Corpo violato Corpo amato
Fotografie di Jessica Lagunas, 2003-2005
mezzocielo
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bimestrale di politica cultura e ambiente pensato e realizzato da donne anno XVIII luglio agosto 2010 - â‚Ź 5,00 sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96 Filiale di Palermo
PARA BESARTE MEJOR PARA VERTE MEJOR
Fra violenza e amore Un’apertura alla nostra e all’altrui conoscenza Silvana Fernandez l corpo umano è un campo di gioco di forze biologiche. È l’unica possibilità di contatto col mondo circostante, un’apertura alla nostra e all’altrui conoscenza e alle emozioni. Narciso amò il suo corpo e la sua immagine con tale intensità da non vedere oltre, tanto da perdersi nella vuota ricerca erotica dell’altro senza accorgersi, struggendosi fino a morirne, che non si allontanava mai da se stesso, né dalle sue sembianze. Nel Simposio, Platone, quando parla d’eros, si riferisce non solo ad un rapporto fisico ma, soprattutto, a quella forza cosmica che, cercando il bello, riesce a risalire i vari gradi dell'essere di cui l’attrazione corporea, l’eros, è solo un primo stadio anzi un tramite. Tale concetto è importante perché ci dà la conferma di quello che la nostra percezione ci fa sentire: che il desiderio e il piacere collegano un corpo
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all’altro in una fase che non è solo sessuale ma è soprattutto di conoscenza e di fusione fra individui. Se accarezziamo non è solo per un godimento sessuale, ma anche per creare un legame fra i corpi. Così come se guardiamo, non è solo per vedere la fonte del piacere, al di fuori di noi, ma tutto il mondo attorno; anche quando ci compiaciamo degli odori non è solo per soddisfare l’olfatto, ma per sentire totalmente la sessualità dell’altro/a. Sessualità che se è concepita come scoperta e conoscenza dei sensi è il trionfo del corpo. Del corpo amato. Mi piacerebbe pensare che tanto il percorso che l’approdo di un simile procedimento simbolico e/o reale, non sfiorino mai la violenza ma, invece, proprio perché un corpo è amato anche per il piacere di trovare nuove frontiere da superare e fare proprie, accade che venga violato. Questo si verifica quando quel residuo di
narcisismo, che continua a sussistere in ogni individuo, e coincide con l’odio per il diverso e per tutto ciò che è la totalità dell’altro, prende il sopravvento. Amare, conoscere, violare, odiare sono verbi che hanno analoga desinenza ma significati e ampiezze diverse: i primi due non sono riducibili a confini, indicano lo spaziare nell’universo; gli altri sono disfunzioni inevitabili di un io non evoluto ed infantile. Umberto Galimberti dice nel suo libro “Il corpo” la distinzione fra amore e perversione è contenuta nel modo di vivere il proprio desiderio come apertura o come chiusura verso l’altro. Dunque potremmo definire la violenza un incontro errato dove l’individuo invece di sentirsi unito al/alla compagno/a in un piacere universale, si sente carnefice in quanto crede che la conoscenza sia non solo possedere la carne altrui, ma anche limitarla dentro i confini
del suo egocentrico piacere. Cercando la vittoria là dove non dovrebbe mai esserci la guerra, l’individuo è subito sconfitto. Infatti, se il piacere non è condiviso ma indiviso, darà sensazioni fugaci e la percezione che si credeva di trovare diventerà perversione. È facile pensare, a questo punto, che la ricerca del corpo altrui è una pulsione vitale, che la voglia di possesso sia una pulsione mortale e che tutte e due abbiano strade e limiti ben divisi, ma non sarebbe esatto. È invece più giusto dedurre che non ci sono cesure fra le due spinte emotive che spesso vivono unite ed indistinguibili in ognuno/a di noi (e dato che io, noi, gli/le altri/e formiamo il tutto) il prevalere di una o dell’altra pulsione segna non solo il destino di un corpo amato o violato, ma il destino di una società di un’epoca che potrà identificarsi con la speranza e la creatività o con la distruzione e la morte.
Essere nel mondo come corpoanima Francesca Traína ella soggettività di ciascuna/o il corpo ha un ruolo non separabile dall’anima. Mi discosto dall’idea cristiana dell’anima che sopravvive al corpo e ne ipotizza la salvezza in una dimensione di trascendenza e assumo corpo e anima come indivisibile dimensione del nostro essere; un tutto che ci immerge nella sostanza del mondo. Keats scrive: consider the world a vale of soul making, then you will know the use of the world (considerate il mondo la valle del fare anima, allora scoprirete a cosa serve il mondo). Vivere l’anima nel mondo non vuol dire trascenderlo perché non c’è che la Terra per vivere un tempo/spazio irripetibile. È in questa terra che realizziamo il nostro essere nel mondo come corpo ed anima. È questo il luogo: ora e qui. La terra non fa a meno del suo cielo; si incontrano in una coincidenza
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che diventa insieme, punto di sintesi. La nostra vita, i sogni, i desideri sono il centro di una coincidenza d’anima e di corpo. A proposito del desiderio Irigaray scrive: il desiderio dovrebbe animare tutte le nostre relazioni per il compimento e la condivisione della nostra incarnazione in quanto soggetti. Il discorso è complesso, richiede analisi, riflessione, confronto, nella consapevolezza di un costante divenire che è il nostro essere soggetti, soggetti sessuati, essere al mondo per non subirlo ma per abitarlo vivendolo, agendolo e modificandolo con il coraggio che sommuove, muove rivoluzioni, atti di ribellione che squadernino la cultura e la storia per riscriverle e significarle a partire da noi. Così viviamo, da donne, il nostro essere corpo differente, anima dal respiro profondo e sintonico col nostro essere corpo. E siamo parola che
sovverte, anima di un alfabeto nato da noi nate da donna. Siamo corpo di segni destrutturanti canoni costruiti per noi senza di noi. Siamo corpo anima e voce di un desiderio esploso tra conflitti e sfide in noi, fuori di noi, nelle piazze, nel chiuso delle stanze e che non tace né tradisce. Siamo corpo che esclude l’istintività animale in nome di un desiderio che non è istinto e nasce da una cultura dell’interiorità da salvaguardare o da raggiungere; cultura dell’interiorità che è anche dei sensi, che è anima e al contempo corpo. E c’è una sapienza del corpo che aderisce all’anima e che non allontana l’uno dall’altra, ma diviene alla loro armoniosa interezza, integrità, fusione. È un processo interiore che sceglie di coltivare il desiderio, l’energia che da esso prorompe, che distanzia dal dovere e incammina verso la possibilità
dell’essere soggetti non dominati, non posseduti; dell’essere corpoanima che risponde al proprio desiderio che è libertà ed è libertà di scelta. Siamo orientate all’amore e all’incontro animacorpo dei soggetti amanti. Tuttavia ancora oggi donne non consapevoli della propria soggettività piegano i corpi al volere maschile occultando il proprio desiderio in funzione del compiacimento altrui. Non ripensandosi come soggetti autonomi finiscono per abdicare al proprio sentire. C’è, più o meno in-consapevole, un senso di conservazione patriarcale che le spinge ad integrarsi nel ruolo di moglie/compagna che non viene meno a ciò che l’ordine universale le ha assegnato come dovere-missione da assolvere. A questo si aggiunge l’obbligo della sessualità finalizzata alla procreazione: forma e sostanza di un pensiero aberrante che
Io dentro mia madre Emma Dante n giorno mia madre mi ha messo su un treno e mi ha detto “vai!”. Mi ha autorizzata a sognare, a vivere i miei desideri, le mie ambizioni. Sono arrivata in un inquietante mondo sconosciuto. Niente che mi ricordasse quanto avevo lasciato. Uno spaesamento che, paradossalmente, mi è servito ad orientarmi, privo com’era di pregiudizi o di parole altrui. Devo tutto a mia madre. Devo tutto a quel gesto così insolito per quelle del suo mondo. Lei che mai aveva avuto aspirazioni artistiche, non voleva colmare i suoi desideri frustrati, ma “solo” alimentare i miei, sostenerli, senza riserve, senza paure. Assumendo su di sé la responsabilità di una scelta controcorrente. Antagonista. Autenticamente antagonista. Quel sostegno senza riserve ha avuto una forza incredibile che è aumentata, come un torrente in piena, con il trascorrere del tempo ed ha oltrepassato il limite oscuro della morte. Della sua morte che non mi ha impedito di continuare a sentirla sempre vicina. Io non credo che esista una vita ultraterrena ma sono certa che lei mi sente. I sopravvissuti, quelli che restano conservano la vita di quelli che se ne sono andati. Dentro di me è sepolta mia madre. Io abito il suo corpo e se devo pregare qualcuno non prego dio, prego Lei.
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pretende di incatenare la donna all’obbedienza e alla paura. Ma gli strumenti per cambiare la propria vita e il proprio essere sono a portata di tutte. La rivoluzione simbolica ha distrutto il patriarcato. Si può sterzare in direzione dell’affermazione di sé. Occorrono però il coraggio e la forza di una volontà e di un pensiero consapevoli che si originano dal riconoscimento del desiderio che muove da dentro e conduce al cambiamento di sé e del mondo. La strada è tracciata. Basta percorrerla con determinazione come l’ha percorsa in tempi antichissimi, ancor prima del femminismo e della rivoluzione simbolica, la filatrice di cui scrive Muraro che, sfidando il mondo e la sua legge, si mette in fila al mercato per comprare Yusuf, forte di un desiderio irrinunciabile e di pochi gomitoli di lana da offrire in cambio del suo amato.
Fotografia di Man Ray, Untitled, ca. 1929
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La donna greca faceva il bagno in casa, aiutata dalle sue schiave si profumava con profumi costosi ed esotici e si “truccava” con molta cura. Per il colorito pallido, conseguenza della vita chiusa e sedentaria, ricorreva al belletto bianco della biacca, al belletto rosso del minio, dell’ancusa o del fuco, che si spargevano sulle labbra e sulle guance con un apposito pennello, mentre si ombreggiavano le ciglia e le sopracciglia con un leggero velo di tintura nera di antimonio o di nerofumo. Se poi la tinta naturale dei capelli non soddisfaceva o, peggio ancora, rivelava qualche filo d’argento, allora si tingeva tutta la capigliatura in biondo oro o in nero ebano e in casi estremi ricorreva all’inganno della parrucca. Le donne Romane, fino al III sec. a.C. non ebbero molta cura della loro persona e raccoglievano semplicemente le chiome in un soffice nodo sulla nuca o in lunghe trecce. Curavano la pelle con l’“Hellenium”, una pianta i cui estratti erano ritenuti efficacissimi nella cura della pelle e usavano pochi artifici.
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Orrorismo, un neologismo che rifiutiamo Un suono stridente per mettere in luce il grado di violenza Maria Concetta Sala ...Essi per terra/ giacevano, agli avvoltoi più cari assai che alle spose” - è questo il gelido paesaggio di morte descritto da Omero nell’Iliade. Come scrive la filosofa Simone Weil, al centro dell’Iliade vi è la forza, ovvero “ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa”. E alle ferite della forza nessuno può sfuggire; soltanto chi è protetto dalla corazza di una menzogna, o dell’illusione, o dell’ebbrezza o del fanatismo può pensare di poter levarsi al di sopra della miseria umana. All’interno del regno della forza ci conduce il romanzo La Storia di Elsa Morante che narra la storia con la s minuscola di Ida Ramundo vedova Mancuso e della sua famigliola. La vicenda prende l’avvio a Roma, dalle parti del quartiere di San Lorenzo: nel gennaio del 1941, il giorno successivo all’Epifania, una recluta dell'ultima leva di guerra, uno dei tanti soldati tedeschi dall’andatura marziale, il biondino Gunther, alto più o meno metri 1,85 e con uno sguardo disperato, arrivato da Dachau per una brevissima tappa prima dell’invio in Africa, in preda a un umore triste si mette alla ricerca di un bordello; trova l’osteria di Remo, luogo di crocicchi fondamentale nella trama del romanzo, beve qualche bicchiere e si ributta nel “putrido scirocco della strada”, desideroso di accucciarsi presso “qualsiasi animale femmina”. E trova Ida, una “donnetta d’apparenza dimessa ma civile” che “al vedersi affrontata da lui, lo fissò con occhio assolutamente disumano, come davanti all’apparizione propria e riconoscibile dell’orrore”, “la visione di un incubo”. L’aggressore-drago la violenta e questo stupro viene descritto da una distanza ravvicinata, quasi intima, che è allo stesso tempo una distanza infinita. Di lì a tre giorni Gunther morirà nel corso di un attacco al convoglio aereo su cui era stato imbarcato. Frutto di quello stupro sarà Useppe, l'innocenza bambina nata dalla violenza. La potenza del
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romanzo di Elsa Morante consiste nel freddo scoperchiare i pilastri che reggono l’architettura dello Scandalo – la Storia – e nel rimettere al centro la raffigurazione della miseria umana da una distanza che tiene insieme l’aggressore Gunther e la vittima Ida; quella stessa distanza che tiene insieme Ida, la madre di Nino e poi di Useppe, e la cagna Bella,
la seconda madre di Useppe; la distanza che tiene insieme l'incrociarsi dello sguardo di Useppe con lo sguardo di un vitello “affacciato dalla piattaforma scoperta di un vagone” alla stazione Tiburtina e, nella stessa stazione, con gli occhi di figurine fuggevoli nel treno dei deportati; che tiene insieme gli assopimenti quotidiani di Ida dopo la morte di Nino e il suono degli
Libere dalle mutilazioni genitali Luisa Morgantini Il villaggio Deir EI Barsha si trova nell’Egitto centrale: in quella zona dell’Egitto il 99,6% delle donne erano mutilate e circoncise. Un conformismo sociale, retrogrado, patriarcale e duro a morire contribuisce a propagandare ancora oggi che l’infibulazione aumenti la fertilità femminile, garantisca la purezza e la verginità delle ragazze e la fedeltà delle spose. I fatti però denunciano il contrario: l’infibulazione mette in pericolo la vita delle donne che la subiscono e le priva per sempre del piacere. Quindi che alla base delle mutilazioni vi sia la posizione di predominio del maschio sulla femmina è fuori di discussione: ma le donne di questo paese si sono ribellate e il loro paese ora è indicato come modello da imitare e replicare in una zona ad altissima incidenza di casi di mutilazione genitale femminile, Deir EI Barsha rappresenta un’oasi, un “free-Fgm village”, con la sua percentuale pari a zero di donne mutilate, grazie alla lunga battaglia iniziata e vinta da dodici donne: in quel contesto di estrema povertà, con condizioni sanitarie e istruzione precarie, ostaggio di tradizioni tribali e superstizione, una ragazza ha avuto il coraggio di ribellarsi alle mutilazioni sessuali e tutte le altre del villaggio l’hanno seguita. Nonostante in Egitto tali pratiche siano vietate sin dal 1996, l’incisione delle bambine in quei luoghi è accettata da tutti perché altrimenti le ragazze non riuscirebbero a trovare marito e finirebbero per essere additate dal resto della comunità. Per chi rifiuta e si ribella “La pena da pagare è pesante: la cancellazione della donna che oppone un rifiuto dal nucleo familiare, con la conseguente perdita delle proprie radici affettive” ....Credo sia fondamentale l’impegno diretto delle molte associazioni di donne africane ...che nel settembre del 2001 hanno formalizzato la lotta contro l’infibulazione in una risoluzione che afferma che “le mutilazioni genitali femminili costituiscono una gravissima lesione della salute fisica, mentale e riproduttiva delle donne e delle bambine, che nessuna motivazione culturale o religiosa può giustificare; costituiscono inoltre una violazione dei diritti umani dei bambini e delle donne sanciti da varie Convenzioni internazionali e che sono fra i principi base dell’Unione Europea in quanto spazio di sicurezza, di libertà e di giustizia”. Anche all’interno della stessa Unione Africana, con la ratifica del Protocollo aggiuntivo alla Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli o Protocollo di Maputo approvato nel 2003, che in qualità di prima Carta dei diritti delle Donne africane rappresenta un successo straordinario e indica la via da seguire per una crescente mobilitazione e un più forte coinvolgimento delle donne nella lotta per i propri diritti.
incessanti piccoli passi di Useppe nei suoi stivalucci d'inverno tic tic tic tic tic... o, ancora, le voci delle case abbandonate del ghetto dopo il rastrellamento e le imprese di Nino e dei compagni partigiani... Elsa Morante narra da una distanza “che pareggia i vivi e i morti”, quella stessa distanza da cui alla fine del romanzo si ode “il brontolio inudibile di Ida”, come sottolinea Cesare Garboli, quella “voce bassissima, bestiale” della madre che la strage del piccolo Useppe ha ridotto a cosa. Perché la forza non solo stritola, uccide, annienta, distrugge, ma riduce a cosa. Perché l’anima umana è continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: per tornare alle pagine iniziali del romanzo, Gunther è travolto, accecato dalla forza di cui crede disporre; Ida si curva sotto la costrizione della forza che subisce. Ciò che possiamo percepire dal racconto degli scenari di guerra epici o romanzeschi come dalla cronaca degli odierni conflitti bellici o del terrorismo suicida e omicida è la passione del corpo, questo nostro corpo vulnerabile che in un lampo può essere ridotto a cosa inerte, questo nostro corpo che racchiude in sé i tratti personali come l’impersonale, ciò che è sacro in ogni essere umano. Adriana Cavarero ha coniato il termine orrorismo, un neologismo dal suono stridente, per mettere in luce il grado di violenza che oggi si scatena nei confronti del corpo dell'inerme, un corpo che afferrato dal terrore trema e colpito dalla ripugnanza di qualcosa di irricevibile si paralizza. C’è una sola via di uscita: occorre preparare il terreno per una nuova civiltà educando a pensare la vulnerabilità assoluta sia di chi perpetra terrore e orrore sia di chi lo subisce, a pensare la condizione di vulnerabilità propria e altrui in termini fisici e corporei, al fine di assumere un fondamento nuovo per la comunità, quello della responsabilità collettiva per la vita corporea dell’altra, dell’altro.
