spostati verso il lato sinistro con dei tagli sulla curva, siamo in presenza di una foto sottoesposta. La parte di grafico mancante si riferisce alla

scuro) creerà istogrammi sbilanciati a sinistra ma non necessariamente sbagliati. E’ importante saperli interpretare perché sono un ottimo ausilio alla ricerca della perfetta esposizione.

I tagli sulle ombre sono indice di sottoesposizione.

Il grafico è sbilanciato a sinistra ma non tagliato. Tipico esempio di soggetto scuro su sfondo scuro. I picchi non sono tagliati e siamo in presenza di un file con tutte le informazioni preservate e modificabili.

zona delle ombre. I toni persi potrebbero essere recuperati con aumento di rumore digitale, maggior recupero è possibile se si è scattato con il formato RAW. Viceversa, se i picchi sono spostati a destra,

Questo è il tipico grafico di scene a basso contrasto. Indica che nel file non sono presenti nè bianchi nè scuri. Istogramma classico di una scena di nebbia. I tagli sulle luci sono indice di sovraesposizione.

sempre con dei tagli sulla curva, siamo in presenza di una sovraesposizione. La mancanza di registrazione di toni nelle luci è più problematica rispetto a quella nelle ombre. Solo l’utilizzo di file RAW permette il parziale recupero delle luci bruciate. Non sempre bisogna preoccuparsi che l’istogramma si presenti bilanciato e corretto. Fotografando una scena con preponderanza di toni chiari (una sposa su sfondo chiaro) è normale che il grafico sia squilibrato a destra, l’importante è che il diagramma e le curve siano riprodotti senza tagli. Anche fotografare scene a predominanza scura (un gatto nero su sfondo

Il grafico presenta il tipico aspetto di una esposizione ad alto contrasto. La foto avrà toni tagliati sia nelle ombre, sia nelle luci. Solo lo ripresa in formato RAW permetterà un parziale recupero di ciò che si è inevitabilmente perso in ripresa. 77


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Roberto Orlando/Fotozona

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LA LATITUDINE DI POSA Nel precedente capitolo abbiamo accennato ai casi limite. Essi sono delle eventualità che possono mettere in crisi il sistema espositivo anche delle migliori macchine. Casi limite per eccellenza sono: fotografare un soggetto chiaro su sfondo chiaro o, viceversa, scuro su sfondo scuro. In questi casi la macchina non ha paragoni da fare se non riportare la scena originale alle impostazioni di fabbrica, cioè s’ingrigirà sia la foto chiara (sottoesponendo la scena) sia quella scura (sovraesponendola). Non servirà a nulla impostare la lettura multizona o spot, la macchina sbaglierà sempre. Altri casi, ben più difficili da risolvere, sono quelli in cui la scena originale ha contrasti superiori alla capacità di registrazione della fotocamera. Anche i controluce o i soggetti posti in zone a differente illuminazione potrebbero generare seri problemi. Vediamo un po’ di esempi.

diverse. L’esposizione corretta sarà quel quantitativo di energia luminosa capace di riprodurre in modo visibile sia le zone in luce sia quelle in ombra. Nulla di complicato se la differenza in stop tra la zona luminosa e quella scura è circoscritta. Cosa assai più difficile se la differenza di luminosità è elevata. Questa discrepanza tra luci e ombre è chiamata contrasto, la capacità di registrarlo da parte della fotocamera si dice latitudine di posa. Ottenere delle corrette esposizioni dipenderà, quindi, dalla bontà della macchina fotografica utilizzata e, soprattutto, dalla sua capacità di registrare ampi valori di contrasto. Lo scatto sottostante è stato realizzato con 1/500” a f/7.1 utilizzando 100 ISO. Metodo di misurazione multizona. La macchina fotografica ha fatto una media generale della scena preservando la profondità di tonalità dello sfondo ma perdendo i dettagli in ombra del soggetto. E’ il risultato tipico di una scena in controluce, dove la luminosità dello sfondo influenza la lettura esposimetrica della fotocamera, che sottoesporrà i soggetti meno illuminati.

© Luca Scaramuzza/Fotozona Lo stesso scatto è stato realizzato sempre a 100 ISO e f/7.1 ma con il tempo di 1/125”. I due stop di sovraesposizione hanno permesso di recuperare i toni del soggetto/macchina fotografica ma hanno compromesso i dettagli presenti nel cielo nuvoloso. Il fotografo non ha sbagliato in nessuno dei due casi, semplicemente l’illuminazione non gli permetteva di ottenere lo scatto desiderato.

Luci e ombre In una foto complessa la scena ripresa potrebbe avere più di un unico soggetto con differenti illuminazioni, oppure, lo stesso soggetto potrebbe avere due illuminazioni 79


Tre gradi di profondità fotografica

Contrasti - in un’immagine il contrasto è il rapporto o differenza tra la zona più scura e quella più chiara. In una fotografia digitale il contrasto massimo ottenibile è dato dall’utilizzo dell’intera scala dei toni pari a 256 livelli di grigio (pag. 74). In una scena reale il rapporto tra le zone chiare e quelle scure può raggiungere valori molto più pronunciati. Questo scostamento di luminosità tra quello presente in scena e quello riproducibile è uno dei problemi maggiori per i fotografi. Per risolvere il problema del contrasto si usano varie tecniche quali la riduzione del Gamma attraverso la tecnica del fill-in, applicando tecniche di HDR, oppure utilizzando file di registrazione dati a 12 - 14 bit (pag. 58 - 60).

Grazie a una buona conoscenza tecnica, una macchina fotografica di fascia alta o con file a 14 bit è possibile recuperare sia le ombre sia le luci .

Gamma - indica la pendenza tra due valori posti agli estremi della curva sensitometrica. Un pari contrasto (ad esempio con un nero posto a livello 0 e un bianco posto a livello 255) potrebbe avere differenti Gamma a seconda della pendenza della curva sensitometrica (analogico) o istogramma (digitale). Ciò indica che una foto può avere il massimo contrasto con Gamma contenuto per riprodurre un’ampia gradazione di tonalità (vedi la foto sottostante).

Per questo risultato finale si possono intraprendere tre strade differenti: utilizzare il formato RAW per cercare di recuperare i toni correggendoli in fase di postproduzione; scattare almeno 3 foto utilizzando la tecnica dell’HDR; oppure servirsi di un apparato d’illuminazione esterna quali una lampada, la luce del cellulare o il flash.

Latitudine di posa Abbiamo detto che il contrasto della scena è la differenza in stop tra le alte luci (con dettagli) e le ombre (sempre dettagliate). I bianchi bruciati e le ombre profonde sono da considerarsi

© Roberto Orlando/Fotozona Il contrasto è massimo il Gamma è equilibrato 45°.

Oppure una scala di grigi ridotta con un Gamma più ripido, fino a raggiungere il Gamma massimo in cui sono presenti solo le tonalità estreme della curva: il bianco e il nero in una foto monocromatica oppure un effetto “posterizzazione” in un’immagine a colori. 80

© Angelo Abate/Fotozona


La scienza fotografica

Per rendere più interessante lo scatto abbiamo posto un cartello sul cartoncino grigio Kodak. Non dobbiamo farci distrarre da lui ma tenere d’occhio le differenze luminose dei due cartoncini posti uno sull’altro.

esclusi, tanto non devono restituirci aree con particolari visibili. La latitudine di posa della fotocamera è l’effettiva capacità che ha l’apparecchio di registrare informazioni visibili sul sensore, anch’essa misurabile in stop. Se la latitudine di posa della fotocamera è pari o superiore al contrasto della scena, allora non ci saranno problemi perché saremo in grado di registrare l’ambientazione senza particolari accorgimenti. Se la latitudine di posa della macchina è inferiore al contrasto della scena siamo di fronte a un problema perché la macchina non è in grado di registrare correttamente tutti i toni che desideriamo. Potremo sacrificare qualche tono della scena, scegliendo se salvare le ombre o le luci. Oppure procedere a esposizioni calcolate ma per avvalersi di questa scelta è necessario conoscere l’effettiva latitudine di posa della fotocamera. Per padroneggiare la latitudine di posa è necessario eseguire alcuni scatti su di un cartoncino grigio Kodak al 18% (ma volendo è sufficiente fare una prova su di un foglio di quaderno a righe o a quadretti). Il primo scatto lo si esegue con i parametri suggeriti dall’esposimetro della macchina, a seguire gli altri con sovraesposizioni crescenti di +1 stop fino al conseguimento del bianco assoluto. In seguito, ripartendo dall’esposizione “corretta” si procederà con stesso metodo

ma sottoesponendo. Gli scatti devono essere realizzati alla sensibilità nativa della fotocamera, normalmente 100 ISO e con formato RAW. Osservando i risultati a monitor si ricercheranno gli scatti utili alla prova. La massima sottoesposizione valida sarà quella più scura in cui si notano ancora dei dettagli del cartoncino (o delle righe e dei quadretti). Idem per la più sovraesposta, sarà considerata valida l’ultima foto in cui si distingueranno ancora dei piccoli dettagli nelle zone molto chiare. Contando gli scatti presenti tra la foto più chiara valida e la controparte scura, avremo la latitudine di posa della macchina fotografica. Nel caso riportato sopra come esempio, la prova è stata fatta con una Canon 5d MK III e i risultati hanno determinato che, escludendo i due cartoncini grigi Kodak di diverse dimensioni (la targhetta con la scritta azzurra è solo un parametro di bellezza estetica), la latitudine di

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© Mauro Trolli/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

posa utilizzabile si estende per 9 stop. 3 nelle zone di sovraesposizione, 1 in quella corretta per l’esposimetro e 5 nelle zone sottoesposte. Per misurare, invece, il contrasto della scena occorre effettuare una misurazione di precisione (con cartoncino grigio Kodak o con esposimetro a misurazione luce incidente) sia sul soggetto più chiaro sia sul particolare più scuro che si vuole mantenere visibile. La distanza in stop tra le due misurazioni è il contrasto della scena ma indica anche la latitudine di posa necessaria per riprodurre e avere distinguibili i soggetti con differenti luminosità. Se la latitudine di posa è sufficiente, allora lo scatto sarà semplice e veloce: s’imposteranno i corretti parametri di tempo/diaframma e la capacità riproduttiva del sensore farà il resto. A differenza di quanto si possa pensare l’esposizione corretta in questi casi NON è quella con le impostazioni a metà tra i due estremi, ma con un leggero sbilanciamento verso la sottoesposizione perché il sensore ha più tolleranza e capacità di recupero nelle ombre rispetto alle luci. Un’altra scuola di pensiero indica che è sempre meglio sovraesporre e non fare come abbiamo appena consigliato noi, si tratta di

Il contrasto è uguale alla prima foto ma il Gamma è aumentato tramite l’incremento della pendenza della curva.

Il contrasto è simile alle altre foto ma il Gamma è aumentato a livello massimo.

Calcolate pag. 135 Stop pag. 31

Fill-in - dall’inglese: “riempimento”, è una tecnica d’illuminazione con luci continue o flash per ridurre il contrasto della scena. Curva sensitometrica - è un grafico che rappresenta la risposta di alcuni materiali sensibili all’azione della luce. Molto utilizzata per descrivere il comportamento delle pellicole, oggi è un lontano parente degli istogrammi. HDR - acronimo di High Dynamic Range indica una tecnica digitale per incrementare la gamma dinamica (l’intervallo tra le aree visibili) di una foto attraverso l’utilizzo di vari scatti (effettuati a esposizioni diverse) e poi montati su di un’unica immagine con l’utilizzo di software specifici. 82

© Luca Scaramuzza/Fotozona


La scienza fotografica

Dobbiamo ancora sottolineare che l’esposizione corretta non è solo un fattore matematico calcolabile e misurabile, spesso è anche una componente soggettiva determinata da scelte culturali e creative. La realtà può essere alterata e modificata anche senza l’ausilio di programmi di fotoritocco, basta semplicemente utilizzare impostazioni diverse da quelle proposte dall’esposimetro della macchina fotografica. E’ questo il fattore più importante: quello creativo, deve sempre essere la nostra decisione e il nostro gusto a trasformare una foto visibile a tutti in uno scatto unico e personalizzato.

© Saverio Barbuto/Fotozona

una teoria vecchia e parzialmente superata dalle nuove tecnologie. In effetti, una lieve sovraesposizione impedisce il manifestarsi del rumore digitale, tanto fastidioso e brutto a vedersi. Ma è anche vero che sulle odierne macchine fotografiche si è lavorato moltissimo per la riduzione di questo inconveniente. In fase di fotoritocco è molto più semplice contenere il rumore rispetto al recupero delle alte luci sovraesposte e bruciate. Se il contrasto è superiore alla latitudine di posa disponibile, dovremo decidere quale soggetto salvare e quale sacrificare, oppure saremo costretti a trovare delle illuminazioni artificiali in grado di rischiarare le ombre e di attenuare i contrasti. Le luci di schiarita possono essere semplici pannelli riflettenti, luci flash, flash multipli o forti illuminazioni a luce continua come nei set cinematografici. Il concetto è quello del fill-in (riempimento), si utilizza una fonte di luce sussidiaria per schiarire quanto basta le zone in ombra, riducendo il contrasto della scena e, di conseguenza, attenuando anche la latitudine di posa necessaria. I bravi fotografi sapranno dosare bene le luci di schiarita senza rischiare d’uccidere l’atmosfera della scena originale, gli altri, i più inesperti, sfrutteranno la “slampata” del flash incorporato rischiando, purtroppo, di alterare e non di migliorare la scena fotografata. 83

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Luciano Pratesi /Fotozona


IL CONTROLLO DELLA PROFONDITÀDI CAMPO Come abbiamo già visto nel primo capitolo, la profondità di campo è in grado di cambiare l’area di estensione della messa fuoco. Di conseguenza la sua regolazione può modificare e alterare la fotografia sia dal punto di vista visivo sia da quello concettuale. La visione fotografica si differenzia molto da quella umana, noi possediamo un apparato visivo evoluto che completa le limitazioni imposte dalla fisica ottica attraverso l’interpretazione del cervello. Quando osserviamo una scena vediamo sempre a bassa PdC ma il continuo movimento dell’occhio e l’elaborazione del cervello ci fanno percepire il mondo come se fosse tutto a fuoco, sempre. E’ anche per questo motivo che un occhio inesperto non è in grado di valutare l’estensione del fuoco su di una foto. Ci si concentra sul soggetto principale, quello nitido e si tende a dimenticare la zona sfocata interpretandola come una zona marginale e inutile. E’ l’attenta gestione dello sfondo a trasformare una foto banale in una visione artistica e originale. Sfruttare una bassa PdC metterà in risalto il soggetto principale emarginando lo sfondo a un ruolo comprimario. L’alta PdC esalterà la presenza di soggetti multipli facendoli interagire. 85

© Angelo Abate/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

Sopra in questo grafico sono indicati i quattro parametri che influenzano la profondità di campo. A destra una freccia verso l’alto indica l’aumento di PdF mentre una rivolta in basso indica il decremento della stessa. Il Diaframma e la Distanza sono direttamente proporzionali cioè all’aumentare dell’uno corrisponde un aumento anche dell’altro valore. L’Ingrandimento e la Lunghezza Focale sono inversamente proporzionali. Per ottenere il massimo della PdF si deve utilizzare un diaframma molto chiuso accoppiato a un obiettivo di corta lunghezza focale cioè un grandangolare. Per una bassa PdF un teleobiettivo con il diaframma più aperto possibile.

Esalterà gli spazi nei paesaggi, creerà un’ambientazione alle foto architettoniche dando vita a scenari che il nostro occhio può vedere solo attraverso diverse scansioni e successive elaborazioni. Il controllo di questo fattore importantissimo per la fotografia è affidato a 4 parametri tecnici. Tutti liberamente impostabili ma dalla diversa importanza perché alcuni più facili e immediati da modificare. Essi sono: il Diaframma (F/), la Lunghezza Focale dell’obiettivo (mm), la distanza soggetto/sensore fotocamera (D) e l’ingrandimento finale della fotografia (I). Tutti e quattro riescono a modificare la PdC ma solo un paio possono essere effettivamente sfruttati. L’Ingrandimento fotografico è il parametro meno importante. Più s’ingrandisce una foto più si perde PdC perché diventano più visibili i cerchi di confusione dell’immagine. L’ingrandimento è una scelta che si fa a posteriori e non durante lo scatto, in aggiunta, se si stampa una foto di grande formato la si osserverà a maggiore distanza annullando l’equazione che più s’ingrandisce un’immagine, più si sfoca lo sfondo. La Distanza tra soggetto a fuoco e piano pellicola/sensore influisce molto sul risultato della PdC finale ma non è sfruttabile ai fini pratici

Cerchi di confusione pag 44 - 45 - 91 Teleobiettivi - Grandangolari pag 23 - 24

© Alessandro Andreucci/Fotozona

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La scienza fotografica

perché la scelta della lontananza dal soggetto è determinata dalla scelta compositiva che desidera l’autore. La Lunghezza focale di un obiettivo è uno dei due parametri sfruttabili. I Teleobiettivi sono ottimi per ottenere basse estensioni di fuoco, i Grandangolari per dilatare la PdC. Non è il parametro fondamentale perché l’obiettivo lo si sceglie per stile, per le caratteristiche di dilatazione o contrazione delle prospettive o per l’ingrandimento. il Diaframma dell’obiettivo è il valore fondamentale per il controllo della PdC, facile da modificare e senza controindicazioni compositive. Volendo dare un consiglio rapido possiamo dire che diaframmi chiusi e obiettivi a corta focale realizzano alta PdC. Diaframmi aperti e lunghe focali riducono l’area sempre a fuoco. Attenzione, come abbiamo già ampiamente spiegato, la modifica del diaframma altera anche il quantitativo di luce che andrà a

© Saverio Barbuto/Fotozona

© Alessandro Landozzi/Fotozona

colpire il sensore. Non possiamo cambiare l’”iride” dell’obiettivo pensando solo alla funzione di PdC, alla sua modifica dovremo far seguire le giuste correzioni ai tempi di otturazione. Ricordiamoci che l’esposizione è la somma della luce passante dal diaframma e dall’otturatore, se diminuisce il flusso da una parte bisognerà aumentarlo dall’altra. Perciò se decideremo che la PdC è prioritaria nel nostro scatto, i tempi diverranno di sostegno. Se utilizzando uno specifico diaframma dovessimo incappare in velocità di otturazione troppo lente allora, ma solo allora, potremo agire sulla ghiera delle sensibilità (ISO) impostando il primo valore utile per sfruttare il diaframma scelto con un tempo di otturazione più consono. E’ tutto molto più semplice di quanto appare, è necessaria solo un po’ di pratica, magari con la tabella della pagina precedente, prendendo appunti e osservando i risultati.

