Claudio Ernè Tiziana Oselladore
la sacchetta Storie e immagini del cuore marinaro di Trieste
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carte di mare 5
carte di mare è una collana che parla di barche, mare e uomini
nella stessa collana: Cosulich, dinastia adriatica Carlo Sciarrelli, architetto del mare Straulino, signore del mare Il segno dell’onda. Moya, 2010-1910
Claudio Ernè Tiziana Oselladore
la sacchetta Storie e immagini del cuore marinaro di Trieste
Coordinamento editoriale: Massimiliano Schiozzi Tutti i diritti riservati © 2011, Comunicarte Edizioni, Trieste via San Nicolò 29 - 34121 Trieste La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito. Progetto grafico e impaginazione: Comunicarte
in copertina: Giorgio Brezich bambino in Sacchetta nel 1945 nel primo risvolto: sul Molo Pescheria, anni ’50, foto di Mario Magajna nel secondo risvolto: la Sacchetta al tramonto in una foto di Elio Germani in quarta di copertina: L’attestato di aggregazione del Rowing Club Triestino alla Società delle Regate, 1898 ISBN 978-88-6287-067-2 www.comunicarte.info/edizioni
sommario
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La storia
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I luoghi della Sacchetta
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Gli edifici La Lanterna La Stazione di Campo Marzio Il Lazzaretto San Carlo La Pescheria Centrale Il porto sportivo La piscina Stazione Rogers
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La Bora Il respiro di Trieste
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Il lavoro Il mare di un emporio
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Lo svago I bagni pubblici L’Ausonia Pedocin Andare a vela Canottiere Un album di canottieri imperiali I raid remieri Bellezze al remo
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Sulle assi di legno scuro di Claudio Ernè
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Porta aperta sul mondo di Tiziana Oselladore
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cronologia bibliografia fonti iconografiche e ringraziamenti
la storia
Voglio per quest’umanità che soffre, mettere i colori a un quadro. Uomini, animali, macchine, tutto un movimento, dall’alba al tramonto, un movimento di partenza e arrivo: da queste rive per il mondo, e dal mondo a queste rive. Così amo Trieste. (Vittorio Bolaffio in Trieste nei miei ricordi di Giani Stuparich) Trieste prima di tutto offre a colpo d’occhio un’entrata aperta, e libera, non imbarazzata da scogli, isole, o banchi di sabbia, vantaggio assai raro, che certamente non saprebbero vantare i porti della Dalmazia vicini al burrascoso Carnero, la cui sola etimologia deve intimidire il Navigante, e far nascere lo spavento. Pochi sono i Porti bastantemente felici, che permettano di avvicinarsi senza necessità di Piloto: pochi che lascino entrare, e sortire con tutti i venti, e a tutte l’ore: pochi in cui la profondità sia sufficiente, e tale, che il Nochiero non abbia da dipendere dai tempi lunari, e le maree. (da Riflessioni sul porto di Trieste di Antonio de Giuliani)
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Già in epoca romana la zona che oggi indichiamo come Sacchetta era sede di attività marinaresche e commerciali. Nel bacino naturale che si estendeva fino alla catena di scogli culminante con lo Zucco c’era uno dei due porti della città. Ireneo della Croce nel suo Historia antica e moderna sacra e profana della Città di Trieste ci racconta che era costituito da due moli formanti una darsena. Il primo, sul quale sarà edificato il Molo Teresiano «tutto fabbricato con pietre di smisurata grandezza», ed estendeva «il suo curvo raggiro che eccede un buon quarto di miglio, fino all’isoletta addimandata comunemente il Zucco» dove ancora alla fine del Seicento apparivano «in figura ottagonale […] i fondamenti di pietra bianca lavorata di una torre, o faro, d’architettura non ordinaria». L’altro molo si trovava dalla «parte di terra nella riva di Grumula, sotto la Possessione de’ Santi Martiri de’ Reverendi Padri Benedettini posta tra la città, e Campo Martio […] dirimpetto ad esso Zucco» e, «tutto di belle pietre, lunghe sei piedi», s’estendeva «in lunghezza verso l’isoletta dello Zucco più di 180 passi» a chiudere «quel seno che componeva anticamente l’accennato Porto». La morfologia del terreno all’epoca era molto diversa da quella che vediamo oggi. La linea di costa, Riva Grumula, era più arretrata, il mare lambiva le odierne via Diaz, via Lazzaretto Vecchio, via Economo e arrivava fino alla base di via Hermet mentre Passeggio Sant’Andrea era una spiaggia. La baia come si vede nella pianta riportata a pagina 9 formava una specie di piccola sacca, da qui il nome “Sacchetta” che ritroviamo fin dai testi più antichi. Sul luogo dove oggi corre via Campo Marzio, prima dell’erezione del Lazzaretto San Carlo c’era un vasto piazzale, poi tramutato in saline, che serviva in epoca romana da campo di esercitazioni militari, donde il nome che rimase alla via attuale. Tutto quello che vediamo oggi è il risultato di successivi interramenti dovuti alle mutate esigenze commerciali e ai conseguenti interventi urbanistici della città. Durante tutto il Medioevo Trieste rimane arroccata all’interno delle mura a difendersi prima dalle varie scorribande di barbari e poi dai continui attacchi dei veneziani, tanto da indurre il governo della città a cercare la protezione degli Asburgo, con spontaneo atto di dedizione all’Austria nel 1382. Da allora seguirono anni più tranquilli. La città sopravviveva soprattutto grazie al commercio con l’entroterra di prodotti locali. Vennero riattivate le saline fuori Porta Riborgo e
incentivata la produzione di vino e olio, ma rimase interdetto il commercio lungo l’Adriatico. Venezia continuava a regnare incontrastata. All’alba del 1700 Trieste è un borgo di circa 6000 abitanti, stremato dalle epidemie di peste, in cui qualsiasi tipo di aspirazione commerciale viene puntualmente inibita dalle continue prepotenze della Serenissima, che continua ad esercitare in modo durissimo il suo diritto esclusivo di navigazione nell’Adriatico. Le richieste di aiuto rivolte al governo austriaco sono numerose, ma spesso cadono nel vuoto. Le cose cambiano quando nel 1711 sale al trono Carlo VI. Il nuovo imperatore getta immediatamente le basi per il rilancio economico del suo Impero. Si rende conto che per attuare il suo piano deve incentivare la realizzazione di vie di comunicazione e costruire porti che gli garantiscano uno sviluppo commerciale. Come primo passo nel 1717 Carlo VI emana una patente con la quale dichiara: “sicura e libera” la navigazione nel mare Adriatico, onde promuovere, regolare, ed aumentare il commercio negli stati ereditari e precipuamente nell’Austria interiore e nei porti di mare – l’immunità a quanti (anche forestieri) si stabiliranno nei porti per cominciare il commercio nel mare Adriatico – la promessa di provvedere a un sollecito miglioramento delle vie di comunicazione fra il litorale e le province dell’interno – di concedere privilegi a quanti cittadini dell’Impero o forestieri che si impegnino nel dare nuovo impulso alle manifatture.
Poi, in seguito alla pace di Passarowitz (1718), stipula un accordo commerciale con l’Impero Ottomano. Venezia sta perdendo la sua influenza e le prospettive commerciali verso Oriente iniziano ad essere allettanti. Dopo un primo momento di tentennamento Carlo VI proclama “franchi” (liberi da dazi doganali) i porti di Fiume il 15 marzo 1719 e Trieste il 18 marzo 1719. L’istituzione del Porto Franco facilita e incentiva l’attività commerciale. Le merci possono essere manipolate all’interno del punto franco e ritrasportate all’estero via mare, permettendo lauti guadagni in virtù delle franchigie: non si paga dazio né in entrata né in uscita. Un porto efficiente all’epoca doveva dotarsi di un lazzaretto per evitare contagi ed epidemie. L’imperatore nel 1720 dà ordine di iniziare i lavori di costruzione del lazzaretto nella zona di Campo Marzio. L’opera per mancanza di denaro e di materie prime e per incidenti diplomatici, si protrae fino al 1731. La città inizia lentamente a rifiorire. Si avvia l’opera, di interramento delle
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saline fuori delle mura verso Porta Riborgo per preparare il terreno alla costruzione di nuovi magazzini e abitazioni; si procede alla realizzazione di una strada litoranea lungo la Riva Grumula per poter raggiungere il lazzaretto senza dover per forza inerpicarsi per via Santi Martiri e percorrere viottoli di campagna. Ecco allora che, attratti dalle franchigie e dalle nuove opportunità, iniziano lentamente a giungere in città nuove figure di imprenditori soprattutto di origine levantina, abili e determinati nel commercio. Arrivano anche, data la continua richiesta di manodopera, molti operai dalla Carniola e dal Friuli. La vera svolta inizia nel 1740 quando Maria Teresa succede al trono del padre Carlo VI. Nonostante la giovanissima età – aveva solo ventiquattro anni – la nuova sovrana riprende con energia la politica economica abbozzata dal padre e con grande senso pratico avvia una serie di riforme che risulteranno vincenti sia per il rafforzamento del suo Impero che per la politica di espansione commerciale della città. Maria Teresa nel 1749 emana un’Istruzione composta di ben cinquantadue paragrafi nella quale sono contenuti, in un’esauriente esposizione programmatica, tutti i lungimiranti progetti per fare di Trieste un emporio. Nel documento ritroviamo la conferma dei privilegi del Porto Franco; istruzioni per migliorare il sistema dei collegamenti con la città; per moderare e regolare i pedaggi delle strade verso Trieste; per regolare le tasse sui trasporti; per sollecitare l’entrata in vigore o la creazione di regolamenti della Sanità (lazzaretti), del Commercio, dei Tribunali e dell’attività dei sensali. Furono strategiche le disposizioni per incoraggiare l’immigrazione e il rafforzamento di comunità non cattoliche per migliorare e dare nuovo impulso ai traffici commerciali con l’Oriente. L’Istruzione non tralascia nulla, neanche per quanto riguarda il piano dei lavori pubblici e quello urbanistico della città. Tutto viene studiato, organizzato e realizzato secondo precisi schemi di incarichi e responsabilità. Nulla viene lasciato al caso, ci sono indicazioni precise per tutto: dalla cubatura dei magazzini all’altezza dei solai per conservare le granaglie, per l’esecuzione delle canne fumarie, delle scale, dei tetti, dei pavimenti delle cucine. Vengono emanate precise istruzioni per realizzare strade di collegamento fra Trieste e le altre città dell’Impero e per realizzare un nuovo acquedotto, così come per disposizioni in merito alla bonifica e rapida urbanizzazione del Borgo delle
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Saline (oltre Porta Riborgo) e quello dei Santi Martiri (fuori Porta Cavana) per permettere la costruzione di magazzini ed edifici utili all’attività commerciale. Soprattutto ci sono progetti e precise indicazioni per l’ammodernamento delle strutture portuali della città. Il piano prevedeva il recupero del Mandracchio con un programma di scavi sistematici in modo da renderlo nuovamente funzionale, la costruzione di un molo (Molo San Carlo, oggi Molo Audace) sul relitto del vascello San Carlo da anni affondato. Viene deciso: il potenziamento del porto in Sacchetta chiamato «porto delle navi», posto davanti al Lazzaretto San Carlo, con la costruzione di un molo fortificato sui resti di quello romano; allo stesso modo viene varato un programma di dragaggio dei bassi fondali di Riva Grumula in modo da rendere praticabile la Sacchetta a navi di grosse dimensioni. La costruzione del Molo Teresiano era già iniziata nel 1744 tra ritardi e scandali. Il fornitore dei massi pare li scaricasse di giorno per riportarli a bordo nottetempo. Una “tela di Penelope”, perché il mattino seguente dopo lo sbarco se li sarebbe fatti pagare una seconda volta. Un remunerativo moto perpetuo che si concluse solo nel 1769. Il molo divenne pienamente operativo nel 1787 e alla sua estremità era difeso da un fortino pentagonale, dotato di otto cannoni, un forno per arroventare i proiettili e un corpo di guardia permanente. Si narra che nonostante la Corona Austriaca avesse fatto il possibile per arginare le voci sullo scandalo delle forniture, Napoleone una volta arrivato a Trieste nel 1797 si fece accompagnare subito a visitare il molo che tanto era costato a Maria Teresa. Nel 1769 l’imperatrice proclama Trieste «Libera Città Marittima» e promulga l’estensione del Porto Franco a tutto il territorio: dalla Val Rosandra fino a Santa Croce. Sempre nello stesso anno sarà inaugurato anche il nuovo lazzaretto costruito sotto il colle di Gretta in soli quattro anni, intitolato a Maria Teresa. La costruzione si era resa necessaria per l’aumento dei traffici. Il Lazzaretto San Carlo, quello della Sacchetta, da quel momento sarà chiamato Lazzaretto Vecchio e svolgerà funzioni di appoggio ospitando merci e passeggeri “netti”, privi di rischio. Il nuovo complesso intitolato all’imperatrice è quattro volte più grande del Mandracchio, è dotato di una propria darsena divisa in due bacini, uno “netto” e uno “sporco”, magazzini e ampi spazi all’aperto per le merci, case per gli internati e un ospedale oltre alla casa del priore, gli alloggi per il personale e la caser-
Trieste, 1718 Pianta di Trieste fatta a suggerimento di Giovanni Casimiro Donadoni siccome allegato alla supplica pel Portofranco, 1718. La città è ancora racchiusa dalle mura. Sopra la rosa dei venti sono visibili le saline e il Mandracchio. Sulla destra, in senso orario, il Borgo dei Santi Martiri,
Campo Marzio e all’estremità della penisola lo scoglio dello Zucco dove sarebbe sorto un secolo più tardi la Lanterna. È ben visibile la forma concava del litorale che è all’origine del toponimo “Sacchetta”.