L’infermiere Mustafà era un signore di quarantotto anni, alto magro e con gli occhiali, Mustafà lavorava all’ospedale Martini ed era il più anziano dei dieci infermieri dell’ospedale. Toccava a lui istruire e fare il training alle nuove reclute delle due scuole di infermieri di tutta la Somalia. era molto conosciuto anche per le altre operazioni che faceva, la circoncisione e l’infibulazione delle bambine. Nel suo curriculum c’erano venti anni di esperienza nel ridurre o nell’asportare il prepuzio o cappuccio, la clitoride, le labbra minori, le labbra maggiori e poi cucire quello che rimaneva fra le due parti della vulva con fili di sutura o spine di acacia, lasciando al posto della vagina solo un buco artificiale dal quale non entrava nemmeno un seme di granoturco. Da quel buco sarebbero dovute passare le mestruazioni e l’urina. Se poi il buco era troppo stretto o troppo largo non c’era problema, Mustafà rifaceva l’operazione una seconda, terza, quarta volta fin quando la madre della ragazza non era soddisfatta. da Sette gocce di sangue di Sirad S. Assan
Fotografia di Shobha, Donna bruciata dalla suocera, India, 2009
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La donna etrusca aveva grande cura della propria persona: amava scegliere preziose stoffe per vestirsi con eleganza, e sapeva abbellirsi e curarsi con unguenti, profumi, matite per gli occhi, gli ombretti erano polveri colorate o sostanze grasse cui venivano aggiunti coloranti minerali o vegetali. Sembra che i colori più ricercati fossero il rosa cenere di petali di rosa e il giallo zafferano. Il rosso acceso che vediamo sulle labbra della truccatissima danzatrice della Tomba dei Giocolieri di Tarquinia si otteneva con la terra detta “milton”. Molto usata era la polvere di malachite per il trucco degli occhi, distribuita senza parsimonia sulle palpebre, per dar loro un bel verde intenso e rendere lo sguardo intrigante. In una tomba della necropoli del Crocefisso del Tufo, presso Orvieto, sono stati rinvenuti due balsamari adoperati dalle donne etrusche di cui è stato possibile analizzare il contenuto: in uno c’era una sorta di fondotinta da stendere sul viso, composto da argilla, terra d’ocra e talco per ottenere un effetto luminescente, il tutto ben amalgamato con una piccola quantità di grasso animale. Nell’altro c’era invece del nero fumo preparato con carbone d’ossa, usato per sottolineare ciglia e sopracciglia.
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Eccoci: la tragedia è servita Ahi, triste sorte misera della donnesca vita (Euripide) Egle Palazzolo i arriva quasi sempre sul piatto d’argento dei nostri secolari teatri e ci ingiunge, accovacciati sulle pietre dei suoi resti affascinanti, a dense, persino nuove riflessioni, ad emozioni mai subalterne. Sarà Antigone, simbolo più che donna, ma interamente sospinta da pietà e ribellione ad uno scontro eticosociale che intriga, ad oggi, ogni coscienza, sarà Medea che imprime, alla sua passione stravolta, un marchio tanto violento e insostenibile quanto mai del tutto cancellato dai tempi, sarà quest’ultimo anno Fedra, quella euripidea (che ha fatto titolo su “Ippolito portatore di corona” e che invade col suo corpo la scena e urla sin dall’inizio la sua contaminata sofferenza. Ci sono davvero mille angoli per scrutare la bella moglie di Teseo, madre dei suoi figli ma non del primo, Ippolito, figlio di Amazzone, bello e puro, dal quale rimarrà irresistibilmente attratta, mille considerazioni che ci riportano all’archetipo della tragedia classica, alla forza e alla fragilità dei personaggi, all’enorme, più volte brutale, vendicativo e infecondo ruolo degli dei. Ma di uno solo vogliamo avvalerci, tuttavia, spiando gesti e parole (cui il compianto Sanguinetti dà attento calco, identificandone la grecità a scapito di stacchi e di pathos) ed è quello di “un corpo di donna nemico.” Nemico a lei come al giovane uomo che l’accende di irrefrenabile desiderio. Non è un corpo di donna violato da un maschio padrone ma quello cui fa estrema violenza una dea senza remissioni, la Ciprigna, che in odio ad Ippolito, alla sua purezza, al suo rifiuto di venerarla, si avvale del corpo di un’altra donna e ne fa strumento di sofferenza e di morte. Se ci fermiamo alla prigione insana che diviene per Fedra, la sua fame di Ippolito e al tempo stesso la ribellione e l’orrore per quanto il suo corpo esprime, siamo tentati di riscattare Fedra che non solo è condannata al fuoco di un amore non cercato e dall’umiliazione che Ippolito a
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fatti e a parole le infligge, ma al male peggiore, alla bugia, all’infamia che trascinerà il figliastro alla morte e il re Teseo al rimorso e alla vergogna. Perchè un corpo comunque violato è violazione della sua anima. È e rimane diverso, non solo per linee e focalità, il corpo della donna rispetto a quello dell’uomo. Così come diverso, eterno eppure mai omologo o omologabile, è l’unione del suo corpo ad un altro corpo. Può di consueto cosi non apparire per
dar minor fatica al pensiero e maggior riparo all’immaginazione. Ma il corpo è per la donna bellezza e tragedia, consapevolezza e accanimento, offerta e ritegno. Secoli e secoli dopo, lontani dal mondo classico e dalla triade degli autori consacrati, tante altre figure di donne di tanti altri autori, inchioderanno a timori, difese, rifiuti ma sempre ad inesauste considerazioni. Altre, non una Fedra che, come prima Seneca, poi a lievitar di
secoli, anche Racine o D’Annunzio avevano agguantata. Altre: come Nanà o Teresa Raquin, come Carmen o come Lola, come Emma Bovary o come Manon, come Anna Karenina o Marta Ayala. E via ancora... Perché il difficile patto che la donna può raggiungere col suo corpo, spesso, e non per sua colpa è infranto. E ciò che lo anima e lo muove, altrettanto si oscura. Fortuna è che raramente la spezza e difficilmente la piega.
Coppia in guerra. L’impossibilità di separarsi dall’altro Rossella Caleca pesso quando un corpo amato è al tempo stesso un corpo violato, quando un corpo che ama accetta di essere violato pur traendo da ciò soltanto dolore, è arduo per molte di noi avviare riflessioni superando la difficoltà di un confronto che in qualche modo ci mette in gioco, sentiamo che sarebbe troppo semplice relegare in abito patologico relazioni che suscitano interrogativi coinvolgenti, riguardanti aspetti che in qualche modo ci appartengono, perchè i corpi in cui si iscrive la sofferenza sono corpi di donne. Senza pretendere di approfondire, attraversando ambiti specialistici, i meccanismi che agiscono nelle relazioni di coppia permeate da comportamenti violenti, da abusi fisici o psicologici, occorre dire che per molti autori questi legami si costruiscono all’insegna di una doppia dipendenza patologica; si tratta, secondo Erich Fromm, di “una fusione senza reciprocità, in cui il desiderio di dominio dell’uno si coniuga con il desiderio di sottomissione dell’altro”. Così, per la psicoanalista Anna Salvo è perverso quel desiderio che non desidera l’altro ma sé stesso: l’altro non è più una persona separata, un mondo differente dal proprio, ma diviene un oggetto da immobilizzare, da imprigionare. Ma il potere sull’altro corrisponde all’incapacità di entrare in relazione davvero; chi imprigiona la persona amata dimostra la sua paura degli affetti, di un rapporto autentico. L’impossibilità di
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separarsi dall’altro, di “lasciarlo andare” accettando la fine di una relazione, è all’origine delle tante manifestazioni di violenza, dallo “stalking” all’omicidio, subite da donne che hanno posto fine ad un legame da parte dell’ex partner. Altre riflessioni, prendendo spunto da queste tracce, si estendono ad esperienze più diffuse della relazione d’amore. L’idea della passione come intreccio di felicità e sofferenza (anzi “definita” dalla sofferenza: passione come “patire” l’altro) attraversa da secoli la letteratura, l’arte, la musica, dalle canzoni dei trovatori alle grandi opere di Stendhal, Tolstoj, Proust, e costituisce un elemento fondamentale della cultura europea (e non solo) che continua ad animare l’esistenza di molte persone. Questa concezione della passione amorosa è definita in modo ancora più estremo da Thomas Mann ne “La montagna incantata”, in un celebre passo in cui il protagonista Hans Castorp afferma che il corpo, l’amore e la morte sono tutt’uno, e che l’amore non è nulla se non è follia, una cosa insensata, proibita, “une aventure dans le mal”. Passione-sofferenza come valore e modello culturale, quindi, che può però divenire un velo per l’incapacità di costruire un legame autentico: nel mondo interiore di alcuni (e più spesso di alcune) un legame patologico, “perverso”, segnato dall’impossibilità di esprimere realmente affetto e cura, può apparire giustificato, quasi
“consacrato” dalla passione, dalla sofferenza vista come “connaturata” all’amore. In un racconto di Raymond Carver, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?” la contrapposizione tra amore come costruzione di affetti e amore come “aventure dans le mal” emerge con forza e semplicità: nel corso di una conversazione tra due coppie di amici, una delle donne parla della sua precedente relazione con un uomo “passionale” e violento, che la picchiava e non aveva cessato di minacciarla e molestarla dopo la loro separazione, finendo poi con l’uccidersi; dal modo in cui lei si esprime, dai suoi gesti, toni, sguardi, suo marito, un uomo che si è preso cura di lei mettendo in gioco tutta la sua esistenza, si rende conto che lei attribuisce a quell’amore intriso di violenza un valore forse superiore alla relazione coniugale serena che sta ora vivendo; e ne è turbato, sgomentato; un turbamento che, io credo, giunge anche a chi legge. Quante tracce si iscrivono dunque su un corpo femminile che, amando, accetta di essere violato, quanti aspetti si intersecano in molte donne che non riescono a uscire da un legame intriso di violenza? Non solo, io credo, un’opaca assuefazione alla sottomissione, non solo una dipendenza patologica dall’altro, ma anche un’attitudine culturale che rende capaci di giustificare, in nome di un’idea dell’amore travisata e usata come alibi, ogni sofferenza.
Ermafroditi, travestiti, transessuali L’avventura è in corso Pina Mandolfo e da un lato l’ordine sociale, fondato su un sistema dicotomico, concepisce la realtà in binarismi rigidamente organizzati, diventa sempre più prepotente il bisogno di interrogarsi su identità che troppo frettolosamente stigmatizziamo come aberranti: travestiti, ermafroditi, transessuali. Per non dire degli orientamenti e dei desideri sessuali, consci o inconsci, che insistono in un terreno diverso degli spazi eteronormativi – l’omosessualità per intenderci – e che tracciano anch’essi il confine disagiato tra appartenenza ed esclusione, tra ciò che può essere visibile e ciò che deve essere nascosto. Assumiamo i generi come elementi paradigmatici di molte problematiche e avventuriamoci in questioni come: quale relazione intercorre tra sesso e genere, quale tra identità sessuale e desiderio, dove risiede il maschile e dove il femminile, dove il limite tra il loro dato essenziale e la ridondanza culturale, qual è il nesso tra omosessualità, eterosessualità e relazioni di genere. E da queste questioni le altre che ne sono conseguenza e che investono il linguaggio, i rapporti sociali, i bisogni, il desiderio e il piacere al di là dei vincoli riproduttivi e il “corretto” uso della legislazione sociale. Siamo ben lontani, individualmente e come membri di una identità socioculturale strutturata, dalla capacità di accettare lo sconfinamento e il “nomadismo”. Incapaci di scrutarli come tasselli utili e “reali” nel mosaico delle identità, come forze “significative” nelle strettoie della parzialità, ne affidiamo il segno e il messaggio alla patologia, incapaci di guardarne le mille sfaccettature, confondendoli tra loro e associandoli in modo indifferenziato al tabù dell’omosessualità, molto più vicina alla “norma”, quest’ultima, di quanto non si voglia far credere. Il cinema recente con la presenza, anche esagerata, di coppie gay, la produzione artistica, il mito, la storia sono pieni di travestitismi, nomadismi, ermafroditi, di tutto ciò che è l’umano bisogno di varcare i confini. Personaggi paradigmatici della
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Fotografia di Robert Mapplethorpe, Ada, 1982
vita reale, nelle loro irriducibili differenze. Nessuno di noi si sognerebbe di confondere Giovanna D’Arco con Farinelli, gli attori del teatro elisabettiano (tutti rigorosamente di sesso maschile) con i personaggi inquietanti del Teatro dell’Opera di Pechino. E per passare all’oggi, guardiamo all’inquietante singolarità di Michael Jackson o di Madonna. Essi sono il fallimento delle distinzioni chiare e nette, la “categoria della crisi”, li definisce la studiosa americana Marjorie Garber, lo scavalcamento delle categorie sulle quali fondiamo le nostre certezze: bianco/nero, ebreo/cristiano, nobile/borghese, padrone/servo, maschile/ femminile. Sarebbe presuntuoso voler indagare e tracciare qui un resoconto del perché e di quanto varia sia l’umana natura. Come poter inoltrarci nel labirinto
dei bisogni del cross-dessing? Bisogni contingenti, volontà emancipatorie, gusto del gioco e dell’avventura, impulso a liberare la sessualità, a ridefinire l’identità. Come possiamo presumere, senza il rischio di un giudizio di valore o disvalore, di attribuire un senso alle numerose identità che gli slittamenti ci rimandano? Laddove unisex e androginia esaltano la contiguità dei generi, il travestitismo e il transessualismo ne rafforzano le categorie della differenza nel divenire rappresentazioni ridondanti iscritte sul corpo dei generi e del sesso biologico. Corpi amati e desiderati dai soggetti che mettono in atto il proprio ripensamento, ma poi odiati nel rimando di un codice socio-culturale che li esclude ripescandoli poi nel vortice della perversione. La pretesa coincidenza tra ses-
so, genere e desiderio e le rassicurazioni del binarismo sono la pretesa che definisce tutto il resto ambiguità e patologia. Ci riesce difficile accogliere le mille sfaccettature del desiderio. Non sappiamo e non vogliamo avventurarci in previsioni per un futuro, posizioni paternalistiche, falsi moralismi di politicamente corretto. Una cosa però è certa mentre l’avventura è in corso: la nostra “bussola” è e deve essere una reale conoscenza e amore di sé, un partire da sé che è metodo e pratica per una immaginazione e amore di sé e del proprio corpo che respinga l’immaginazione dell’altro. È questa azione politica connessa alla cittadinanza, l’unica via per un vivere al mondo rivendicando il “giusto” e il degno delle proprie scelte e del proprio essere.