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© Mauro Trolli/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Lodovico Ludoni/Fotozona

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I SEGRETI DELLA DISTANZA IPERFOCALE

di Andrea Guarise

La definizione di distanza iperfocale é la seguente: “La distanza iperfocale é quello spazio di messa a fuoco di un obiettivo per cui ogni particolare dell’immagine compreso tra la metà di essa e l’infinito risulterà nitido.” Bene, e che me ne faccio? Beh, mi sa che per capirlo é necessario fare un passo indietro. Per capire di cosa stiamo parlando, dobbiamo innanzitutto definire cosa intendiamo quando diciamo che un’immagine é a fuoco. Questo é un termine usato dai fotografi spesso impropriamente, per stare a indicare che quando guardiamo quell’immagine, essa risulta nitida. Dobbiamo però osservare che la vera definizione di “fuoco”, per un’immagine ripresa da un sistema ottico (d’ora in poi lente), é un piano geometrico del soggetto ripreso i cui punti, rappresentati sul piano dell’immagine, sono ancora rappresentati da punti. Tutti gli infiniti piani posti davanti e dietro a quello di messa a fuoco sono rappresentati sul piano dell’immagine da delle macchie

circolari (detti cerchi di confusione), via via più grandi all’aumentare della distanza dei punti corrispondenti dal piano di messa a fuoco. In altri termini: se metto a fuoco la facciata di una casa, solo i punti che stanno sulla facciata saranno riprodotti come punti sull’immagine. Il viale che porta alla casa e gli alberi che stanno dietro ad essa saranno composti da punti che saranno sempre sfocati. E qui arriva sicuramente la domanda: “Ho visto milioni di fotografie in cui anche il viale e gli alberi erano a fuoco, come me lo spieghi?”. Qui ci viene in aiuto un concetto noto come Profondità di Campo (PdC). Il punto fondamentale del ragionamento che stiamo per fare é che il nostro occhio non é perfetto, esso ha un limitato potere di risoluzione. In pratica il nostro occhio vede come punti anche delle macchie, i circoli di confusione di cui sopra, purché siano abbastanza piccoli. Quanto piccoli? L’esperienza ci dice che tutti i circoli più piccoli di 0.25 mm su una stampa 20x30 cm osservata

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© Roberto Orlando/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

La fotografia è una vera e propria scienza che si basa su leggi ottiche, e un tempo anche chimiche, ben precise. L’articolo di Guarise può apparire complesso ma è importante affrontare uno degli aspetti più importanti della fotografia (l’estensione del fuoco) attraverso un articolo tecnico di enorme profondità e conoscenza. Se fate fatica a comprenderlo provate a rileggerlo a distanza di tempo. Se siete appassionati alla tecnica oppure dei curiosi incalliti prima o poi la nebbia si dipanerà e comprenderete a fondo gli aspetti elencati e il “caso” non sarà più un vocabolario adatto ai vostri scatti fotografici.

dalla distanza pari alla sua diagonale (circa 35 cm) risultano puntiformi, ovvero nitidi, ai nostri occhi. Perché la stampa 20x30? Perché é la dimensione che più si avvicina alla singola pagina di una rivista e 35 cm é indicativamente la distanza da cui normalmente la osserviamo. E non a caso 20x30 é la dimensione classica di stampa delle fotografie. Questo significa che anche una porzione di spazio posta davanti e dietro il piano effettivo di messa a fuoco sarà accettabilmente nitida perché, una volta stampato, sarà rappresentato da cerchietti sufficientemente piccoli da essere scambiati per punti dal nostro occhio. Questo spazio nitido é la profondità di campo. Tutto questo ci aiuterà a capire a cosa serve la distanza iperfocale nella pratica. Ora é necessario introdurre qualche formula, giusto per capirsi, ma cerchiamo di rimanere sul minimo indispensabile e, sopratutto non temete, alla fine non sarà necessario portarsi la calcolatrice nello zaino o fare conti su conti prima di scattare una foto. In termini matematici la distanza iperfocale é data dalla relazione: H = (mm^2)/(c*f/) dove mm é la lunghezza focale della lente, f/ é il valore del diaframma, c é il diametro del circolo di confusione (su questo torneremo più avanti). In parole semplici si esprime dicendo che la distanza iperfocale é direttamente proporzionale al quadrato della lunghezza

Cerchi di confusione pag. 44 - 45 - 89 Profondità di campo pag. 41 - 85 In matematica il simbolo ^ significa “elevato alla..” Nella formula riportata nell’articolo significa “lunghezza focale elevata alla seconda”. 8,333 - volte perché i 2,4 cm del sensore moltiplicati per questo valore ci restituisce la dimensione della stampa finale decisa: 20 cm (19,9992 per essere del tutto precisi). Iperfocale pag. 85

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© Luca Scaramuzza/Fotozona


La scienza fotografica

focale. Se usieremo una lente da 100 mm avremo un valore dell’iperfocale 4 volte più grande di quella calcolata per un 50 mm. Essa é inversamente proporzionale al valore del diaframma. Con un diaframma 4 avremo un valore pari a metà di un diaframma 2. Essa é inversamente proporzionale al valore del circolo di confusione calcolato per il nostro sensore. Ok, calma: cosa significa “calcolato per il nostro sensore”? Non stiamo parlando dello stesso circolo di confusione introdotto precedentemente? Ebbene no, ma sono legati tra loro. Se ricordate, più sopra ho introdotto il circolo di confusione come la dimensione massima di un cerchio su un foglio stampato 20x30 visto da una certa distanza perché il nostro occhio lo scambi per un punto, assumendo che debba essere di 0.25 mm. Ora la nostra stampa é il risultato di un ingrandimento di un’immagine originale che di partenza era grossa quanto il sensore con cui é stata ripresa. Con un sensore full frame l’immagine non ingrandita é pari a 24x36 mm. Il nostro circolo di confusione di 0.25 mm, sull’immagine non ingrandita sarà quindi proporzionalmente più piccolo. Un’immagine 24x36 mm, per essere stampata 20x30 cm dovrà essere ingrandita, e tenendo conto solo del lato corto, l’ingrandimento sarà di 8.333 volte. A questo punto il circolo di confusione per un sensore full frame 24x36 si ottiene dividendo il circolo di confusione della stampa, 0.25 mm, per il fattore d’ingrandimento: c=0.25 mm/8.33=0,03 mm Che, ripeto nel caso del sensore full frame, é il valore di c da inserire nella formula dell’iperfocale. Siamo quindi ora in grado di calcolare il valore di H per qualsiasi obiettivo, a qualsiasi apertura su formato full frame. Ad esempio un’ottica 50 mm a diaframma f/8, avrà un’iperfocale a distanza: H = (50 mm)^2/(0,03 mm*8) = 10416 mm = 10,4 m circa 10 metri e mezzo. Che me ne faccio? Intanto so che con quest’ottica a f/8, mettendo a fuoco a circa 10 metri avrò una foto nitida da 5 metri all’infinito

(ricordate la definizione d’iperfocale). E se il sensore non é full frame che faccio? Basta usare un valore di c diverso ricavato calcolando opportunamente il fattore d’ingrandimento sensore/stampa. APS C Canon: I=13,4 c=0,019 APS C Nikon: I= 12,7 c=0,02 4/3 e micro 4/3: I = 15,38 c=0,016

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona

Il calcolo della profondità di campo Come accennato, ora che sappiamo calcolare la distanza iperfocale per un dato obiettivo a una data apertura su un dato formato di sensore, possiamo anche calcolare a quanto ammonta la profondità di campo, che ricordiamo, é quella zona di nitidezza accettabile che si estende anteriormente e posteriormente al piano di messa a fuoco entro cui i punti sfocati sulla stampa risultano indistinguibili da quelli a fuoco. Il limite posteriore della profondità di campo é dato da: Dp = H*d/(H-d) mentre quello anteriore é dato da: Da = H*d/(H+d) dove H é la solita distanza iperfocale e d é la distanza a cui stiamo effettivamente mettendo a fuoco. La nostra profondità di campo sarà quindi: PdC = Dp-Da Per fare un esempio, tornando alla lente da 50 mm su full frame aperta a f8 di cui sopra, supponendo di mettere a fuoco ad esempio a 91


Tre gradi di profondità fotografica

2,5 metri avremo: Dp = 3,3 m Da = 2 m. Ora sappiamo che con quell’ottica e quei parametri di ripresa, mettendo a fuoco a due metri e mezzo avremo una porzione di spazio nitido sulla stampa che si estende per poco meno di un metro e mezzo a partire da mezzo metro prima al piano di messa a fuoco fino a 80 cm dietro ad esso. Questo calcolo possiamo farlo per qualsiasi lente, a qualsiasi diaframma e su qualsiasi formato. È opportuno notare però che le cifre che possiamo ricavare da questi calcoli vanno prese con beneficio d’inventario, le formule sono di per sé già un po’ approssimate e l’assunzione di fondo del circolo di confusione come limite per decidere cosa è nitido e cosa no lascia un certo margine d’imprecisione, ma se non pretendiamo che siano precise al centimetro, funzionano bene. La formula della profondità di campo scritta in questo modo però, anche se comoda per fare i conti, non ci insegna molto. Se a questo punto ci mettiamo a sostituire l’H la su formula H = (mm^2)/(c*f/) dentro la formula della profondità di campo, con un po’ di conti e qualche approssimazione strada facendo, scopriamo che la nostra profondità di campo gode delle seguenti proprietà: - Raddoppiando il valore del diaframma la PdC raddoppia. - Raddoppiando la distanza di messa a fuoco la PdC quadruplica. - Dimezzando la focale dell’obiettivo la PdC quadruplica. E il circolo di confusione, come influenza la PdC? Qui le cose si fanno interessanti: - Aumentando le dimensioni del circolo di confusione, anche la profondità di campo aumenta. Ma se riprendiamo la tabellina dei circoli di confusione per i vari formati di sensore, vediamo che le full frame hanno un cerchio di confusione maggiore, ad esempio, delle 4/3. Ma non é scritto ovunque che uno dei motivi per avere una full frame é avere meno profondità di campo e poter giocare con il fuoco selettivo? Vero. Ma allora? Ebbene, tutto dipende dal fatto che con sensori più grandi, a parità di angolo di campo inquadrato,

© Andrea Spera/Fotozona

Nel mondo delle “App” ecco venirci in soccorso un calcolatore automatico di profondità di campo e di punto iperfocale. Sicuramente la maggior parte dei lettori di quest’articolo preferirebbero mettersi nelle mani di un calcolo automatico piuttosto d’effettuare tutti i computi personalmente. Come darvi torto, però è interessante immaginare quante cose non saremo più in grado di fare se la batteria del nostro telefono intelligente dovesse esaurirsi. Non è nostro compito fare delle paternali ma ci sembra giusto porre il quesito ritenendo che la conoscenza è potere, e solo tramite il sapere siamo in grado di metterci in posizione privilegiata ogni qual volta si desidera raggiungere determinati risultati o risolvere alcuni problemi. Poi ognuno è libero di pensare e di agire come preferisce, almeno in fotografia questo è concesso senza problemi. 92


La scienza fotografica

usiamo focali più lunghe che diminuiscono la profondità di campo, e la focale pesa sul risultato finale (la PdC) molto più del circolo di confusione. Ora abbiamo tutti gli strumenti necessari per sfruttare questi concetti di modo da produrre delle immagini più ragionate e dai risultati meno casuali. Abbiamo già scoperto che un 50 mm usato per riprendere un soggetto a due metri e mezzo, chiuso a f/8 ha sufficiente profondità di campo per riprendere agevolmente una coppia di persone di modo che siano nitide in quasi tutte le situazioni. Se invece alla stessa distanza utilizzassimo un classico obiettivo da ritratto, un 85 mm, la profondità di campo sarebbe ridotta a “soli” 40 centimetri. Anche qui sufficienti allo scopo. E con un 28 mm? Alla stessa distanza abbiamo una PDC di più di nove metri, sufficiente per gruppi di persone al coperto e all’esterno, ad esempio in una manifestazione. E se lo focheggiassimo a tre metri e mezzo, o poco meno, vale a dire la sua distanza

© Daniele Napoli/Fotozona

iperfocale, avremmo nitido tutto tra un metro e mezzo e l’orizzonte. Queste sono alcune delle impostazioni generiche più utili che si possano conoscere. Se tornando al 50 mm provassimo a giocare con il diaframma, scopriremmo un fatto noto a tutti dalla pratica e dai manuali: aprendo il diaframma (numeri piccoli), la profondità di campo diminuisce, chiudendolo aumenta. Inutile su questo specificare di più. Se il nostro 50 mm a f/8 lo usassimo per avvicinarci al soggetto, fino a mezzo metro ad esempio, la

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© Roberto Orlando/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

nostra profondità di campo si ridurrebbe a 5 centimetri. Anche con il 28 mm le cose non andrebbero molto meglio, avremmo 15 cm. Attenzione quindi perché più ci avviciniamo e più la nitidezza diventa difficile da ottenere e bisogna focheggiare con cura. Chi fa macro ne sa qualcosa. Ma devo proprio calcolarmi il valore dell’iperfocale per ogni focale e diaframma che voglio usare e portarmi dietro delle tabelline o una calcolatrice? Dipende. Fino a non troppi anni fa era buona e gradita abitudine dei produttori di ottiche presentare delle serigrafie sul barilotto dell’ottica che rappresentavano una strana scala graduata. Qualcuno che non ringrazieremo mai abbastanza lo fa ancora. La scala é composta da una serie di numeri in sequenza fissi sul barilotto, del tipo: “22 16 11 8 5.6 * 5.6 8 11 16 22” e un’altra, mobile e collegata all’anello della messa a fuoco con dei numeri in ordine crescente, tipo: 0.7 0.8 1 1.2 1.5 3 6 oo I numeri possono non essere gli stessi, ma il simbolo d’infinito all’estremità crescente della scala ci deve essere sempre. A che serve? Spostando l’anello di messa a fuoco uno dei numeri, che rappresenta una distanza in metri, si viene a trovare sotto il punto centrale della scala fissa. Quella é la distanza a cui si sta mettendo a fuoco. Il

resto della scala fissa e di quella mobile serve all’iperfocale e alla profondità di campo. La scala fissa, quella sopra nel nostro esempio, contiene i numeri associati al diaframma. Si può usare in due modi. Supponiamo di avere il diaframma impostato a f/8. Se ruotiamo l’anello di messa a fuoco fino ad avere il simbolo d’infinito allineato con il numero 8 della parte destra della scala fissa, il nostro obiettivo sarà impostato sull’iperfocale. Il numero sulla sinistra della scala mobile finito sotto il corrispondente numero 8 della scala fissa sempre a sinistra, ad esempio “1” rappresenta il limite anteriore in metri della zona nitida. Con l’obiettivo così impostato avremo nitido tutto tra 1 m e l’infinito. Semplice no? Sì, se vi hanno serigrafato la scala sul barilotto... Vale solo per l’iperfocale? No. A qualsiasi distanza stiate mettendo a fuoco, ad esempio sempre a f/8, in corrispondenza del numero 8 sulla scala dei diaframmi, a destra avremo il limite posteriore della profondità di campo. A sinistra avremo il limite anteriore. Attenzione però che queste scale sono calcolate per sensori full frame, o meglio per la pellicola. Per i sensori APS C é necessario a conti fatti chiudere il diaframma di uno stop o poco più rispetto a quanto indicato dalla scala cioè le indicazioni che la scala danno per f/8 sono valide chiudendo a f/11 e così via. Per il 4/3 e micro 4/3 si deve chiudere di circa 2 stop. Cioè

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La scienza fotografica

di altri fattori, ma il fatto che più é piccolo il sensore più usiamo focali corte nelle ottiche e il peso quadratico della focale fa sì che la profondità di campo nelle foto scattate con sensori piccoli sia sempre molto elevata. L’uso dell’iperfocale é molto adatto per evitare di dover mettere a fuoco prima di scattare una foto. Permette di ottenere immagini nitide, o quantomeno leggibili in condizioni di azione molto veloce in cui non si abbia il tempo di mettere a fuoco il soggetto e ricomporre. È una tecnica comunque utilizzabile solo con focali corte sotto i 50 mm: inutile provarci con i medio tele o con i tele ed ha senso con diaframmi abbastanza chiusi. Poter conoscere a priori la PdC é comunque molto utile quando si vuole essere sicuri di quanta parte del soggetto, risulterà nitida nell’immagine. Non scattate una foto a una coppia di sposi ripresi di profilo a f/4 con un 50 mm a due metri e mezzo da loro. Uno dei due sarà fuori fuoco e si arrabbierà sicuramente se non avrete anche la foto nitida da proporgli. Se proprio siete costretti a farlo, fotografate indicativamente a un terzo della distanza tra il volto del primo e quello del secondo, per farvi bastare i circa 60 cm di profondità di campo che avete a disposizione. E se siete più vicini? Chiudete il diaframma, diminuite la focale... o fate entrambe le cose.