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ma per le guardie. La lungimiranza del progetto ne farà un lazzaretto “modello” per quasi un secolo e permetterà la sua utilizzazione fino al 1868, quando sarà demolito per far posto al nuovo porto che oggi ha il nome di Porto Vecchio. La città nei quarant’anni del regno di Maria Teresa cambia volto: la popolazione passa da 6.000 a 21.000 abitanti. Nasce oltre Porta Riborgo, sul reticolo delle vecchie saline, il Borgo Teresiano. Gli edifici sono di due o al massimo tre piani e ospitano spazi destinati a magazzino, residenza e transazione commerciale: è una commistione che esprime bene lo spirito imprenditoriale della nuova Trieste. Il commercio e la navigazione sono i cardini fondamentali su cui si basa tutto lo sviluppo della città. Diviene quindi necessario formare una classe di tecnici e capitani in grado di gestire i progetti di espansione commerciale. A questo scopo nel 1753 viene fondata l’Imperial Regia Accademia di Commercio e Nautica, mentre nel contempo la città viene dotata di tutti gli strumenti, anche finanziari, per renderla un grande emporio: il più importante fra tutti l’apertura, nello stesso anno, della Borsa Mercantile. La zona al di là di Porta Cavana non aveva subito grossi cambiamenti. Gran parte delle proprietà erano rimaste in mano agli ordini monastici che da secoli occupavano quel territorio con quattro conventi (convento di San Francesco, convento dei Frati Ospitalieri con annesso ospedale dell’Annunziata, convento dei padri Cappuccini, convento dei padri Benedettini o dei Santi Martiri). Come era già avvenuto per il Borgo Teresiano, la costruzione del borgo viene lasciata all’iniziativa dei privati adottando come politica di incentivazione all’urbanizzazione, il basso costo di vendita dei lotti e l’utilizzazione del lavoro coatto dei carcerati. Nel 1781 succede a Maria Teresa Giuseppe II, ed emana la Toleranzpatent che autorizza ebrei, ortodossi, augustani, elvetici a comprare e possedere beni stabili e di avere diritto di «Cittadinanza, Maestranza e Offici Civili». Contemporaneamente sopprime vari ordini religiosi e smantella le proprietà ecclesiastiche immettendo così sul mercato nuove aree edificabili. Questa politica religiosa influisce positivamente sia sulla crescita demografica che commerciale della città, attirando nuovi capitali e nuove energie imprenditoriali che daranno nuovo impulso alle attività mercantili e manifatturiere. Non indifferente è anche l’effetto immediato che gioca l’espropriazione e lo smantellamento delle proprietà immobiliari ecclesiastiche nella riorganizzazione della città.
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La costruzione del Borgo dei Santi Martiri si può dire inizi solo nel 1780 quando il commerciante Ambrogio de Stroheldorf chiede il permesso di poter interrare a sue spese un tratto di costa per costruire due grandi magazzini a palafitta all’incirca dove oggi ha sede il palazzo Revoltella e in parte l’odierna piazza Venezia. Per dare una migliore sistemazione all’area portuale della Sacchetta e per aumentare la superficie edificabile inizia a farsi strada l’idea di portare avanti la linea di costa nel tratto che va dal Mandracchio al Lazzaretto Vecchio, in modo da poter consentire la costruzione di due file parallele di edifici e di provvedere alla costruzione di una sponda murata. Vengono presentati diversi progetti e i lavori iniziati intorno al 1781 si concluderanno intorno al 1824. Giuseppe II decreta l’avvio della costruzione del Borgo dei Santi Martiri nel 1788 e viene in suo onore chiamato Borgo Giuseppino. La città dopo la crisi attraversata durante la dominazione napoleonica si risolleva ed inizia così una fase di grande espansione commerciale ed economica che durerà fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Il Borgo Giuseppino prende forma, l’edificazione procede con la costruzione quasi a schema fisso di grandi isolati talvolta costruiti in blocco e in breve tempo, e spesso dallo stesso architetto (Corti, De Puppi, Righetti) generando uno dei complessi neoclassici più unitari realizzati in Italia. Nell’arco del primo ventennio dell’Ottocento vengono approvati quasi tutti i progetti dei palazzi delle Rive. La prima ad essere edificata negli anni ’30 e ’40 fu via Lazzaretto Vecchio, con edifici ad uso commerciale e residenziale (il piano terra è costituito da grandi e ampi magazzini e uffici, mentre il primo e il secondo sono piani “nobili” adibiti a sontuose abitazioni). Inizia a delinearsi anche la piazza Giuseppina (odierna piazza Venezia), dove Domenico Corti realizza buona parte degli edifici. Nel 1846 viene costruito il Molo Giuseppino, prospiciente l’omonima piazza, che verrà prolungato negli anni 1857-59. Verso la fine dell’800 era riservato ai piroscafi del Lloyd Austriaco. Tra il 1854 ed il 1858 viene costruito il palazzo del barone Pasquale Revoltella, su disegni dell’architetto berlinese Friedrich Hitzig. Nella zona di Campo Marzio la destinazione d’uso è diversa: si tratta di costruzioni a uso industriale (androna Campo Marzio) o collegate con l’attività del porto, piccoli cantieri, officine, fabbriche di maioliche e sapone. La politica commerciale è in piena espansione, Trieste si avvia a diventare finalmente un emporio.
Trieste, 1780 Pianta della cittĂ alla morte di Maria Teresa, anno 1780. Nella mappa si notano a tratteggio i progetti di edificazione. In particolare, sulla destra, il limite designato delle future Rive.
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Nel 1818 una folla assiepata sulle Rive saluta esultante il “Carolina”, il primo piroscafo a vapore costruito a Trieste, che compie il suo viaggio inaugurale verso Venezia. Nove anni più tardi, Giuseppe Ressel prova per la prima volta l’ “elice” in mare, nel bacino della Sacchetta. In Sacchetta attraccano grandi velieri carichi di baccalà. Il pesce secco veniva trasportato nei magazzini di androna Campo Marzio. Il lezzo era tale da far cambiare il toponimo in «androna del baccalà». Nel 1833 si concludono i lavori di costruzione della Lanterna su progetto di Matteo Pertsch, Trieste ha finalmente il suo faro, fioriscono attività di ogni genere. In quegli anni vengono fondate compagnie assicuratrici e marittime che contribuiscono in maniera determinante all’ascesa della città nel ruolo di nuovo e importante emporio: nascono infatti le Assicurazioni Generali (1831), il Lloyd Austro Ungarico di Navigazione (1836), la RAS-Riunione Adriatica di Sicurtà (1838). Nel 1836 il Lloyd affianca alla propria attività di compagnia assicuratrice anche quella di società armatrice: sei piroscafi a vapore vengono lanciati sulle rotte orientali. Da quel momento l’industria cantieristica e meccanica ha un nuovo e forte impulso grazie all’intraprendenza di coraggiosi imprenditori. Il barone Revoltella è fra i fondatori e azionisti del Lloyd, delle Assicurazioni Generali, dello Stabilimento Tecnico Triestino nonché fra i promotori dell’apertura del Canale di Suez. Si impegna a tal punto in questa impresa da diventare vicepresidente della Compagnia Universale del Canale di Suez, ben conscio degli incredibili vantaggi economici che la città potrà ricavarne. Nel 1838 Iver Borland costruisce in androna Campo Marzio uno stabilimento meccanico per allestire e riparare le navi del Lloyd. In Sacchetta realizza il primo molo in città dotato di una gru meccanica per caricare e scaricare le merci, ma ha sfortuna e viene travolto dal fallimento della sua azienda. Più o meno negli stessi anni Simeone Strudthoff, convinto che fosse inutile e dispendioso comprare dalle fonderie inglesi le ferramenta (ancore, subbie, panetti per la zavorra) necessarie alle navi costruite a Trieste, impianta nella zona di Chiarbola una fonderia che ha immediato successo. Gaspare Tonello, insegnante di costruzione navale all’Imperial Regia Accademia di Commercio e Nautica impiegato al Cantiere Panfili, tenta di introdurre il calcolo matematico nella progettazione navale. Sogna di costruire un cantiere moderno ma incappa nell’ostruzionismo dei proti – i vecchi maestri d’ascia
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e costruttori – che figli di una secolare tradizione si ostinano ad usare il metodo della “cannavetta”: un modellino a mezzo scafo realizzato a mano da cui poi tracciano le linee. Tonello grazie a Giuseppe Bousquet (uno dei fondatori del Lloyd assieme al barone de Bruck e al barone Revoltella) riesce a realizzare il suo progetto e nel 1839 sotto il colle di Servola, all’estrema periferia della città, fonda il Cantiere San Marco che avrà l’esclusiva per la costruzione e il rimessaggio dei piroscafi del Lloyd fino al 1851, quando il cantiere verrà confiscato e destinato ad esclusivo uso militare. A quel punto il Lloyd decide di dotarsi di un proprio arsenale; i lavori su progetto dell’architetto Hansen iniziano nel 1853 e terminano nel 1861, sull’area fra il Cantiere San Marco e le Officine Strudthoff, che nel frattempo si erano spostate a valle ampliando la loro struttura e tramutandosi in società per azioni prendendo il nome di Stabilimento Tecnico Triestino. Grazie al benessere economico raggiunto si costruiscono edifici imponenti e di grande prestigio, come palazzo Carciotti sulle Rive, il Tergesteo, la Borsa. Anche in Riva Grumula i Sartorio, grandi mercanti la cui azienda aveva una sede a Trieste e una ad Odessa, edificano nel 1837 due magazzini (convertiti poi nel 1864 in abitazioni con l’innalzamento di un terzo piano ad opera del Berlam) e un molo (Molo Sartorio) dove approdano le loro navi cariche di granaglie. Nel Borgo Giuseppino in via Lazzaretto Vecchio e via Economo sorgono attività di ogni genere legate al mondo del commercio e della marineria, velerie, corderie, lattonieri, fabbri, alberanti (costruttori di alberi), compagnie di spedizioni e di navigazione. La Sacchetta è un fermento di attività con carri trainati da buoi o cavalli che fanno la spola a caricare o scaricare le merci, si calatafano scafi, fabbri lavorano alle ferramenta. Nello specchio di mare che va dalla Sacchetta al Canal Grande iniziano a sorgere i primi stabilimenti balneari galleggianti: il lussuoso Soglio di Nettuno, il Bagno Buchler, il Bagno Militare, e il più bello di tutti, il Bagno Maria. Sul Molo Teresiano sorgono il Bagno Fontana – dal cognome del suo proprietario – e il primo bagno popolare. Il traffico commerciale raggiunge punte insperate. Nel 1854 arrivano a Trieste 12.598 bastimenti per un volume complessivo di 852.157 tonnellate di merce, nel 1889 i velieri sono 4.184 e i piroscafi 4.019. Nel 1886 il Lloyd ha 86 piroscafi. È ovvio che con tale volume di traffico il porto della Sacchetta e quello del Canal Grande sono insufficienti. Si progetta quindi una nuova e più efficiente struttu-
Piazza Giuseppina Oggi piazza Venezia, con il monumento dedicato nel 1875 all’arciduca d’Austria Massimiliano, fucilato in Messico nel 1867. L’antistante molo era il centro pulsante dell’attività portuale prima che fossero costruiti il Porto Nuovo, ora denominato Vecchio e il Porto di Sant’Andrea ora chiamato Nuovo. Dal palazzo affacciato sulla piazza, il barone Revoltella scrutava l’orizzonte con il suo telescopio. Sullo sfondo vediamo la Lanterna e l’edificio a sinistra è Palazzo Scuglievich, appartenente alla Comunità Serbo Ortodossa. Tra il 1922 e il 1923 negli uffici del Consolato del Regno dei Serbi, Croati, Sloveni, ospitato nel palazzo, lavora un giovane impiegato: Ivo Andrić, futuro premio Nobel per la letteratura.