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Maternità forzata La ricerca della maternità non può essere una violenza Sandra Verda* ’impossibilità di aver figli può capitare in tanti modi: dalla nascita per problemi biologici, per problemi legati alle più disparate malattie, per naturale sterilità o, come nel mio caso, perché a causa di un cancro la radioterapia finisce per incenerirti l’ovaio. Avevo ventuno anni quando in questo modo mi è capitata la sterilità, improvvisamente, dolorosamente, inevitabilmente, perché non avevo alternativa: o mi curavo in modo radicale o crepavo. Ma non bastava questo straziante sacrificio, accanto alla sterilità è subito comparsa l’inaspettata menopausa con quei malesseri fisici e psicologici che puntualmente trascina con sé; è così che le mie coetanee sono diventate le cinquantenni, a loro mi legava profondamente una sofferta carnalità ma non l’esperienza di una passata gioventù che per me, almeno per l’anagrafe, restava il presente. Una sofferenza infinita, a tormentarmi molto più della paura di morire per metastasi era la coscienza che mai più sarei potuta diventare madre. Da questo punto, dopo la guarigione dal cancro, è iniziato un lacerante viaggio dentro me stessa in quel processo che tecnicamente viene chiamato “elaborazione del lutto”, del lutto di una parte di me, del mio corpo mutilato, del mio spirito, del loro indissolubile legame, di Sandra che fin da bambina si era prefissata di essere un giorno sicuramente madre. Un viaggio che ha costeggiato il desiderio della vita e quello della morte, un viaggio schizofrenico che mi ha portata, a cinque anni dalla prima manifestazione della menopausa, ad ottenere mestruazione indotte per merito di cure ormonali che mi hanno fatto sentire quasi normale. Ma la coscienza di non poter comunque, nemmeno in potenza, diventare madre mi ha costretto ancora di più a scavare in me stessa fino al fondo del mio essere ed è lì che ho capito dove nasceva il
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dramma: la società in cui nasciamo e cresciamo costruisce, forse anche in parte inconsapevolmente, le femmine perché diventino soprattutto madri, non importa quale prezzo da adulte toccherà loro pagare. Regalare ad una bambina una bambola equivale ad una pistola giocattolo, è educare alle armi, è insinuare nella loro psiche un binomio indissolubile: donna vuol dire madre. Sono stata cresciuta per essere Sandramadre e non semplicemente Sandra e averlo compreso mi ha fatto accettare la sterilità, rinascere con una nuova consapevolezza femminile e riprendere finalmente, a trentadue anni, possesso di
tutta me stessa. Qualche tempo dopo ho avuto la possibilità di diventare madre con la fecondazione assistita eterologa, impossibile dimenticare quel pomeriggio in cui mi fu riscontrato un magnifico utero e un portentoso bacino capace di contenere ampiamente tre o quattro creature, impossibile non ricordare quella felicità totale, immensa, inebriante. Poi la pratica, due tentativi dei cinque previsti, un’esperienza vissuta a tutto tondo, dai vergognosi costi economici a quelli corporei: l’essere quotidianamente bombardata da enormi quantità di estrogeni, ingrassare di venti chili in soli cinque mesi,
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Per gli antichi egizi la cura del corpo era molto importante. Le donne si schiarivano la pelle con un composto cremoso ricavato dalla biacca, disponibile in colori diversi, dalla più pallida alla più ambrata Evidenziavano il contorno degli occhi con il kohl nero o verde, rispettivamente estratti dalla golena e dalla malachite. Le unghie venivano tinte così come le palme delle mani e dei piedi e a volte anche i capelli con una pasta a base di hennè. Utilizzavano specchi, pinzette per la depilazione e attrezzi per la manicure. Nel medioevo le donne per ottenere una fronte bombata applicavano sopra ai capelli da eliminare del sulfuro naturale d’arsenico mischiato a della calce viva (usata per decomporre i morti più velocemente). Metodo non certo indolore. Il viso veniva spalmato con della biacca opaca, per renderlo bianchissimo, che lo faceva diventare di porcellana si, ma che lo rendeva molto più soggetto ad un repentino invecchiamento. Le mani venivano curate tramite dei guanti, che immersi nel miele e nella mostarda, dovevano essere tenuti tutta notte. Per poi lavarsi al mattino con l’acqua piovana. Per pulirsi i denti, usavano uno spazzolino aggiunto a del corallo rosso, tartaro di vino bianco, osso di seppia e polvere di marmo, poi tutto immerso nella propria orina.
Nel Rinascimento tornò di moda lo slogan “grasso è bello”, forse anche in conseguenza dell’evoluzione delle abitudini alimentari. Per evitare di perdere peso, le donne nobili oltre a mangiare dolci in abbondanza, a base di marzapane, ricorrevano anche a preparati speciali; sia povere che ricche, cercavano di corregger il loro aspetto con cosmetici preparati in casa con ingredienti a base di erbe o altre sostanze, durante la preparazione dei quali dovevano essere recitate formule “magiche”. Per chi non aveva capelli biondi, folti, ondulati, si consigliava di lavarli con succo di limone e rabarbaro o un preparato di zolfo e di zafferano. Per ottenere una fronte alta si applicava una crema depilante o si strappavano i capelli, così come si faceva con le ciglia e le sopracciglia. La pelle doveva essere candida, con sfumature rosse solo nei punti strategici (fard). Gli ingredienti più usati per la tintura dei capelli erano: ruta, fichi secchi, zafferano, polvere d’oro, interiora di rettili. Nell’ottocento i complessi e pesanti abiti ottocenteschi erano spesso troppo delicati per essere immersi in acqua. Nella maggior parte dei casi quindi non venivano mai lavati ma, al limite, smacchiati. A subire regolamente questa sorte era invece solo la biancheria, ed è questo il motivo per cui era sempre bianca. C’è da considerare però che l’abito era solo l’ultimo di molti strati di vestiario, non era quindi in quasi nessun punto a diretto contatto con la pelle e di conseguenza si sporcava meno.
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l’umiliazione di ritrovarsi su di un lettino attorniata da medici che ti fecondano, le aspettative della buona risposta del proprio corpo e pure del destino, il ritrovarsi comunque soli perché un marito, anche con le migliori intenzioni, non può capacitarsi della fatica fisica e mentale a cui si è sottoposte. Intanto, invece che ingravidata, mi sono ritrovata con la cistifellea da togliere, sapevo che queste sollecitazioni ormonali portano spesso a questa conseguenza, anche alla formazione di masse benigne come quella di otto centimetri che qualche anno dopo mi hanno asportato dal fegato, come che predispongono al carcinoma della mammella che preciso come un orologio svizzero è fiorito su di me al compimento dei quarantacinque anni. Tutte cose che i medici non dicono, tutte cose che una paziente deve sapere, tutte cose che io però sapevo e che non mi hanno fermata, volevo tentare di avere dei figli nell’unico modo a me possibile, quella della fecondazione assistita. Solo per motivi indipendenti da questi, di tutt’altra natura, dopo una profonda riflessione sul perché io desiderassi a tutti i costi di diventare madre, ho scelto e deciso di essere una non-madre. Non ho sofferto, anzi sono stata contenta del risultato che avevo ottenuto constatando quanta strada avessi percorso sulla consapevolezza del sé. Quello che voglio dire alle donne alla ricerca di maternità sia in modo naturale, che con l’adozione, che con la fecondazione assistita, è di sondare sempre e comunque i profondi motivi che le spingono a cercarla: spesso è l’ambiente che ci circonda a influenzarci per replicare l’esempio delle altre donne, le nostre madri in primis, oppure per non sentirsi “diverse”, spesso è per gratificare sé stesse o mariti e compagni, spesso è solo perché così fan tutte. * Scrittrice, disegnatrice, autrice di testi per la televisione ha esordito con il romanzo autobiografico diventato best sellers Il male addosso (Bollati) e poi ha scritto All’ombra dei girasoli (Sperling)
Fotografia di Annie Leibovitz, Sidney Silver Coney Island High nightclub, New York City
Veline e velate: come dio e mercato ci vuole Nawal El Saadawi, È il corpo delle donne la merce redditizia del mercato, in “l’Unità”, 5 maggio 2010 Monica Lanfranco n ogni epoca storica e in ogni cultura la normazione e la rappresentazione del corpo femminile è stato indicatore della civiltà delle relazioni tra i generi. La peculiarità interessante dell’oggi è che l’apparente contrasto tra la mercificazione del corpo delle donne nell’occidente giudaico – cristiano e la risposta anticoloniale da parte dell’islam con il velo fino ad arrivare alle coperture totali (niqab e burka) è solo in apparenza un conflitto di civiltà. Nude per vendere e vendersi, o coperte e modeste nel nome di Dio le donne sono sempre oggetto di possesso nel mercato patriarcale globale, in
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ciascuna delle due forme in apparente opposizione. Certo, dal mio punto di vista, nella pur imperfetta secolarizzazione dell’occidente, la storia di libertà scritta dalle donne in occidente non ha paragoni rispetto a quella ancora da scrivere in paesi e culture che non conoscono la separazione tra legge dello stato e legge divina. Tuttavia fino a che le contraddizioni profonde e pericolose di una libertà senza responsabilità dalla nostra parte e quelle della osservanza della parola divina come regolatrice della convivenza civile dall’altra non emergeranno senza reticenze le donne saranno sempre, dovunque, corpi in ostaggio.
Nel mercato e nei templi, dentro alla globalizzazione neoliberista e nelle logiche politiche di un patriarcato che tende a normare le scelte della riproduzione e l’autodeterminazione femminile, il corpo delle bambine e delle donne giovani diventa il paradigma: lo si ama per la sua bellezza esteriore fino a che essa corrisponde alle aspettative del mercato, lo si protegge e venera se corrisponde ai canoni stabiliti dall’ordine patriarcale divino, ma si è pronti a riversare su di esso la condanna e l’odio quando i corpi e le menti delle donne si ribellano ed escono dai binari statuiti. Diventano così corpi da comprimere, nascondere, mutilare, lapidare, cancellare
nella genealogia come nella nominazione: questi corpi non creano storia, senso comune, futuro e condivisione. Sono pezzi di ricambio da macero televisivo, sono bombe umane da far deflagrare nel nome di Allah. Specularmente, è vero, anche i corpi maschili sono imprigionati nel ‘dover essere’ dei santi, navigatori e guerrieri. Ma, questa, è un’altra storia. - Se le donne musulmane hanno il dovere di indossare il velo, quelle occidentali vivono oppresse dall’obbligo di “entrare” nella taglia 42, imposto dai “profeti della moda - Fatema Mernissi da “L’harem e l’occidente”
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Il fantasma della bellezza Corpi estremi fra materialità e spirito Mariella Pasinati sempre difficile scegliere le opere e le artiste da trattare, ma questa volta è Mission Impossible! perché il corpo femminile è sempre stato uno dei significanti fondamentali nella rappresentazione artistica, luogo primario di desideri e visioni conflittuali (amato / violato, ma non solo) e perché su queste dimensioni anche le artiste hanno lavorato moltissimo, sia nel passato sia, in maniera “politicamente” consapevole, a partire dagli anni ’60 del ’900, sotto la spinta della politica delle donne e con il precedente significativo delle Surrealiste. Così nelle pratiche estetiche degli anni ’60-’90, le artiste hanno usato il corpo – spesso il proprio – per risignificarlo e riappropriarsi di un’immagine autonoma; lo hanno visto come luogo di trasgressione e/o ribellione; impiegato come principio e motore della creatività, con forme che evocano l’esperienza corporea femminile; ne hanno esplorato i tempi, i cicli, il dolore; hanno indagato le relazioni fra il soggetto dell’azione e il corpo come agente della raffigurazione; ci hanno mostrato il rifiuto dell’uso del corpo come oggetto, la costruzione della sessualità femminile ed altro ancora. Troppo. E allora? Meglio guardare a cosa accade oggi. Cosa esprimono, nel XXI secolo, le artiste attraverso il corpo? E come si rapportano alle opere ed alle artiste che sono venute prima di loro? Nell’ultimo decennio, fra le nuove modalità espressive che hanno dato forma alle questioni ed ossessioni relative a corpo, bellezza, identità, l’opera di Vanessa Beecroft (1969) rappresenta una svolta radicale nella Performance Art. Anche a Palermo, nel 2008 con la performance VB62, Beecroft ha proposto, in un rituale senza narrazione né azione teatrale, un modello femminile che sfugge allo stereotipo dell’oggetto erotico. Le modelle sono nude ma uniformate da una tinta bianca che le fa simili a candide statue (in un dialogo a distanza con
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Canto della mia nudità Antonia Pozzi Guardami: sono nuda. Dall’inquieto languore della mia capigliatura alla tensione del mio piede, io sono tutta una magrezza acerba inguainata in un color avorio. Guarda: pallida è la carne mia. Si direbbe che il sangue non vi scorra. Rosso non ne traspare. Solo un languido palpito azzurrino sfuma in mezzo al petto. Vedi come incavato ho il ventre. Incerta è la curva dei fianchi, ma i ginocchi e le caviglie e tutte le giunture, ho scarne e salde come un puro sangue. Oggi m’inarco nuda, nel nitore del bagno bianco e m’inarcherò nuda domani sopra un letto, se qualcuno mi prenderà. E un giorno nuda, sola, stesa supina sotto troppo terra, starò, quando la morte avrà chiamato. Serpotta); lentamente iniziano a muoversi, a ritornare in vita, sollevandosi da terra e dalle casse-sarcofagi. Compiono, come sempre, movimenti lenti, con fare solenne e grave: gesti apparentemente naturali, in realtà regolati da precise coreografie. Le modelle sono come statue e la ripetizione e nudità dei corpi, invece di esprimerne l’individualità, la sensualità, fanno da potente fattore di riduzione all’uniforme. Si alterano, così, i confini tra realtà e rappresentazione: i corpi viventi sfuggono alla propria individualità per appartenere al solo mondo della raffigurazione, pura materia cromatica e plastica che obbedisce a precise regole compositive, in una continua ricerca orientata alla perfezione dell’immagine. Sui rituali e sulla “tirannia” della bellezza, ha lavorato Jessica Lagunas (1971) con le sue performance in cui mette l’accento sulla pressione a conformarsi a precisi modelli estetici. Nei video l’artista esaspera, ripetendoli per ore, i gesti del truccarsi e del
depilarsi: in inquadrature ravvicinate e statiche, la camera fissa Lagunas mentre si mette il rossetto (Para besarte mejor, 2003), si applica lo smalto (Para acariciarte mejor, 2003), si trucca gli occhi (Para verte mejor, 2005), si depila il pube, indagando l’ossessione a mostrare un corpo preadolescenziale (Retorno a la pubertad, 2005). Torna alla mente l’Eleanor Antin del 1971: Representational Painting, un video in cui l’artista truccandosi porta i gesti della pittura sul viso, assumendo contemporaneamente il ruolo di soggetto ed oggetto della rappresentazione. E ancora Carving: A Traditional Sculpture del 1972 una sequenza di 148 fotografie che documentano 36 giorni di dieta della Antin che interpreta sul suo corpo una tecnica scultorea, l’intaglio: un’esperienza di reificazione del corpo e, in entrambi i casi, una netta critica a un’immagine di bellezza e di corpo femminile “modellati” sul gusto maschile. In questo inizio secolo, il
corpo è anche riemerso come luogo fisico di produzione artistica tramite pratiche violente e rituali che sfidano la resistenza dell’artistaperformer. Nel video del 2000 Barbed Hula, ad es., Sigalit Landau (israeliana, nata nel 1969) esegue, su una spiaggia fra Tel Aviv e Jaffa, una sua personale versione di una danza del ventre usando come hula hoop un cerchio in filo spinato. E subito la dimensione “profana” della danza si associa contraddittoriamente ai tratti di un rituale sacro, sacrificale, mentre il filo spinato rimanda alla demarcazione ed appropriazione dei territori, elemento che insieme delimita, protegge e ferisce. Il corpo dell’artista si fa, così, luogo di espiazione, atto di resistenza e denuncia dell’oppressione attraverso la minaccia diretta alla propria integrità fisica, “un atto personale e politico che riguarda i confini invisibili, sottopelle” (Landau). Il pensiero va alla body-artista francese Gina Pane, alla sua performance Escalade nonanesthésiée del 1971: la risalita a piedi nudi di una struttura d’acciaio, addossata ad una parete a mo’ di scala, sulle cui barre orizzontali sono saldati spuntoni taglienti. Usando il corpo come linguaggio e la ferita come segno di estrema fragilità, un segno che indica “le situazioni esterne di aggressione, di violenza cui siamo sempre esposti”(Pane), l’artista opponeva quel rituale doloroso all’escalation americana in Vietnam e lo rendeva insieme metafora di una difficoltà ad elevarsi, sia in senso fisico che spirituale. I confini incerti fra mente, corpo e spirito sono, infine, al centro della poetica di Lesley Dill. Parole, talvolta leggibili talvolta no, sono scritte su e attraverso il corpo o alcune sue parti (The Strange Experience of Beauty, 2000) e il linguaggio si fa punto di passaggio fra pensiero personale e discorso pubblico, in un accostamento raffinato di testo ed immagine che evoca con intensa emozionalità il contenuto spirituale dell’esperienza umana.