© Andrea Spera/Fotozona

le indicazioni che la scala dà a f/8 vanno usate a f/16, calcolare per credere, e ricordate che sono comunque indicazioni valide spanna più, spanna meno perché derivano da formule approssimate e dall’ipotesi di fondo riguardante il circolo di confusione approssimabile a un punto. Comunque qualche cosa l’abbiamo imparata: La distanza iperfocale é quella che ci permette di ottenere la maggior porzione di spazio nitido nella foto. La profondità di campo, in altre parole lo spazio nitido nell’immagine, dipende dall’iperfocale ed é legata a focale, distanza di messa a fuoco, apertura e dimensioni del sensore. Più corta è la focale, maggiore è la PdC Più vicino si mette a fuoco, minore è la PdC Più chiuso il diaframma, maggiore la PdC, ma il diaframma pesa meno di focale e distanza di messa a fuoco. Più piccolo il sensore, minore la PdC a parità

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© Salvatore Giordano/Fotozona


Š Saverio Barbuto/Fotozona

Tre gradi di profonditĂ fotografica

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LA TEORIA DEL COLORE bioelettrici, inviati al cervello e tradotti in magnifiche sensazioni visive. Il colore è una grandezza psicofisica e soggettiva, è unica in ogni osservatore umano. Gli stessi colori non si presentano in egual modo ad altri esseri viventi a noi vicini: il gatto è affetto da forti forme di daltonismo ma è super ricettivo alle basse emissioni di luce grazie all’abbondante presenza dei bastoncelli, i ricettori ciechi al colore ma sensibili alla luce. Anche i cani soffrono delle stesse mancanze e i tori, a discapito del luogo comune, non sono in grado di riconoscere il rosso. Se il nostro cervello è in grado d’attribuire una specifica forma e colore a una lunghezza d’onda si può anche asserire che i colori (poiché energia) hanno una grossa influenza emotiva e psicologica. Ciò è determinato sia dalle assonanze con la vita reale (fuoco/sangue = rosso), sia per significati ancestrali che possono variare da cultura a cultura (il viola nella nostra società è associato al dolore e alla tristezza). L’energia percepita ha sicuramente la capacità di stimolare alcune parti della nostra mente e del nostro corpo. Su tale teoria è nata la controversa cromoterapia, una forma

Normalmente si pensa che il colore sia un aggettivo dell’oggetto che stiamo osservando: “Di che colore mi vesto oggi?”, “La mela verde e la mela rossa”. Nella realtà l’aggettivo che stiamo descrivendo è determinato esclusivamente dalla luce e dalla capacità di riflessione della materia. Il nostro è un mondo triste e buio, fatto di notte e assenza di croma. S’illumina e si colora solo grazie alla luce. I nostri vestiti, la frutta, le macchine, i cieli, le foglie e tutto il creato sono costituiti da pigmenti in grado di assorbire e rifrangere parte della luce che li colpisce creando la sensazione tanto cara ai nostri occhi che chiamiamo colori. Dobbiamo precisare che i colori sono delle manifestazioni energetiche di onde elettromagnetiche in grado d’essere percepite dall’occhio umano e decodificate dal cervello. Anche le onde radio, i raggi x, gli infrarossi o l’ultravioletto, sono onde elettromagnetiche, ma non percepibili dalla normale visione oculare. I colori sono quindi delle lunghezze d’onda o delle frequenze energetiche, che stimolano i fotorecettori centrali del nostro occhio, i coni, per essere trasformati in segnali

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© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

I primi esperimenti sulle frequenze dei colori furono compiuti da Isaac Newton dopo alcune osservazioni fatte da Roger Bacon. Newton osservò che un raggio di luce bianca, se fatto passare attraverso un prisma di cristallo, era scisso in un arcobaleno di colori. Fenomeno conosciuto come rifrazione, che descrive come energie diverse siano deviate con differenti angoli quando attraversano oggetti di densità dissimili, con conseguenti propagazioni d’onda disuguali. Newton descrisse l’arcobaleno con 7 colori: rosso, arancione, giallo, verde, blu, indaco e violetto. Il numero sette venne scelto più per relazione che per basi scientifiche. Allora erano sette i pianeti conosciuti e sette sono le note musicali. I colori percepibili partono dal violetto con una lunghezza d’onda pari a 380/450 nm, si passa al blu 450/495 nm, al verde 495/570 nm, al giallo 570/590 nm all’arancione 590/620 nm, per finire al rosso 620/750 nm. Prima del viola c’è l’ultravioletto, dopo il rosso esiste l’infrarosso. Energie per noi non più visibili ma percepibili indirettamente attraverso le abbronzature della prima e il calore della seconda. Spesso i colori sono identificati con lunghezza d’onda o frequenza. Sono due sistemi di misurazione che descrivono il medesimo fenomeno. Il primo misura, in miliardesimi di metro (nano), la distanza tra una cresta e l’altra dell’onda elettromagnetica. La frequenza, in Herz, misura il numero di onde che passano per lo stesso punto in un secondo. Alte frequenze corrispondono a basse lunghezze d’onda, infatti l’una è inversamente proporzionale all’altra. Il nero è l’assenza di luce e di colori, il bianco è la somma di tutte le frequenze visibili. Il bianco e il nero non sono colori, o almeno non per i fotografi, mentre lo sono eccome per i pittori che li devono comperare obbligatoriamente.

© Alessandro Andreucci/Fotozona

© Alessandro Landozzi/Fotozona

di medicina alternativa in grado di riequilibrare gli stati d’animo. Ma se ciò che osserviamo non è colorato perché percepiamo dei toni sugli oggetti che osserviamo? Innanzitutto la luce bianca è la somma di tutte le lunghezze d’onda visibili. Una luce proiettata su di un oggetto potrà essere riflessa totalmente e il nostro occhio distinguerà una diffusa tonalità bianca, oppure, se dovesse assorbire tutta l’energia luminosa, percepiremmo il nero. Se l’oggetto illuminato assorbisse solo alcune lunghezze d’onda, esso si colorerebbe dei colori rifiutati cioè quelli rimbalzati. Quando facciamo una distinzione basata sui colori, dovremmo dire: “Scelgo la cravatta che rifiuta l’azzurro” oppure “indosso il vestito con i pigmenti che assorbono l’arancione”. In entrambi i casi stiamo scegliendo qualche cosa di azzurro, un metodo troppo complesso per descrivere il colore che indosso, ma è il reale processo che avviene in natura. La soggettività dei colori mal s’accompagna a chi ha necessità di riprodurli. Fotografi, pittori, tinteggiatori, tipografi e migliaia di altri professionisti hanno sempre avuto bisogno di standard di riferimento per “oggettivare” una sensazione tipicamente personale. A questo 98


La scienza fotografica

lunghezze d’onda e dell’energia, l’altra fa parte della vita quotidiana. Nella sintesi additiva i tre colori primari sono: Rosso, Verde e Blu (RGB con i nomi dei colori tradotti in inglese). Attraverso la loro interazione, si possono riprodurre la maggior parte dei colori visibili. Questa sintesi è alla base del funzionamento dei monitor, dei televisori e degli smatphone. Si applica a tutte le situazioni in cui i colori sono formati da luce e dalla mescolanza o dalla somma di lunghezze d’onda diverse. Dove i tre fasci colorati s’intersecano contemporaneamente, si crea la luce bianca. Nelle intersezioni di soli due colori, avremo la comparsa dei tre

© Alessandro Andreucci/Fotozona

proposito si sono attivati degli organismi internazionali quali la CIE (Commission Internationale de l’Eclairage) e la OSA (Optical Society of America) con il compito di eseguire calcoli su delle grandezze definite che prescindano dalla soggettività. Questi studi sono complessi e articolati ma è interessante capire come sia possibile creare infiniti colori attraverso un numero limitato di tinte. Nella vita reale sono due i procedimenti di formazione dei colori e vengono denominati sintesi additiva e sintesi sottrattiva. La prima è realizzata tramite la somma di fasci luminosi con varie lunghezze d’onda. La seconda si riferisce ai pigmenti che creano sensazioni di colore attraverso l’assorbimento delle onde elettromagnetiche visibili. Non confondiamole, una fa parte del mondo intangibile delle

colori denominati secondari: il Cyan (blu + verde), il Magenta (rosso + blu) e il Giallo (rosso + verde). La sintesi sottrattiva descrive il modo più diretto che abbiamo di percepire e vivere i colori. Si riferisce ai pigmenti e alle sostanze che assumono determinate tonalità assorbendo specifiche lunghezze d’onda. Le gradazioni colorate si generano attraverso la sottrazione di frequenze da una luce bianca. I colori primari della sintesi sottrattiva sono Cyan, Magenta e Giallo, gli stessi utilizzati dalle cartucce delle stampanti inkjet per riprodurre su carta le immagini visualizzate a monitor. Anche in questa sintesi possiamo notare che l’interazione tra i colori ne genera altri, la percezione di una tinta (ad esempio il giallo) è data dall’assorbimento del suo colore complementare che è la tonalità posta a 180° 99


Tre gradi di profondità fotografica

di distanza sul Cerchio Cromatico (in questo caso il blu). Ogni colore primario nella sintesi sottrattiva assorbe il 33% della luce bianca che lo colpisce. Dove c’è l’intersezione di tutti e tre i colori primari si ottiene il nero (che è l’assenza di luce perché tutto lo spettro luminoso è stato assorbito in pari percentuali dai colori sottrattivi). La somma a due a due dei colori primari sottrattivi, creerà dei colori secondari (rosso, verde e blu, che sono i primari dell’atra sintesi). magenta + giallo = rosso giallo + cyan = verde cyan + magenta = blu La creazione di gran parte dei colori percepibili avverrà con la miscelazione dei pigmenti in percentuali diverse. Come in ogni teoria, occorre precisare che la pratica è un po’ diversa. Soprattutto nella sintesi sottrattiva l’imperfezione e l’impurità dei pigmenti, ottenibili industrialmente, impedisce di confermare quanto appena asserito dalla tesi. Difatti nelle stampe delle inkjet, oltre ai tre colori della sintesi sottrattiva, si aggiunge un quarto inchiostro, il nero. Il suo scopo è di rinforzare i contrasti e le tonalità scure che non riescono ad avere una profondità e un’intensità accettabile. Il cerchio cromatico Immaginiamo d’inserire i colori primari della sintesi additiva su uno spazio bidimensionale e circolare (il cerchio chiaro del grafico), dividendo i 360° del cerchio avremo i tre colori (rosso verde

© Luca Scaramuzza/Fotozona

Lunghezza d’onda - esprime la distanza tra un picco e il seguente all’interno di un’onda elettromagnetica. Nel caso dello spettro visibile le onde interessate vanno da 380/400 a 750 nm (nanometri). Frequenza - indica quanti picchi sono presenti all’interno di una data unità di tempo.

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Il cerchio cromatico e la formazione dei colori


La scienza fotografica

e blu caratterizzati dalla lettera A) posizionati a 120° ciascuno, la somma a due a due di questi colori determinerà la posizione delle tonalità appartenenti alla sintesi sottrattiva (i colori contrassegnati con la S), anch’esse distanti 120° tra loro ma a soli 60° dai colori dell’altra sintesi. Ora, ogni colore è a 60° dall’immediato vicino ed è distante al massimo 180° dal suo colore complementare (opposto e antagonista). Due colori complementari, se utilizzati nella sintesi sottrattiva, si annullano generando il nero. Il grafico, pur nella sua massima incompletezza, ha il pregio di fornirci la disposizione spaziale dei colori primari delle due sintesi e ci fa comprendere quale colore si può ottenere mischiandone altri due. Ad esempio: mischiando il rosso e il giallo otterremo l’arancione; con il blu e il magenta otterremo il viola; con la somma di blu e cyan ricaveremo l’azzurro e così via all’infinito. Alcuni colori non possono essere rappresentati su questo grafico in quanto contengono anche parti di bianco (il rosa o il lilla), oppure di nero (il granata, il blu di Prussia o il verde oliva). Se con il bianco e nero possiamo giocare con un contrasto semplice e diretto, basato esclusivamente sulla differenza di luminosità tra i toni scuri e quelli chiari, nella fotografia a colori i contrasti sono molteplici. Oltre a concetti fisici di riflessione e assorbimento, si basano anche su caratteristiche emotive tipicamente umane.

Con il contrasto complementare si creano automaticamente altri tipi di contrasto quali caldo/freddo o chiaro/scuro perché i colori opposti possiedono svariate caratteristiche contrastanti. Anche impiegando saturazioni tenui non c’è il rischio di creare immagini smorte o deboli. Il contrasto di tinte complementari è per fotografie dirette, forti, che non hanno paura di mettersi in evidenza e vogliono arrivare direttamente all’attenzione dell’osservatore. A volte urtano perché troppo forti e stridenti.

© Carola Casagrande/Fotozona

Contrasto di qualità. L’utilizzo di toni ravvicinati nel cerchio cromatico fornisce un contrasto morbido e delicato. I colori sfumano su se stessi fornendo un’apparenza soffice e mai eccessiva. E’ la formula cromatica adatta per rappresentare forme quiete, equilibrate, calme, poetiche e sognanti. A questa tipologia di contrasto cromatico si possono associare anche tecniche pittoriche o di high key. Contrasto freddo/caldo E’ originato dalla diversa interpretazione che fornisce il nostro occhio osservando determinati colori associandoli a percezioni sensoriali. Il fuoco o la luce si ricollegano a colori caldi: rosso e giallo. Il ghiaccio e il fresco della natura a colori freddi quali blu e verde. Cambiando leggermente il grafico del cerchio cromatico iniziale, abbiamo tracciato una retta obliqua di demarcazione. Da un lato vi sono i colori freddi, all’opposto quelli caldi. In mezzo, i magenta e i verdi sono colori considerati ambigui o di confine. Possono diventare freddi

© Saverio Barbuto/Fotozona

Contrasto complementare L’utilizzo di due colori agli estremi del cerchio cromatico assicura il massimo impatto emotivo. Le tinte sono antagoniste e assicurano il massimo impatto visivo. 101


Tre gradi di profondità fotografica

RGB - in un programma di fotoritocco è possibile indicare un preciso valore matematico per ogni canale colore che lo compone (Red, Green, Blue). I numeri sono delle coordinate che permettono di ricreare la stessa tinta anche su computer diversi con diversi apparati di visualizzazione. La stessa cosa avviene anche in quadricromia con l’utilizzo del sistema CMYK (Ciano, Magenta, Yellow e blacK). Contrasti colore - i contrasti di colore si riferiscono di più a situazioni soggettive emozionali piuttosto che a valori misurabili. E’ un concetto psicologico che varia notevolmente da soggetto a soggetto fino a diventare nullo nelle persone affette da alterazioni visive cromatiche (daltonismo).

I colori caldi/freddi sul cerchio cromatico

o caldi con lievi variazioni di tinta. Ad esempio un verde veronese avrà una composizione con alto contenuto di cyan quindi freddo; questo colore è ottenibile con Photoshop creando una tinta dal pannello colore in primo piano e immettendo le seguenti impostazioni sui valori di RGB: 64 – 130 – 109. Osservando i numeri indicati noteremo che i valori del Blu/ freddo sono maggiori del Rosso/caldo. All’opposto un verde arlecchino (valori RGB 63 – 255 – 0) senza il blu e con equivalenza di rosso rispetto al verde veronese si presenterà come tinta calda. Il contrasto freddo/caldo è “auto rafforzativo”, i freddi evidenziano i caldi e viceversa. Mettendosi in contrapposizione si risaltano vicendevolmente. Apparentemente i colori caldi sembrano avanzare verso l’osservatore mentre quelli freddi appaiono più distanti ed eterei. Il contrasto di masse o di qualità si evidenzia nel rapporto tra due tonalità che presentano notevoli differenze sia dal punto di vista cromatico sia in quello volumetrico. La dimensione del colore determinerà il rapporto soggetto/sfondo: il primo sarà attribuito all’area più piccola che si stacca dalla massa uniforme interpretata come sfondo. La forza visiva del soggetto sarà stabilita dalla distanza

James Clerk Maxwell - è stato un matematico e fisico scozzese che elaborò la prima teoria moderna sull’elettromagnetismo. In fotografia ha un’importanza fondamentale perché fu il primo ad ottenere una foto a colori. Ebbe l’intuizione di ricreare la gamma cromatica attraverso i tre primari della sintesi additiva. Fece scattare, da Thomas Sutton, la medesima foto attraverso tre filtri colorati (verde - rosso - blu) per poi riproiettare i bianchi e nero ottenuti attraverso tre proiettori con i medesimi filtri colore della ripresa originaria. La sovrapposizione dei tre negativi colorati riproduceva alcuni dei colori della scena. Qui in basso la prima foto a colori della storia, scattata nel 1861.

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La scienza fotografica

© Salvatore Giordano/Fotozona

cromatica tra i due colori. Se complementari l’effetto sarà massimo, se vicini sul cerchio cromatico l’effetto sarà tenue e determinato solo dai volumi. Questo contrasto può essere ottenuto anche con piccole porzioni colorate all’interno di grandi spazi neri o bianchi. Il contrasto chiaro-scuro nasce dalla presenza di due masse cromatiche che si differenziano nell’intensità luminosità. E’ quello che più si avvicina al contrasto base del bianco e nero, la sua forza è originata dai toni chiari che si ergono dalle tenebre. Si presta per le tecniche di Low Key ed esalta le situazioni drammatiche. E’ una tecnica che ha preso vigore con il digitale attraverso tutte le possibilità fornite dai software

© Daniele Napoli/Fotozona

di elaborazione. Ognuno dei contrasti cromatici descritti può convivere e coesistere con tutti gli altri. L’incrociarsi delle tecniche può portare a risultati visivi di forte impatto. Se con il bianco e nero si esaltano le forme, le differenze di luminosità e i contenuti del messaggio, nel colore il fotografo gioca con vibrazioni intangibili, sensazioni extratattili che stimolano emozioni senza necessità di concetti o contenuti. Un fiore in BN è solo una gradazione limitata di toni grigi, la stessa foto a colori c’illumina di onde elettromagnetiche e di energia cromatica.