Trieste, fine Ottocento Nelle due pagine successive una strepitosa immagine degli ultimi anni dell’800, realizzata da Giuseppe Wulz. Oltre alla Lanterna si notano la Stazione della Ferrovia Meridionale, in basso a destra, inaugurata nel 1878, di fronte alla Stazione palazzo Panfili completato nel 1880 e la cuspide della Chiesa Evangelica di confessione augustana costruita nel 1869.
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ra portuale. L’area viene identificata nella zona adiacente alla Stazione Meridionale e al Lazzaretto Santa Teresa che viene quindi smantellato. I lavori su progetto dell’ingegner Talbot iniziano nel 1862 e finiscono nel 1883. Anche in questo caso si tratta di un complesso di grande efficienza. In molti, da Marx a Cavour, verranno a studiarne le caratteristiche. La Sacchetta nel 1875 viene sottoposta per un anno a un’importante opera di approfondimento dei fondali con dragaggi. La roccia del fondo in taluni punti viene fatta a pezzi con l’esplosivo. Il 3 aprile del 1875 alla presenza dell’imperatore Francesco Giuseppe viene inaugurata la statua dell’arciduca Massimiliano d’Austria ucciso a Queretaro il 19 giugno del 1867. La statua, opera dello scultore Giovanni Schilling, raffigura Massimiliano in divisa di ammiraglio che guarda il suo amato Castello di Miramare. Nel 1918 sull’onda dell’entusiasmo nazionalistico la piazza viene rinominata piazza Venezia (ironia della sorte proprio quella città che con la sua continua ostentazione di potenza aveva indotto l’atto di dedizione all’Austria) e il monumento viene messo in un deposito nel parco di Miramare; solo nel 1961 viene restaurato e collocato nel parco e appena nel 2008 ricollocato nella sua posizione originale. Nel 1887 fu realizzata la linea ferroviaria – «Rivebahn» – che collegava la Stazione della Meridionale e l’adiacente Porto alla prima stazione di Sant’Andrea della linea per Erpelle.
Vento e vapore Alberi, pennoni e bompressi pronti a raccogliere nelle vele ogni alito di vento. E macchine a vapore alimentate dal carbone. Gli scafi dei velieri all’inizio del Novecento erano chiari, solari, di legno, come si nota in questa immagine della Sacchetta. Quelli dei piroscafi, al contrario, costruiti in acciaio, dovevano essere neri per mascherare gli effetti del fumo denso che usciva dai fumaioli e ammorbava l’aria depositandosi poi su tutte le superfici.
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Dal 1891 le franchigie del Porto Franco vengono riservate alle sole operazioni svolte all’interno del perimetro del Porto Nuovo e non più in tutta la città. La situazione muta: le Rive e la Sacchetta si decongestionano e tutto il traffico si sposta all’interno della nuova area portuale. In Sacchetta rimangono le maone, i trabaccoli e i bastimenti di piccolo cabotaggio che collegano Trieste con l’Istria, la Dalmazia e le coste italiane. Intanto continuano le operazioni di interramento di porzioni di riva. All’inizio del Novecento parte un imponente progetto di ristrutturazione di tutto il bacino dal Canal Grande a Sant’Andrea. L’esplosione del traffico commerciale grazie all’apertura del Canale di Suez e alle politiche espansionistiche di Vienna, rende evidente l’inadeguatezza delle strutture portuali che, progettate per un tipo di traffico di deposito, non riescono a sostenere la dinamicità dei nuovi ritmi, tanto da decidere la costruzione di un nuovo ulteriore porto. I lavori iniziano nel 1901 nella zona di Sant’Andrea. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale l’imponente progetto era completato solo per un terzo.
Petka Il Molo Giuseppino, oggi Venezia; a destra il piroscafo “Petka�, a sinistra il Magazzino Vini.
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Joyce e gli inglesi Le immagini di marinai britannici pubblicate in queste due pagine mentre passeggiano nelle loro candide divise e vogano, sono state realizzate da Cirillo Arturo Giacomelli, un magistrato che dopo il passaggio di Trieste all’Italia lasciò l’impiego statale e divenne avvocato. Di lui poco si sa. Le ricerche di Fabio Amodeo e Nives Millin che nel giugno 1990 gli dedicarono un volume ormai introvabile dal titolo Viaggio nella Trieste di Svevo, avevano fatto emergere la data di nascita, il maggio del 1862, la città di origine, Zara, i nomi dei genitori, Vincenzo il padre e Filomena Micmulich la madre, nonché quello della moglie Gisella Henzinger che si spense nel 1977. «Il suo primo nome, Cirillo, gli piaceva così poco che non lo usò mai, né in privato, né nella vita ufficiale» scrivono i due autori nella prefazione del loro libro. «Studiò legge, non sappiamo dove e divenne magistrato: approdò a Trieste come giudice del Tribunale civile che aveva sede in via Sanità, oggi via Cadorna. Le sue udienze venivano di tanto in tanto interrotte dalle baruffe fra pescatori o commercianti. Il processo veniva sospeso. Arturo Giacomelli ascoltava le parti e poi sentenziava, un po’ affidandosi
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alla legge, molto al buonsenso». Per un periodo della sua vita, conclusasi il 29 gennaio 1937, Arturo Giacomelli fu anche fotografo. Un dilettante o meglio un “amateur”. Fotografa per il piacere di farlo e tutta la sua attività fu concentrata tra il 1902 e lo scoppio della Grande Guerra. I suoi negativi furono trovati nella soffitta di un edificio destinato alla demolizione da Cesare Picotti, che avendone intuito l’importanza li passò all’amico Fabio Amodeo. In totale sono 500 lastre di cui 400 in discrete condizioni. Tra queste le due immagini pubblicate: sono state realizzate nell’ottobre del 1904 probabilmente nel giorno in cui James Joyce e la moglie Nora giunsero in treno a Trieste e il futuro autore dell’Ulisse si azzuffò in una stradina di Città vecchia con alcuni marinai britannici ubriachi appartenenti all’equipaggio di una nave da guerra. Joyce finì in carcere il 20 ottobre, le foto di Arturo Giacomelli sono finite invece sulle pagine di questo libro. Di certo non immaginava di lasciare un monumentale, fresco, autentico ritratto di uno snodo irripetibile. Forse una voce gli diceva che nel giro di qualche anno tutto sarebbe cambiato.
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I grandi lavori di ristrutturazione come abbiamo detto coinvolgono tutte le Rive. Vengono prolungati tutti i moli, interrati i moli del Lazzaretto Vecchio e il Molo Borland, interrata un’ampia porzione di mare che va da dalla base del Molo Teresiano e dalla sponda litoranea di Sant’Andrea fino allo Stabilimento Tecnico Triestino, ampliato e allargato anche il Molo Teresiano, alla cui estremità è in funzione la Lanterna. Compaiono le prime sedi galleggianti delle società di canottaggio e di vela. Nell’area risultante dalle ultime opere di interramento tra il Molo Teresiano e il complesso del Lazzaretto Vecchio sorge nel 1906, su progetto di Roberto Seelig, il bellissimo complesso liberty della Stazione Transalpina (odierna Stazione di Campo Marzio), la cui realizzazione si era resa necessaria con l’apertura della nuova linea ferroviaria che collegava Trieste e l’Adriatico alla Baviera, l’Austria Superiore e la Boemia attraverso la linea Gorizia-Villaco. Lungo il Molo Teresiano, sul lato verso il mare aperto, dopo i lavori di ampliamento trovano posto il Nuovo Bagno Militare e il bagno popolare Alla Lanterna.