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Fotografia di Sigalit Landau, Barbed Hula, 2000
ualcosa di azzurro? Cerco la mia sciarpa a piccole righe celesti. Ecco, sì, ho bisogno di avere qualcosa d’azzurro vicino al viso per mettere in risalto gli occhi e poi l’azzurro mi ricorda il mare che adoro perché è mutevole come me. Mi guardo allo specchio di profilo: ma vogliamo parlare delle mie tette? Mia madre quando le ha viste, così belle, rifatte, ingrandite, ha iniziato un vero pianto greco. Fra i singhiozzi mi chiedeva perché, perché? Senza riuscire a capire che i perché erano a monte, lontano. Erano annidati, per esempio, nei miei tredici anni quando ho scoperto il fascino dei tacchi alti delle scarpe di mia sorella e il piacere di mettermi il suo reggiseno pieno d’ovatta. Dò un’altra occhiata allo specchio: terza misura... femminili ma non invadenti, di una femminilità discreta. “Così è il mio ideale di donna” mi ha detto Luca. Io amo Luca, anzi Luchino come lo chiamo io, quando mi prende la mano e, come in un film del secolo scorso, me la carezza piano, piano. Ecco una risposta ai perchè di mia madre: l’ho fatto per incontrare ed amare uomini come Luca! “Vogliamo scherzare ma quale uomo ti prende più la mano, te la carezza e poi non fa niente?
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Qualcosa in più Silvana Fernandez Sarà un frocio” mi dicono sia Wanda che Piera. “Allora?”sibilo io con le mie labbra, che so fare diventare una fessura, “Si vede che mi piacciono i froci! Poi senti chi parla”. “Ma tu” mi ha chiesto Wanda “gli hai detto tutto di te a questo Luca “baciamano, e carezza dita”, ma tu glielo hai detto...?” No, del seno rifatto non gli ho proprio detto nulla, anzi è stato per un equivoco che riguarda il seno che lui mi ha notata. Eravamo un po’ brilli per gli spini e la Barbera come canta, nella sua Timbuktù, il meraviglioso Rino Gaetano, in un privé di un nuovo locale. Io avevo fatto l’operazione da poco. Luca, appena mi ha visto, si è avvicinato ed ha cominciato a parlarmi fitto fitto, ma quando ha preso ad abbracciarmi e strusciarsi sulle tette io ho fatto un salto indietro per paura che mi facessero, essendo fresche di chirurgo, un male da morire. A lui che era accanto a Wanda, a Piera e anche a Nina disponibili, vocianti e già prone a dare e ricevere, quel mio gesto l’ha conquistato. Mi ha detto “Sei una creatura timida, contegnosa, così mi piacciono le donne”. Sì, capite, è stato amore a prima vista. Certo, quella parola “contegnosa” mi fa
un po’ ridere. Luca adopera espressioni forbite, un po’ vecchiotte ma, forse, è per questo che l’amo, l’amore è qualcosa che va oltre gli aggettivi che scegli. Mi dò un’ altra occhiata allo specchio, no questa sciarpa non basta a mettere in risalto i miei occhi, frugo con lo sguardo nei cassetti, ecco ho trovato! I pendenti di turchese andranno benissimo con i miei capelli castani, ricci naturali, tagliati appena sotto le orecchie. Adesso, sono a posto. Sono la Antonella che ama Luchino, l’Antonella che io amo. Sì, ho addolcito il mio nome, Antonia era un nome troppo da vecchia signora, mi piace tanto Antonella con tutte quelle elle fa allegria mi piace quanto, con questo seno, adesso, mi piace tutto il mio corpo. Suona il telefono! Sarà Luca, a volte mi avverte che arriva. Mancano dieci minuti all’appuntamento, alzo il microfono “Tony sei tu” “Mamma” quasi urlo “non è oraaa di parlare, aspettoooo una telefooonata, e poi perché non mi chiami anche tu Antonella? È più elegante ed è anche più adatto alla mia età”. “Tony – continua lei imperterrita, non ha sopportato il mutamento delle mie tette, figurati
quello del nome – “Anto mi sono informata questo Luca è proprio una persona perbene, è un ragazzo di famiglia praticante la chiesa, ha pure uno zio prete, non mi pare giusto che tu non gli dica la verità”. “Quale verità mamma? Che mi sono rifatta le tette?”. Mia madre ha un piccolo colpo di tosse, “di tutti i tuoi cambiamenti tu, a questo ragazzo, glielo devi dire, altrimenti soffrirete tutti e due”. Esita ma poi, con il suo accento pugliese in prima linea, incalza, “Antonio tu a stò ragazzo devi parlare chiaro. Tu Antonio devi...” Il citofono suona,” Mamma, non ho tempo da perdere con questi discorsi sempre uguali. Certo gli dirò tutto. Ciao, ciao,”. Il citofono suona ancora, questa volta a lungo, lo alzo e rendo la voce più morbida che posso “Arrivo Luchino, arrivo”. Poi mi guardo di nuovo allo specchio, sono stupenda! Ma sì ha ragione mia madre al mio amore io devo dire tutto. Gli dirò delle tette rifatte, del mio uccelletto sempre al suo posto. Mi chiudo la porta alle spalle, scendo correndo le scale. Si gli dirò tutto, non capisco perché mia madre continui a pensare che gli uomini a saperlo debbano scappare. Infondo i rischi sono minimi: e che io abbia una cosa in più, forse, a loro può fare soltanto piacere.
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Quando si bruciavano i reggiseni nelle piazze
Ina Di Bella Fin da piccola tutti mi guardavano lì: sotto il collo; dove, se sei femmina, con un super cromosoma X al posto giusto e gli ormoni abbondanti e veloci che ti scorrono dentro, si forma una fessura lunga e stretta che sembra impossibile infilarci anche un capello. Avevo solo undici anni quando, per problemi di contenimento, indossai la mia prima “corazza”. Erano gli anni in cui le femministe bruciavano i reggiseni nelle piazze; io, con le mie ingombranti premesse, a quale liberazione potevo aspirare? Anche la notte ero costretta a tenerla, la corazza! Senza, gli inevitabili cambi di posizione, portando l’una di là e lasciando l’altra di qua, erano causa di fitte fastidiose che rendevano il mio sonno discontinuo. Per fortuna l’orrenda ma funzionale lingerie di cui ero provvista prevedeva “soluzioni” da notte, più leggere e meno contenitive. Non è stato facile trovare la giusta misura – mai parole furono più appropriate – tra libertà e costrizione, così come non è stato facile accettare “tanta grazia di Dio”, come amavano definirla le amiche di mia madre guardandomi con sorrisetti ammiccanti, insopportabili. Sono cresciuta a pane e voglia di mastoplastica riduttiva, ma non potendo contare sulla famiglia che non aveva alcuna intenzione di sovvenzionare la realizzazione di tale desiderio, sognavo d’incontrare un principe azzurro con il bisturi al posto della spada che al culmine della passione mi sussurrasse nell’orecchio: “Vieni piccola, sali sul mio cavallo (bianco) che ti porto nella mia clinica (incantata), ti adagio sul lettino (operatorio) e… te le riduco!”. Purtroppo l’unico chirurgo che consultai, di nascosto, era un repellente ultraquarantenne che dopo avermi sbattuto davanti a un muro bianco, fotografato davanti e di lato e palpeggiato abbondantemente mi presentò un preventivo inarrivabile. E così, aspettando la soluzione definitiva, m’ingegnai per trovare degli espedienti che mimetizzassero la mia silhouette. Quello che mi veniva più naturale era camminare curva in avanti; questo comportava una serie di fastidiosi effetti collaterali: un portamento non esattamente da
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regina e un atteggiamento da persona timida e impacciata. Mi nascondevo dentro enormi camicie che lasciavo un po’ aperte sul decolleté, con l’illusione che mi slanciassero. Con quanta invidia guardavo le compagne! Come me, indossavano super zeppe, pantaloni a zampa di elefante o gonnellone a balze dai fiori multicolori ma, sopra la cintola avevano magliette attillatissime e, con orgoglio portavano in giro le loro cosine svettanti. Mia madre, dopo l’ennesima crisi primaverile, scatenata dalla scelta del costume da bagno, decise di portarmi a Roma dove, in una famosa boutique di busti e corsetti su misura, si trovavano “miracolosi” reggiseni riducenti. Partii piena di speranze ma la vista del negozio le fece vacillare subito; aveva vetrine antiquate e le pareti tappezzate dalle foto con dedica delle clienti più famose, le cosiddette maggiorate: Sofia Loren, Silvana Mangano, Anita Ekberg e così via. Foto di donne giovani neanche l’ombra. Dov’erano Twiggy, Jane Birkin e la mia preferita, Charlotte Rampling? I prototipi di bellezza contemporanea non avevano bisogno della mercanzia di una simile bottega, ebbi la conferma che la sorte mi aveva fatto nascere nell’epoca sbagliata. Ma non osai scalfire l’entusiasmo di mia madre: gli oggetti (orribili) che avevano causato quel pellegrinaggio erano disponibili nei tre colori canonici, nero, bianco e carne e, anche se costosissimi, furono acquistati tutti e tre, nonostante le mie perplessità. I maschi non posso dire che mi considerassero la racchia della scuola, anzi. Nonostante i tempi proponessero un modello diverso, io avevo sempre il codazzo dietro. Gli ormoni vincono su tutto, pure sulle mode. E questo era il problema: non mi sceglievano con la testa ma con il fondo dei pantaloni. Di sicuro non sapevano di che colore
avessi gli occhi, figurarsi se erano interessati a sapere cosa pensavo, cosa mi piaceva, che sentimenti avevo! Dopo i vent’anni, il mio desiderio era sempre saldo come una roccia: aspettavo di essere autonoma economicamente – obiettivo che velocizzò i miei studi – risparmiare e, finalmente, cambiare aspetto! Ma, si sa, non sempre le cose vanno come si vorrebbe. Sperimentai l’autenticità di una frase che avevo letto da qualche parte: “Attenzione ai desideri: potrebbero avverarsi e non come voi avreste voluto!”. Avevo tanto desiderato il bisturi che questo ben presto si materializzò su di me mutilandomi di un pezzo d’intestino, della cistifellea e di un rene. Dopo ogni operazione, cercavo di mettere in cantiere quella veramente importante, ma subito si presentava un altro malessere che richiedeva un nuovo intervento chirurgico. Come le scarpette rosse della triste favola di Andersen, il mio bisturi impazzito non si voleva fermare e sferrò il suo colpo più crudele, attaccandomi al cuore della femminilità: l’utero. Era troppo! Promisi a me stessa che mai più un bisturi avrebbe anche
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Nel medioevo le donne erano solite lavarsi una volta all’anno, in quanto le falde acquifere erano spessissimo inquinate, e quindi lavarsi sarebbe stato un rischio di infettarsi ed essere soggetti a gravi malattie come la malaria. L’ acqua era un problema notevole. Bisogna ricordare che, nonostante tutti i canoni di bellezza, quello che oggi salterebbe più all’occhio (o al naso) era il fetore che le donne emanavano. Per ovviare a questo problema, i medici consigliavano di cambiare spesso i vestiti e le lenzuola, ed usare molta acqua di colonia per profumarsi.
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solo sfiorato la mia pelle, e meno che mai per delle stupide esigenze estetiche. Avevo imparato la lezione: da allora scoppio di salute. E, come per incanto, il mio profilo si è “sgonfiato”; sarà quella condizione benedetta che si chiama menopausa, ma lo specchio mi rimanda delle forme più contenute. La mia biancheria intima, grazie all’industria del settore – che ormai è nelle mani di ingegneri specializzati in calcoli complicatissimi, degni di ben altri sostegni – è coloratissima, leggera e piena di pizzi; devo ai progetti sapienti di questi professionisti se, a cinquant’anni, ho indossato il mio primo bikini! Il ritrovato benessere fisico si riverbera nella vita emotiva che scorre serena: ho il privilegio di avere molti corteggiatori che mi guardano negli occhi e che amano stare in mia compagnia. Uomini sensibili e colti che mi colmano di attenzioni con gesti garbati, e che soprattutto non mi fissano lì. Trascorriamo insieme intense serate discorrendo in allegria di tutto, anche di cose profonde e importanti, che spaziano dalla fisica quantistica alla filosofia orientale, passando per l’arte, la letteratura e tanto altro ancora. Parliamo, parliamo, parliamo tanto e a lungo. Forse troppo? Mi domando cosa sia: maturità spirituale, ormoni in caduta libera o cos’altro? Ma questa è un’altra storia, su cui riflettere e da raccontare col dovuto distacco, magari fra trent’anni, se avrò la fortuna di arrivarci.
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Fotografia di Shobha, Isola di Levanzo, 2008
entiva di puzzare di sangue rappreso e pus. La stessa puzza che c’era fuori, mischiata a quella di plastica bruciata. Dentro il container di lamiera soffocava. Aveva la lingua secca, appiccicata al palato. Come era secca l’aria, densa di polvere e di fumo, che da giorni avvolgeva la Città martoriata. Come il suo corpo, morso da milioni di spilli. La gola bruciava. Aveva sete. Aveva bisogno d’aria, ma c’era il divieto d’uscire. Era nella zona rossa, quella degli appestati, dentro uno dei container costruiti in una settimana dall’Esercito, sotto le falde del monte Pellegrino. Le femmine dentro i container con la croce gialla, i maschi sul lato opposto, con la croce blu, sorvegliati giorno e notte. Sparavano a vista a chi disobbediva. Avevano il grilletto facile i cacciatori. Sindaco, Prefetto e consiglieri, avvisati per tempo dell’epidemia, erano scappati lasciando la città in mano a maghi, fattucchieri e suonatori di piffero che facevano affari d’oro. E ai cacciatori. Col fatto che avevano il porto d’armi, ed erano bravi a mirare, avevano ricevuto dalla Comunità europea licenza di uccidere. Tanto nessuno in quella Città indolente aveva ormai la forza di ribellarsi. Non lo avevano fatto quand’erano sani e pieni di vigore, figuriamoci adesso con la mente e il corpo corrotti dal Male! Il Male, dicevano i giornali, l’aveva portato una nave di clandestini sbarcati al porto di notte. Il primo caso fu rivelato alla Cala.
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Acqua miracolosa Gisella Modica Trovarono un marocchino steso sulla banchina con il corpo gonfio di bozzi pieni di pus, la lingua fuori dalla bocca, verde e fetida. Prima uno, poi due, poi quattro. Dopo un mese i morti non si contavano più. L’arsura era insopportabile, e anche il puzzo. Sfidò la sorte e uscì dalla porta posteriore del container. La strada immersa nei liquami, era disseminata di cassonetti colmi di immondizia bruciata malgrado il divieto. Su un lato del marciapiede erano allineati corpi informi in attesa di essere caricati sui compattatori dell’Amia, bruciati durante il tragitto, e scaricati cenere sulla piana di Bellolampo. Sull’altro lato cumuli di corpi più piccoli erano coperti di calce viva. Contò i passi: uno, due, tre, quattro. Le sarebbe piaciuto contare fino a cento e arrampicarsi lungo l’acchianata, ma l’avrebbero intercettata. Tornò verso il container. Fu allora che incontrò i suoi occhietti vispi. Ne aveva incontrati tanti, i container erano infestati, ma così piccolo e bianco come quello che adesso le sbarrava la strada, non ne aveva mai visti. Lo scavalcò. Il topino la seguì coi suoi passettini corti e rigidi. Girolama si fermò. Il topino la superò. Un passettino, si fermava e si voltava a guardarla. Fece un passo anche lei. Poi si fermò.