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© Angelo Abate/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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IL BILANCIAMENTO DEL BIANCO Abbiamo appena detto che nella sintesi additiva l’intera gamma cromatica si genera con l’interazione di tre frequenze RGB (rosso - blu verde). Se la somma dei tre colori è equilibrata e bilanciata, si otterrà il colore bianco, ma se uno dei tre colori dovesse essere preminente avremo una colorazione sovrastante che influirà su tutti i toni rendendosi più visibile nelle intensità chiare. La leggera tinta, che da ora chiameremo “dominante”, è determinata da frequenze sovrabbondanti (la dominante assumerà il colore della frequenza cromatica più potente) o da frequenze mancanti (la dominante prenderà il colore complementare della frequenza assente all’interno della sintesi additiva). Nel primo caso una sovrabbondanza di blu colorerà di

© Lodovico Ludoni/Fotozona

© Mauro Trolli/Fotozona

freddo tutta l’immagine, nel secondo caso una mancanza di frequenze blu esalterà il colore complementare, quindi il rosso. Le dominanti delle scene sono causate da condizioni luminose sbilanciate. Il sole, ad esempio, pur brillando sempre nello stesso modo, ha degli eccessi caldi (con tonalità giallo/rosse) durante l’alba e il tramonto. La luce solare potrebbe emanare lunghezze d’onda molto fredde (colori blu/violetto) su soggetti in ombra poco prima dell’alba o al crepuscolo. All’alba o al tramonto il colore della luce è determinato dalla maggiore porzione di atmosfera che è costretta ad attraversare. Il sole posto all’orizzonte subirà l’assorbimento nelle frequenze del blu con conseguente rafforzamento del colore opposto: il rosso. Nel caso della luce fredda, l’effetto è provocato da un’illuminazione indiretta, come quella che arriva da nord, che riverbera le luminosità colorandole con le tonalità del cielo raffreddando tutti i colori della scena. Questi fenomeni sono costantemente presenti nella vita quotidiana ma ce ne accorgiamo solo nelle condizioni estreme. In tutte le altre circostanze, la visione sarà regolarizzata dal nostro cervello che media i colori attraverso le informazioni acquisite nella nostra esperienza visiva. Sconfinando 105


Tre gradi di profondità fotografica

Frequenze sovrabbondanti - una luce squilibrata, secondo lo standard delle frequenze solari tarato a 5000 - 5500° K, emetterà un eccesso di lunghezze d’onda cariche di colori caldi (4500° K o inferiore) oppure freddi (6000° K o superiore). Tutti i colori sono influenzati in modo proporzionale. La correzione di questo difetto cromatico può essere risolto in fase di ripresa (utilizzando filtri di correzione o impostando il giusto bilanciamento del bianco), oppure in fase di elaborazione (attraverso strumenti di correzione cromatica o impostando il bilanciamento a posteriori se si è utilizzato il file RAW).

brevemente nella semiotica, possiamo dire che un foglio di carta bianco ci apparirà sempre bianco, a prescindere dalla sorgente luminosa, perché il nostro cervello, mischiando l’informazione visiva al concetto di foglio intonso su cui scrivere, eliminerà le anomalie cromatiche per far prevalere la conoscenza ancestrale della sua funzione. Per un attento osservatore, la comparazione potrebbe essere l’unica possibilità di percepire il fenomeno: ponendo lo stesso foglio in una

Frequenze mancanti - se una luce ha la temperatura di colore equilibrata ma nel suo spettro di emissione manca una frequenza, avremo uno squilibrio cromatico che assumerà la predominanza del colore opposto o complementare. Questo difetto di tinte (tipico delle luci neon) è più difficile da correggere perché la mancanza di alcune frequenze genererà mancanza di alcuni colori. Verde e cyano - il nostro cervello assegnerà delle corrispondenze dirette tra l’oggetto e il suo colore. Non ci sono pregiudizi insormontabili su di un singolo colore ma sicuramente preconcetti difficili da superare. Ad esempio: guardando un’acqua azzurra o verde si avrà una sensazione di purezza e di freschezza. Ma un volto azzurro o verde sarà interpretato come situazione “aliena” o come rappresentazione di disagio e malattia. Un volto molto caldo sarà accettato tranquillamente perché simbolo di salute ma l’acqua rossa sarà la dimostrazione di un fiume inquinato. I colori giocano con la nostra psiche e sono la registrazione visiva delle esperienze vissute.

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situazione di doppia e differente illuminazione potremo verificare direttamente l’effettiva differenza di dominanti cromatiche presenti. Le macchine fotografiche non sono in grado di discernere l’oggetto fotografato, bilanciano la luce secondo le specifiche impostate. Spesso sbagliano, ma se succede, è sempre colpa del fotografo che non ha saputo interpretare la scena o non ha usufruito delle corrette impostazioni. Prima di tutto la teoria Incominciamo a spiegare che la temperatura di colore è espressa in gradi Kelvin con simbolo K. E’ una scala che assomiglia alla Celsius,

AWB pag. 57 RAW pag. 58 - 60 - 109 106


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assumeranno la tinta della luce che li investe, i colori forti saranno accentuati o attenuati a seconda se la luce che li colpisce ha frequenza d’emissione simile o complementare. A parte alcuni casi, il fotografo ha la necessità di riprodurre i colori così come l’esperienza comune li ha memorizzati. Un volto verde o cyano non sarà facilmente accettato se non come rappresentazione di un essere umano malato o dalla salute cagionevole. Con questo ulteriore grafico possiamo assegnare una corrispondenza tra gradi K e sorgenti luminose. Utilizzare luci con temperature distanti dai 5000 - 5500° K equivale a servirsi di filtri colorati davanti all’obiettivo. Se non si bilancia lo squilibrio cromatico, tutta la scena sarà alterata. Per compensare questi squilibri è possibile impostare il giusto bilanciamento del bianco dal menù appropriato delle fotocamere. Una serie d’icone indicano le possibili variabili. Nel grafico riportiamo, in linea di massima, la temperatura di colore corrispondente a ogni icona. Stabilire il giusto bilanciamento significa indicare alla macchina la qualità della luce in cui si sta operando, essa provvederà automaticamente a ricalibrare i colori cercando di fornire la massima correzione per ogni condizione. Un tale intervento non è per nulla semplice, non solo è necessario ricordarsi le tabelle che abbiamo pubblicato, ma è opportuno allenare l’occhio al riconoscimento

ma lo 0° non indica il punto di congelamento dell’acqua (scala relativa che può cambiare secondo la pressione atmosferica), bensì allo 0° assoluto, cioè il punto in cui gli atomi (teoricamente) perdono ogni attività cinetica. Lo 0° assoluto è una misura precisa e universale, non cambia al variare di altri parametri e corrisponde a -273,15° C. In illuminotecnica, quindi, la temperatura colore esprime i gradi Kelvin necessari per far emettere determinate frequenze luminose a un corpo nero metallico (oggetto teorico fatto di nero puro in grado di assorbire tutte le frequenze di luce incidente). Cambiando temperatura cambierà la frequenza luminosa emessa, come da grafico sottostante. A basse temperature l’oggetto nero emetterà maggiori frequenze di rosso per passare al giallo, raggiungere il bianco in prossimità dei 5000° K per poi spingersi nella frequenza dei blu a temperature superiori. Con questo semplice esempio è possibile comprendere che gli oggetti che fotografiamo potrebbero cambiare i loro colori a seconda della luce che ricevono. Colori tenui o bianchi

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Tre gradi di profondità fotografica

della qualità della fonte luminosa. Se le impostazioni generiche delle icone non dovessero soddisfare le nostre esigenze, le fotocamere offrono alcune altre scelte per la taratura: Temperatura colore con quest’impostazione s’indicano direttamente alla fotocamera i gradi K desiderati. Per poterlo fare in modo efficace è necessario possedere un altro apparato chiamato termocolorimetro. Un misuratore di temperatura di colore piuttosto costoso ad appannaggio esclusivo dei professionisti. Oppure affidarsi a una profonda conoscenza dell’illuminotecnica. La funzione temperatura di colore personalizzata imposta il corretto bilanciamento calcolandolo su di uno scatto già realizzato. Sarà tanto più preciso quanto più bianco sarà presente nello scatto di misurazione. Per ottenere un buon risultato serve disporre un foglio bianco nella scena in cui si desidera compiere le riprese e indicarlo alla macchina. La temperatura di colore personalizzata sarà misurata su quel bianco e tutta la scena si bilancerà automaticamente. Non è necessario conoscere a memoria tabelle e teorie ma la velocità operativa potrebbe essere drasticamente ridotta poiché bisogna procedere a successive misurazioni ogni volta che cambierà qualche parametro nella scena (utilizzo di nuove luci, spostamento delle stesse, del soggetto o del fotografo). L’ultima impostazione è quella più utilizzata dai fotoamatori ma anche dagli stessi professionisti. Si tratta dell’AWB - Automatic White Balance, bilanciamento del bianco automatico. Tutte le macchine sono impostate di default su questo bilanciamento perché di facile e immediato utilizzo. Nell’AWB la macchina si comporta esattamente come nell’impostazione della temperatura di colore personalizzata, solo che l’operatore non deve indicare il punto da considerare bianco, lo fa direttamente la

Due libri pubblicati da Carocci Editore. Un argomento impegnativo ma affrontato con un linguaggio comprensibile anche per i non addetti ai lavori. Il libro di Polidoro dedica ai colori e alla loro influenza psicologica l’ultimo capitolo del volume.

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La scienza fotografica

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bilanciamento dei colori, lasciandoci il tempo di decidere il WB più adatto alla scena che si è colta. I colori che osserviamo sono il frutto di un’interazione tra la qualità della luce, che possiede specifiche caratteristiche luminose, e l’oggetto illuminato che possiede specifiche capacità di riflessione o assorbimento. La realtà che cerchiamo di catturare è un misto complesso di sintesi additiva e sottrattiva. A tutto ciò il fotografo può ancora aggiungere la sua interpretazione. Il risultato finale è quella meravigliosa e intricata arte che chiamiamo fotografia, un metodo di scrittura che sembra diretto e immediato ma che per essere sfruttato pienamente ha bisogno di applicazione, conoscenza e metodo.

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fotocamera misurando la zona più chiara della scena. La macchina fotografica individuerà il punto più luminoso dell’inquadratura e lo considererà come se fosse bianco, su di esso eseguirà il bilanciamento azzeccandolo se il punto misurato era effettivamente bianco, sbagliandolo se il punto scelto era di colore diverso. Si può notare che ogni scelta ha pro e contro, non esiste l’impostazione infallibile e solo il fotografo può determinare la giusta procedura caso per caso. L’impostazione più comoda (l’AWB) è anche la più pericolosa perché sminuisce la conoscenza della teoria del colore confidando ciecamente sull’intelligenza artificiale. L’AWB utilizzato con inconsapevolezza è sempre un errore didattico ma anche pratico. Se sfruttato con il formato RAW allora effettivamente si trasforma nel miglior metodo di bilanciamento colore. Il RAW registrerà un file che il fotografo potrà equilibrare a suo piacimento dopo lo scatto. La macchina si limiterà ad annotare toni e contrasti, l’equilibrio cromatco sarà applicato in fase di fotoritocco. Questa prassi eviterà i fastidiosi errori da dominante, sempre difficili da correggere su file 8 bit. A monitor si osserverà con più cura e calma il 109

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LA COMPOSIZIONE FOTOGRAFICA

PARTE II

quale si fonda. La fotografia ha dato all’individuo occidentale la possibilità di creare un frammento di eternità, senza dover abbandonare la convinzione che niente è eterno”. Di tutte le arti visive è quella che riesce meglio a catturare l’istante per racchiuderlo in un’area determinata (inquadratura). Per imprigionare il tempo esistono le macchine fotografiche, le velocità di otturazione e migliaia di articoli che descrivono l’esposizione, il mosso o il “congelamento” dell’istante. Per racchiudere nel modo adeguato quell’attimo unico, esiste solo il mirino e la capacità di determinare i limiti dell’oggettività. La realtà dell’immagine termina con la cornice della foto, oltre c’è il nulla, al di là del margine c’è solo la fine. Per un fotografo, normalmente, il bordo non è come quello dei fogli di carta bianchi che alle elementari dovevamo riempire di cose e colori. Per chi è armato di apparecchi fotografici, il bordo è un taglio netto che spacca e separa il resto dell’ambiente separando il desiderio da ciò che non c’interessa. Tagliare nettamente un

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La fotografia non ha profondità, non possiede il dono del movimento, è piatta, statica e antiquata ma la sua immobilità è ciò che governa la forza dell’immutabile. La vecchia magia dell’istante che si perpetua eternamente, perdura in noi, adesso, esattamente come viveva nell’ottocento, quando sembrava impossibile che i propri cari potessero essere ritratti in così breve tempo. Negli scatti immediati e semplici poniamo i nostri desideri di ricordo, di condivisione e trasmissione. Come dice Diego Mormorio nel suo libro “Catturare il tempo”: “Con la fotografia l’Occidente ha arginato una parte dell’angoscia che deriva dal nichilismo sul

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Tre gradi di profondità fotografica

oggetto significa proporre una visione personale, non si crea una possibile interpretazione ma la si impone con convinzione. Un taglio leggero (come il troncamento della punta delle scarpe del soggetto) sarà sempre percepito come un errore, una distrazione imperdonabile proprio perché leggera. Su tutte le estremità della fotografia ci sono delle tensioni invisibili ma tangibili. Come abbiamo già detto il bordo è la fine della foto, ma in chi osserva, corrisponde anche alla fine della realtà o dell’azione. Più un soggetto si avvicina al bordo dell’immagine, più si approssimerà alla sua fine. Detto così potrebbe sembrare un elemento negativo ma nell’arte fotografica è fonte di continua inventiva. Un atleta vicino al bordo di provenienza del movimento (in questo caso il sinistro dell’immagine) darà l’impressione di avere ancora molto spazio da percorrere; di essere

Un’interessante analisi della fotografia, dei significati e delle funzioni che si è assunta nel corso dei suoi (quasi) due secoli di vita. Catturare il tempo è scritto dallo storico della fotografia Diego Mormorio ed edito da Postcart.

La Teoria del Campo di Attilio Marcolli è un libro del 1971 ancora attuale. Si parla di spazio, di forme e di “campi”. Erroneamente indicato come libro complesso, riesce a essere un libro accessibile a tutti. Utile per fotografi, grafici, architetti e per chiunque abbia voglia di capire di più sulle forme e sulla percezione. Edito dalla Sansoni nel 1976, oggi è un marchio della Arnoldo Mondadori Editore. L’ultima edizione è stata pubblicata nel 1989. Da ricercare e acquistare. 112

© Max Ferrero


La scienza fotografica

all’inizio della fatica o di trovarsi ancora distante dalla linea del traguardo. Viceversa, lo stesso scatto con l’atleta posto vicino al bordo di fine movimento (destro dell’immagine), donerà la sensazione dell’arrivo, della vittoria e del distacco degli avversari. Il formato (16:9), esasperato volutamente in orizzontale, il movimento e la direzione da sinistra a destra, conferiscono una maggiore percezione di velocità a tutta la scena. La fotografia presenta una spiccata mancanza di nitidezza determinata dal mosso, ma i colori e la dinamicità del gesto, impediscono agli errori tecnici di essere considerati tali. In situazioni come questa, dove non è possibile avere una seconda possibilità di scatto, è consigliabile restare sempre più “larghi” del dovuto e riquadrare perfettamente solo in fase di ritocco finale. In un’inquadratura, la massima tensione periferica si percepisce maggiormente negli angoli dell’immagine. Imporre una precisa diagonale tra due spigoli, ha il doppio vantaggio di sfruttare armonicamente gli elementi grafici presenti sulla scena alterandone l’orientamento e provocando uno sbilanciamento calcolato, accettato dall’osservazione grazie alla perfetta collimazione tra il soggetto e le estremità dell’immagine. Spesso il bordo non ha bisogno di essere enfatizzato, possiede già abbastanza influenza ed è stucchevole sottolinearlo ulteriormente con un filetto o

© Luca Scaramuzza/Fotozona

una cornice. Ma nel caso della foto qui in alto, la presenza di un cielo lattiginoso e la necessità di percepire il gioco della diagonale hanno obbligato l’autore al suo utilizzo. Il bordo è l’elemento caratterizzante della foto, con quel sottile segno scuro si facilita la visione e la comprensione delle reali intenzioni dell’artista. Senza di esso saremmo in presenza solo di un profilo di sottomarino con un cielo piatto di difficile comprensione. A volte un bordo delineato non è sufficiente e si utilizzano le cosiddette “cornici naturali”. Esse sono dei bordi presenti nella scena reale, utilizzati dai fotografi per armonizzare gli spazi e concentrare la curiosità e l’interesse di chi osserva. Capita spesso di essere alla presenza di soggetti “deboli”, cioè incapaci di catalizzare all’istante l’attenzione. Una cornice naturale avvicina istintivamente lo sguardo al soggetto proposto, facendolo riconoscere come tale

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© Carola Casagrande/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

Si può imparare molto apprendendo anche da altre arti che non siano direttamente fotografiche. Un manuale di grammatica dell’inquadratura cinematografica amplia la visione del fotografo verso un’arte simile ma alternativa alla fotografia. Un libro che si presenta anche come vademecum pratico, fornendo esercizi e test per verificare il grado di conoscenza sulla materia. Scritto da Christopher J. Bowen e da Roy Thompson, La grammatica dell’inquadratura è stato pubblicato dalla Dino Audino Editore nel 2014. La casa editrice è specializzata nella pubblicazione di volumi dedicati al cinema.