André Kertész in Sacchetta Ha sempre cercato il materiale per le proprie fotografie solo attorno a lui, nella sua vita, nelle sue emozioni. Non nell’esotismo, né nelle architetture o nei costumi di altre civiltà, non nei “segni” dei gruppi sociali o religiosi e tantomeno nei paesaggi grandiosi, né negli avvenimenti politici. Lo dimostra anche questa immagine di quattro militari su una barca a motore immobile nelle acque della Sacchetta: André Kertész la scattò il 25 dicembre 1914. È il giorno di Natale, il primo Natale della Grande Guerra e uno dei più innovativi fotografi del Novecento ha lasciato Gorizia assieme ai suoi amici in divisa per una breve visita a Trieste non ancora divenuta retrovia del fronte del Carso. Kertész ha vent’anni ed è stato chiamato alle armi pochi mesi prima dal suo Imperatore. Ha abbandonato il posto di contabile alla Borsa di Budapest e si è presentato alla caserma Franz Joseph di Gorizia, oggi sede del Tredicesimo battaglione carabinieri. Nello zaino ha una piccola macchina fotografica, una Goerz Tenax, il cui nome ha una strana assonanza con quello della città: Goerz, Görz, Gorizia. La userà molto in quei mesi di addestramento passati tra il Carso e Gradisca. L’Austria-Ungheria è già in guerra, ma il territorio della nostra regione il 25 dicembre 1914 non è lambito ancora dalla linea di fuoco. Lo sarà alla fine del maggio 1915 quando l’Italia dichiarerà guerra, gettandosi a capofitto nella tragedia europea. Alla fotografia scattata in Sacchetta, Kertész affianca una precisa didascalia in lingua francese con i nomi dei suoi amici: Andor Steiner, «le professeur», Andor Telek, Emil Kransz. Alle loro spalle due imbarcazioni da carico e le facciate dei palazzi, oggi del tutto identici. Hanno tutti le finestre chiuse, come ha decretato il luogotenente principe Konrad Hohenlohe-Schillingsfürst per tutte le case affacciate sul mare. Non deve trasparire la minima luce perché da lontano qualcuno potrebbe raccogliere i segnali trasmessi accendendo e spegnendo una o più luci.
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Nel 1913, nel tratto della riva fra il Molo dei Pescatori (oggi Molo della Pescheria) e il Molo Giuseppino (oggi Molo Venezia) sorse la Pescheria Nuova su progetto di Giorgio Polli, che subito incontrò il favore e la simpatia della popolazione vista l’imponenza e l’ampiezza degli spazi interni, chiamata anche “Santa Maria del Guato” per la torre simile al campanile di una chiesa. La Prima Guerra Mondiale conclusasi con il dissolvimento dell’Impero Austroungarico e le mutate condizioni geopolitiche con l’annessione della città all’Italia determinarono per Trieste il blocco “temporaneo” dell’attività commerciale. La Sacchetta inizia a mutare la destinazione d’uso. Da febbrile centro di attività mercantili e commerciali diviene luogo di ricovero e attracco per pescherecci e maone, e inizia ad assumere la fisionomia di “porto sportivo”. In testa al Molo Sartorio al posto della casetta “rossa” dei piloti, il 4 novembre 1924 viene posta la prima pietra della terza e definitiva sede dello Yacht Club Adriaco. La costruzione, su progetto dell’architetto Bois de Chense e dell’ingegner Mario Picciola, viene inaugurata con una sfilata di imbarcazioni nel bacino San Giusto il 4 novembre 1925. Anche le sedi galleggianti delle società di canottaggio e della Vela (fondata nel 1923) vengono ancorate a ridosso del Molo Sartorio. La Sacchetta diventa un microcosmo tranquillo dove praticare sport o passeggiare lungo la sua riva.
Navi in Sacchetta Piroscafi, alberi, pennoni, vele, scafi d’acciaio e scafi di legno, prue a clipper e prue rientranti di un trabaccolo con un lunghissimo bompresso. In queste immagini realizzate tutte in Sacchetta, è ben illustrata la fase di profonda evoluzione vissuta delle costruzioni navali a cavallo tra Ottocento e Novecento.
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La Sacchetta dalla base del Molo Teresiano Siamo agli inizi del ’900 durante i lavori di ampliamento delle Rive, come vediamo dal materiale di costruzione depositato sul molo, i blocchi di pietra e i cumuli di ghiaia. In secondo piano bastimenti ormeggiati per file parallele, molti già a vapore e tanti ancora a vela. Verso riva chiatte ricolme di pietre pronte per essere scaricate e, subito dietro, si intravede la casa galleggiante di una canottiera con gli atleti che preparano la barca per uscire.
Il Magazzino Vini Agli inizi del ’900 visto l’aumento del traffico commerciale fu necessario incorporare al Porto Franco anche il Molo IV con l’Hangar n. 1 allora destinato al commercio di vini nazionali. Vi fu quindi la necessità di costruire un nuovo magazzino che servisse a tale scopo. Nel 1902 fu eretto un manufatto provvisorio alla base del Molo Giuseppino che doveva assolvere a tale funzione in attesa che i lavori di costruzione degli hangar del Molo della Sanità fossero ultimati. Ma una volta terminati le ditte titolari del commercio dei vini chiesero che il magazzino restasse poiché serviva allo stoccaggio delle botti per il commercio con l’Istria e la Dalmazia che aveva subito un forte incremento. Il magazzino o “capannone delle vasche” era utilizzato da Marco Lovrinovich, commerciante di vini, che nel 1914 fonderà il Caffè San Marco. Nel 1919 inoltre veniva chiesto di poter realizzare le nuove cisterne e nel 1926 fu costruito un piazzale verso il Molo Sartorio per il deposito dei fusti. Il tetto fu realizzato in legno ed era stato dotato di un impianto di innaffiatura ad acqua per controllare la temperatura interna. Le cisterne per il vino erano in cemento, i muri in pietra. Ora è di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste che dopo un costosissimo cantiere di restauro – con tanto di smontaggio e rimontaggio delle pareti – realizzerà un contenitore culturale polivalente.
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Ambientazione ideale per quello splendido romanzo di formazione, L’onda dell’incrociatore di Pier Antonio Quarantotti Gambini, che ci restituisce l’atmosfera incantata e struggente di quelle zattere galleggianti e di quei moli. La Sacchetta sta lentamente assumendo la fisionomia che conosciamo, mancano poche cose. Sul Molo Teresiano (oggi Fratelli Bandiera), viene costruito un nuovo stabilimento balneare: si chiama Bagno Ausonia e nel 1936 si fonderà con il Savoia (l’ex Bagno Militare) diventando lo splendido Stabilimento Ausonia, ancora oggi tanto amato e frequentato dai triestini. Sorgono caserme della finanza, i Frigoriferi Generali (1925) e altri edifici tanto da accerchiare la Lanterna. Nel complesso dell’ex Lazzaretto Vecchio, l’area che si affaccia su Riva Ottaviano Augusto negli Anni Trenta viene destinata a mercato ortofrutticolo all’ingrosso, ma bisognerà attendere fino al 1956 perché l’ingegner Guglielmo Canarutto realizzi l’attuale struttura. Altra sorte invece capita al resto della struttura quella che delimita via Campo Marzio. Solo nel 1969 dopo il restauro l’edificio principale fu destinato a sede del Civico Museo del Mare. Negli anni Cinquanta del Novecento, la Sacchetta è di nuovo al centro di un piano di sistemazione. Nel 1953 viene eretta la stazione di servizio dell’Aquila (oggi Stazione Rogers) su progetto dello studio di Gian Luigi Banfi, Lodovico Belgioioso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers (BPBPR) Nel 1954, negli ultimi mesi di attività del Governo Militare Alleato, viene costruita fra il Molo Sartorio e il Molo Venezia la piscina coperta poi intitolata al dodici volte campione italiano di nuoto Bruno Bianchi. Per dare un’adeguata sede alle tre società remiere (Adria, Ginnastica Triestina, Canottieri Trieste) e alla Triestina della Vela viene progettato e realizzato un pontile (Pontile Istria) su palafitte in cemento armato su cui sorgeranno le nuove quattro sedi in muratura. La struttura sarà inaugurata nel 1956. Sempre negli stessi anni in Campo Marzio viene eretto un grattacielo su progetto dell’architetto Romano Boico. Le barche a vela cominciano a popolare la Sacchetta tanto da indurre negli anni ’80 la Società Triestina della Vela a costruire dei pontili per razionalizzare gli
Dal campanile di San Giusto Città vecchia, la Stazione di Campo Marzio, la Lanterna e la Sacchetta in una immagine realizzata dalla sommità del campanile della Cattedrale di San Giusto negli anni tra le due guerre mondiali.
Otto Wagner in Sacchetta Otto Wagner, il famoso architetto viennese, si affaccia idealmente per due volte sulla Sacchetta per interposta persona, attraverso le realizzazioni di due suoi allievi: Robert Seelig, progettista della stazione che fu della Transalpina e che oggi è conosciuta come Stazione di Campo Marzio; e Max Fabiani, autore del progetto di Casa de Stabile, posta all’angolo di Riva Grumula e via Belpoggio, il primo edificio a sinistra nell’immagine. Il palazzo, costruito tra il 1905 e il 1906, è caratterizzato da una torre cilindrica angolare, munita di ampie finestre. Da quelle dell’ultimo piano Ernesto de Stabile, armatore di uno yacht ormeggiato all’Adriaco, il club velico nato nel 1903, osservava direttamente e su un orizzonte molto ampio le condizioni del mare di tutto il golfo, controllava la sua barca e lo stato dell’ormeggio a cui era assicurata, l’eventuale arrivo di “neverini” o di groppi di vento. I tecnici del Comune chiamati a valutare il progetto definiscono la facciata di «quasi selvaggia semplicità», non vi ravvisano scorrettezze sul piano della composizione e della forma per quanto «non conforme al gusto della città». Interessanti, dal punto di vista storico e legale, le clausole dettate a Ernesto de Stabile dai funzionari delle Ferrovie dello Stato austriache per autorizzare la costruzione dell’edificio che si affacciava sui binari della Transalpina. Deve essere costruito con materiale ignifugo; sul tetto nel lato che guarda verso i binari della stazione e del raccordo delle Rive, percorso dalle locomotive a vapore, non deve essere praticata alcuna apertura; in caso di incendio provocato dal passaggio dei treni, il proprietario non può pretendere alcun indennizzo dalla Direzione delle Ferrovie. Va aggiunto che Max Fabiani all’epoca è già un architetto noto e affermato in tutto l’Impero di Francesco Giuseppe. Ha lavorato a Vienna e nel suo studio aveva ottenuto un piccolo incarico un pittore destinato a far parlare di sé: si chiamava Adolf Hitler e questo dettaglio fu fatto valere da Max Fabiani nel 1944 e 1945, quando come podestà di San Daniele del Carso riuscì a salvare il paese dalle rappresaglie naziste. Con l’arrivo dell’Armata popolare di liberazione jugoslava il “salvacondotto” esibito in precedenza con successo, gli si rivolse contro e San Daniele fu messa a ferro e fuoco, perché rea di collaborazionismo col nazifascismo.