Si fermò anche il topino: “Scommettiamo… che mi chiede di seguirlo!” Il topino la fissava. “Ma lo sai che di cognome io faccio Gatto?” Il topino continuava a fissarla. “Mi ammazzeranno. Lo sai almeno questo?” Il topino, di rimando, si arrampicò lungo l’acchianata. Acchianava e si voltava. Decise di non deluderlo. Tanto di lì a qualche giorno sarebbe morta lo stesso per il Male. Giunto sulla cima il topino andò dritto al centro dello spiano e cominciò a scavare. Scava, scava, fino a quando sgorgò uno zampillo. Il topino lasciò che l’acqua lo bagnasse. Più si bagnava e più si allungava. Si bagnava e si allargava. Si trasformava. Prendeva forme umane. Diventò un uomo piccolo di statura e filiforme, vestito di bianco, con grandi occhiali neri. Dietro gli occhiali lo sguardo vispo e rassicurante. Girolama lasciò che l’acqua rinfrescasse anche la sua gola secca. L’arsura sparì, sparì anche il puzzo, poi sparì il pus. La pelle tornò liscia, morbida ed umida, che emanava un leggero profumo di rosa. “Signorina! Signorina Gatto!” Aprì gli occhi. La prima cosa che vide furono gli occhiali
neri, e dietro gli occhiali lo sguardo rassicurante. Poi gli occhi scivolarono sul camice bianco che avvolgeva la sua figura piccola ed esile. In mano teneva una bottiglia di plastica con l’etichetta dell’ACQUA SANTA ROSALIA. La davano da bere nei reparti, alla clinica La Maddalena, dov’era ricoverata perché il cancro le aveva divorato il primo seno, e adesso si stava mangiando l’altro. Risentì il puzzo che il suo corpo affetto dal Male emanava, misto a quello della plastica che brucia. Guardò fuori dalla finestra. La colonna di fumo denso e grigio era ancora alta. La fabbrica di Guajana, il giovane imprenditore che si era ribellato ai suoi estortori, a pochi metri dalla clinica, bruciava ancora. La città martoriata dal cancro del pizzo finalmente si ribella c’era scritto sul giornale. Il giornale era sul comodino. Accanto la rosa che le aveva portato la sera prima Guido. Emanava ancora un leggero profumo. “Dai, bevi la tua acqua. È miracolosa!”. S’imponeva di sorridere Guido, seduto sotto la finestra, evitando di guardare il suo corpo infetto, un tempo così amato. “Bevila tutta, mi raccomando, che poi il dottore ti rifà la tac”. “Non voglio deluderlo” pensò Girolama. Sorrise anche lei: “Ok. Passami l’acqua miracolosa”. Tanto di lì a poco sarebbe morta lo stesso.
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Violenza Finale
Il corpo di ciascun uomo segue la chiamata della morte possente (Pindaro). Luisa Stella utto era ferita: il frastuono, i fetori del rione, la povertà di sempre… e poi, quell’essere invisibile alla gente… lei, proprio lei, una grande sfera. Era veramente gonfia, Lina, un po’ per via dell’alimentazione – assai scadente, un po’ per qualche malattia che, ne era sicura, pompava acqua alla periferia e poi se ne scordava. Di fare attribuire un nome alla malattia non se ne parlava: di mezzi non ne aveva, ed era troppo stanca di lottare. Comunque, ovunque lei passasse, nessuno la notava. Per strada – ma dove vanno? e perché tanta premura? – veniva spintonata a destra e a manca; e lei, ch’era tutta acqua, pareva s’infrangesse come un’onda. Non lo sapeva: aveva i nervi scoperti dell’artista, e già solo per questo lo choc era sempre a un passo. Gli insulti della vita si calavano in quel suo corpo molle come niente e, per di più, là si fermavano immutati, essendo lei d’un’ignoranza crassa, non possedendo le parole per alleviare il male né, tanto meno, per accompagnarlo oltre la pelle screpolata. Ed il rancore, che nutriva spesso, nemmeno quello riusciva a temperare: articolare serie imprecazioni non era cosa sua. Appunto: penuria lessicale. E se al mercato intravedeva la danarosa signora Ottelli, che, ovvio, di lei manco s’accorgeva, riusciva appena a sibilare un “crepa!”, seguito – nulla sospettando Lina di certo borghese amore per il folklore –, dalla domanda ingenua, “ma che ci viene a fare qua?”. Pochino, dato che intanto irrompevano ricordi ben penosi, scalpitando come cavalleggeri, calpestando la sua idropisia, manco guadassero furiosi il fiume per raggiungere il nemico. Rieccola, l’allora giovane signora Ottelli… “Mmh, questa bambina è strana!” e poi, lanciando in aria un breve sguardo disgustato, “Maria, te l’ho già detto, non te la puoi portare appresso!”. E la madre di Lina, piegata in due a lustrare il parquet di quella deficiente, entrava in confusione: essendo sola, a chi mollare la bambina? A ripensarci, si diceva certe volte Lina, erano sciocchezze, niente a che vedere coi suoi
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dolori veri. Però, si sa, piccoli insulti sono i servili paggi che spalancano i portoni a grandi oltraggi. Era già molto affaticata dal suo gran sentire – senza poterlo dire –, la mattina in cui successe della moto. Era uscita per un po’ di spesa e camminava piano, la testa alle ginocchia che minacciavano di cedere e spaccarsi, facendo tracimare il corpo d’acqua. E lo sentì, il rombo spaventoso della moto. Ma non veniva da lontano? Certo che sì. Sennò mai al mondo avrebbe sceso il marciapiede. Com’è che già sgorgava a pochi metri per tramutarsi, giusto lì davanti a lei, nel feroce stridio d’una frenata? Non che stoppasse per avere visto Lina, il motociclista. Per lui era materia inerte, quanto il marciapiede. È che, adocchiato lo spazio vuoto dove parcheggiare, per forza s’era prodotto in quel fre-
dolore nonché dalla vergogna, per questo mondo e per se stessa che ci soggiornava. Domandò aiuto, senza convinzione. Forse per questo nessuno la sentì. Il pronto soccorso, rifletté, si trovava giusto alle sue spalle. Ci si trascinò, con la forza di chi ha dimestichezza col tormento. Davanti alla folla in coda, le parve impossibile di riuscire, prima o poi, ad essere ascoltata. Si spaventò, quell’ignorante. E se ne andò, strascicandosi la gamba che in pratica fumava. Che fare? tornare verso casa? verso il fracasso, le motociclette, e tutto il resto? No, e poi no! Un po’ di pace, nient’altro, è quello che si chiede a un certo punto. E lei, ch’era a quel punto, notando la schiera di pullman sul piazzale davanti all’ospedale, ne puntò uno: andava in direzione opposta alla città. E ci montò.
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Le donne Romane cominciarono ad emanciparsi dalla fine del III sec. a.C. fino a raggiungere le stranezze dell’età imperiale: usavano strati sovrapposti di riccioli, volute, posticci, o che ricadeva da un nodo centrale in riccioli fittissimi, ciascuno fissato da uno spillone formando acconciature che si ergevano sulla testa per 40 o 50 cm. Diffuso era poi l’uso delle tinture, ed il colore preferito era il biondo-rosso, che si otteneva cospargendo la chioma di sego di capra misto a cenere di faggio! Le labbra erano tinte di rosso con polvere di ocra; il volto e le braccia erano imbiancati con gesso e biacca, quando si volevano nascondere inconvenienti maggiori, niente era più indicato di un abbondante strato di creta! le ciglia ed il contorno degli occhi erano anneriti con fuliggine, ed i denti lucidati con polvere di corno!
nare repentino. E Lina – senza neanche avere il tempo d’allibire – prima ebbe trafitti i timpani sottili e poi, mentre torceva il piede nel tentativo di salvarlo, avvertì un dolore lancinante alla caviglia, che la marmitta arroventata era riuscita a scavare fino all’osso. Il centauro – nera la maglietta e neri gli occhialoni, balzando dalla moto, le assestò – ma senza dolo – un colpo d’anfibio sull’ustione. Ignorò l’urlo di Lina, pure prolungato. O non lo sentì? non è da escludere, in effetti, che il volume della canzonetta che l’iPod gli mitragliava negli auricolari non lo consentisse. Fatto sta che s’allontanò in un dondolio veloce e scanzonato – la sua era una fretta allegra –, e si dileguò. Lina si guardò attorno, stordita dal
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Sicuramente ottenebrata dallo spasmo alla caviglia, facendosi il biglietto, non dubitò di vedere un angelo al posto dell’autista. Campi, campi di silenzio, quelli che attraversava il carro celestiale. Scese in un luogo di vegetazione fitta. Un sentiero scosceso l’allettò. Mentre lo affrontava piano piano, guazzando dentro se stessa e ululando dal dolore, scorse un recinto alla sua destra: da un lato si aggirava un maiale solitario, e nella parte opposta, sopra un giaciglio di foglie e ramoscelli, ce n’erano altri due: beati, dormivano abbracciati, grugno a grugno, zampe contro zampe. “Umanamente”, avrebbe detto uno col linguaggio in pugno. “Suinamente” – ed era questo che la commuoveva –, avrebbe detto Lina, se nella palude della
sua ignoranza avesse ritrovato il conio per l’avverbio. Fu per effetto di quella scena elementare: il suo tormento si acquietò. Felice, si lasciò cadere, e prese a rotolarsi come una bambina fino allo steccato, dove fu accolta dal grugno incuriosito del suino solitario. Sollevata un’asse scivolò dentro, fino a un mucchio di paglia lì vicino. Pace! S’addormentò di botto. Si svegliò di notte, il muso del maiale accanto al viso, più in là la coppia che ronfava. Pacata vicinanza, cielo stellato e muto: un’altra ondata di emozione. La caviglia, che pulsava, la infilò dentro la paglia come in una benda e si riaddormentò. Fu scossa da una specie di morbida spallata. Era il suo compagno: s’era rizzato sulle zampe. Un rumore di passi – minaccioso – avanzava nell’alba silenziosa. Lina, febbricitante, si trascinò fuori dal recinto. Dalla macchia spiò l’uomo che, senza affetto, era venuto a portare cibo agli animali. Pochi secondi e se ne andò. Lina tornò al giaciglio. Sudata dalla testa ai piedi, l’acqua di cui era fatta che bolliva, e la caviglia che oramai purgava. Contenta, assistette al risveglio della coppia. I due mangiarono con applicazione, poi toccò al maiale solitario. Si avvicinò al trogolo anche lei. Il tempo di ristorare l’arsura con una buccia di melone, e più in là la coppia già stronfiava. Tornò al suo posto, con tutte e due le mani sollevò la gamba, e la ficcò interamente nella paglia. In niente prese confidenza con la vita, lenta e riposante, del recinto. L’unico inquieto, se si può dire, era il suo compagno: ogni sei ore si rizzava, e per un po’ vagava. Di tanto in tanto un fremito gli percorreva la cotenna: forse il tentativo di sbarazzarsi del sentire senza poter dire. In quei tre giorni miti che le furono concessi, solo un’altra volta arrivò il padrone, ma lei venne avvertita dalla spallata. Era delirio? O piuttosto la febbre le rendeva più acuti ancora i sensi? il cielo, nella sua bellezza, le apparve vuoto in modo smisurato, il grugno del vicino affettuoso e preoccupato. Che poi sia morta di setticemia non tolse nulla alla dolcezza di quei giorni, posto che morì pacificata.
orpi perfetti, patinati, come Rita Hayworth di Gilda, l’Atomica; sensuali e terribilmente invitanti come Marilyn Monroe; seducenti come Brigitte Bardot, splendida rivoluzionaria di Viva Maria di Louis Malle; dark ladies come Marlene Dietrich e Lauren Bacall; tenebrosi come Jeanne Moreau di La sposa in nero di F. Truffaut; irreali nella loro perfezione come Catherine Deneuve; aggressivi come Angelina Jolie; enigmatici e inquietanti come Isabelle Huppert. Corpi amati, invocati, icone che hanno stigmatizzato un’epoca, come il fenomeno Greta Garbo, un fascino immutabile nel tempo. Anche se oggi i canoni di bellezza sono cambiati, e alla qualità si è sostituita la quantità e la prorompenza, corpi come quelli di Charlize Theron, Nicole Kidman, Penelope Cruz, Kate Winslet, Michelle Pfeiffer, restano sinonimi di bellezza, come lo sono stati la grazia filiforme di Audrey Hepburn, il sorriso “amaro”di Silvana Mangano, l’intelligente ironia di Monica Vitti, l’esuberanza partenopea di Sofia Loren, quella mediterranea di Claudia Cardinale. Ci sono poi quei corpi che, pur non essendo perfetti, sono bellissimi e parlano da soli. Il corpo di Anna Magnani abbattuto dai proiettili tedeschi in Roma, città aperta di Roberto Rossellini, continua a commuovere, come commuove il corpo “normale” di Meryl Streep. Ma il mito appartiene anche agli uomini: carismatico quello del grande Charlie Chaplin, e quello “mutante” di Totò. E, se nel panorama italiano protagonista assoluto resta Marcello Mastroianni, il “rivisitato” Vittorio Gassman de L’armata Brancaleone e de I soliti ignoti, di Mario Monicelli non è da meno, come non si può non ricordare Gian Maria Volontè, protagonista di tanti personaggi del nostro tempo. Se poi si allunga lo sguardo nel panorama internazionale, c’è l’imbarazzo della scelta. A cominciare dal mito Rodolfo Valentino, ovvero un’epoca di follia collettiva; Gary Grant e Peter O’ Toole, un concentrato di appeal e intelligenza, Michael Caine, fascino da vendere, anche nel corpo vecchio e stanco de Il console onorario di John Mackenzie, e in quello di Sleuth di Kennet Branagh. In entrambi vincente in duelli senza esclusione di colpi, contro avversari giovani e belli, come Richard Gere, e Jude Law; e ancora, il fascinoso Humphrey
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Il Fascino, L’Amore, La Morte nella vita e nella finzione Giusi Catalfamo Bogart, niente da invidiare a icone come Brad Pitt e George Clooney, senza dimenticare il magnetismo ruvido di Marlon Brando, la storica coppia Richard Burton e Liz Taylor, il fascino perverso di Alain Delon, quello sciupafemmene di Jean Paul Belmondo, quello accattivante di Yves Montand, quello debordante di Orson Welles, quello doloroso di Sean Penn. Resistono e hanno ancora tanto da dire i magnifici evergreen Al Pacino, Sean Connery, Clint Eastwood, Robert De Niro. Attraverso i corpi il cinema continua a raccontare l’amore in scene cariche di erotismo, L’Impero dei sensi del giapponese Nagisa Oshima, Nove settimane e mezzo di Adrian Lyne, che consacrò la bellezza di Kim Basinger; amori che si intuiscono, senza una vera fisicità, come In the mood for love di Wong Kar-wai; amori gay, M. Butterfy di David Cronenberg,
con Jeremy Irons; amori coinvolgenti ma infelici che ci hanno coinvolto per quel qualcosa di indefinibile, che riesce a portarci “dentro” la storia d’amore, fin nelle sue più intime sensazioni. Casablanca del lontano 1942, ne è un esempio; ma anche la storia senza futuro di Robert Redford e Faye Dunaway de I tre giorni del Condor di Sidney Pollack, quella straziante tra Christine Scott Thomas e Ralph Fiennes de Il paziente inglese di Antony Minghella; o quella terribile di La scelta di Sophie di Alan Pakula. Solo Meryl Streep e la sua indiscussa bravura potevano rendere così vera la vicenda di una donna, costretta da soldati nazisti, a “scegliere” la figlia. La sua vita sarà devastata dal rimorso, fino alla follia e alla morte. Già, la Morte, protagonista indiscussa di molti film: chi la racconta con mano leggera venata d’ironia come
Le invasioni barbariche del canadese Denys Arcand; o attraverso i “corpi a perdere” di Le vite degli altri del tedesco Florian Henckel, con un intenso Ulrich Muhe; chi con grande spreco di sangue e sbudellamenti come i fratelli Cohen di Non è un paese per vecchi, chi la inquadra nella sua tragica attualità come Matteo Garrone in Gomorra; Paolo Sorrentino ne Il divo e Marco Risi nel coinvolgente Fortàpasc, dove un quasi sconosciuto Libero De Rienzo, trasferisce drammaticità, ma anche leggerezza alla storia del povero Gian-carlo Siani, cronista de Il Mattino di Napoli, destinato a morte sicura per aver denunziato le connivenze tra la camorra e la politica di Torre Annunziata. Che pena vedere i suoi pochi 26 anni crivellati di proiettili, giacere senza vita nella sua Mehari verde, e come sembra inutile la sua voglia di vivere!