© Alessandro Landozzi/Fotozona

© Pierlorenzo Marletto/Fotozona

anche se piccolo e poco evidente. Le cornici naturali sono ovunque, feritoie, finestre, sbarre, cornici, cancelli o porte. Forniscono in modo naturale un’evidenza che la cornice aggiunta in postproduzione non riesce a concedere. Sono degli appigli per lo spettatore e lo conducono dove si vuole che vada. Una forma di costrizione o di aiuto per chi, guardando, non sa che cosa volesse riprendere il fotografo. Permettono una facile interpretazione confezionando i soggetti, abbellendo situazioni

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© Daniele Napoli/Fotozona

spazio e soprattutto la vicinanza al bordo sono ulteriori elementi da considerare al momento dello scatto. Inquadrare significa porre dei limiti alla realtà, e con tale azione imponiamo il nostro pensiero attraverso il controllo dello spazio. L’ambiente e ciò che ci circonda si piegano alla nostra volontà creativa. Escludendo un semplice elemento si possono creare foto che si trasformano in visioni. Un elemento apparentemente poco espressivo, quale il limite dello scatto, ha un’incredibile potenza di espressione. Può determinare la fine del concetto e il limite dell’osservazione, demarca ciò che c’era da ciò che si è voluto raccontare.

apparentemente normali, concentrando l’osservazione, focalizzando il concetto. La cornice può diventare elemento fondamentale: nella foto d’esempio, la scala è un’estensione dei bordi che incorniciano il soggetto centrale: il buio. L’oscurità, il nemico giurato dei fotografi, diventa il concetto principale della foto tramite una visione indiretta. Il buco nero si trasforma in protagonista non perché preminente rispetto al resto, ma perché suggerito dall’abbraccio di ciò che noi percepiamo come un’intelaiatura di quadro. La scelta delle proporzioni: quadrato, rettangolare o super rettangolare. La direzione del formato: orizzontale, verticale. La posizione dei soggetti all’interno dello

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© Angelo Abate/Fotozona



Tre gradi di profonditĂ fotografica

Capitolo III

Le creazione fotografica

Š Angelo Abate/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona


DIMMI COME FOTOGRAFI E TI DIRÒ CHI SEI Che presunzione un titolo simile, ma è vero che dagli scatti dei fotografi traspare il loro carattere, si svelano i pensieri e i sogni reconditi. Dalle immagini che produciamo si denota il percorso del nostro passato e si delinea il futuro di quel che faremo. La filosofia con cui ci approcciamo al mezzo di riproduzione visiva fa trapelare i nostri desideri, l’indole creativa, l’istinto ribelle o il condizionamento di massa.

sottoprodotti del cinema o degli audiovisivi, ambigui anche nella denominazione. E’ immobile, statica, noiosa e ripetitiva; eppure, nonostante gli anni che accumula, nonostante tutte le restrizioni di cui è prigioniera, non riesce e non può essere dimenticata da chi fruisce delle sue inaspettate virtù. Di pregi ne ha pochi, legati quasi tutti alla sfera dei ricordi, al tramandare istanti che rischierebbero di sparire anche nella mente di chi li ha vissuti. In questa sua semplicità ha trovato la forza di sopravvivenza, in questa nicchia esistenziale rischia di trascinarsi sempre uguale e sempre immutabilmente ripetitiva. Ma cosa si è realmente evoluto nel messaggio fotografico?

© Salvatore Giordano/Fotozona Fotografando il vetro smerigliato di una vecchia macchina fotografica posta all’ingresso del Museo del Cinema di Torino l’autore crea un ritratto volutamente ribaltato sia nella forma sia nel concetto stesso del voler ricordare.

Che strano linguaggio è la fotografia, ha quasi 200 anni e in questi due secoli non ha saputo rinnovarsi spiritualmente, così intenta a “copiare” la realtà ha demandato ad altre arti l’espressione concettuale. Le sue evoluzioni sono sempre state di ordine tecnico, non hanno rinvigorito la sua crescita spirituale, bensì frenato lo spirito creativo. La fotografia è ancora bidimensionale, l’effetto a tre profondità con le foto stereoscopiche fu abbandonato già nell’800. E’ afona, i tentativi di aggiungere audio o musiche hanno generato solo dei

1924 - una posa in studio di mio nonno durante la leva da alpino. Lo sfondo suggerisce un luogo curato e dignitoso. La posa è studiata per trasmettere forza e sicurezza. Il trespolo aiuta il soggetto a stare fermo durante le lunghe esposizioni in studio. La divisa militare e il cappello d’alpino suggeriscono che la foto sarebbe diventata anche una cartolina da spedire ai genitori o alla fidanzata per comunicare l’eccellente stato di salute e l’orgoglio di far parte di uno dei corpi militari che contribuirono a vincere la prima guerra mondiale. 119


Tre gradi di profondità fotografica

Tutto il mondo in un istante La fotografia tende a non registrare il tempo che passa, cattura l’istante e lo rende eterno. Quei volti che ci osservano seri o sorridenti raccolgono l’incanto che, solamente in quell’istante, poteva essere colto con l’aiuto della luce. Un mondo di esperienze, di sentimenti e di passioni racchiusi in un’unico scatto. Una frazione di secondo che, se raccolta al momento giusto, supererà indenne il trascorrere del tempo rendendosi immortale. Per chi visse nell’800, i prodigi del dagherrotipo, chiamato anche “specchio della memoria”, erano paragonabili all’alchimia, un crogiuolo di mistero e chimica uniti e tese alla creazione di miracoli visivi. Per la prima volta un proprio caro, persino un figlio già defunto, avrebbe potuto essere ritratto, alimentando il suo ricordo, perpetrando la sua immagine fino alla fine dei tempi. Osservare queste fotografie ai giorni nostri ci sgomenta. Abbiamo la sensazione che

Specchio della memoria - era uno dei termini utilizzati per descrivere la magia del Dagherrotipo, una delle prime forme di fotografia, che si presentava come ombra diafana ma spettacolarmente nitida sopra una superficie metallica dall’effetto specchio. Dalla sua presentazione, avvenuta nel 1839 da parte di Daguerre, vi fu una corsa all’apprendimento e allo sfruttamento della nuova arte che fu fonte di guadagno e di stimolo creativo per molti pittori considerati di seconda categoria. La pratica di ritrarre i defunti, molto praticata in epoca vittoriana, viene definita come “post mortem”. Caduta in disuso con lo scoppio della seconda guerra mondiale, ha visto un evolversi continuo degli stili. Ai primordi della fotografia il defunto ripreso aveva tendenzialmente gli occhi chiusi e veniva ritratto in un atto che somigliava al sonno. Dopo il 1860 cominciarono ad apparire i primi scatti in cui il fotografo spinge la finzione fino a riprendere i morti in posizione eretta, con gli occhi aperti e con le guance ritoccate per conferire un’aura di vita ormai persa. Ancora ai giorni nostri la pratica di riprendere i cadaveri durante la cerimonia del funerale è presente in alcune culture dell’est Europa o tra le popolazioni nomadi dei Rom.

nel passato fossero praticate procedure insane e barbariche. Il concetto che le rese indispensabili, invece, è semplice e comprensibile: creare la riproduzione di un corpo o di un volto prima che il tempo ne cancelli i tratti, fissandone definitivamente la riconoscibilità senza doversi arrendere alla caducità del ricordo mentale.

Foto stereoscopiche - è una particolare tecnica che permette la visione della profondità tridimensionale attraverso la visione binoculare dell’occhio umano. Il metodo, inventato da Charles Wheatstone nel 1832, anticipò di 7 anni l’invenzione della fotografia. Con gli sviluppi tecnologici di quest’ultima, Wheatstone entra in 120


La creazione fotografica

Questa pratica divenne sempre meno utilizzata mano a mano che le macchine fotografiche si sostituirono ai professionisti del ricordo. Sì, perché i primi fotografi non erano altro che dei “mercanti di sogni altrui”, interpretavano il desiderio del cliente e lo imprimevano in un pezzo di carta congelando il tempo, confermando il pensiero nichilista occidentale che crede nella dissoluzione continua della materia ma fornendone anche un antidoto, una speranza sotto forma di fotografia capace di illudere che qualche cosa possa sfuggire alla morte, alla disgregazione e alla dissoluzione. Tutto il potere in un pulsante I cambiamenti tecnologici che la fotografia ha saputo proporre sono sempre stati legati alla tecnica o, per meglio dire, alla facilitazione tecnologica. I professionisti potevano garantire foto qualitativamente perfette grazie alla loro perizia, ma i servigi avevano un costo e chiamarli significava aprire le porte del proprio intimo a un estraneo. Il processo evolutivo fu semplice, l’industria del settore spese ogni grammo d’inventiva per creare macchine che sopperissero alle difficoltà tecniche. George Eastman, con la sua Kodak, divenne il portabandiera di tale filosofia fossilizzando definitivamente lo sviluppo creativo in una riproduzione collettiva e compulsiva. Ogni appassionato divenne il fotografo di se stesso, il “ricordante” con l’incarico preciso di fissare

sulla carta i momenti più importanti della vita. Poiché quelli unici quali il matrimonio, la cresima e il battesimo erano troppo rischiosi da lasciare nelle mani di un insicuro dilettante, il ruolo principale del fotoamatore fu relegato alle vacanze, alle gite fuori porta, alle domeniche di svago, ai sorrisi spesso un po’ forzati da trasmettere a tutti i costi. Da allora, i miliardi di scatti realizzati sono nati con lo stesso intento, con la stessa filosofia e il medesimo risultato: un ricordo superficiale reso interessante attraverso una riproduzione tecnicamente corretta.

Il desiderio di ricordare porta con sé ossessioni tangibili. Quando il numero di scatti supera la doppia cifra non è più sufficiente osservare una foto per ottenere un ricordo chiaro e preciso, occorrono altri dati, dettagli, parole o semplici date. Nel retro della foto a sinistra, che abbiamo messo come esempio, l’autore annota con precisione giorno mese e anno, aggiungendo, e questo è per noi motivo d’interesse storico, anche la ricorrenza fascista della marcia su Roma. Al progredire della tecnologia il ricordo ha saputo rinnovarsi. Le immagini cominciano a essere tante, troppe, non c’è più tempo di annotare data e ora. Con l’avvento della prima elettronica (ma non ancora del digitale) apparvero delle fotocamere che imprimevano la data sopra al negativo, un souvenir per immagini. La terribile abitudine durò pochi anni ma rovinò milioni di scatti deturpando tutto con una stampigliatura luminescente che aveva il pretesto di sopperire alla ridotta funzione mnemonica di un “ricordante” eccessivamente produttivo. 121


Tre gradi di profondità fotografica

contatto con Fox Talbot commissionandogli i primi tentativi di stereofotografia. Negli anni a seguire la stereoscopia ha avuto alternanze tra successo ed eclissamento. Suscettibile alle mode passeggere ha visto, ultimamente, una forte rinascita grazie al cinema 3D che ha saputo sfruttare l’alta spettacolarizzazione del metodo di ripresa. Purullena 1969 Una calda estate nel sud della Spagna franchista. Una famiglia è ritratta davanti alle “Cuevas” (case troglodite dell’Andalusia) e al loro fianco è presente il pastore/accompagnatore che recherà tutti i consanguinei per le vie e dentro le case del paese. Il più piccolo di tutti ero io. Ricordo che odiavo a morte dovermi mettere in posa per quel ripetitivo fotografo (mio padre), che insisteva nel metterci sempre e in ogni caso davanti all’obiettivo. Ora, osservando quei vecchi e odiosi scatti, mi rendo conto che una parte dei ricordi, ma anche della mia anima, si sono preservati grazie a quei gesti ripetitivi da parte di un padre che amava la fotografia. Posizionandoci davanti a scene interessanti cercava di dare profondità al paesaggio, un tentativo parzialmente riuscito e copiato dagli esempi delle cartoline dell’epoca.

“PURULLENA 1969” © Remo Ferrero

Cerchiamo di essere sinceri Quante volte facendo osservare il nostro scatto abbiamo detto: “Nella realtà era persino meglio”. In questa frase si realizza la consapevolezza che il ricordo è una questione di molteplici sensi, non solo di quello visivo. Volere a tutti i costi fissare in una foto qualche cosa che ci ha emozionato porta sempre a risultati parziali, frutto di compromessi e insufficienze. Pensiamo che sia colpa delle incapacità tecniche e allora ci pervade il desiderio incontrollabile di acquistare una nuova macchina, magari più costosa e

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© Luca Scaramuzza/Fotozona


La creazione fotografica

performante. Magari di partecipare a un corso in cui un mago della tecnica ci svelerà i “10 segreti” che dischiuderanno le porte della conoscenza visiva, oppure desidereremo comprare un libro, ma non quello che state leggendo ora, no, meglio uno di quelli che elenca punto per punto regole precise da seguire ciecamente come un gregge al pascolo. Impareremo che riempiendo tutti gli spazi dell’inquadratura avremo una foto equilibrata, capiremo che mettendo a fuoco il soggetto non si rischierà di avere un ricordo fumoso, che esistono zone dello scatto più osservate di altre, che lo storto crea animazione ma è una anche una dimostrazione palese di confusione creativa. Faremo un po’ meglio di quanto realizzavamo prima e continueremo a produrre quegli scatti che da duecento anni proseguono a sovrapporsi l’un l’altro senza trovare un preciso scopo al di là del ricordare e solo ricordare. Continueremo a scattare il sabato o la domenica, nelle feste o nelle vacanze adducendo come scusa “E’ l’unico momento libero che ho”. Ma siamo sinceri con noi stessi, è proprio questa filosofia a renderci fotograficamente infelici. Essere costretti a fissare un istante di piacere ci obbligherà a ricercare sempre il bello (ma sappiamo realmente cosa sia bello?), a inseguire solo le spensieratezze, le festività e i momenti conviviali. Ci renderà ciechi al normale scorrere della vita, alla quotidiana bellezza nascosta nei gesti comuni e ci priverà della gioia dell’osservazione o, ancor peggio, della fantasia e dell’immaginazione. Ma qual è la via del progresso fotografico? Probabilmente la migliore strada è quella che ognuno di noi traccia per se stesso. Non c’è un unico sentiero, possono solo essere espressi dei suggerimenti che, se interpretati da una mente attiva, porteranno a dei risultati concreti. L’osservazione e il discernimento sono alla base di future conseguenze.

Nonostante tutto ciò che abbiamo detto la fotografia continuerà a fungere da cassa di risonanza del ricordo, forse per sempre il suo destino e la riminiscenza perpetua. Questi brevi suggerimenti sapranno regalare maggiore profondità a tutti gli scatti del genere. • Leghiamo le nostre memorie a volti sconosciuti, concentriamoci su ciò che accade senza mettere in posa parenti o amici, cerchiamo il racconto senza la paura dell’oblio. Vedere un evento attraverso volti di perfetti sconosciuti obbligherà la ricerca dell’essenza del momento. Togliamo alcune delle nostre emozioni e concentriamo l’attenzione sulla sintesi dell’evento.

© Salvatore Giordano/Fotozona In questa foto l’autore ritorna nella sua Sicilia raccontandola attraverso la Pasqua di Pietraperzia. Ricordi d’infanzia si mescolano al presente. Volti di sconosciuti raccontano la festa, visi seri e dall’antico senso religioso contrastano con la visione dei soliti telefonini innalzati a bloccare un ricordo.

• Pensiamo a cosa si vuol dire piuttosto che a cosa far vedere, non accontentiamoci di un selfie o di un autoscatto ambientato. Proviamo a raccontarci con immagini complesse che possano essere lette sotto varie luci e rappresentazioni. Facciamo che il nostro scatto sia un’esplosione di contenuti, non una scatola piena solo di descrizioni. Evochiamo, narriamo, non siamo obbligati a fissare solo quello che c’è in apparenza, esiste anche il profondo. 123


Tre gradi di profondità fotografica

“ME” - © Carola Casagrande/Fotozona Chi siamo realmente? Lo sappiamo descrivere? Un autoritratto pensato è il miglior modo di rappresentare l’animo rispetto ad un corpo; un’idea rispetto ad un oggetto. Scattare foto a noi stessi è sempre possibile, c’ingegna a trovare soluzioni tecniche e ci spinge a pensare chi e cosa vogliamo far vedere di noi. Più si procede in profondità più il successo è assicurato.

© Saverio Barbuto/Fotozona

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© Angelo Abate/Fotozona

La creazione fotografica

• Se immaginiamo come possa esprimersi un ricordo impresso su una foto la visualizzeremo incisa, precisa, netta e diretta. Se pensiamo allo stesso evento impresso nella nostra mente ci apparirà ampio, soffuso, emozionante e spirituale. Non c’è corrispondenza tra le due visioni. Come possiamo pretendere che un rettangolo di carta o di monitor possa restituirci emozioni tattili, olfattive, emotive se non tentiamo in qualche modo di uscire dagli schemi classici della riproduzione fotografica. Dobbiamo ricercare l’emozione che un semplice scatto non è in grado di restituire. La suggestione può sbucare in vari modi, quasi tutti eludono

i concetti di foto “perfetta” per entrare nel mondo delle suggestioni. Sfocato, troppo chiaro, troppo scuro, evanescente, alterato o distorto. Scegliete la vostra via ma create suggestione. Il vero ricordo è quello che entra nell’animo e suscita un’emozione, fa strabuzzare gli occhi stupendoci attraverso la semplicità. Ricordare una figlia quand’era piccola e meravigliosa non significa cogliere il singolo particolare della pelle ma rivivere la gioia di un fantastico gioco dentro un campo di fiori. In questo scatto c’è l’essenza della bellezza, di un ricordo vago valido per chiunque osservi. Ci si immedesima con l’autrice rincorrendo una figlia o noi stessi lì dentro il campo, con i profumi dell’estate e il suono delle cicale che inneggiano alla vita. © Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona

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Š Roberto Orlando/Fotozona

Tre gradi di profonditĂ fotografica

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EQUILIBRI, PESI E MISURE

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona

proprio la mente a completare le informazioni insufficienti assegnando a ogni cosa, anche la più insignificante, un valore o un attributo che apparentemente non c’era. La visione delle foto è influenzata dalla posizione e dalla direzione rispetto ai bordi dell’immagine. Al lato sinistro diamo una valenza d’inizio, al destro di fine, così se una barca ha la prua diretta a sinistra ci apparirà controcorrente. Una figura di corsa verso destra vedrà incrementata la sensazione di velocità. Ai lati superiore e inferiore si assegna una funzione di peso: ciò che va verso il basso è attratto dalla gravità quindi pesante, al contrario, ciò che si proietta verso l’alto, è leggero e impalpabile. Ogni cosa presente nello scatto, se visibile, per il nostro immaginario ha un significato. Ogni cosa sullo sfondo, ogni oggetto che entra nel campo visivo avrà un peso specifico.