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ormeggi. La Lega Navale nel 1989 ancora all’estremità del Molo Fratelli Bandiera una serie di pontili galleggianti e fra il 1990 e il 1992 restaura la Lanterna per farne la sua sede sociale. Nel 1999 viene inaugurato nel bacino San Marco, davanti alla Pescheria, fra il Molo Venezia e il Molo Pescheria, il Marina San Giusto. In testa al Molo Venezia, su progetto dell’architetto Fabio Assanti, viene eretta la sede che si ispira a quella dell’adiacente Yacht Club Adriaco. Sull’altro versante, alla base del Molo Fratelli Bandiera al posto dei Frigoriferi Generali sorge nel 2000 la Piscina Acqua Marina su progetto degli architetti Giorgio Berni e Giulio Varini, una piscina termale con acqua di mare riscaldata. Sempre nel 2000 viene ristrutturata la palazzina della Triestina della Vela, su progetto dell’architetto Umberto Wetzl. Nel 2005 viene ampliata e rinnovata negli interni la sede dello Yacht Club Adriaco su progetto dell’ingegner Dino Tamburini. Nello stesso anno, la Piscina Bruno Bianchi, ormai insufficiente e inadeguata alle competizioni, viene abbattuta. Al suo posto oggi c’è un desolato parcheggio. Analoga sorte dopo un travagliatissimo iter è toccata anche all’adiacente Magazzino Vini, per il momento oggetto di lavori di risanamento delle fondazioni. Nel 2009 viene inaugurata la nuova palazzina servizi della Lega Navale. L’opera per il momento si conclude all’oggi. La Sacchetta che vediamo è l’istantanea degli ultimi tre secoli di idee grandiose, sogni ambiziosi e utopie. È la storia del lavoro e della perizia di una moltitudine umana: di teste coronate e marinai, mercanti, facchini e pescatori, imprenditori e manovali. È il resoconto più modesto degli ultimi anni dove la Sacchetta, anima marinara di Trieste, è stata oggetto di vari progetti di “riqualificazione”: parchi marini, parcheggi sotterranei, sedi fieristiche e congressuali, che per fortuna o sfortuna sono stati edificati solo sulle pagine della cronaca cittadina. Per il momento ce la godiamo così com’è, con i suoi silenzi, l’urlo a volte assordante della Bora, che fa sbattere cime e drizze delle barche. Con la Lanterna che nelle notti di luna piena si specchia nell’acqua fra l’Adriaco e la Vela e il vociare allegro di bambini, ragazzi e uomini fatti, che attrezzano barche, yole e derive per le loro avventure in mare...
Campioni d’Italia L’esile scafo del “due senza” della Canottieri Trieste ha appena lasciato la zattera della canottiera. Ai remi due campioni d’Italia degli anni ’50: Silvio Ernè, capovoga, e Carletto Martinolli. Sullo sfondo la Stazione di Campo Marzio.
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Dal Savoia Adriano Cadel è l’autore di questa fotografia delle Rive scattata dalla terrazza dell’Hotel Savoia-Excelsior nella quale vediamo l’area della Sacchetta e in primo piano l’edificio che ospita l’Aquario e un tempo anche la Pescheria Centrale.
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I luoghi della Sacchetta 01.
Complesso ex Lazzaretto Vecchio
02.
Molo Fratelli Bandiera (Molo Teresiano)
03.
Primo Bagno Militare
04.
17.
Civico Museo del Mare (edificio principale dell’ex Lazzaretto Vecchio)
18.
Mercato ortofrutticolo all’ingrosso (cortili dell’ex Lazzaretto Vecchio)
Lanterna (oggi sede sociale Lega Navale)
19.
Piazzale su cui sorgeva la Piscina Bruno Bianchi
05.
Androna Campo Marzio, sede delle officine di Iver Borland e dei magazzini del baccalà
20.
Piazzale su cui sorgeva il Magazzino Vini
06.
Molo Venezia (Molo Giuseppino)
21.
Grattacielo di Romano Boico
07.
Piazza Venezia (piazza Giuseppina)
22.
Piscina terapeutica “Acquamarina” (Frigoriferi Generali)
08.
Casa Sartorio (oggi sede della SASA Assicurazioni)
23.
Pontili della Lega Navale
09.
Molo Sartorio; in testa stava la casetta dei piloti poi abbattuta per far posto alla sede dello Yacht Club Adriaco
24.
Sede della Marina San Giusto
25.
Marina San Giusto
10.
Stazione di Campo Marzio (Stazione Transalpina)
26.
Casa de Stabile
11.
Salone degli Incanti (Pescheria Nuova)
27.
Cantiere Cartubi
12.
Bagno alla Lanterna (Pedocin)
28.
Nuova sede della Lega Navale
13.
Stabilimento Ausonia (nato dall’unione del Bagno Savoia già Nuovo Bagno Militare con il Bagno Ausonia)
29.
Molo Pescheria
14.
Sede dello Yacht Club Adriaco
15.
Pontile Istria
16.
Stazione Rogers (già stazione di servizio dell’Aquila)
in corsivo i luoghi non più esistenti
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gli edifici
A Trieste venga l’uomo di riflessione a meditare sopra il modo in cui nascono, si formano le città; a Trieste venga il Ministro a compiacersi negli effetti delle solitarie operazioni del suo cabinetto; il Legislatore ad apprendere l’arte di servirsi delle facoltà degli uomini per condurli, loro malgrado, ad una felice esistenza. Si formarono dei codici criminali, e lo spirito umano si esaurì nell’invenzione dei rigori più barbari e più atroci per bandire i delitti, e mettere un argine alle sedizioni e ai tumulti, ed una popolazione composta da varie Nazioni, ed in parte di fuggitivi, di banditi, di micidiari, e bisognosi stranieri, vive pur quivi tranquilla per nessuna altra ragione, se non perché l’uomo natio per essere agiato, si trova nell’innocente e facile esercizio della sua industria la sua felicità, e contentezza. (da Riflessioni sul porto di Trieste di Antonio de Giuliani)
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la lanterna Quando nel 1769 finalmente il Molo Teresiano fu completato dopo tante spese per le casse dell’Impero e, ancora di più, quando il fortino pentagonale posto alla sua estremità divenne operativo nel 1787, era ovvio che un’opera così imponente e in una posizione così strategica per una città che voleva fare del porto e del commercio la sua fortuna, doveva dotarsi di un faro marittimo di una certa rilevanza. Ma i tempi non erano ancora maturi, nonostante gli appelli dell’allora Governatore della città conte Zinzendorf, i vari progetti presentati e le petizioni di alcuni comandanti che frequentavano il porto di Trieste, Maria Teresa prima e Giuseppe II poi risposero sempre negativamente. Passarono molti anni e dell’eventualità di dotare il porto di un faro marittimo se ne riparlò solamente dopo la terza occupazione francese, quando nel 1816 il lavoro fu affidato a Matteo Pertsch. Ma anche allora le cose non furono semplici. Tra il 1824 e il 1831 i disegni presentati dall’architetto vennero modificati ben sei volte per venire incontro alle continue richieste dei vari responsabili del governo, fino che Pietro Nobile – l’allora Consigliere Aulico Edile – pose fine alla vicenda approvando in via definitiva il progetto il 27 maggio 1831. La costruzione dell’opera durò appena due anni, e terminò nel 1833. La Lanterna fu costruita al centro del fortino pentagonale, opportunamente svuotato per ospitare le imponenti fondamenta che poggiavano direttamente sullo scoglio dello Zucco. Il progetto consisteva in una torre cilindrica rastremata in pietra calcarea levigata – innalzata ulteriormente in corso d’opera – alla cui sommità stava l’apparecchiatura ottica. La torre cilindrica poggiava su una «torre massimiliana», una costruzione difensiva a tronco di cono merlato con due ordini di cannoni. La parte ottica aveva le seguenti caratteristiche tecniche: 33.507 metri dal livello della media marea, il suo cono luminoso era alimentato da 42 lucignoli ad olio ed era visibile ad una distanza di 12 miglia da un osservatore elevato a 12 piedi viennesi sul livello del mare, visibile quindi da Pirano a Grado, con un periodo di 30”. La Lanterna iniziò a funzionare il 12 febbraio 1833. Finalmente Trieste aveva il suo faro. Da quel momento la Lanterna entra a far parte della vita dei triestini perché oltre a fare da guida ai naviganti, svolgeva tutta una gamma di funzioni utili alla città. Guardando la Lanterna gli agenti marittimi potevano sapere subito che tipo di imbarcazione stava per entrare in porto, a quale compagnia appartenesse e
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quale fosse la sua nazionalità. Il personale della Lanterna infatti, scrutando il mare era in grado di avvistare i navigli in arrivo e di dare con apposite bandiere tutte queste indicazioni. Scrive Marino Zerboni in Il Faro della Lanterna, una luce sulla storia di Trieste: Ogni tipo di naviglio in arrivo veniva segnalato con la relativa bandiera distintiva. Le categorie tipologiche, per le navi da guerra erano: il vascello, la fregata, la corvetta, il brigantino e la goletta. La bandiera a scacchi di colore blu denotava l’arrivo dei piroscafi provenienti da Venezia e da Ancona. La bandiera a scacchi neri annunciava l’arrivo di piroscafi da Levante […]. Una serie di sfere, appese all’asta sporgente, dava
negli anni successivi la costruzione disordinata di molti edifici, dal Cantiere navale San Giusto alle caserme della Guardia di Finanza, che alla fine accerchiarono la struttura rendendola quasi invisibile. Lentamente anche le sue caratteristiche tecniche risultarono insufficienti tanto che nel 1927 venne inaugurato il nuovo Faro della Vittoria, ma non per questo venne a cessare la sua funzione, anzi la sua parte ottica venne ulteriormente potenziata negli anni ’40. Nel 1946 durante il Governo Militare Alleato venne dipinta a strisce bianche e nere per poi essere riportata ai suoi colori originali nel 1955. Smise la sua funzione nel 1969 e rimase solo la luce simbolica. Dal 1992 è sede della Lega Navale.
notizia del numero delle navi in arrivo e della loro distanza dal porto […]. I piroscafi del Lloyd Austriaco avevano, per ogni linea marittima da loro servita, dei segnali di identificazione corrispondenti.
La Lanterna è stata parte integrante del sistema di fari e fanali che la Deputazione di Borsa di Trieste, su sollecitazione dell’imperatore Francesco I, predispose a partire dal 1817, a salvaguardia delle navi che transitavano lungo le coste dell’Adriatico “austriaco”. Da Chioggia, a Punta Ostro, in prossimità delle Bocche di Cattaro, passando per Salvore, San Giovanni in Pelago, Capo Promontore. Il faro di Salvore che oggi è in piena attività, al contrario della Lanterna, fu il primo di tutto il Mediterraneo a utilizzare il gas estratto dal carbone come sorgente di luce al posto dell’olio d’oliva. Non fu una buona idea anche se oggi questa scelta infelice è diventata un blasone tecnico-innovativo che viene esibito nelle cronache e nei siti internet che raccontano la storia del faro progettato da Pietro Nobile. Al contrario il carbone ad alto tenore di zolfo estratto dalle miniere dell’Arsa, provocava nel metallo profonde corrosioni. Le riparazioni erano frequenti e costose, tant’è che l’illuminazione a gas venne abbandonata nel 1823. Si ovviò all’errore ritornando all’illuminazione a olio di oliva. I 42 lumi, collocati su un candelabro a forma di cono, garantivano grazie ad altrettanti specchi parabolici argentati, una luce intensa, sicura e pulita che “rompeva” le tenebre a salvaguardia dell’integrità delle navi, della vita degli equipaggi e degli investimenti degli armatori. Ma non solo, ogni giorno a mezzogiorno veniva sparato un colpo di cannone che si udiva in tutta la città, mentre sulla parte cilindrica una scala graduata indicava alla città i valori barometrici della giornata. Nel ’900 i grandi lavori per la ristrutturazione del porto coinvolsero in qualche modo anche la Lanterna, che vide ampliare intorno a sé lo spazio; ciò favorì
La Lanterna Le acque calme della Sacchetta, e sulla destra ben visibile la Lanterna, inaugurata l’11 febbraio 1833. Nei primi anni di attività il faro funzionò con una lampada a olio, privo di sistemi ottici di condensazione della luce, introdotti appena nel 1858. La lampada a incandescenza a vapori di petrolio entrò in funzione nel 1908. All’estrema sinistra, poco sopra il bompresso della nave, si intravede la sagoma bianca del castello di Miramare.