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I sogni infranti di donne e bambini Caterina Brignone
a violenza su donne e bambini – che le nostre società occidentali tendono a riferire a contesti geograficamente o culturalmente lontani – è, in realtà, una piaga globale. Questa violenza può assumere le forme più disparate. Certe culture praticano la mutilazione genitale per controllare la sessualità femminile o impongono matrimoni combinati e precoci; nei conflitti etnici, le donne della fazione nemica sono violentate perché diano alla luce figli non più riconducibili al proprio gruppo; minori sono impiegati nella guerriglia; le politiche demografiche di taluni Paesi – come la Cina o l’India – hanno indirettamente favorito aborti selettivi del sesso e infanticidi delle bambine, con la conseguenza che è calcolato tra 50 e 100 milioni il “numero delle donne mancanti”; la povertà estrema di certe zone del mondo – dalla Nigeria, alla Mauritania, all’India, alla Thailandia, al Brasile – favorisce la tratta di donne e minori, poi impiegati come schiavi o destinati alla prostituzione od all’espianto degli organi; l’arretratezza economica e culturale di alcune società continua a legittimare l’uccisione – mascherata da incidente domestico – della sposa, quando la famiglia di provenienza non corrisponda al marito la dote convenuta; e l’elenco potrebbe continuare. L’Occidente non può dirsi estraneo a tutto questo, perché basta guardarsi intorno per avvedersi che l’era della globalizzazione non riguarda solo i mercati. Vi sono famiglie di immigrati che continuano a praticare l’infibulazione nel Paese ospite e a negare libertà e diritti alle donne; la storia recente della ex Yugoslavia ha riportato nel cuore dell’Europa la pulizia etnica; le nostre società dell’opulenza sono i mercati di destinazione dei “nuovi schiavi”, delle prostitute, degli organi umani e dei prodotti realizzati con lo sfruttamento dei lavoratori. Quella appena descritta, però,
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è solo una faccia della medaglia, che taluno – con un’indebita banalizzazione – potrebbe considerare “d’importazione” e pensare di cancellare allontanando lo straniero indesiderato. In realtà, è sufficiente varcare le porte di un tribunale locale per accorgersi di come moltissime violenze sessuali, fisiche e psicologiche su donne e bambini siano perpetrate tra le
donne – oltre a non proteggere sé stesse – restano conniventi rispetto agli abusi usati ai figli ed alle figlie, queste ultime addirittura colpevolizzate come provocatrici. Il fenomeno, comunque, non è mai solo privato, perché origini e strategie di contrasto si saldano alla cultura, alle politiche sociali ed al diritto. Ed allora, un atteggiamento di inerzia si tradurrebbe nella
La stanza del magma Pascale Petit
...Il mio volto schiacciato sul cuscino di lava lasciava sempre una maschera mentre lui si spingeva dentro di me. E quando cercai di liberarmi il volto di pietra che adesso avevo fissò il soffitto e lo vide ribollire. I miei capelli lunghi e neri scorrevano in fiumi di fuoco che lui continuava a carezzare e intrecciare finché le radici si spezzarono. Scivolai in una liquefatta oscurità, giù fino a un nucleo bianco dov’ero inebetita. Mi svegliò un dottore sul tavolo fresco della cucina. Sono passati più di quarant’anni da quando ho seppellito quella notte sotto nubi di cenere vulcanica. Ma quando mi domandi cosa ricordo rispondo solo, l’odore di lui come una pietra che mi sigilla le narici. The Zoo Father, Poetry Wales Press Ltd, Bridgend mura domestiche, da nostri connazionali legati alle vittime da rapporti familiari, amicali o di conoscenza. La realtà delle aule giudiziarie mostra pure che, il più delle volte, il pedofilo non ha bisogno di ricorrere a strumenti sofisticati, perché ha il volto rassicurante dell’amico, del parente, dell’insegnante o del sacerdote; che certe brutture non riguardano solo i contesti più degradati; che, talvolta, le
smentita dei valori sui quali la Western culture dichiara di reggersi, dai diritti umani ai principi di dignità, libertà ed eguaglianza. Inoltre, violenze ed abusi comportano costi sociali altissimi sia sotto il profilo degli esborsi per la cura delle vittime e la sanzione dei colpevoli sia in termini di risorse umane mortificate e sottratte al circuito produttivo. Occorrono, quindi, strategie di contrasto integrate e
differenziate in ragione della tipologia di violenza o di vittima. Primo passo è quello di maturare migliore comprensione del fenomeno per combatterne le cause e lanciare ai soggetti colpiti il messaggio che nessuno merita la violenza e che chiedere aiuto non è segno di vergognosa debolezza. Per questo servono conoscenza del territorio, un’opera capillare dei servizi sociali, misure di sostegno economico, campagne mirate di informazione, il contrasto alla disoccupazione femminile ed alla dispersione scolastica, fattori questi ultimi che, favorendo l’isolamento delle vittime, rendono più difficile chiedere ed ottenere soccorso. Il diritto deve mettere a disposizione tutte le proprie armi: misure inibitorie e risarcitorie; meccanismi processuali rapidi, efficienti e idonei a difendere la privacy delle persone offese; reati e pene ben calibrati. L’ordinamento italiano non è a corto di mezzi, ma la loro applicazione non è agevole, perché la vittima matura spesso atteggiamenti diffidenti e poco collaborativi con la giustizia ed arriva talvolta – specie nei casi di violenze domestiche – a difendere il carnefice col silenzio o con la menzogna. Una certa diffidenza, peraltro, può anche essere giustificata da parte delle immigrate irregolari, che temono, venendo allo scoperto, di essere espulse dal territorio dello Stato. Gli operatori giuridici, quindi, sono chiamati a usare una particolare attenzione e sensibilità. La violenza infrange i sogni di chi la subisce, ma solidarietà e impegno possono contribuire a restituire fiducia e speranza. Come ricordava Robert Kennedy, “ogni volta che una persona lotta per un’idea o… combatte un’ingiustizia, suscita un vento di speranza e quei venti, incrociandosi da milioni di altri centri di energia e di audacia, danno vita a una corrente che può spazzare via le più alte barriere di oppressione e resistenza”.
essun edificio meglio delle Terme Romane di età imperiale può testimoniare di una attenzione alla cura del corpo caratterizzata da aspetti talmente edonistici e gaudenti, da aver ormai quasi relegati e messi da canto quelli igienico-salutistici. Dagli ambienti poco spaziosi e male illuminati dei primi bagni pubblici aperti da imprenditori privati, si passò verso la fine del I secolo a. C., alle Thermae di iniziativa pubblica, aperte al popolo gratuitamente o comunque a prezzi politici. Queste ultime si arricchirono di locali destinati ad usi diversi: il vestibolo d’ingresso apodyterium, la sala destinata al bagno di aria calda laconicum, i tre ambienti a diverse temperature, calidarium, tepidarium e frigidarium, l’ambiente scoperto con la piscina natatio, ed intorno un grande recinto perimetrale che ospitava palestra, biblioteche, auditori, sale di esposizione, ninfei, latrine. I progettisti riservavano una grande cura nella distribuzione planimetrica dei vari ambienti non soltanto in relazione ad esigenze di simmetria ed organicità, ma per la necessità di consentirne la migliore fruizione contemporanea da parte di grandi masse di utenti ( pare che la terme di Diocleziano potessero essere utilizzate contemporaneamente da più di tremila persone). L’uso che si faceva delle terme, non si limitava al bagno, alle unzioni, ai massaggi e all’esercizio fisico ma si estendeva alla conversazione, lo spettacolo, l’arte, la cultura, i nuovi incontri, rendendole il più forte polo di aggregazione ed il più diffuso sul territorio dal momento che si ritrovano in ogni angolo del mondo conquistato. Per l’importanza assunta nella vita pubblica e per l’interesse che vi dedicò la politica esse divennero l’oggetto su cui si applicarono tutte le soluzioni costruttive più interessanti e raffinate e le sperimentazioni più originali dell’architettura romana; soluzioni statiche quali speroni e contrafforti per contrastare le spinte delle volte, soluzioni anticipatrici per il raccordo delle cupole ai sottostanti muri, uso di materiali leggeri quali anfore, tubi e laterizi cavi nelle murature delle volte per ridurne le spinte. Grande cura nel trattamento degli interni con uso di materiali pregiati, statue e decorazioni parietali e
Fotografia di Richard Avedon, La contessa Christina Paolozzi, New York, 1961
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Le Thermae romane, che lusso, che goduria! Vivi Tinaglia pavimentali, contrapposta all’assenza di prospetti esterni decorati; da fuori si presentano infatti come una concatenazione di volumi sporgenti o rientranti a parete continua dai muri altissimi. Ma l’aspetto più sorprendente è quello legato all’approvvigionamento idrico ed al riscaldamento degli ambienti, che rivelano grande sapienza costruttiva e padronanza tecnica. L’acqua veniva portata in città con gli acquedotti (Agrippa per alimentare le sue Terme fece costruire l’Acqua Virgo con una portata giornaliera di 100000 mc) e poi raccolta in cisterne di grandi proporzioni (quella che serviva le terme di Traiano aveva una capacità di 7500 mc.), dalle
quali attraverso tubazioni di piombo o di terracotta veniva immessa nelle vasche per il bagno freddo. L’acqua che doveva essere riscaldata veniva invece immessa nelle caldaie e poi da queste raggiungeva le vasche per il bagno caldo; qui un recipiente di bronzo a forma di tartaruga, poggiato sul fondo della vasca e riscaldato direttamente dai forni che si trovavano al di sotto dei pavimenti degli ambienti balneari, provvedeva a cedere all’acqua il calore in modo continuo e uniforme. I forni, sottomessi rispetto agli ambienti da riscaldare, e perciò detti ipocausti, funzionavano a legna e riscaldavano un insieme di caldaie di bronzo a diverse temperature, comunicanti tra
loro per mezzo di tubi muniti di rubinetti, in modo da realizzare un ciclo continuo che garantiva una reintegrazione dell’acqua calda man mano che veniva erogata. Gli stessi forni riscaldavano l’aria che poi veniva immessa nei vespai dei pavimenti e, attraverso pareti a intercapedine, negli ambienti da riscaldare, assicurando temperature superiori ai 30 gradi e garantendone a lungo il mantenimento grazie allo strato di aria coibente che si formava nello spazio tra i muri. Anche se restiamo ammirati dal punto di vista costruttivo e architettonico non possiamo tralasciare di notare l’importanza data al sociale che parte da un amore quasi narcisista della propria persona.
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Se lo copri lo ami Questa donna me la guardo solo io Marcella Croce otto molti aspetti, l’Iran è diverso da tutti gli altri paesi islamici, dai quali ha sempre tenuto a distinguersi, mantenendo sia la propria lingua farsi, che l’etnia indoeuropea e la religione sciita. In Siria per esempio ci sono donne completamente coperte di nero, di cui non si vedono neanche gli occhi (affinché i loro mariti possano dire ‘questa donna me la guardo solo io’!), altre che fasciano strettamente testa e collo, ma indossano magliette e pantaloni attillatissimi, e molte altre ancora che, almeno nelle città, sono del tutto identiche alle donne occidentali. Al contrario in Iran il volto della donna non è mai coperto, ma dalla Rivoluzione Islamica del 1979, per tutte e sempre, musulmane e non, su tutto il territorio del paese, rimane fortissimo l’obbligo dell’hejab (‘rispetto’ in arabo). La parola è di solito usata per denotare un semplice fazzoletto o sciarpa per la testa, ma in realtà indica tutto ciò che rende una donna ‘presentabile’ in pubblico dal punto di vista musulmano, e cioè che, oltre i capelli, copre tutte le forme del corpo. Sembra che per tante persone le donne abbiano in testa serpenti invece che capelli: io non avrei mai potuto capire l’enorme importanza che viene attribuita al velo, né tutte le aberrazioni che ne derivano, se non avessi vissuto in Iran per due anni. La regola più nota imposta alla popolazione iraniana è certamente l’obbligo del velo nell’abbigliamento femminile, annunciato perfino sui computer delle linee aeree, nonché all’atterraggio a Teheran, e addirittura pubblicizzato in vari luoghi con grandi cartelloni come ‘segno di libertà’(!). L’abbigliamento islamico, secondo queste teorie, libererebbe la donna dai pericoli che le potrebbero derivare da attenzioni maschili poco riguardose, e contribuirebbe a proteggerla: un concetto impossibile da capire per noi occidentali. Sembra oggi quasi incredibile ma proprio in Iran nel 1935 lo
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Scià Reza Palhevi senior (padre dell’ultimo scià) proibì l’uso del velo, e molti vedono proprio in atti come questo, inopportuni quanto inefficaci, una delle lontane motivazioni della rivoluzione islamica e della recrudescenza puritana che il paese attraversa dal 1979. Così iniziò la profonda frattura, tuttora esistente nel paese, fra borghesia occidentalizzata e masse tradizionaliste. Basti pensare che dopo quel provvedimento,
ci furono molte donne in Iran che, pur di non farsi vedere senza velo da estranei, non uscirono più di casa. Dopo un po’ di tempo in Iran, si comincia a poco a poco a rendersi conto che non tutti i veli sono uguali. La parola chador (‘tenda’) in questo paese denota un manto intero, come quello della Madonna, che va dalla testa fino ai piedi, lasciando libero il volto. C’è una variante ridotta del chador (maqnaéh), anch’esso di solito nero, una sorta di
Glassa al limone e ciliegine Le ambiguità culturali sul corpo si riflettono anche nella pasticceria Marcella Geraci l contrasto tra il candore latteo della glassa al limone ed il rosso della ciliegina invitano a mordere. Il ripieno di ricotta di pecora mescolata ai canditi e alle scaglie di cioccolato è un rifugio morbido e accogliente tutto da esplorare con la bocca. Dietro le vetrine delle pasticcerie catanesi, le minne di Sant’Agata sono, tra i dolci che fanno più scena, un vero colpo d’occhio. Riprodurre allegoricamente la vita e la morte è una caratteristica che rende unica la pasticceria siciliana, con i suoi sapori forti e i colori variopinti. Nel caso delle minne, la realtà raccontata dalle cupole di pastafrolla ripiena e glassata è quella del martirio della santa, che ebbe i seni recisi per ordine del console romano Quinziano, insofferente di essere respinto. I seni le furono restituiti da San Pietro e le minne riscrivono la santità di Agata con la ricotta, così come lo zucchero colorato dei pupi (pupaccena a Palermo) ci racconta la visita degli antenati nel giorno dei Morti. E di minne è piena la Sicilia, visto che a contendersi il dolce ci sono altre zone dell’isola oltre Catania, ad esempio Sambuca, paese dell’agrigentino dove i seni sono ripieni di zuccata. Ma se nel racconto religioso il corpo della santa è violato, la riproposizione del tema nella pasticceria siciliana tira in ballo anche il senso di abbondanza e di protezione che le minne hanno suscitato e continuano a suscitare nel senso comune dei siciliani. Viene in aiuto il Don Fabrizio del Gattopardo, quando Giuseppe Tomasi di Lampedusa gli affida la riflessione sulle “impudiche paste delle Vergini”. Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tendendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I “trionfi della Gola” (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah! Le minne che ci riportano alla pienezza e al senso di protezione emanato dal corpo femminile sono le protagoniste di un romanzo dei giorni nostri, autrice la palermitana Giuseppina Torregrossa. Appena le addentavo la crema di ricotta, zucchero e cioccolato riempiva ogni angolo della mia bocca! scrive l’autrice de “Il conto delle minne” (Mondadori, 2009) – la sentivo spalmarsi sul palato; chiudevo gli occhi e il piacere si spandeva per tutto il mio corpo di bambina e si mischiava a una sensazione di protezione e fiducia, perché secondo le convinzioni della nonna la cassatella mi avrebbe tenuto lontana dalle malattie e, nel caso più sfortunato, mi avrebbe fatta certamente guarire. Le minne di Sant’Agata erano l’assicurazione per la mia salute, il dolce amuleto che mi avrebbe accompagnato nella mia vita di donna. Le ambiguità culturali si riflettono così nella pasticceria come in uno specchio, rendendola un termometro per misurare contraddizioni o un termine di paragone per stabilire differenze e analogie. Come le minne di Sant’Agata dimostrano.