Composizione mediana e simmetrica. L’equilibrio centrale della bambina che osserva l’aereo rende la fotografia bilanciata e piacevole. L’aereo, o la sua parvenza come tale è perfettamente proporzionato con i lati d’ingresso e di uscita delle ali. L’osservatore immagina il velivolo e la bambina fantastica chissà quale sogno fanciullesco. Siamo proiettati in un’azione che non si vede, ma si percepisce e si condivide.

Una buona immagine, per quanto difettosa, può entrare nell’immaginario collettivo con una forza superiore a qualsiasi altra forma di creazione visiva. La foto riesce a essere esaustiva ma anche evocativa, informa ma ha bisogno di un cervello in grado di completarla. Quando osserviamo un normale scatto, che sia a monitor o stampato su carta, il nostro cervello comincia a elaborare un impianto visivo molto articolato basandosi su indicazioni semplici e incomplete a due sole dimensioni. E’ 127


Tre gradi di profondità fotografica

© Luca Scaramuzza/Fotozona Il palazzo massiccio e pesante poggia sul fondo della composizione. Il palo, che di sua natura non è proprio “vaporoso”, appare leggero e filiforme pendendo dall’alto come un lampadario, slegato da qualsiasi orizzonte terreno. La perfetta diagonale sullo spigolo sinistro suggerisce una particolare cura nella scelta compositiva giustificando perfettamente la tendenza della foto a esaltare le fughe prospettiche create dall’inclinazione in alto della macchina fotografica.

Il peso fotografico del concetto Quando parliamo di peso, non ci riferiamo solamente a un concetto fisico di massa e gravità. Il peso fotografico dipende da molti fattori, alcuni in relazione all’esperienza diretta della vita, altri imposti dal fotografo attraverso espedienti tecnici e compositivi. E’ ovvio pensare che a un oggetto grande si possa assegnare una valenza di pesantezza ma con i dovuti accorgimenti questa sensazione può essere attenuata oppure incrementata. Potremmo dire che il peso fotografico © Andrea Spera/Fotozona

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La creazione fotografica

per chi guarda, diventa un parametro di riferimento. Fornisce misure, distanze e paragoni. La forma umana, in fondo la prima che abbiamo osservato all’atto della nascita, è la massima fisionomia di attrazione per uno sguardo. Una sagoma umana all’interno di una foto avrà sempre la massima considerazione e peso da parte di chi la osserva. • Il bianco e i chiari in genere si associano all’etereo, al leggero e all’intangibilità. Le forme nere o scure sono materiche e pesanti. Il chiaro è tendenzialmente associato allo sfondo, lo scuro ne diviene il soggetto. • Il colore è decisivo per la definizione di peso. La

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona La Mole Antonelliana riesce a essere alleggerita perché posta al centro dell’inquadratura, luogo di massimo equilibrio statico. La sua forma filiforme si contrappone all’orizzontalità del tetto diventando il fulcro della stessa fotografia. Ne esce leggera, centrale e unico soggetto dell’intera composizione.

dipende in modo direttamente proporzionale dall’importanza attribuita all’oggetto. Ancora meglio potremo dire che il peso è tanto maggiore quanto più un oggetto si trasforma in soggetto. Il soggetto principale di una foto avrà sempre maggior peso rispetto agli altri, che siano soggetti secondari oppure “cose” presenti nella composizione. La formulazione e l’importanza di un contenuto avviene tramite alcuni parametri di riconoscimento: • La figura umana, facilmente identificabile,

© Alessandro Andreucci/Fotozona Il tramonto, con tutto il suo carico di enfasi cromatica diventa sfondo alla presenza delle due figure umane anche se in silhouette. Nonostante non ci siano posture o posizioni particolari, la composizione è piacevole perché facilmente leggibile.

forza dei colori è tendenzialmente soggettiva ma è indubbio che alcune tinte sono universalmente più forti di altre, soprattutto nelle frequenze legate al rosso. Motivazione dovuta a nozioni collegate alla vita reale (sangue fuoco) oppure per motivi fisici (il © Alessandro Andreucci/Fotozona

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Tre gradi di profondità fotografica

rosso è più visibile in presenza di nebbia o forte foschia). • Quando in una foto c’è una preminenza di elementi uguali, a evidenziarsi è il particolare che si stacca dalla massa. Sembra quasi che non sia il bello ad attrarci ma il diverso, la rottura, lo stacco netto e il distinguersi dalla monotonia. Ad attribuire un peso non è la percentuale di spazio occupato ma la differenza che intercorre con la massa tutta identica e uniformata. Il peso fotografico della posizione Detto e spiegato quali possono essere i concetti che “appesantiscono” un elemento visivo, ora dobbiamo accennare anche all’equilibrio che ne consegue se essi sono collocati oppure no nella giusta posizione. Se una sola area della fotografia è “riempita” da elementi che hanno un peso, lo scatto apparirà squilibrato. Se in un’area della fotografia appaiono elementi inutili o di disturbo alla composizione s’inseriscono dei pesi anomali che sbilanceranno l’osservazione dell’immagine e quindi la sua lettura. Volendo sintetizzare in una formula di massima, possiamo asserire

© Alessandro Landozzi/Fotozona La mancanza di un vero soggetto individuabile porta l’osservatore a basarsi completamente sul colore rosso vibrante e acceso. Il peso emotivo del colore è bilanciato dalla luminosità del sottopasso. Lo spazio nero in primo piano, sovradimensionato rispetto al resto dell’inquadratura, appare bilanciato grazie alla porzione luminosa di pari superficie. Una foto che fa della grafica e della precisione l’arma vincente del suo successo visivo. Non sempre è necessario un preciso messaggio, spesso è sufficiente fornire una singolare visione di situazioni comuni e frequenti, che riempiono la nostra vita quotidiana ma non catturano la nostra sfuggente attenzione.

© Roberto Orlando/Fotozona Anche in questo scatto, apparentemente semplice, un piccolo segno grafico rosso/ magenta, immerso in un mare di verde (suo colore complementare) diventa l’elemento significante di tutta la foto. Il fotografo ha ritratto due fanali di stop riflessi su di una strada sotto una pioggia incessante. La creatività è nascosta sotto un’apparente “pennellata” cromatica. E’ proprio il saper osservare, la forza di un bravo fotografo. Non c’è bisogno di azioni o luoghi eclatanti, c’è bisogno di una mente aperta e disponibile ad apprezzare qualsiasi cosa si presenti con la luce giusta. 130


La creazione fotografica

© Mauro Trolli/Fotozona Le silhouettes si staccano nettamente dallo sfondo intenzionalmente chiaro e sovraesposto. La figura imponente del primo albero si frappone tra noi e il sole come un abbraccio protettivo che impedisce all’astro di abbagliarci totalmente. Il tronco, leggermente inclinato verso destra, è perfettamente bilanciato da altri due alberi più distanti e piccoli che si piegano in posizione contraria all’attore principale della scena. Gli alberi si poggiano su una sottilissima striscia di terra rimanendo apparentemente leggeri e mistici, non gravano eccessivamente lasciando anche al cielo un minimo d’importanza percepibile dal tono grigio chiaro.

che se in un’inquadratura è presente un oggetto fastidioso bisogna eliminarlo senza indugi. Se fosse presente un elemento inutile bisognerebbe eliminarlo nello stesso

modo. La presenza di oggetti inutilizzabili sbilancia il precario equilibrio dei pesi e obbliga l’osservazione a inutili sforzi nel vano tentativo di dare un significato a degli oggetti dimenticati, non percepiti nel momento dello scatto ma troppo evidenti a risultato ottenuto.

© Salvatore Giordano/Fotozona L’autore voleva incentrare l’attenzione sui due lampioni sospesi creando una forma di attrazione mediante un equilibrio sospeso ad un filo. I due palazzi sono degne cornici ma la presenza di un albero e della punta di un lampione, in basso a sinistra, creano uno squilibrio di forze che disturbano l’osservazione di tutta la foto.

Cambiando le proporzioni dei lati è stato possibile tagliare il lampione in basso. Le frasche dell’albero si sono salvate per evitare il taglio del secondo palazzo, la loro presenza è ancora un elemento di disturbo ma l’osservazione ne è stata limitata. 131


Tre gradi di profondità fotografica

Con il formato quadrato si è deciso di dare importanza all’elemento che inizialmente sembrava di disturbo. Il lampione basso bilancia parzialmente la parte sinistra della foto, troppo vuota e desolante, contemporaneamente incrementa il senso d’equilibrio dell’altra lampada presente nell’inquadratura. Il risultato finale è un bilanciamento visivo che tende a esaltare la tensione del filo sospeso senza cercare la simmetria statica e pedante delle precedenti due versioni. Con gli stessi elementi si possono creare un numero infinito di risultati.

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona

La figura del bambino, sebbene dipinta e non reale, e l’imponenza del palazzo soverchiano l’atterraggio del velivolo. Nonostante ciò l’aereo riesce a essere visibile e facilmente individuabile diventando protagonista, anche se non assoluto, della fotografia. Questo avviene grazie al gioco di rimandi direzionali che i “pesi apparenti” della foto sembrano suggerirci. L’occhio rimbalza velocemente da un punto all’altro dell’immagine trovando il particolare fondamentale che trasforma uno scatto ordinario in un gioco visivo degno della migliore street photography. Il braccio del bambino rinvia l’occhio verso destra, i raggi del graffito creano movimenti in diagonale che sospingono l’occhio verso l’indicazione del ragazzo e la cima del palazzo. La diagonale del tetto discendente ci riporta alle ali dell’aereo che tenta faticosamente di librarsi da questa costruzione compositiva bella e “imprigionante”. © Fioravante Stefanizzi/Fotozona 132


La creazione fotografica

© Roberto Orlando/Fotozona Con un piccolo taglio l’autore ha compiuto un ribaltamento di pesi in grado di cambiare il significato dello scatto. Nel primo, la presenza di un palazzo in stile liberty sul litorale ligure appare imponente e soverchiante. Il gioco del quadruplo orizzonte delle sbarre si perdeva nell’insieme e la nave, anche per una questione di grandezza, non riceveva il giusto valore. Eliminando la villa si conferisce un maggior peso all’imbarcazione, la simmetria dei pali aggiunge un ordine visivo che sottolinea il gioco del vero orizzonte con quello fittizio del parapetto. La bellezza dei colori e della luce aggiungono il tocco necessario per farne un ottimo scatto.

Sbilanciare per equilibrare L’equilibrio dei pesi permette di creare foto che hanno un potenziale di comprensione facilitato, non danno vita a tensioni e non sviluppano eccitazioni visive nell’osservatore. Creare una foto equilibrata non sempre equivale a realizzare la foto giusta. Sbilanciare l’organizzazione dei contenuti e dei soggetti aiuta sensibilmente la dinamizzazione delle azioni. Contribuisce ad assegnare una percezione di movimento a immagini che altrimenti risulterebbero statiche, immobili e senza alcun appeal visivo. Ovviamente non dobbiamo ricorrere allo sbilanciamento assiduo, l’assuefazione è il primo effetto provocato dal suo utilizzo prolungato.

© Andrea Spera/Fotozona Le scale sono perfettamente orizzontali, il loro peso è distribuito, omogeneo e statico. La sensazione di pendio veloce è dato dalla posizione dei piedi che, oltre ad essere leggermente mossi, sono sbilanciati in modo deciso sulla sinistra della foto. Il cervello assegna a questa scelta una sensazione di squilibrio che anima l’immagine rendendola viva e in continuo cambiamento. © Renata Busettini/Fotozona Il raccoglitore di strada, vero soggetto della foto, diventa solo una fugace figura che attraversa un mondo colorato e fantasioso fatto di graffiti e murales. La fatica del lavoro è solo un breve e veloce movimento, sbilanciato in uscita in direzione controcorrente rispetto alla nostra osservazione: da destra a sinistra. Tutto diventa più difficile, come la stessa vita dell’abitante di San Paolo.

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Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Alessandro Landozzi/Fotozona

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IL SISTEMA ZONALE NEL MONDO DIGITALE Com’è strano parlare di tecnica in un capitolo totalmente dedicato alla creatività. Ancor più strano descrivere in modo chiaro e semplificato un concetto intuito ed elaborato da Ansel Adams al finire degli anni ‘30 del XX secolo, ancora oggi totalmente impiegabile con le moderne tecnologie digitali e dal nome altisonante: Sistema Zonale. Un punto fondamentale della fotografia, dove la massima cura tecnica e la matematica applicata hanno saputo incontrare l’estro creativo. Ansel Adams, alla ricerca di una soluzione pratica che gli permettesse di estendere la latitudine di posa delle pellicole dei suoi tempi, cominciò a constatare e poi verificare che nel flusso di lavoro della fotografia analogica la ripresa aveva un’influenza generalizzata su tutta la gamma luminosa, mentre la fase di sviluppo incideva significativamente solo sulle alte luci, cioè sulle parti scure del negativo. Distribuire le due fasi in modo coordinato gli permetteva di estendere o contrarre a piacere la latitudine di posa delle pellicole, adattandole al contrasto della scena o per alterare le luminosità dell’ambientazione che, a questo punto,

© Mauro Trolli/Fotozona

sarebbero diventate alternative all’originale. Questo sistema prevede la compressione in 10 zone ben contraddistinte e identificabili di un numero infinito di luminosità esistenti. Proviamo a descrivere le diverse zone senza perdere di vista il grafico sottostante: La zona 0 corrisponde al nero massimo ottenibile in stampa. Nessuna trama è visibile all’interno di questa totale “oscurità”. La zona 10 (X) è analoga al suo opposto 0, ma si riferisce alle luci. E’ il bianco massimo raggiungibile, è condizionato dal tipo di carta che si usa per le stampe o dalla luminosità del monitor. Nessuna trama è presente. La zona 5 (V) corrisponde al cartoncino grigio Kodak con grado di riflessione del

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Tre gradi di profondità fotografica

18%. Il famoso parametro “medio” su cui si basano tutti gli esposimetri delle macchine fotografiche vecchie e moderne. E’ il tono a cui gli esposimetri tendono a riportare tutte le loro misurazioni, riflesse o incidenti che siano. La zona 1 (I) corrisponde a un nero profondo, ancora senza trame riconoscibili ma in cui è possibile cominciare a vedere una minima differenza di luminosità con la zona 0. La zona 9 (IX) è analoga alla zona 1, come definizione, ma si riferisce alle alte luci. La zona 2 (II) è la zona più scura della fotografia in cui è possibile cominciare a distinguere delle trame, delle forme e dei possibili soggetti. La zona 8 (XIII) è la zona di massima luminosità in cui si cominciano a distinguere oggetti, trame e piccoli segni visibili. Dalla zona 2 alla zona 8 (7 zone) si ha l’effettiva latitudine di posa ottenibile in fase di stampa o con la visione a monitor. Le zone 3 e 4 (III - IV) si riferiscono ai toni medi scuri, il 6 e il 7 (VI - VII) ai toni medi chiari. Volendo potremmo fare degli esempi riguardanti oggetti che hanno riflessioni identificabili (sempre tendenzialmente) in una specifica zona. Ogni zona si distanzia da quella adiacente di 1 stop fotografico. Ciò significa che c’è uno stretto rapporto con i parametri della macchina fotografica (tempi - diaframmi) ma anche con il grado di riflessione della luce. La pelle dei popoli occidentali, per esempio,

La trilogia di Ansel Adams (La fotocamera; Il negativo; La stampa) è considerata una bibbia da tutti i fotografi appassionati di paesaggio e camera oscura. In questi tre volumi è ampiamente spiegato il concetto di sistema zonale, metodo d’esposizione inventato dallo stesso autore che definiva in modo scientifico il concetto di visualizzazione dei toni. Egli scoprì che l’esposizione poteva essere un concetto personale giocando sui valori di luminosità catturati in ripresa e il controllo del contrasto con un metodico dominio del processo chimico in fase di sviluppo con successiva stampa. Dei tre volumi della Zanichelli, quello fondamentale è il secondo: Il negativo. Lettura complessa ma fondamentale. Latitudine di posa pag. 80

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© Angelo Abate/Fotozona


La creazione fotografica

riflette il 32-38% della luce che la colpisce, esattamente il doppio del cartoncino Kodak che utilizziamo come parametro di comparazione. Ciò significa che se misurassimo l’esposizione solo sulla pelle del soggetto, siccome esso riflette il doppio della luce del cartoncino, l’esposimetro sarebbe ingannato facendoci ottenere una foto sottoesposta esattamente di 1 stop. La carnagione media è posizionata quindi su zona 6, per riaverla con le luminosità corrette si dovrà sovraesporre di 1 stop i valori rilevati dall’esposimetro a luce riflessa. Sempre rimanendo in ambito “carnagioni”, le pelli molto chiare e poco pigmentate cadranno in zona 7, quelle scure e olivastre in zona 5, quelle nere più profonde potrebbero estendersi fino alla zona 3. Nella sua precisa metodica espositiva, Ansel Adams scattava le fotografie con un banco ottico e negativo a lastra. Applicava l’esposizione che riteneva migliore interpretando i valori di luminosità misurati con una “pre-visualizzazione” del risultato finale. Prendeva appunti meticolosi e per ogni singolo negativo applicava un procedimento di sviluppo