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Alla fonda nelle acque della Sacchetta Un elegante brigantino che, come questa fotografia mostra con grande ricchezza di dettagli, era un veliero snello, di dimensioni contenute, con una stazza lorda tra le 100 e le 300 tonnellate, dotato di un pronunciato bompresso e di due alberi. Se entrambi, come in questa immagine, sono armati con vele quadre, il brigantino prende il nome di brigantino velacciere.
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Remando in Sacchetta Una pesante lancia e due marinai che vogano in direzione della Lanterna e del sottostante Bagno Militare. Oggi la voga è relegata negli spazi angusti dell’attività sportiva. Né i pescatori, né gli ormeggiatori si affidano a questa antica pratica, regnano sovrani i motori e le eliche.
Il pielago Le acque leggermente mosse della Sacchetta non impediscono a un pontone di calare in mare un enorme blocco di cemento: l’adiacente banchina ha urgente necessità di essere ristrutturata. In primo piano un “pielago”, un due alberi che per l’attrezzatura velica identica a quella del trabaccolo rivela le proprie origini. Lo scafo riproduce invece le linee del brigantino, conosciuto anche come brick o schooner.
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In cantiere Siamo all’inizio del Novecento in un cantiere alle spalle della Lanterna. Un trabaccolo è pronto al varo. A pochi metri dalla prua, è ben visibile lo scafo del rimorchiatore “Victor”. Dallo scalo dello stesso cantiere hanno continuato a scendere in mare navi di piccole e
medie dimensioni fino agli anni Sessanta del Novecento. Poi è stato adibito a riparazioni fino al 1990 ed infine è stato abbandonato. Alto Adriatico e Cartubi sono state le ultime ragioni sociali di questo cantiere.
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Un motoscafo nelle acque della Sacchetta Da notare il parbarizza diviso in due parti che protegge adeguatamente l’occasionale ospite, sul cui capo svetta un cappello a larga tesa, tutt’altro che “marinaro”. Sotto il Governo Militare Alleato La Lanterna dipinta a righe e motovedette all’ormeggio negli anni del Governo Militare Alleato (1946-1954). Gli scafi erano tozzi e scuri, la tuga era dipinta di bianco e a poppa a grandi lettere si leggeva: police. Queste motovedette erano adibite al servizio di Guardia costiera, alla repressione del contrabbando ma anche di Fisher Patrol o meglio di pattuglia di protezione della pesca. Sette erano le unità della flottiglia che operava dalla Sacchetta.
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Idrovolanti in Sacchetta Due idrovolanti ammarati davanti alla Sacchetta nei primi Anni Venti. Sono due biplani costruiti nelle officine della FBA-Franco British Aviation Company per conto delle Forze armate francesi, britanniche e italiane. Alcuni dei duemila esemplari complessivamente costruiti parteciparono ai bombardamenti che coinvolsero Trieste tra il 1916 e il 1917. Le bombe tricolori degli FBA arrecarono danni alle installazioni della Torre del Lloyd dove aveva sede la squadriglia di idrovolanti da caccia del barone Goffredo de Banfield. Gli FBA, che per una congenita difficoltà di pilotaggio erano denominati scherzosamente Fate Bene Attenzione, rifacendosi all’acronimo della società costruttrice, ritornarono nel cielo di Trieste per iniziativa dei fratelli Cosulich subito dopo il conflitto. Furono acquistati nel 1921
per portare in volo, a pagamento, i clienti del loro hotel di Portorose. L’iniziativa ebbe un notevole successo. L’anno successivo gli idrovolanti targati FBA nella località costiera istriana erano tre e la loro presenza fu adeguatamente pubblicizzata. «Fu nel 1921 che per la prima volta il rombo pieno di promesse di un motore di aviazione venne a rompere il silenzio dell’incantata baia. Non è errato affermare che quel primo idrovolante e quel primo rombo si possono considerare l’atto di nascita della Società italiana servizi aerei». Gli FBA erano costruiti in legno e tela: l’elica spingente era collegata a un motore Isotta Fraschini da 150 cavalli. Notevole l’autonomia: quattro ore a 140 chilometri di velocità di crociera. In guerra furono usati per missioni di ricognizione, bombardamento e scorta.
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Ma lei non ha mai visto uno dei nostri tramonti favolosi; che fanno fermare i tram: scendono i tranvieri, scendono i passeggeri, e stanno immobili a guardare nel fuoco del sole; e creature, case pietre, tutto è rosso, acceso come per fiamma interna. (da Lettere al professore in L’anima di Trieste di Anita Pittoni)
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la stazione di campo marzio È una stazione senza ferrovieri, senza treni in partenza o in arrivo, senza viaggiatori e soprattutto senza la copertura in acciaio e vetro che fino al 1942 aveva protetto dalla pioggia e dalla Bora chi attendeva sui marciapiedi di salire “in carrozza”. Quella di Campo Marzio oggi non è più una “vera” stazione; dovrebbe diventare da innumerevoli anni un museo dedicato alle locomotive, al vapore, ai vagoni del tempo che fu, ma anche questa nuova destinazione d’uso non riesce a decollare. Il progetto è ancora in attesa di adeguate risorse finanziarie: annunciate, negate, promesse, soppresse e stornate verso altri obiettivi. Una storia infinita, come quella della “valorizzazione” immobiliare di alcune parti dello stesso enorme edificio, vendute dallo Stato a società private, anch’esse in attesa di un “via libera” che non arriva mai. Campo Marzio, come si comprende facilmente, è la stazione dei paradossi e delle attese infinite. Ma anche delle contraddizioni evidenti. Un faro, la Lanterna, svetta verso il cielo a pochi metri dai binari. Le lancette dell’orologio posto nell’enorme atrio sono ferme da decenni sulle 11.20. La facciata che guarda sul mercato ortofrutticolo all’ingrosso è marchiata dalla ruota alata, simbolo delle Ferrovie italiane, quello originario austriaco è stato rimosso. Al contrario ogni dettaglio costruttivo dice che il progetto dell’architetto Robert Seelig, impegnato anche con le stazioni di Gorizia e Linz, è direttamente collegato alla cultura del mondo austriaco-danubiano. I lavori delle fondazioni vengono appaltati nel giugno 1904 alla Società costruzioni Union di Vienna mentre l’incarico di realizzare l’edificio nella parte “emersa” è affidato alla ditta triestina Gorup, Martellanz & C. I lavori vengono ultimati nel 1906 e il primo giugno la nuova stazione di Trieste Sant’Andrea viene inaugurata. Occupa una superficie di 6500 metri quadrati, quattro sono i binari destinati ai treni viaggiatori, 24 quelli per lo “smistamento”, due i magazzini per le merci. Tra il fabbricato viaggiatori e i magazzini vengono sistemate la pensilina e i binari a scartamento ridotto – 760 millimetri – della ferrovia Trieste-Parenzo. In sintesi la stazione diviene il capolinea di una linea di primaria importanza che appartiene all’amministrazione dello Stato e che è nata per fare concorrenza alla Südbahn, la ferrovia meridionale che appartiene ai Rotschild e che ha collegato Trieste ai territori dell’Impero fin dal 1857. Secondo le aspettative la nuova linea Transalpina avrebbe dovuto contenere le tariffe per il trasporto delle merci consentendo al porto di svilupparsi ulteriormente. Ma a otto anni di distanza dal-
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l’inaugurazione del nuovo scalo arriva la guerra e sconvolge ogni previsione. I nuovi confini, così come disegnati dalla conclusione del conflitto, fanno cessare la funzione concorrenziale delle linee che fanno capo alla stazione di Campo Marzio. L’intera rete – Südbahn e Transalpina – fa ormai capo alle Ferrovie dello Stato. I servizi viaggiatori diminuiscono perché la capitale è Roma e non più Vienna. La Parenzana viene smantellata nel 1935 e nel 1945 la Transalpina cessa per sempre il servizio viaggiatori. Resta la linea per Erpelle che chiude i battenti il 31 dicembre 1958. Nessun treno percorrerà più la Val Rosandra, nessun convoglio viaggiatori partirà o arriverà più nella stazione di Campo Marzio. Solo qualche treno storico, carico di nostalgia e di bambini affacciati ai finestrini delle sferraglianti carrozze, talvolta farà risuonare il suo fischio tra quelle mura ormai sbrecciate che si affacciano sulla Sacchetta. L’immagine a destra è stata scattata più di un secolo fa da un fotografo, oggi senza nome, che era salito sulla sommità della Lanterna con il suo pesante apparecchio a lastre. Poi aveva messo a fuoco l’obiettivo e aveva fatto scattare l’otturatore. A più di cento anni di distanza questa immagine è facilmente leggibile perché il corpo centrale di quella che all’epoca si chiamava ufficialmente Stazione delle Ferrovie dello Stato ma che a livello popolare veniva indicata come Stazione di Sant’Andrea o Transalpina, è rimasta immutata: una costante nel paesaggio, al contrario profondamente mutato in tutti gli altri aspetti. Davanti all’ingresso della stazione la finezza dei dettagli consente di “leggere” la presenza di numerose carrozze a cavalli, ma anche quella di alcune automobili. È il segno preciso di un notevole movimento di viaggiatori. All’epoca quattro treni al giorno partivano per Gorizia e Villaco e due carrozze erano dirette a Monaco di Baviera; partivano inoltre due “diretti dei Tauri” che collegavano Trieste a Vienna, via Klagenfurt, a Berlino, via Salisburgo e a Praga. A sera inoltrata si metteva in movimento il convoglio diretto a Villaco che poi proseguiva per Parigi attraverso Monaco. Se l’edificio della stazione è rimasto immutato per più di un secolo, tutta la parte restante della fotografia ha bisogno di una spiegazione. All’estrema destra è visibile un’ampia staccionata che delimita una spiaggia: è il Bagno alla Lanterna, non ancora protetto dal muro che vediamo oggi. Sempre a destra, ma più in alto, oltre a un piroscafo ormeggiato alla banchina si notano le prime strutture del Porto Nuovo. Quasi al centro, sul fianco destro della stazione, è ben identificabile la pensilina della Parenzana, la ferrovia a scartamento ridotto che dal 10 aprile 1902 al 31 agosto 1935 collegò Trieste a Parenzo attraverso Capodistria, Isola, Buie, Portole, Montona e Visinada. I 122 chilometri della tortuosa linea erano percorsi a
una velocità massima di 35 chilometri all’ora: partendo da Trieste alle 5.46 del
mercato all’ingrosso risultato vincitore del concorso voluto dal Governo Militare
mattino si arrivava a Portorose alle 8.05 e a Parenzo alle 12.42 dopo quasi sette ore
Alleato. Lo stesso GMA aveva bocciato l’elaborato realizzato dall’Ufficio tecnico
di viaggio. Più del doppio del tempo necessario per raggiungere le stesse località
comunale nel 1936 e poi aggiornato nel 1949. Il concorso era stato vinto dal grup-
costiere a bordo di un vaporetto della Società di navigazione Istria-Trieste.