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soggolo simile a quello delle suore, che arriva solo a coprire le spalle (identico, tanto per intenderci, a quello azzurro della splendida Annunziata di Antonello da Messina), e che è obbligatorio per tutte le donne nel posto di lavoro, nelle scuole e nelle università. Negli uffici pubblici l’obbligo è particolarmente rigoroso: per potere entrare in una stazione radio, come straniera mi è stata data licenza di indossare una semplice sciarpa invece della maqnaéh, ma, benché si trattasse di un’intervista radiofonica e non televisiva, sono stata tutto il tempo in grande tensione perché dovevo stare ben attenta che non si vedesse neanche un capello. Quando si è invitati la prima volta in una casa iraniana, di solito una straniera viene subito invitata a ‘mettersi comoda’, cioè a stare come meglio preferisce, ma per le iraniane è un’altra storia, per una donna che a casa sta senza hejab, ce ne sono chi sa quante altre che si mantengono rigorosamente ligie alle regole anche all’interno delle mura domestiche. Sicuramente molte donne iraniane non si conformerebbero alle regole islamiche se non fossero costrette a farlo; ma, anche se è molto difficile per noi occidentali accettarlo, per tante altre musulmane l’hejab è assolutamente irrinunciabile, vuoi per costume vuoi per profonde credenze religiose. La cosa non è mai completamente prevedibile a priori, con grande sorpresa ho visto una ragazza (carina, giovane, istruita) togliere furtivamente dall’album di famiglia tutte le proprie foto a capo scoperto, casomai vi potesse gettare una sbirciata un maschio che non fosse il padre, il marito, il fratello, e ho visto ragazzi che si passavano clandestinamente le foto ‘porno’ delle più famose attrici del cinema iraniano senza velo. La cosa più strana è che tutto ciò avviene in un paese dove la gente ha un’incredibile vitalità, paragonabile forse solo a quella dell’America Latina, dove le donne tengono moltissimo al loro aspetto fisico e ricorrono continuamente alla chirurgia estetica.
Fotografia di Carla Cerati, Mazzotta/Fotografia, Forma di donna
C’è chi porta con sé il ricordo degli animi. Io porto con me il ricordo dei corpi. Non conosco la mia anima né quella degli altri. Conosco il mio corpo, conosco i loro corpi. E mi basta” – è questo l’esordio del romanzo della scrittrice siriana Salwa alNeimi, La prova del miele (trad. it. a cura di Francesca Prevedello, Feltrinelli, 2008), nel quale la riflessione sul corpo occupa una posizione di primo piano. Dalla narrazione, incentrata sulla scoperta da parte della protagonista di una sfera a lei prima ignota, quella del sesso e dell’erotismo, emergono in filigrana elementi interessanti per una lettura “al femminile” dei piaceri del corpo nell’Islàm. Non mancano, infatti, i riferimenti al Corano, alla legge, alla ricca tradizione letteraria erotica araba, agli insegnamenti dei maestri sufi, ai rituali che si svolgono all’interno del hammàm, a proverbiali figure femminili, o ancora, all’educazione delle ragazze. Si tratta di riferimenti che capovolgono alcuni luoghi comuni che caratterizzano non solo le rappresentazioni occidentali dell’Islàm, ma anche quelle, altrettanto radicali, espresse da compagini interne al mondo musulmano. Non mancano, inoltre, le
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L’Islàm e i piaceri del corpo Io porto con me il ricordo dei corpi Mirella Cassarini critiche ai meccanismi, ideologicamente prevedibili, sottesi a certe scontate prese di posizione delle donne che si sono limitate a invertire i ruoli di genere in funzione di un riscatto della figura femminile. Non mi sembra allora fuori luogo, accogliendo le non casuali suggestioni offerteci dall’autrice, tornare ai testi medievali per comprendere l’atteggiamento assunto nella civiltà arabo-islamica riguardo ai piaceri del corpo. Anzitutto, la sessualità non è negata dal Corano che considera la castità e il monachesimo pratiche aberranti. Il sesso è considerato lecito all’interno del matrimonio, sebbene sia consentito agli uomini di praticare la poligamia e il concubinaggio. Uomini e donne che commettano adulterio sono parimenti punibili (Corano, XXIV, 2-10). La soddisfazione della sessualità femminile è un diritto esplicitamente citato nel Corano, nelle tradizioni del Profeta e nei testi giuridici. Il sesso, se praticato in maniera lecita, è, per uomini e donne, un atto meritorio e il misticismo
stesso non ostacola il matrimonio del singolo sufi, nonostante in alcuni testi si parli della comune astensione dei coniugi dal piacere sessuale in vista di una sua sublimazione nella preghiera notturna. I trattati erotici arabi ritraggono una donna partecipe, intraprendente, attiva, in certi casi persino pericolosa, come mostrato da Ait Sabbah, pseudonimo di Fatma Mernissi, nel saggio del 1982, La femme dans l’inconscient musulman. Il canone della bellezza femminile, osserva Biancamaria Scarcia Amoretti, muta nel tempo: all’immagine della donna grassa, le cui rotondità attraggono l’uomo arabo preislamico, viene sostituita quella della donna esile dalla vita sottile, il seno pieno e le natiche tornite in epoca abbaside (Un altro Medioevo. Il quotidiano nell’Islàm, Laterza, 2001). Il hammàm è il luogo deputato non solo all’igiene e alla cura del corpo, al sollievo dalle fatiche quotidiane e alle confidenze fra donne, ma anche a conoscere e valutare
“senza trucco e senza inganno” la futura sposa dei propri figli (La prova del miele, p. 36). Si ammettono i benefici del massaggio e il ricorso ai profumi, nonostante i rigoristi ne disapprovino l’uso. Il corpo si decora, ad esempio, truccandosi gli occhi con la henna i cui effetti sono, oltre che estetici, anche salutari. Non sembra esservi, dunque, incompatibilità fra l’Islàm e la sessualità, sempre che questa si esprima secondo le forme consentite dalla legge. La soddisfazione sessuale è, infatti, garanzia di stabilità sociale. Per questa ragione, come nota in un altro saggio Fatma Mernissi, l’elemento negativo e antisociale è rappresentato dalla decisione da parte di una donna di vivere la propria sessualità al di fuori degli schemi leciti o di provocare la fitna, il caos, qualora non ricevesse il piacere che le spetta. Anche per questo le parole della protagonista del romanzo di al-Neimi meritano attenzione: “Non ho altri modelli oltre a me stessa, non devo andare in cerca di autorizzazioni, né terrene né celesti. Non devo andare in cerca di una fatwà che mi dia il permesso di concedermi ai miei uomini nei momenti del desiderio” (La prova del miele, p. 19).
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E quasi una fanciulla era Crescere sì, ma come? Teodora Pottino quasi una fanciulla era... e da questa felicità di canto e lira nacque”, inizia così una lirica di Rilke. Ma è sempre felice la strada della giovinezza l’incontro con il corpo che muta? Ma cosa ha vissuto davvero questa fanciulla per diventare donna? Ho chiesto a quattro ragazze di darmi una risposta, in realtà a molte di più, ma nelle loro parole ho sentito poca autenticità. Quasi tutte si sono nascoste dietro luoghi comuni, frasi fatte e passati remoti. È come se non avessero voluto scavare dentro loro stesse, rifiutandosi di capire ciò che sentivano o forse rifiutandosi di sentire. Perfino chi ha risposto più autenticamente ha preferito l’anonimato, ed essendo tutte mie coetanee, mi chiedo perché. Un po’ meno sereno è stato il modo in cui invece questa fase è stata vissuta da altre due ragazze della stessa scuola. Autentiche, sincere, superficiali, per ognuna una diversa definizione ma se provassero a chiedere a me come ho vissuto il cambiamento del mio corpo, non riuscirei a rispondere facilmente. Non è stato qualcosa di lineare, di semplice, di stabilito. Quando ero bambina il mondo dei grandi mi appariva come qualcosa di “proibito”, la fisicità di un adulto era qualcosa che, se da un lato desideravo raggiungere, dall’altro mi vergognavo. Il seno che cresce, i fianchi che si allargano, il corpo che si va a delineare in forme sempre più decise, erano tutti cambiamenti che mi piaceva notare ma, nello stesso tempo, una parte di me non voleva vedere come se ci fosse qualcosa di sbagliato, un tabù che si violava. E più crescevo più l’attenzione sul mio corpo prendeva uno spazio costante: mi osservavo, cercavo di ricordare come ero prima e lo confrontavo con quello che andavo diventando. Ero sempre io, nel tentativo di riconoscermi in un corpo diverso.
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Elda Cascino, 17 anni, la prima a cui ho domandato come avesse vissuto il cambiamento del suo corpo mi ha dato una delle risposte più sincere “Io mi collocherei in una via di mezzo tra le ragazze che vivono questo cambiamento impaurite dall’idea di crescere e di vedere il loro corpo cambiare troppo in fretta e tra quelle che invece si disperano perché non crescono mai mentre le loro compagne e amiche sono già donne. Fino a poco tempo prima ero ancora un ragazzino e volevo esserlo. Poi ho cambiato mentalità, ho cominciato a sentirmi a disagio. Mi sentivo piccola e stavo male. Piano, piano però il mio corpo è iniziato a cambiare. Forse è per questo che non ho vissuto la crescita in modo traumatico”. Laura Caramazza, 17 anni Liceo Garibaldi, “Ho vissuto bene il cambiamento del mio corpo perché per fortuna non ho avuto fasi di ingrassaggio, di puntine adolescenziali, fianchi
che lievitano. Anche se io cambiavo non me ne sono mai resa conto, è stato un cambiamento graduale, per altro essendomi sviluppata presto cambiamenti come la crescita del seno mi facevano sentire più grande rispetto agli altri e la cosa mi piaceva. Ma. T. liceo Garibaldi, “Da bambina il mio corpo era solo un mezzo: correre, arrampicarsi, ballare... l’unica cosa importante era che fosse sano e mi permettesse di godermi l’infanzia. A differenza di molti bambini, magari un po’ troppo grassottelli o magrolini, il mio fisico atletico era un passepartout per qualsiasi cosa avessi in mente di fare. Verso i 13 anni cominciarono i cambiamenti. Dalle prime mestruazioni il mio corpo acerbo iniziò a diventare quello di una donna: un accenno di seno, i fianchi più rotondi, peli, e purtroppo anche qualche smagliatura. Mangiare, pesarsi,o anche solo guardarsi divenivano
ora fonti di ansia e paranoia, e il mio fisico mutato era diventato oggetto si scherno da parte dei fratelli. Dunque sì, l’inizio fu davvero traumatico, non avevo nessuno con cui parlare e sfogarmi circa la mia crescita, e ogni alterazione era per me vergogna, disgusto e preoccupazione”. Clara Guccione, “Io ho iniziato a crescere molto prima delle mie compagne e da un certo punto di vista questo è stato un disagio; vedendo che ero la più formata tra le altre mie compagne mi sentivo una specie di “mamma”. Ma nello stesso tempo mi piaceva esserlo e non mi sembrava neanche strano perché ero abituata a stare con mia sorella e con le mie cugine di cinque anni più grandi, che da sempre cercavo di imitare. Vedendo il mio corpo cambiare non mi sono creata troppi problemi anzi ero felice di essere come loro. Non era solo il seno a crescere ma anche tutto il resto: stavo cominciando ad ingrassare
Chi scorge una differenza tra spirito e corpo non possiede né l’uno né l’altro.
e questo mi piaceva molto: mia sorella e le mie cugine erano sempre a dieta, una cosa che anch’io volevo sperimentare per essere come loro, per sentirmi grande. I problemi però nascevano quando ero accanto alle mie compagne che erano la metà di me e a quel punto avrei voluto smettere di crescere ed essere come tutte le ragazze della mia età. Io e il mio corpo è come se fossimo fidanzati e in questo pseudo fidanzamento ci sta un lasci e prendi continuo, in quanto molti giorni guardandomi allo specchio mi vedo come una bellissima ragazza, una capace di far cadere ai proprio piedi ogni ragazzo... ma ci sono anche giorni in cui sono convinta di essere una delle ragazze più brutte che abbia mai visto. Quella foga che avevo di ingrassare per poter stare a dieta si è trasformata in una terribile voglia di perdere peso per uniformarmi alle altre. Tutti i miei tentativi però non sono riusciti a farmi perdere più di quattro chili.