© Roberto Orlando/Fotozona

© Alessandro Landozzi/Fotozona

ottimizzato. Cioè esponeva per le ombre (determinando le zone scure che desiderava avessero una trama visibile, individuabile nella zona 2) e sviluppava per le luci modificando i tempi o le temperature di sviluppo, concentrando l’attenzione sui toni chiari. Con il calcolo matematico, la creatività fotografica e la chimica applicata riusciva a comprimere o a dilatare le luminosità della scena originale alterandone i toni e trasformando delle semplici riproduzioni di paesaggi in opere artistiche di realtà immaginate dall’anima. Nel mondo della fotografia digitale, l’ottenimento dei massimi risultati è legato alla capacità del fotografo di scegliere, caso per caso, se esporre per le luci o per le ombre. Nell’articolo a pag. 79 abbiamo descritto la ripresa fotografica e come sfruttare la latitudine di posa dei sensori con le loro caratteristiche superiori alle vecchie pellicole. In questo nuovo capitolo affronteremo la postproduzione al servizio della riproduzione o del cambiamento dei toni. La dicotomia fondamentale dell’esposizione è rappresentata dalla scarsità di modulazioni luminose riproducibili su una stampa o su di un monitor rispetto alla scena osservata in fase di ripresa. In un’ambientazione reale possono convivere contemporaneamente oggetti dalle diverse riflessioni e con dissimili luminosità. Possono coesistere, ad esempio, neri in ombra ben più scuri degli stessi neri in luce. Nelle stampe o nella visione a monitor avremo sempre un’osservazione con un’illuminazione costante e uguale su tutto il foglio o schermo. Se nella scena reale lo scarto di luminanza può arrivare a valori 1:10.000 (misura arbitraria solo per far capire la 137


Tre gradi di profondità fotografica

© Max Ferrero

differenza di luminosità tra l’oggetto più scuro della scena e quello più chiaro), nella riproduzione finale il rapporto sarà 1:100 dove 1 sarà il nero più cupo, ottenibile dal tipo d’inchiostro usato e il 100 (sempre misure arbitrarie e comparative) sarà dato dal tipo di carta. La fotografia dovrà eseguire una compressione tonale capace di ridurre lo scarto luminoso, oppure sarà costretta a perdere dettagli in determinate zone, dovremo sacrificare le aree più scure o quelle più chiare oppure una porzione d’entrambe attraverso un compromesso. Riferendoci alle prove effettuate nel precedente articolo, la Canon 5d MK III, con 9 stop di effettiva latitudine di posa, è capace di registrare uno scarto di luminanza pari a 1:512 (partendo dal valore 2 elevate per nove volte il numero - 2 - 4 - 8 - 16 - 32 - 64 - 128 - 256 - 512), un valore ben superiore alla capacità di restituzione dei toni della carta da stampa ma notevolmente inferiore alla luminosità di una scena normale. Un esempio di come comportarsi in situazioni al limite lo possiamo osservare meglio nelle due foto che riportiamo a sinistra. Nella prima, l’originale non ritoccato, notiamo la perdita d’informazioni sulle alte luci del cielo (dati di scatto: RAW - 1/60 f/8 a 100 ISO). In fase di ripresa è stata individuata la zona utile più scura (le pieghe della veste del monaco - zona 2), quindi le luci avrebbero dovuto rientrare nella zona 8 per evitare la perdita delle nuvole con le loro interessanti trame luminose. Non c’era il tempo per compiere una misurazione esposimetrica di precisione. Nella concitazione operativa si è optato a puntare l’esposimetro verso le luci, il valore restituito (zona V) è stato sovraesposto di 3 stop (portandolo a zona VIII). Le ombre erano al sicuro poiché lo scatto, sebbene in controluce, possedeva un contrasto attenuato e perché il recupero dei toni dei sensori digitali è maggiore nelle ombre rispetto alle luci. Il primo intervento di postproduzione, visibile nel secondo scatto, è stato ottenuto nella “fase di sviluppo” (realizzato con programmi specifici per elaborazione di file RAW), ha avuto il compito di recuperare i toni apparentemente persi per la foto finale. Ciò è possibile con file a 14 bit che hanno un’estensione di toni superiore

Tiff - Tagged Image File Format, file di registrazione immagini senza perdita d’informazioni, supporta sia gli 8 bit sia i 16. Psd - Acronimo di PhotoShop Document studiato dall’Adobe per mantenere intatti i 138


La creazione fotografica

alla visione proposta dai monitor, hanno cioè più informazioni di quanto un monitor possa restituire. Possiamo notare come le trame nelle luci siano state recuperate completamente e le pieghe del saio si siano rafforzate rispetto alla scena originale. Ottenuto il negativo digitale ottimale è prassi esportare il RAW in un altro file elaborabile da un programma di fotoritocco quale Photoshop. Un metodo valido è generare file Tif o Psd a 16 bit (massima capacità di mantenere informazioni su luminosità e toni) per poi apportare tutte le modifiche desiderate e procedere alla stampa. In queste ultime immagini si può osservare la pre-visualizzazione in ripresa e le modifiche da compiere in seguito sulle zone che non soddisfano

le esigenze dell’autore. Alle zone di Adams sono stati aggiunti i valori tonali presenti e quelli da elaborare. C’è una certa relazione tra le zone del sistema zonale analogico e quello digitale. Se nella scala di Adams s’inseriscono i dati tonali presenti negli istogrammi delle fotografie digitali, avremo dei valori di comparazione tra le due scale. Dato che gli istogrammi hanno 256 livelli di luminosità diversi, se li dividiamo per le 11 zone del sistema zonale (da 0 a 10), avremo un risultato indicante che dopo 23 valori tonali (circa), passeremo da una zona a quella successiva o precedente. Il cambio tra le zone è più pronunciato nelle aree laterali. Pertanto i passaggi da zona 0 a 1 e da zona 9 a 10 hanno numeri più compressi delle equivalenti altre zone.

Tabella di comparazione tra le zone del sistema di Ansel Adams e i valori tonali di Photoshop 139


Tre gradi di profondità fotografica

layers, canali alfa, trasparenze ecc. Valori tonali - E’ un comando di Photoshop (ctrl+L) in cui è possibile osservare l’istogramma della foto e i valori (0 - 255) dei singoli pixel presenti nella foto. Ansel Adams Viaggiava trasportando pesanti attrezzature e decine di chassis caricati con le lastre fotografiche sensibili necessarie alla realizzazione delle sue opere. Trovandosi di fronte al luogo desiderato (di solito sceglieva proprio le scene più difficili dal punto di vista dell’esposizione e della latitudine di posa) misurava metodicamente le esposizioni delle varie zone. In tal modo riusciva a capire l’estensione di luminosità della scena. Sceglieva esattamente quale fosse la zona più scura da mantenere dettagliata (zona 2) e adattava i rilievi esposimetrici per ottenere ciò che desiderava. Se, ad esempio, sulla zona scelta come zona 2 l’esposimetro avesse indicato 1/15” a f/4 avrebbe modificato i parametri sottoesponendo di 3 stop per riportare la zona 5 (misurata in precedenza dall’esposimetro) alla zona 2 voluta. Le luci, invece, le avrebbe dominate in fase di sviluppo perché i liquidi chimici erano i parametri più adatti al controllo dei toni chiari (corrispondenti ai toni neri del negativo). A seconda della scena ripresa e degli appunti scritti, utilizzava sviluppi appropriati e modificava i tempi operativi o le temperature dei chimici seguendo le indicazioni prescritte da tabelle calcolate in precedenza attraverso migliaia di scatti affrontati con metodo scientifico. Il vero metodo zonale è forse scomparso con lui nel 1984, ma il concetto generale del controllo totale dell’esposizione e della conseguente postproduzione in funzione del proprio desiderio creativo è rimasto intatto, ottenibile anche con il digitale ma con metodologie diverse. Ansel Adams è l’esempio di come un matematico possa trasformarsi in un vero artista ma anche come delle foto, all’apparenza normali, siano invece il frutto di elaborazioni complesse per l’ottenimento di una “iper realtà” esaltandone i toni, i contrasti e l’incisione. Un’ulteriore prova di come la fotografia non debba per forza definirsi “vera” ma è sufficiente che sia emozionale. 140


La creazione fotografica

di Photoshop si otterrà il passaggio di zona desiderato. Il valore luminoso di entrata, input, deve corrispondere al valore originario da cambiare, quello di uscita, output, a quello desiderato. Si procede quindi per ogni singolo punto elaborato applicando le modifiche volute, generando di volta in volta, una nuova immagine su di un differente livello (layer). Procedendo in tal modo si genereranno numerose foto una diversa dall’altra. Il trucco finale sarà quello di “fonderle” insieme tenendo i toni scelti per le singole zone e sostituendoli a quelli ottenuti in ripresa. Questo è puro fotoritocco digitale, occorrerebbe un libro intero per descrivere scrupolosamente tutti i passaggi. Al momento è importante capire che dopo lo scatto siamo solo a metà del percorso che dobbiamo intraprendere.

Con Photoshop le possibilità di ritocco dei toni sono infinite, con il comando curve è possibile dimostrare il concetto di cambio zona attraverso l’osservazione dei numeri di input e output. Esaminando la foto in testa alla pagina precedente, abbiamo indicato che lo spicchio di nuvola in controluce avrebbe dovuto scorrere da tono 202 a tono 150. Applicando la modifica alle finestre input/output nel comando Curve

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© Mauro Trolli/Fotozona


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Odililly/Fotozona

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UN ATTIMO O L’ETERNITÀ? bisognerebbe dare più importanza: dovremmo approcciarci a lui come degli esploratori alla ricerca di nuovi mondi e universi alternativi. La frenesia del tempo accelerato William Klein, famoso fotoreporter statunitense, disse che “Un fotografo professionista, alla fine della sua carriera, può riuscire a produrre 200 - 250 scatti di cui essere fiero. La maggior parte di essi è stato realizzato con tempi medi che si mantengono su 1/100 - 1/125 di secondo. Il risultato è che dopo un’intera vita di lavoro un bravo fotografo ha documentato poco più di 2 secondi della sua esistenza e del mondo”. Al di là della curiosità una simile considerazione è acuta, ci fa riflettere su un fenomeno: la concentrazione dei fotografi è dedita alle frazioni di secondo, all’affanno di bloccare l’accadente, suddividere in fotogrammi il film dell’esistenza con l’ansia di ottenere la nitidezza necessaria a tramandare un continuo divenire di eventi concomitanti.

La fotografia è un eterno presente, un attimo catturato è reso eterno nella sua immobilità. Una bolla temporale in cui si spia l’istante passato sempre visibile, immobile ma reale, capace di trasmettere sensazioni, fornire informazioni o tramandare ricordi. Ma cos’è un istante e cos’è effettivamente il tempo? Noi siamo in grado di osservarlo? Il tempo che scorre è uguale per tutti gli esseri viventi oppure è relativo? Le risposte sono complesse, forse i fotografi non si concentrano sul tempo ma sulla velocità. Il primo parametro è troppo complesso, il secondo è gestibile. Ci addestriamo a capire quanto sia veloce un determinato soggetto per bloccarlo e congelarlo nel suo movimento. La nostra attenzione è concentrata sul concetto di nitido o di mosso e non pensiamo all’eventualità che sul nostro sensore si possa creare un’immagine alternativa alle normali percezioni. Il tempo è un concetto astratto ma anche fisico, a cui

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© Alessandro Andreucci/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

© Lodovico Ludoni/Fotozona Con 1/1000 di secondo il fotografo è riuscito a sintetizzare un momento di svago ponendo rilievo alle singole gocce d’acqua sparate dalla fontana. La foto ci appare sensazionale ma realistica. Eppure il nostro occhio non ha mai potuto vedere così nitidamente le singole parti d’acqua. Il nostro apparato visivo non lo permette.

Nato nel 1928, William Klein è diventato famoso per il suo ardire tecnico, che lo portò ad utilizzare sia forti teleobiettivi sia grandangolari spinti. Osò sfidare le regole imposte da un mostro sacro quale fu Henry Cartier Bresson, che teorizzava una fotografia dalle prospettive simili all’occhio umano e dall’utilizzo esclusivo di obiettivi “normali”, che dal 50 mm osavano spingersi al massimo verso il 35 mm. Con lo stesso spirito effettuò reportage di grande profondità utilizzando una tecnica molto cruda fatta di “slampate” dirette e tempi di otturazione lunghi, ottenendo effetti di mosso/nitido che stupirono gli osservatori del tempo. Provenendo dal mondo della moda ha saputo affrontare il cosiddetto genere documentaristico con occhio divertito e dissacrante. Insieme al fotografo Robert Frank è considerato da molti fra i padri della street photography. La sua passione per l’immagine non si è limitata alla fotografia ma lo ha anche spinto alla realizzazione di documentari.

Già dopo pochi anni dalla sua nascita la fotografia iniziò a formare delle correnti tra chi la interpretava come un mezzo perfetto di riproduzione dell’oggettività e chi come una nuova e tecnologica forma d’arte. Per i primi lo scopo fondamentale era quello di ottenere rappresentazioni nitide e reali, senza alterare l’aspetto visivo del mondo che l’osservatore percepisce. I secondi adottarono tutte le forme possibili per trascendere tale concetto allo scopo di conseguire immagini che potessero trasmettere sensazioni piuttosto che duplicati. Come ogni diatriba concettuale le due scuole continuarono a farsi concorrenza intraprendendo strade divergenti. Gli “artisti” fotografici sperimentarono ogni sorta di sintassi tecnica passando dai fotomontaggi alle doppie esposizioni, usarono particolari tecniche di stampa o speciali obiettivi “soft focus”. I riproduttori della realtà conquistarono il mondo con le loro proposte, trasformando la fotografia in quel monolite inossidabile (almeno fino al tempo del digitale) in cui tutto ciò che è fotografabile deve essere 144


La creazione fotografica

necessariamente uguale a quello che vediamo. Ancora oggi le due correnti si fronteggiano, una sbugiarda l’altra senza rendersi conto che, persino nell’estrema parvenza di reale sussiste sempre una porzione di falso o d’interpretativo e quindi di artistico. L’acqua di una fontana, riprodotta con tempi brevissimi, non ci tramanda la reale percezione che abbiamo avuto nell’osservarla. Il nostro apparato visivo percepisce i movimenti fino al limite di 1/10 di secondo, tutto ciò che è più veloce lo immaginiamo ma non lo vediamo. La singola goccia sparata dalla fontana, in quell’intervallo a noi concesso di 1/10”, riesce ad attraversare uno spazio superiore alle nostre cognizioni percettive. Un oggetto grande, come un aereo o una macchina da corsa lanciati a piena velocità, li riusciamo a vedere solo perché ne inseguiamo la sagoma come un panning fotografico. Sembra incredibile ma alcune conoscenze che diamo per scontate non erano mai state osservate o pensate prima dell’avvento della fotografia. A Eadweard Muybridge si deve la scoperta (per una scommessa intrapresa con il ricco e influente appassionato di cavalli: Leland Stanford) che nella corsa al galoppo dei cavalli c’è un istante in cui tutte e quattro le zampe

© Andrea Spera/Fotozona - scatto a 1/4000”

sono sollevate da terra. Nel 1873 Muybridge, usufruendo di svariate macchine fotografiche montate in serie, riuscì a vincere la scommessa sconvolgendo la visione comune che si aveva del galoppo. Fino a quel momento nessuno aveva mai visto un cavallo fluttuare in volo durante una corsa. L’intero mondo scientifico e accademico dovette rivedere le teorie a riguardo e persino i pittori realisti dovettero ridefinire i loro concetti. Muybridge riuscì a scrutare la realtà oltre il semplice distinguere, l’umanità cominciò a capire che non tutto può essere intuito dai sensi umani e che la fotografia poteva estendere conoscenze e percezioni.

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Tre gradi di profondità fotografica

Il mondo invisibile del tempo prolungato Fino a ora abbiamo parlato di realtà alternativa attraverso l’utilizzo di tempi veloci; ma qualche effetto si ottiene anche con i tempi lenti? La fotografia non discerne la realtà che viaggia nel tempo. Piazza tutto quello che vede in un’unica ripresa. Trasforma e plasma in modo imprevedibile le forme, duplicando nello stesso fotogramma gli stessi soggetti che si muovono nello spazio e attraversano il tempo. I risultati ottenibili sono eteree presenze, sempre più incorporee man mano che gli otturatori rallentano. Con le lunghe esposizioni scopriamo cose a noi invisibili, vedremo il trasmutare delle forme che si allungano e si sciolgono per la lunga posa.

© Alessandro LandozziFotozona - scatto a 1” Una luce serale e il movimento dell’autovettura, uno scatto di lampo elettronico e un tempo elevato. La percezione del reale si altera e ne nasce uno scatto come l’occhio non è in grado di vedere.

Quest’inimmaginabile peculiarità della fotografia non è amata da chi desidera riconoscere le forme. Tempi lunghi alterano la percezione visiva non solo degli oggetti in movimento ma applicano anche le nostre fluttuazioni agli oggetti statici presenti nella scena. L’acqua diventerà intangibile; le foglie appariranno animate su steli saldi. L’eterno presente dello scatto sarà un’illusione di movimento che rende il fotogramma più dinamico di quanto potrebbe mai essere un istante di realtà. Apparirà poco leggibile e sarà scarsamente apprezzato da chi è in possesso di una cultura fotografica classica.

© Agnieszka Slowik Turinetti/Fotozona - 1/5” Ciò che è meno mosso diventa soggetto, ciò che appare parzialmente riconoscibile assume una dinamicità irrealizzabile attraverso un singolo scatto nitido. La forza di questo “frame” è il racconto di un gesto che si sviluppa come in un film a 25 fotogrammi al secondo. Il tempo viene compresso in un’unica visione, donando un effetto pittorico che esalta il gesto quasi di michelangiolesca memoria. Una fotografia che può cambiare significato e forza girandola su se stessa. Può essere proposta in libertà e senza alcuna regola imposta, libera di fluttuare ignorando le leggi di gravità.

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La creazione fotografica

© Luca Scaramuzza/Fotozona - 1/6” Anche ciò che è statico può spostarsi, basta che si muova la fotocamera. Ciò che si ottiene non è la visualizzazione di quello che avviene in realtà ma un’alterazione della realtà stessa. Era un bosco ora è un’onda in cammino.