po di professionisti formato da Lucio Arneri, Roberto Costa, Antonio Guacci e
A sinistra della stazione è visibile la caserma di Marina, nella cui area negli
Dino Tamburini. Al momento di avviare la costruzione era emerso che il bando
Anni Cinquanta dello scorso secolo è stato costruito il mercato ortofrutticolo
non aveva tenuto conto dei costi di costruzione. Era un progetto magnifico, ma
all’ingrosso. Anche per questa realizzazione, così come per quella dell’adiacente
del tutto fuori mercato. Tutto era stato azzerato. Nuova gara nella forma dell’ap-
stazione, le difficoltà, i ritardi e le polemiche ne hanno segnato l’iter amministra-
palto e nuovo vincitore, l’impresa dell’ingegner Guglielmo Canarutto. I lavori
tivo-burocratico condizionandolo pesantemente. Il progetto della stazione, invo-
nell’area della vecchia caserma di Marina si erano avviati nel 1955 e si erano con-
cata fin dagli anni Settanta dell’800, era stato criticato perché «l’aspetto estetico
clusi due anni più tardi.
delle facciate risulta troppo misero e l’ornamentazione non è adeguata, né al contesto architettonico né al ruolo dell’edificio, stazione terminale di una linea di grande importanza». Opposte le critiche che avevano coinvolto il progetto del
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In posa Un ferroviere in posa, la pensilina della ferrovia Parenzana e il corpo centrale della nuova stazione di Sant’Andrea, dal 1923 stazione di Campo Marzio. L’immagine è stata realizzata alla fine del 1905 quando la nuova stazione era stata quasi completata. Va citata la cerimonia di inaugurazione, a cui partecipò come ospite d’onore il principe ereditario Francesco Ferdinando, ucciso nel 1914 a Sarajevo. L’erede designato di Francesco Giuseppe si imbarcò sul treno a Jesenice, all’epoca Assling e percorse la nuova linea Transalpina fino a Trieste. Nel discorso di saluto Francesco Ferdinando parlò anche in lingua italiana: accanto a lui il podestà Scipione de Sandrinelli e il ministro delle ferrovie de Derschatta. Questo non gli evitò una contestazione ante litteram da parte di un gruppo di manifestanti che intonarono canti di sapore irredentista. Con l’apertura della Transalpina le distanze tra il porto di Trieste e le principali piazze commerciali dell’Europa centrale si abbreviano di un 20-30 per cento. I traffici decollarono e si svilupparono sempre in crescita fino al 1913, l’ultimo anno di pace.
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Due trabaccoli Due trabaccoli fotografati all’ormeggio in Sacchetta. Alle loro spalle la Stazione di Sant’Andrea inaugurata l’11 giugno 1906. Di uno dei due scafi, quello parallelo alla banchina, si nota il lungo bompresso che svetta a prua, i due alberi con le sartie e le vele arrotola-
te. A poppa è legato il “caicio” che durante la navigazione veniva sistemato in coperta, solitamente a dritta. Al contrario nei piccoli trasferimenti veniva legato nella posizione in cui il fotografo lo ha ritratto in questa immagine.
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Il treno sulle Rive Fumo nero di carbone, sbuffi di vapore. Gli edifici che fanno da corona alla Sacchetta portano i segni sulle loro facciate di quanto per almeno un secolo è uscito dai camini dei piroscafi ormeggiati alle banchine, da quelli delle locomotive della stazione di Campo Marzio e di quelle che percorrevano quotidianamente la «Rivabahn», o meglio il raccordo provvisorio che dal 1887 collegò l’attuale Stazione Centrale con i binari dello scalo di Sant’Andrea e con la ferrovia per Erpelle e poi con la Transalpina. In pratica la linea metteva in comunicazione il Porto Vecchio con quello Nuovo e oltre agli edifici della Sacchetta affumicava palazzo Carciotti, l’Hotel de la Ville, la chiesa greco-ortodossa di San Nicola, il Teatro Verdi, la sede del Lloyd Triestino, l’Albergo Savoia-Excelsior, la Stazione Marittima e la Pescheria Centrale. I convogli procedevano a passo d’uomo lungo le Rive, preceduti da un manovratore che sventolava una bandiera rossa. La velocità massima ammessa dal regolamento era di sei chilometri all’ora ma negli ultimi anni dell’esercizio la velocità commerciale era diventata molto più bassa a causa delle frequentissime soste forzate delle locomotive. Erano provocate dalle auto che molti “forestieri” parcheggiavano sui binari o accanto ad essi, mai immaginando che di lì a poco sarebbe transitato un treno. Ma anche la negligenza e il pressapochismo dei triestini ha contribuito alle fermate non previste dei convogli. La «Rivabahn» è sopravvissuta a due guerre mondiali, all’avvicendarsi di occupazioni militari e a sventolii di diverse bandiere nazionali, all’avvento della motorizzazione di massa, alla progressiva uscita di scena delle macchine a vapore, prima dalle sale macchine dei piroscafi, poi dalle locomotive. Questo treno anomalo ha visto transatlantici immensi arrivare e partire dalla Stazione Marittima; ha assistito all’ammaraggio degli idrovolanti all’interno dei bacini San Marco e San Giusto. Ha subito la presenza di folle immense e osannanti radunate in piazza dell’Unità. Il treno sbuffando usciva dallo scalo di Campo Marzio, attraversava via Giulio Cesare, bloccando il traffico, si immetteva su un raccordo separato dalla strada oggi diventato parcheggio privato. Poi superava l’edificio del Museo del Mare ed entrava sbuffando in Riva Grumula, passando tra l’attuale Stazione Rogers e le sedi – prima galleggianti, poi in muratura – delle società nautiche. Gli stretti raggi delle curve e il conseguente forte attrito tra ruote e binari costringevano i macchinisti a un’attenta gestione del vapore. Le locomotive del gruppo 740, le più longeve e affidabili, si sono assunte per decenni il compito di trainare i convogli della «Rivabahn». Hanno addestrato, o meglio “tirato su” a carbone e olio, generazioni di macchinisti, ma hanno insegnato a molti di noi la passione per il vapore. Poi a partire dagli Anni Settanta sono arrivati i locomotori diesel e a poco a poco le antiche locomotive 740 non hanno più percorso le Rive. Infine nel maggio del 1981 è stata inaugurata la cosiddetta “linea di cintura”, la circonvallazione che ha mandato definitivamente in pensione dopo 94 anni la linea delle Rive. «Rivabahn» addio. Il treno e il grattacielo Nell’immagine accanto, il treno avanza lentamente sulle Rive, sullo sfondo il grattacielo di Campo Marzio costruito nel 1958 su progetto dell’architetto Romano Boico.
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La Lanterna e una locomotiva a vapore Una “740â€? che, sembra un paradosso, come gli altri treni in arrivo durante la notte alla Stazione di Campo Marzio potevano orientarsi, cosĂŹ come facevano i bastimenti e i pescherecci, grazie al fascio di luce emesso dal faro posto a presidio del porto e della Sacchetta.
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il lazzaretto san carlo Viste le scarse conoscenze di cui disponeva all’epoca la medicina, un porto efficiente come prima cosa doveva dotarsi di un lazzaretto, per evitare la diffusione di epidemie con gli uomini che sarebbero giunti in città in seguito ai traffici commerciali. Ricevute assicurazioni in merito al fatto che la città poteva contribuire alle spese fornendo in parte le materie prime – calcina, sabbia marina, pietre – e 1000 fiorini d’oro, il 24 febbraio 1720 Carlo VI dà ordine al capitano di Trieste, conte Marzio di Strassoldo, di iniziare la costruzione del lazzaretto nella zona di Campo Marzio. La costruzione, fra interruzioni per mancanza di denaro, di materie prime e incidenti diplomatici si protrasse più del dovuto e terminò solo nel 1731. Guardando le carte topografiche dell’epoca il lazzaretto aveva presumibilmente una pianta pentagonale con la base rivolta verso il mare. Era circondato da mura alte quasi sei metri; agli angoli c’erano guardiole e feritoie per sorvegliare chi era in quarantena ed impedire possibili furti di merci. Il suo aspetto era severo, senza particolari ornamenti; era composto da un edificio centrale – l’unico ancora esistente, ora sede del Civico Museo del Mare – in cui si trovavano gli uffici, l’abitazione del priore e del primo guardiano; dalla casa contumaciale, al lato opposto, con cortile contornato da portici, demolito nel 1935 per far posto all’attuale mercato ortofrutticolo all’ingrosso; da una casa con il locale adibito a parlatoio, che continuava in un muro trasversale di divisione del lazzaretto di “banda netta” che ospitava persone e merci non infette da quello di “banda sporca” dove stazionavano i soggetti in quarantena; da un lungo edificio parallelo alla casa del priore col lato corto sull’attuale via Economo e da uno simile a novanta gradi in parte ancora superstite. Tra le case esistevano vasti cortili dove nelle giornate di sole venivano esposte (sciorinate) le merci (a quei tempi si credeva che l’esposizione all’aria e al sole accelerasse la purificazione). Negli anni successivi vengono costruiti nuovi magazzini per impedire che le merci soggiornassero all’aperto con il rischio di deperire. Nei suoi primi dieci anni di vita fu il più delle volte occupato da militari di varia nazionalità che stazionavano all’interno dell’area in attesa di imbarco per altre destinazioni o per necessità difensive – il suo lato rivolto verso il mare era stato dotato di batterie di cannoni – visto il periodo storico piuttosto turbolento. Nel 1740 Maria Teresa succede al trono del padre e inizia a restaurare il lazzaretto che ritornerà a pieno regime soltanto nel 1754, quando ormai il traffico com-
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merciale era aumentato a tal punto da renderlo insufficiente. Si provvide quindi alla costruzione di un nuovo lazzaretto più grande e funzionale, chiamato di Santa Teresa, ai piedi di Gretta, inaugurato nel 1769. Da allora il Lazzaretto San Carlo (Lazzaretto Vecchio) svolse funzioni di appoggio per i passeggeri e le merci “netti”. Nel 1891 l’area occupata dal Lazzaretto San Carlo di proprietà dell’Erario Camerale viene ceduta in parte all’Erario Militare, che vi colloca l’Arsenale e nel 1899 la Marina da Guerra. Nel 1908 per la prima volta si parlò di una possibile cessione al Comune ma l’idea si concretizzò solo alla vigilia della Prima Guerra Mondiale nel 1914. Il costo dell’operazione a carico del Comune era di 1.875.000 corone, a patto che vi sistemasse il mercato ortofrutticolo. Il pagamento a causa della guerra fu procrastinato e saldato all’erario italiano appena nel 1935. Il mercato in realtà venne sistemato in quell’area già dal 1933, ma all’aperto e così rimase fino al 1956 quando si realizzò, ad opera dell’ingegner Guglielmo Canarutto, l’attuale struttura. Per quanto riguarda la parte superstite che si affaccia su via Campo Marzio, ospitò nel tempo reparti dell’esercito italiano, reparti americani e fu adibito addirittura a campo profughi per poi rimanere per lunghi anni in stato di semiabbandono. Finalmente nel 1969 l’edificio principale viene restaurato dal Comune che decide di destinarlo a sede del Civico Museo del Mare, con progetto degli interni e l’allestimento delle sale espositive di Umberto Nordio.
La caserma di Marina Fine ’800 prima dei grandi lavori di avanzamento delle sponde della Sacchetta: in secondo piano la facciata della Caserma di Marina, che occupa l’edificio principale dell’ex Lazzaretto
Vecchio (oggi Civico Museo del Mare), sul selciato si vedono i binari della linea ferroviaria che collegava i due porti della città.