Oscar Wilde
Tutti gli esseri viventi sono soggetti dotati di intelligenza, integrità e di un’identità individuale. Non possono essere ridotti al ruolo di proprietà privata, di oggetti manipolabili, di materie prime da sfruttare o di rifiuti eliminabili. Nessun essere umano ha il diritto di possedere altre specie, altri individui, o di impadronirsi dei saperi di altre culture attraverso brevetti o altri diritti sulla proprietà intellettuale. Wandana Shiva L’altro è dentro o fuori. Non è dentro e fuori, facendo parte della nostra interiorità ma rimanendo anche fuori, esterno, estraneo a noi, altro. Svegliandoci con la sua alterità, con il suo mistero, con l’infinito (in due parole: con l’assoluto) che rappresenta per noi. È proprio quando non lo conosciamo, o quando accettiamo che resti per noi non conoscibile, che l’altro ci illumina in qualche modo, ma di una luce che ci rischiara senza che sia possibile afferrarla, capirla, analizzarla, farla nostra. La totalità dell’altro, come quella della primavera, ci tocca al di là di ogni conoscenza, di ogni giudizio, di ogni riduzione a noi, al nostro, a ciò che ci è in qualche modo proprio. In termini un po’ eruditi, potrei dire che l’altro, l’altro in quanto tale, in quanto altro, esiste al di là di ogni predicato attribuito da noi: non è mai un questo o un quello assegnato a lui/lei da noi. È proprio quando sfugge a ogni giudizio da parte nostra che l’altro emerge come un tu, sempre altro e inappropriabile dall’io. Luce Irigary Ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello. (Simone Weil, La Persona e il sacro, 1942-1943)
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Chi si tatua? Il tatuaggio nel suo percorso nel tempo, tra simboli, culture e società Elena Ciofalo l tatuaggio è la “marca” del proprio corpo, una marca che si declina in un flusso di significati immenso: a volte è come la firma di un’opera d'arte, altre volte invece è come un marchio che segna appartenenza a un certo gruppo, o denuncia il rapporto doloroso con il proprio corpo. L’usanza del tatuaggio affonda le sue radici in ataviche pratiche rituali, mistiche, d'iniziazione, di partecipazione al dolore, di crescita, di status. In Egitto, nell’antica Roma, nella religione cristiana dei Copti monofisti, nella tradizione araba, indiana, nelle civiltà maori, giapponesi, cinesi, inuit: il tatuaggio è da sempre simbolo d’appartenenza alla cultura di moltissimi popoli. Oltre che un oggetto culturale, il tatuaggio è anche una tecnica di decorazione del corpo: i tatuaggi all’hennè colorano naturalmente, e non sono permanenti, quelli ad ago sono i più diffusi, dolorosi e permanenti. Nel caso delle moderne civiltà occidentali il tatuaggio viene eseguito con una macchinetta elettrica il cui movimento immette il
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i siamo interrogati sul punk che ci demoralizzava urlando “no future”. Ci ha preoccupati il dark e la sua sfrenata esaltazione della morte. Oggi sul palcoscenico è in scena un nuovo spettacolo: l’EMO. Nato come genere musicale negli anni ’80 pare oggi si sia elevato ad una vera e propria corrente: movimento o semplice moda è difficile da stabilire. Una breve indagine fra innumerevoli interviste e blog che impazzano in rete mi fa notare che Emo è una realtà diffusa sì, ma misteriosa e avvolta da varie leggende e pregiudizi. All’apparenza è solo “stile”: una frangia liscia e
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pigmento nella pelle. Gli stili di tatuaggi sono inoltre molto vari e differenti tra loro: la Old school prevede l'uso del nero senza sfumature, la New school aggiunge i colori. Ci sono poi i tatuaggi realistici, quelli tribali che richiamano a quelli maori o neozelandesi, e i tatuaggi biomeccanici, ispirati ai lavori di Hans Ruedi Giger, che rappresentano creature con caratteristiche meccaniche, e molti altri tipi. Gioacchino Lavanco, professore ordinario di Psicologia di comunità all’Università di Palermo, ci guida nell’analisi del fenomeno dei tatuaggi dal punto di vista psicologico e sociale. La rosa tatuata era il simbolo dei traditori, secondo Kafka la condanna dovrebbe essere incisa sulla pelle del condannato, nella cultura cristiana tatuarsi è peccato, anticamente il tatuaggio era prerogativa di carcerati, pirati, prostitute: storicamente simbolo di chi è ai confini tra legalità e illegalità, il tatuaggio del mondo occidentale nasce per indicare l’appartenenza identitaria ad un gruppo e porsi così come rottura
rispetto agli schemi e alla cultura dominanti. Tuttavia l’inizio del millennio segna una rottura rispetto alla stigmatizzazione dei tatuaggi nel mondo occidentale. Da segno distintivo di appartenenza a gruppi in contrasto con i valori della società, il tatuaggio assume i significati ornamentali tipici della cultura orientale, diventando in prima istanza femminile. Anche qui però non si sfugge ai cliché, per cui la “donna tatuata” è una “facile”; del resto i tatuaggi ornamentali moderni sono spesso messaggi di trasgressione in quanto collocati in zone sessuali del corpo. Inoltre i significati del tatuaggio occidentale moderno non si fermano solo agli stereotipi sociali attribuiti: non va dimenticato che accanto all’aspetto estetico, il tatuaggio può nascondere una difficoltà ad accettare il proprio corpo, per cui decorare può servire a coprire. La cultura di manipolare il corpo può essere sorella di una cultura estetica dell’abbellimento, ma può anche essere sorella dell'aggressione alla propria corporeità, così come lo sono i
Emo-rragia o emo-zioni? Usiamo il corpo per comunicare Fiorella Campione asimmetrica che nasconde occhi coperti da infiniti strati di trucco scuro, unghie dipinte di nero, jeans aderenti e un po’ strappati, stelle, cuori spezzati e teschi a decorare il tutto. Il corpo è reso cosi un chiaro mezzo di comunicazione. Ma il messaggio qual è? Se ci rivolgiamo agli insider, a chi Emo è nato (perché non lo si diventa), ci spiegherà che l’emozione è il punto di partenza. Uno stato di malinconia, di disagio, di sofferenza che non si intende soffocare ma piuttosto palesare
e vivere con annesse conseguenze. “Emo è chi a 18 anni crede ancora nelle favole, Emo è prendersi una pausa per annusare un fiore, non avere vergogna di piangere, Emo è amore.” All’analisi accorta delle proprie emozioni pare si accompagni, però, una certa tendenza all’autolesionismo. Un atteggiamento a volte aggressivo e anche “violento” con il proprio corpo. “L’Emo è chi si taglia le vene!” Insiste qualcuno. La radice del termine, quindi, potrebbe
disturbi alimentari e l'autolesionismo. Quest’ultimo aspetto legato all’attacco fisico è spesso sottovalutato, invece il tatuaggio può essere indicatore di un malessere con se stessi su cui c’è un grande silenzio. A tal proposito è stata condotta una ricerca nazionale sul rapporto tra stili educativi genitoriali e pratica di tatuaggi e piercing tra gli adolescenti, che ha evidenziato che lo stile educativo autoritario produce più interesse verso i tatuaggi estremi, mentre lo stile educativo autorevole, che non nega la sessualità e il corpo, non produce gli stessi effetti. Ultimo aspetto sociale che negli adolescenti conta molto, torna ad essere l’identificazione in gruppi anticonformisti di tatuati in cui riconoscersi. Tatuaggi e piercing sono forme estetiche che prevedono pur sempre una manipolazione del proprio corpo, comportando livelli di sofferenza che in alcuni casi sono marginali inconvenienti di un processo decorativo, in altri casi diventano modi per dire finalmente “sto soffrendo. essere volutamente ambigua. Emo come emo-zione o come il greco εμός, sangue appunto? La cura maniacale del proprio look, la scelta degli accessori, le ore passate allo specchio per perfezionare trucco e capelli, sarebbero solo la colorata confezione di una bella bambola voodoo quale si riduce il proprio corpo. Pettegolezzi e maldicenze frutto degli outsider disinformati e dispettosi o estrema manifestazione emotiva di questa generazione troppo fragile per sopravvivere? Il corpo è un manichino a disposizione della nostra anima esposto nella vetrina del mondo. Sarebbe preferibile presentarlo con una frangia sul viso che con un taglio sui polsi.
In Giappone le geishe usavano un rossetto fatto con petali di cartamo o zafferanone schiacciato, ed anche per dipingersi le sopracciglia, il taglio degli occhi e il bordo delle labbra. Nel paese del Sol Levante le geishe usano per fondotinta anche confezioni di Bintsuke, una versione più leggera di una pomata utilizzata dai lottatori di sumo per ungersi i capelli. Pasta bianca e polvere per colorare il volto, e la schiena; rosso per definire il contorno degli occhi e il naso. Tintura nera per colorare i denti durante la cerimonia di iniziazione delle apprendiste geishe, chiamate maiko.
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Sapersi lasciare andare alla vita Il corpo come porta d’accesso all’interiorità
Direzione Rosanna Pirajno (direttrice responsabile) Letizia Battaglia (art director) Simona Mafai (coordinamento)
Federica Aluzzo o amo il mio corpo ma, per sentirlo gratificato, non mi basta amarlo; nutro nei suoi confronti un profondo rispetto perché ne percepisco il potere. Da sempre infatti, nelle più antiche tradizioni orientali, il corpo è stato considerato la porta d’accesso all’interiorità. Controllare il corpo, può sembrare paradossale nella cultura occidentale, ma sembra essere il primo passo per riuscire a prendere in mano la propria vita. Quando lo ami te ne prendi cura e quando lo controlli ti prendi cura dell’anima. Non per niente, in alcune pratiche spirituali, la meditazione richiede l’immobilità. Essere capaci di rimanere immobili nonostante gli imprevisti sviluppa quella fermezza, quella volontà che sono necessarie per raggiungere il contatto col proprio Sé. Ma l’immobilità è solo una delle chiavi per accedere al proprio mondo interiore. Il controllo del corpo
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viene spesso esercitato attraverso il movimento. Molte sono le discipline fisiche dinamiche nate dalla consapevolezza che il corpo è solo una porta da attraversare per sprofondare nell’immensità del proprio essere, della propria essenza. Lo Yoga, il Tai chi, i movimenti di Gurdjieff, le danze sacre in generale, le arti marziali, ma anche gli sport più comuni, l’atletica, la ginnastica artistica in cui il corpo deve essere controllato addirittura nel vuoto, formano il carattere, fanno avvicinare al proprio Sé, purché non le si pratichino in maniera automatica. Nella Danza “di un certo tipo”, ci si esercita ad essere presenti a sé stessi, a controllare ogni movimento del corpo nel tempo e nello spazio. Non ci si può distrarre, non si può subire il condizionamento del giudizio altrui, altrimenti l’errore nell’esecuzione diventa inevitabile. Riuscire a
sincronizzare piedi, gambe, braccia, busto, testa in un tempo ben definito, magari aggiungendo anche un suono con la voce, a volte sembra un’impresa impossibile. Ma il controllo di tutto avviene quando si perde la pretesa di essere Noi a controllare, quando ci si sottomette umilmente ad un’Energia più grande che attraversa il corpo. E si può raggiungere questo stato di “passività attiva” solo se pervasi da un rilassamento profondo che si trasforma in Fiducia e Gioia. Solo allora la danza come ogni disciplina spirituale svela il suo potere; solo in quel momento si percepisce il suo insegnamento più grande: “sapersi lasciare andare, con attenzione, alla vita”. E solo in quel momento il mio corpo mi appartiene, lo sento un tutt’uno con il mio essere. Solo allora sento che con un’attenzione sottile, posso aprirmi alla possibilità di lasciarmi esistere.
Immaginiamo una grande meteorite che colpisce la Terra. Farebbe un buco enorme. Ecco come il trauma colpisce l’identità della persona. E se questo trauma si ripetesse come un rituale notturno, possiamo comprendere come lo spavento ed il danno continuerebbero negli anni. Dalla Prefazione al libro: “Il Corpo Violato” scritta da Jerome Liss
Redazione Bice Agnello Carla Aleo Nero Giusi Catalfamo Silvana Fernandez Gisella Modica Leontine Regine Maria Concetta Sala Stefania Savoia Shobha Francesca Traína
Impaginazione Letizia Battaglia Giusi Catalfamo Hanno collaborato Federica Aluzzo Caterina Brignone Rossella Caleca Fiorella Campione Mirella Cassarini Elena Ciofalo Marcella Croce Emma Dante Ina Di Bella Marcella Geraci Monica Lanfranco Pina Mandolfo Luisa Morgantini Egle Palazzolo Mariella Pasinati Teodora Pottino Luisa Stella Vivi Tinaglia Sandra Verda Editore Associazione Mezzocielo Responsabile Editoriale Adriana Palmeri
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La rivoluzione industriale consente il nascere delle prime industrie cosmetiche e nel 1890, a Parigi Madame Lucas fonda la prima Maison de Beauté. Gli anni del Novecento, anche per la cosmetica, hanno i profumi della scienza, e i nuovi ritrovati così come le pratiche della chirurgia e lo sviluppo della medicina permettono a uomini e donne di perseguire una sempre più concreta ed efficace ricerca della salute ma soprattutto della bellezza fisica, per assecondare quei canoni di estetica e cosmetica che vengono continuamente proposti dai media ad ogni livello della nostra società.
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Questo numero è stato curato da Silvana Fernandez
e-mail:
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Fotografia di Annie Leibovitz, Rachel Rosental Performance artist
“In un involucro di pelle in una scatola di osso vivo...” scrive la poetessa Doroty Molloy e di questo involucro, si è parlato fin dalle prime dissertazioni filosofiche, su di esso si è scritto tanto e ci si è interrogati a lungo. Il corpo è la prima possibilità di contatto con il mondo o è solo una forma per lo spirito? Corpo Poetico? Corpo politico? Una cosa è certa esso è ed è stato in ogni epoca e in tutto il mondo una fonte di ispirazione continua, non solo nella sua totalità ma anche in ciascuna delle sue parti. S. F. Pablo Neruda
Corpo di donna...
Alda Merini
Corpo di donna, bianche colline, cosce bianche, assomigli al mondo nel tuo gesto di abbandono. Il mio corpo di rude contadino ti scava e fa scaturire il figlio dal fondo della terra. Fui solo come un tunnel. Da me fuggivano gli uccelli e in me irrompeva la notte con la sua potente invasione. Per sopravvivere a me stesso ti forgiai come un’arma, come freccia al mio arco, come pietra per la mia fionda. Ma viene l’ora della vendetta, e ti amo. Corpo di pelle, di muschio, di latte avido e fermo. Ah le coppe del seno! Ah gli occhi d’assenza! Ah le rose del pube! Ah la tua voce lenta e triste! Corpo della mia donna, resterò nella tua grazia. Mia sete, mia ansia senza limite, mio cammino incerto! Rivoli oscuri dove la sete eterna rimane, e la fatica rimane, e il dolore infinito. (da Venti poesie d’amore e una canzone disperata)
Io ti ho offerto il mio corpo Io ti ho offerto il mio corpo come un moto di gioconda tristezza come un’acqua serena per andare: tu mi hai creduto una rupe divina ma non atta a ancorare la radice... Io ti ho offerto i miei tralci, la mia voce, la mia vite feconda ho domandato che tu mi capissi... Ma neppure hai cercato di baciarmi e mi credi una venere delusa. (da Fiore di poesia. 1951-1997)
Al mio corpo
La curva dei tuoi occhi intorno al cuore
Fernanda Romagnoli Povero corpo, e sempre Paul Eluard sei campo di battaglia. La curva dei tuoi occhi intorno al cuore Senza riguardo, senza pietà s’accalcano ruota un moto di danza e di dolcezza, su te a scontrarsi strane compagnie, aureola di tempo, arca notturna e sicura rissose armate al soldo e se non so più quello che ho vissuto di più padroni, giù d’ogni confine. è perchè non sempre i tuoi occhi mi hanno visto. n xto E i tuoi covoni già volano in paglia; Foglie di luce e spuma di rugiada e Se n cavo rùscio n n i A ’ il fiume si fa bruno l f l canne del vento, risa profumate, e n e cio nchio è u zariera o dalle fonti, imbevibile; i tuoi frutti a ali che coprono il mondo di luce, b Un ginoc lla zan untin è colti prima del caldo. Sventurato! navi cariche di cielo e di mare, del lena a io un p metro re Coi tuoi conti da rendere! - Alla fine o a caccia di suoni e fonti di colori, o f n m c o di more sull’e la ti lasceranno terra di nessuno: rò l’ sì a inoso ino con e perde te come polvere e cielo smisurato, in saldo. t t l m profumi schiusi da una cova di aurore lu panel ue vol confi (da Il tredicesimo invitato, 1965-1972) o d m n sempre posata sulla paglia degli astri, Ca etta e saran te chio c s t o e s o come il giorno vive di innocenza, l n o t stel l gi la n Marguerite Yourcenar Hospes comesque così il mondo vive dei tuoi occhi puri e le ine nel ì due cavo de t s i n l n ì Corpo, facchino dell’anima, in cui sperare forse i i ’ s e tutto il mio sangue va in quegli sguardi. pu h sì all sim sì sarebbe vano, amato corpo, più che non amarti; sì o ccioline no falò no sì sì cuore in un vivente ciborio trasmutato; chio cendo frega Lucille Clifton Tributo ai miei fianchi che ac ia che s a bocca senza fine tesa alle più nuove esche. l n Questi fianchi sono fianchi larghi a cig e pietri bic: [...] hanno bisogno di spazio per com endino ! Corpo, vecchio mio compagno, noi moriremo insieme. c andarsene in giro d’ac sì esisto Come non amarti, forma a cui io somiglio, non stanno a loro agio dentro e co se è nelle tue braccia che stringo l’universo! posticini di basso profilo, questi fianchi (trad. di Paola Mastrocola) sono fianchi liberi. non amano essere bloccati. questi fianchi non sono mai stati fatti schiavi, vanno dove vogliono andare fanno quello che vogliono fare. Ora sento l’aria scorticare la pelle Questi fianchi sono fianchi possenti. mescolarsi alle mie sonorità Questi fianchi sono fianchi stregati alle spezie del mondo li ho visti agli scrosci dell’acqua di cielo lanciare un incantesimo su un uomo e la sento che s’attacca alla lingua rigirarlo come una trottola! la gela la scalda la insapora portami in quest’aria il volo d’una parola quella mai pronunciata Antonella Anedda vieni con lenti movimenti Ossa Mani sul balcone: nell’adagio della sera sangue che la stretta sulla ringhiera sbianca, cogli le foglie di tutte le stagioni minuscole fratture. Seni senza scheletro, capezzoli ciechi ciecamente trascinati nei ripari del vento loro lungo buio. e raggiungimi Oggi ogni parola è aria: perché io ti lasci andare la morte ascende al cielo: nel lontano delle stelle. una foglia di alloro solo, più staccata di altre, senza più nervature.
ia Po e s
de
occ n i g l
hio
Francesca Traína
Ossa