© Angelo Abate/Fotozona Una libreria ripresa con un tempo medio e movimento ondulatorio verticale diventa il preludio a una storia immaginosa. La fotografia, a differenza del cinema, ha sempre fatto fatica a essere fantasiosa: così ossessivamente legata al dovere di documentare e di essere reale ha dimenticato che esistono linguaggi alternativi senza cadere nel ridicolo, capaci di emozionare e di stimolare il pensiero. 147


Tre gradi di profondità fotografica

Jacques Henry Lartigue Nel 1912 Jacques Henry Lartigue scatta questa immagine. Si trovava a bordo strada seguendo il Grand Prix dell’Automobile Club de France. Al tempo ha 18 anni e possiede già 10 anni di esperienza nel campo delle riprese fotografiche, una baldanzosa irruenza giovanile e un innato senso di sprezzo verso le regole imposte. Decide di trasgredire ai dettami del tempo seguendo nel mirino l’automobile che gli sta sfrecciando di fianco. Ottiene così il primo panning della storia. Inizialmente rifiuterà il risultato, probabilmente perché il suo intento era documentare la gara e una mezza macchina ripresa da tergo non può farlo. Solo alcuni anni dopo si accorgerà della rivoluzione visiva che possedeva lo scatto. L’inclinazione a sinistra degli spettatori sembra sospingerli dagli scarichi del bolide, mentre a destra, le ruote della macchina paiono sgretolare la strada conferendo un innato senso di movimento all’immagine. L’effetto è dovuto all’otturatore a tendina verticale della sua macchina, una ICA di costruzione tedesca, che registrando porzioni di spazio contigue in tempi leggermente diversi hanno applicato il movimento del fotografo alla scena.

L’effetto è prodigioso, Lartigue piega letteralmente la realtà indicando uno stile che, in seguito, sarebbe stato sfruttato e utilizzato anche dagli illustratori, grafici e fumettisti. Da questa foto in poi lo spazio e il tempo non saranno più così strettamente legati. Tre anni dopo lo scatto, esattamente nel 1915, Einstein teorizzò la relatività generale e Lartigue aveva ancora il suo miracoloso negativo non ancora stampato all’interno dell’archivio.

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La creazione fotografica

© Max Ferrero/Fotozona A poco a poco, con l’allungarsi del tempo di esposizione, una partita di rugby si trasforma in fatica, schizzi di fango e di sudore. Lo sport, nella sua visione comune, lascia campo libero all’evocazione e alla suggestione di gesti faticosi percepibili solo da forme parziali e incomplete.

Come ottenere risultati positivi Intanto per conseguire dei mossi è necessario ricercarli, dobbiamo forzare la nostra macchina fotografica a utilizzare tempi d’otturazione lunghi anche se considerati pericolosi, dobbiamo mettere in conto che molte fotografie saranno da buttare perché incomprensibili e poco gradite. Avremo la spiacevole sensazione di non capire cosa stiamo ottenendo se non ci abituiamo a osservare continuamente il monitor ma, soprattutto, se inizieremo a ricercare il mosso non saremo in grado di concentrarci sugli scatti normali. I primi tentativi eseguiamoli in condizioni libere e ideali, non facciamo esperimenti durante una situazione unica e

importante, men che meno se siamo i fotografi ufficiali di un evento irripetibile. La realtà non visibile, quella congelata in una frazione sarà sempre accolta positivamente da osservatori attenti. L’illusione creata dal movimento del tempo che fugge, quella delle forme che “sembrano” ma che non sono, saranno sempre criticate e viste con diniego. Per fortuna la fotografia ha conosciuto e possiede una folta schiera di artisti visionari. E’ questa falange di sognatori che ha permesso il progredire delle arti figurative in genere, proponendo sempre ulteriori modelli e nuove prospettive senza adeguarsi mai al gusto comune stereotipato. 149


Tre gradi di profonditĂ fotografica

Š Alessandro Landozzi/Fotozona

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L’ANIMA NON HA BISOGNO DI NITIDEZZA Da uno scritto di Louis Leroy: “Non venitemi a parlare di quegli schifosi pittorucoli!” urlò il povero Vincent. L’infelice rinnegava i suoi dèi […]. Il vaso, alla fine, traboccò. Il cervello classico del vecchio Vincent, assalito da troppe parti insieme, venne sconvolto del tutto. Si fermò dinanzi al custode che vigila su tutti quei tesori e, prendendolo per un ritratto, cominciò a farne una critica alquanto rigorosa: “Ma quanto è brutto!” fece, alzando le spalle. “In faccia ha due occhi, un naso e una bocca. Non sono di sicuro gli impressionisti che si sarebbero lasciati andare in tal modo al particolare. Con tutte le cose inutili che il pittore ha sprecato in questa faccia, Monet avrebbe fatto almeno venti custodi”. “Se circolaste un poco?” gli disse il ritratto. “Lo sentite? Non gli manca neppure la parola. Quel pedante che lo ha dipinto ce ne deve aver messo di tempo per farlo!” E per dare al suo aspetto tutta la serietà che occorreva, il vecchio Vincent si mise a ballare la danza dello scotennatore davanti al guardiano, gridando con voce strozzata: “Hugh! lo sono nell’impressionismo in marcia, la spatola vendicatrice. Boulevard des Capucines di Monet, la Casa dell’impiccato e l’Olympia moderna di Cézanne! Hugh! Hugh! Hugh”. Queste frasi inconsulte vennero pronunciate da Joseph Vincent, un pittore paesaggista allievo di Jean Victor Bertin, durante la prima esposizione dei pittori impressionisti presso l’atelier del grande fotografo Nadar, pseudonimo di Gaspard Felix Tournachon. Ai nostri giorni pensare che l’arte degli impressionisti avesse così poco seguito ci appare strano. Quel pittore inconsistente, di cui non rimane nulla se non la sua ridicola critica, aveva davanti agli occhi il più grande tumulto pittorico degli ultimi secoli. Una rivoluzione epocale capace di scardinare definitivamente tutti i canoni utilizzati fino a quel tempo. Come lui molti altri critici e tutta

Boulevard des Capucines - Claude Monet - 1873

l’alta società parigina accolsero freddamente quell’avvenimento storico. Si passò dalla rappresentazione fedele alla passione e alla suggestione, dalla descrizione cruda e pura all’interpretazione dei colori e della luce attraverso le “impressioni” percepite dall’insieme di tutti i sensi. Probabilmente, se non fosse già esistita la fotografia, il desiderio di vedere e riconoscere perfettamente ciò che si era osservato non avrebbe lasciato spazio alla nuova visione artistica. La pittura intraprese un incredibile balzo creativo che la portò a sperimentare il puntinismo di Georges Seurat, il fauvinismo di Matisse o il cubismo di Picasso. La fotografia si assunse il ruolo di “riproduttore del reale” e non riuscì più a elevarsi oltre l’istinto di duplicazione: quando lo fece, fu subito criticata per il suo stupido tentativo d’imitare l’istinto pittorico. 151


Tre gradi di profondità fotografica

La pittura, incalzata dalla fotografia, che le era superiore nell’ambito della perfezione della somiglianza con il reale, decise di sublimarsi per interpretare meglio le speranze e le pulsioni umane, il desiderio di creazione e l’elevazione all’assoluto. Il vecchio concetto di tramandamento dei ricordi e della perpetuazione dei lineamenti rimase il campo assoluto degli alogenuri d’argento. L’inventiva e la pura creazione diventarono territorio della pittura, la fantasia volò direttamente sul carro della nascente cinematografia e alle foto rimasero solo le carte da visita, gli album da matrimonio e i ricordini dei morti. C’è voluto il digitale per far rivivere il desiderio e la passione per la fotografia, ma, come avviene in ogni cambiamento, sopravvivono sempre le scuole di pensiero che tacciano il “nuovo” con appellativi poco edulcorati. La facile possibilità di modificare la traccia rilasciata dalla luce, sembra più uno spaventapasseri che un reale scossone alla visione comune che si ha della forma comunicativa. Finalmente, dopo quasi due secoli dalla sua nascita e dopo più di 150 dalla presentazione degli impressionisti, possiamo cominciare ad apprezzare degli scatti che si scostano dall’evidenza tentando di trasformarsi

Claude Monet - Donna con parasole - 1874 circa

Claude Monet, Edgar Degas, PierreAuguste Renoir, Alfred Sisley, Federico Zandomeneghi, Camille Pissarro, JeanFrédéric Bazille, Gustave Caillebotte, sono solo alcuni degli impressionisti tanto denigrati alla prima loro apparizione. Filippo Tommaso Marinetti - fu il fondatore del movimento futurista: la prima vera avanguardia artistica italiana del ‘900. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione artistica passando dalla pittura all’architettura, dalla musica al cinema, dalla fotografia all’invenzione di nuovi cocktail alcolici denominati “polibibite”. Il primo futurismo degli anni ‘20 sposò l’ottimismo dei tempi moderni, dichiarando una fiducia smisurata in tutto ciò che era progresso. Si esaltavano il dinamismo e la velocità, l’industria, il militarismo e il nazionalismo. Tali pensieri portarono il movimento ad aderire alle teorie fasciste dell’epoca, mischiando l’impeto di rinnovamento con la rude politica di Mussolini.

© Lodovico Ludoni/Fotozona L’impalcatura della scena è nitida e futurista. Il soggetto mosso è dinamico nel tipico atteggiamento amato dal manifesto pittorico di Filippo Tommaso Marinetti. 152


La creazione fotografica

in percezione. La sperimentazione è come un gioco, anche lo svago ha la sua valenza educativa, è il modo in cui un giovane spirito acquisisce la conoscenza e le tecniche per acquisire esperienza. Il vecchio concetto dagherrotipico del primo periodo fotografico deve lasciare il posto a una forma più istintiva. L’ossessione della nitidezza a tutti i costi può trasformarsi in un senso di liberazione nell’osservare che uno scatto senza tracce perfette, senza segni precisi o rimandi concreti può essere fonte di emozioni ben maggiori di uno specchio. Il mosso anima l’immoto, lo sfocato ci lascia immaginare, la sovraesposizione illumina l’osservazione, la mancanza di dettagli stimola la fantasia, l’insieme di tutto permette di creare scatti personali che nascono come bozzetti per diventare rappresentazioni attraverso l’arte. Questo libro è nato per accompagnarvi in un

© Luca Scaramuzza/Fotozona Non è più importante descrivere una città specifica, il leggero mosso e la sovraesposizione trasformano il segno creato in una rappresentazione generica del concetto di città con la sua frenesia e la voglia delle strutture d’innalzarsi verso il cielo.

tragitto personale, partendo dalle basi della conoscenza fotografica che tutti gli appassionati dovrebbero possedere, giungendo a un punto di svolta, quello dove ognuno può intraprendere un tragitto diverso e trovare il proprio modo di esprimersi. Imparate a utilizzare lo strumento di creazione: la macchina fotografica, ma non diventatene schiavi. Acquisite le tecniche che possono essere utili ma non dimenticate che sono solo strumenti ausiliari alla creatività. Non abbiate paura di vedere cose fuori dal comune, solo le forme sono globalmente uguali, le anime sono tutte diverse e non hanno bisogno di nitidezza per essere osservate e riconosciute.

© Daniele Napoli/Fotozona Non c’è nulla di più immoto di una statua in marmo, ma la vibrazione del fotografo sembra rievocare il “ratto delle sabine” come in un odierno scatto di cronaca o di reportage. La tensione e il dramma, già presenti nella statua, sono esaltati dall’utilizzo di un tempo prolungato misto al movimento personale dell’autore. 153

© Salvatore Giordano/Fotozona


Tre gradi di profondità fotografica

Gaspard Félix Tournachon, detto Nadar, divenne uno dei più famosi fotografi della sua epoca. Non rincorse la ricchezza e la notorietà a tutti i costi, non ricercò il facile ritratto da spacciare al popolino arricchito ma tentò di entrare nell’animo delle persone che ritrasse. Divenne amico di un’avanguardia culturale che lasciò il segno nella letteratura, nell’arte nello spettacolo e nella storia mondiale: Baudelaire, Hugo, Delacroix, Bakunin, Zola, Verdi, Rossini e Wagner sono solo alcuni degli artisti che ritrasse attraverso un’introspezione psicologica. Nel 1858 fu il primo fotografo a realizzare immagini da un aerostato e sperimentò anche tentativi di scatto multiplo che a breve avrebbero sospinto l’idea e la realizzazione dell’arte cinematografica. Non solo fu uno dei più grandi fotografi della storia: a lui si deve il lancio della corrente di pittori impressionisti. Il 15 aprile del 1874 li ospitò nel suo atelier in forma totalmente gratuita come risposta alla loro esclusione dal Salon ufficiale parigino. Con una precisa strategia decisero di sfidare la massima istituzione artistica francese organizzando una mostra in proprio e in anticipo rispetto a

quella organizzata dal Salon. Le 163 opere furono esposte come gesto di rottura totale in linea con la portata rivoluzionaria della loro tecnica pittorica. Della critica feroce scritta da Louis Leroy trattennero un solo aggettivo: “impressionisti”. E da quella scelta, si avviarono al cambiamento del mondo.

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La creazione fotografica

© Roberto Orlando/Fotozona Stesso luogo, stessa ora ma risultati totalmente diversi. Il primo scatto descrive, si apprezzano la luce dell’alba e la mancanza di esseri umani. Ha bisogno di un “dove” per soddisfare la curiosità cognitiva che l’immagine non è in grado di soddisfare. La seconda trascende il desiderio di conoscenza, c’è solo da immaginare, sembra una giostra piazzata al centro di una zona urbana che non richiede di essere riconosciuta per descrivere. © Max Ferrero Il fotografo ritrattista Alessandro Albert ripreso utilizzando un pinhole (foro stenopeico) montato su macchina fotografica digitale. 155


Tre gradi di profonditĂ fotografica

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Š Pierlorenzo Marletto/Fotozona


Qual è il vero volto della fotografia quindi? Dei tre aspetti che abbiamo affrontato qual è il più importante, quello in grado di permetterci il salto qualitativo supremo? La fotografia è solo uno strumento per lasciare dei segni, i segni sono incisi da delle macchine che non pensano e non creano: ciò che lascia quelle tracce è il frutto dei nostri pensieri e delle nostre decisioni. La fotografia ha il fascino dell’apparente semplicità, è generosa perché regala risultati senza richiedere forti dosi di apprendimento ma è esigente e complessa perché non permette d’ottenere grandi esiti senza l’adeguata preparazione. E’ uno strumento duttile con velleità sia artistiche, sia mnemoniche. Quello che vogliamo lei ce lo fornisce, per questo l’amiamo. Il modo con cui abbiate letto questo libro è una questione personale, ma se scorrendo queste ultime parole vi è rimasto ancora il desiderio d’approfondire l’argomento: considero pienamente raggiunto lo scopo che mi ero prefissato. La fotografia è un percorso di vita che cambia al nostro mutare e si adegua al nostro continuo cambiamento. Chi ha deciso d’imparare a fotografare sta intraprendendo un percorso con un preciso inizio ma senza un traguardo definito, un po’ come le infinite esperienze che ci accrescono nella vita. Max Ferrero

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Concludo ringraziando un gruppo fantastico che mi ha supportato nella creazione e nello sviluppo di questo libro ma, sopra ogni cosa, ha fornito un numero incredibile di foto per rendere il volume più bello e scorrevole. E’ stato un lavoro fatto INSIEME, io ho messo le parole e tutti gli amici di Fotozona hanno donato la loro creatività fotografica senza chiedere nulla se non la scritta del loro nome sotto la propria foto. In ordine di collaborazione, un sentito ringraziamento a tutti. Luca Scaramuzza (Scaraluca) Mauro Trolli (Mauro T.) Alessandro Andreucci (Athos) Alessandro Landozzi (Leiz) Roberto Orlando (Antoniorolandi) Angelo Abate (Angel.Abbott008) Pierlorenzo Marletto (Trigomiro) Andrea Spera (Aesse) Salvatore Giordano (Giordano349) Agnieszka Slowik Turinetti (Wika) Lodovico Ludoni (Lodo) Saverio Barbuto (B.Savy) Luciano Pratesi (Lugrent) Daniele Napoli (ND) Giulio Mandara (G.Mandara) Carola Casagrande (Bighouse) Gianpaolo Barbieri (Giampo1975) Fioravante Stefanizzi (Flower) Andrea Guarise (Guarise) Luciano Campetti (Lucio) Anna Rita Canone (Roma131) Stefania Mela (Odililly) (Coromax71) Renata Busettini (Renata) Alessandro Licitra (Licitralessandro) Simone Origlia (Simonenox) (Pat)


Š Angelo Abate/Fotozona


Da circa 30 anni cerco di vivere di fotografia. Dopo aver assaporato le esperienze del fotoreporter freelance, la mia professione si è gradualmente orientata nel campo della divulgazione specializzata. Dal 2004 al 2009 sono stato uno dei redattori della rivista fotografica “Fotocomputer”. Ora continuo l’avventura didattica su Fotozona per continuare a creare, divertirmi, comunicare e insegnare con l’unico strumento che conosco bene: la fotografia. www.maxferrero.it Sono cofondatore del collettivoX gruppo di fotoreporter indipendenti che attraverso la didattica si prefiggono di finanziare i loro progetti fotografici. I Edizione settembre 2017

foto di copertina di ©Alessandro Landozzi


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“Questo libro è nato per accompagnarvi in un tragitto personale, partendo dalle basi della conoscenza fotografica che tutti gli appassionati dovrebbero possedere, giungendo a un punto di svolta, quello dove ognuno può intraprendere un tragitto diverso e trovare il proprio modo di esprimersi. Non abbiate paura di vedere cose fuori dal comune, solo le forme sono globalmente uguali, le anime sono tutte diverse e non hanno bisogno di nitidezza per essere osservate e riconosciuteâ€?


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