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la pescheria centrale È spesso deserta la vecchia pescheria delle Rive trasformata in algida sala d’esposizione. Sotto le volte non risuona più da tempo il nasale incitamento di Bortolo, il pescivendolo con cui Lino Carpinteri e Mariano Faraguna aprirono trionfalmente nel 1966 la saga delle Maldobrie: «Orade, orade, ociade, ociade, dentai, branzini, pessimoli, scampi, caramai, scarpene de grota e guati de scoio. Ale, ale siora Nina che el sol magna le ore». C’è silenzio anche nella sala dove all’alba di ogni mattina i commercianti si disputavano vivacemente a suon di banconote e voci tonanti quanto era stato pescato nelle acque del golfo poche ore prima. I triestini già prima dell’apertura al pubblico avevano iniziato a scherzare sulla natura della pescheria, chiamandola “Santa Maria del Guato” per il tozzo campanile che ne segna la fisionomia; di recente era stata definita dopo la trasformazione in sala d’esposizione «la basilica in riva al mare»; ora appare una cattedrale nel deserto, perennemente in attesa di un pubblico che si fa desiderare. L’11 agosto 1913, il giorno dell’inaugurazione, al contrario, la reazione collettiva dei triestini fu di ammirato stupore per la vastità degli spazi interni, per la cura maniacale delle finiture, per l’equilibrato inserimento negli spazi delle Rive e per l’attenta calibratura dell’assieme. «Alla nuova pescheria ieri l’afflusso di pubblico fu straordinario» – si legge su quell’antica edizione del quotidiano «Il Piccolo» – «A tutte le ore del giorno fu un continuo viavai di gente che ammirava, commentava e non sapeva staccarsi da quel magnifico ambiente dove aria e luce sono profuse con tanta larghezza. È soprattutto l’ampiezza dell’aula di vendita che colpisce». In sintesi la Pescheria nonostante le dimensioni, oltre a svolgere magnificamente le funzioni per cui è stata costruita, non umilia con la sua massa il fronte dei palazzetti neoclassici che contraddistinguono le Rive. All’edificio progettato dall’architetto Giorgio Polli, il giornalista Roberto Curci ha dedicato nel 2006 un prezioso e documentato volume. «Polli si confrontò con un doppio dilemma: dare vita a un edificio a destinazione commerciale con precisi requisiti igienico-funzionali e ideare al contempo un edificio a sé stante, non connesso a preesistenze di sorta e soprattutto non invasivo, tale cioè da non schermare la prospettiva neoclassica delle Rive, spalancata sul mare». Cento metri di lunghezza, 44 di larghezza, 218 pali di cemento armato per una lunghezza complessiva di due chilometri e 700 metri.
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L’orologio viennese La torre della Pescheria ancora priva dell’orologio elettrico che arriverà a Trieste da Vienna nel 1914. Il tetto Il tetto della pescheria sta per essere completato. Sullo sfondo la sagoma inconfondibile della Stazione di Sant’Andrea: all’ormeggio in Sacchetta lo scafo bianco del piroscafo “Venezia” della Tripcovich.
La sala in cui Bortolo richiamava l’attenzione delle acquirenti sulle sue «orade, ociade, dentai e branzini», è lunga 60 metri, larga 35 e alta 26 e mezzo. Le orade, le ociade, le scarpene e tanti altri pesci nuotano tranquilli a pochi metri di distanza dall’enorme sala dove un tempo tantissimi loro “parenti” non altrettanto fortunati venivano venduti per finire in padella, al forno o lessati. La parte frontale dell’edificio accanto alla torre dell’orologio ospita infatti l’Aquario. Meta di migliaia di visitatori, in gran parte bambini, accompagnati dai genitori. L’aria all’interno è umida e calda, poca è la luce per consentire una ottima visione delle vasche-vetrine dove i pesci scampati alle mense, nuotano lenti e muoiono di vecchiaia, com’è accaduto al pinguino Marco, per trent’anni il simbolo e beniamino dell’Aquario.
S’incamminò verso le Rive. L’edificio della Pescheria biancheggiava come una parete di calcare sopra la via napoleonica. La investì una zaffata di vino versato, cotto dal sole. Sui binari è in sosta un vagone che porta un’enorme cisterna da cui pende un tubo di gomma, lungo il magazzino è allineata una fila di botti in attesa. Ed ecco che torna a dominare l’odore salmastro: la bassa marea ha scoperto il molo e la fascia di muschio marino si sta essiccando, mentre la vegetazione rilascia l’umidità delle foglie dentellate. (da Qui è proibito parlare di Boris Pahor)
L’interno della Pescheria Centrale Gli operai stanno faticosamente “schierando” i pesantissimi banchi di vendita in pietra nella sala centrale della pescheria. La foto è stata realizzata nell’estate del 1913. L’inaugurazione Nella pagina successiva l’esterno della Pescheria nei giorni dell’inaugurazione nel 1913. La Pescheria sul mare Una vista dell’edificio dal Molo Venezia.
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Era un bel vanitoso, forse cosciente di essere una femmina anche se tutti lo chiamavano Marco. Aveva la pretesa di andare a spasso ogni giorno, tutti lo salutavano e gli facevano le feste. Era la gioia dei bambini. Andare con il mio papà a cercare Marco era una festa che non mi stancava mai. Quale città che non si trovi in Patagonia può vantare un cittadino onorario così? Solo Trieste, città di matti e di pinguini clandestini. Arrivò a Trieste nel 1953 con la motonave Europa del Lloyd Triestino, di ritorno dal Sud Africa. Era stato trovato, solo e abbandonato, da alcuni marinai che arrivati dopo cinquanta giorni di viaggio, ne fecero dono all’Aquario di Trieste. Gli venne costruita una grande vasca dove si tuffava “a clanfa” tra le risate dei bambini. Visse trentuno anni (la vita media di un pinguino come Marco è di 20-25). Morì avvolto in una coperta, tra le braccia del suo guardiano preferito, quello che lo accompagnava nelle sue scorribande cittadine e che brontolando, ma in realtà con gioia malcelata, lo doveva ripescare quando Marco si buttava dal Molo Pescheria tra gli applausi dei bambini e la commozione dei grandi. Dall’autopsia risultò che Marco era una femmina. (Il pinguino Marco di Marinella Zonta in Guida sentimentale di Trieste)
In pescheria, anni ’70 I clienti affollano ancora la grande sala ma il ruolo della Pescheria Centrale è in via di ridimensionamento per l’offensiva delle rivendite rionali. Il pinguino in posa Marco accanto a una bambina che cerca di accarezzarlo con grande tenerezza. Il pinguino sa di essere fotografato e si mette in posa tra le auto, davanti all’ingresso dell’Aquario. L’immagine è del 1978.
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il porto sportivo L’apertura del canale di Suez nel 1869 e il conseguente aumento del traffico commerciale portarono alla realizzazione nel 1883 di una nuova struttura portuale nell’area fra la nuova Stazione Meridionale e il Lazzaretto Maria Teresa e nel 1891 il Porto Franco venne delimitato alla sola superficie del nuovo porto. Ben presto all’inizio del 1900, anche questa struttura si rivelò insufficiente e fu necessario progettare un ulteriore imponente porto nella zona di Sant’Andrea. Tutto ciò comportò che il grosso dell’attività mercantile si svolgesse all’interno delle strutture portuali, la Sacchetta e le Rive rimasero quindi scalo solo per i bastimenti di piccolo cabotaggio, che battevano sostanzialmente rotte adriatiche. Il traffico all’interno della Sacchetta si decongestionò e l’attività mercantile lasciò lentamente il posto a quella ludica e sportiva. Nello specchio d’acqua fanno la loro comparsa le prime zattere galleggianti sedi di associazioni sportive dei canottieri che dividono lo spazio con maone e trabaccoli. Lungo il Molo Teresiano (oggi Molo Fratelli Bandiera), dai primi del ’900 iniziano a sorgere stabilimenti balneari che nell’arco del Ventennio diventeranno mete frequentatissime di bagnanti e sportivi. La trasformazione è in atto, la Sacchetta si avvia a diventare gradualmente un «porto sportivo». Chi percorrendo le Rive venga a costeggiare la Sacchetta, spesso si sofferma a osservare le «canottiere». Sono alcuni pontoni che hanno l’aspetto di villini galleggianti, bianchi, a due piani, e stanno attraccati, l’uno vicino all’altro, al molo che fronteggia la Lanterna. (…) Si ferma spesso anche qualche forestiero. Lo attraggono quelle casette candide, di legno dal tetto a terrazzo, galleggianti fra i trabaccoli e i bragozzi, le maone e i rimorchiatori. Forse lo colpisce il contrasto tra l’aria pulita, cittadina, e anche capricciosa e un po’ inutile delle canottiere e quella rude, e sporca, dei velieri che scaricano sabbia o legname e delle chiatte che fanno carbone.
Queste poche righe tratte da L’onda dell’incrociatore, il romanzo di Pier Antonio Quarantotti Gambini pubblicato nel 1947 e che nel 1948 vince il Premio Bagutta, meglio di qualsiasi altra immagine ci raccontano cos’era la Sacchetta negli anni Venti e Trenta del ’900. In un primo momento per dare una sistemazione più sicura le canottiere vengono sistemate a ridosso del Molo Fratelli Bandiera, poi nel 1925 lo Yacht Club Adriaco inaugura la sua sede definitiva, una costruzione posta in testa al Molo Sartorio, al posto della casetta dei piloti e anche le zattere galleggianti delle altre associazioni sportive vengono sistemate a ridosso dello stesso molo.
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Il galleggiante della Ginnastica Costruito nel 1899 a Lussinpiccolo dal Cantiere Marco U. Martinolich. Una volta trainato in Sacchetta fu ormeggiato dove oggi sorge il Pontile Istria. La capacità ricettiva permise alla società proprietaria di ospitare per qualche tempo i canottieri dell’Esperia e della Saturnia. Da Pirano a Trieste La sede galleggiante dello Yacht Club Adriaco rientra al traino a Trieste: ha appena concluso i lavori di riparazione al Cantiere Apollonio di Pirano, 1920.
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Bisogna aspettare gli anni Cinquanta per la consacrazione definitiva del luogo a «porto sportivo», con il piano di sistemazione della Sacchetta avviato durante il Governo Militare Alleato (GMA). La prima a veder la luce è nel 1954 la piscina intitolata a Bruno Bianchi, costruita nello spazio fra il Molo Sartorio e il Molo Venezia. Nelle immediate vicinanze a lato del Molo Sartorio viene costruito il Pontile Istria, su cui sorgono le nuove sedi delle tre società sportive di canottieri Adria, Ginnastica Triestina, Canottieri Trieste nonché della Società Triestina della Vela. La struttura sarà inaugurata nel 1956. Da allora le barche a vela cominciano a popolare la Sacchetta, tanto da indurre negli anni la Triestina della Vela e lo Yacht Club Adriaco a costruire dei pontili per razionalizzare gli ormeggi. Nel 1992 la Lega Navale dopo un accurato restauro ha fissato la sua sede nella Lanterna e nuovi pontili vengono ancorati al Molo Fratelli Bandiera. Infine nel 1999 viene inaugurato nel bacino San Marco, davanti alla Pescheria, fra il Molo Venezia e il Molo Pescheria, il Marina San Giusto, in grado di ospitare sui suoi pontili galleggianti moltissimi natanti. Oggi la Sacchetta è una selva di imbarcazioni di ogni tipo, dalle maestose signore in legno agli scafi ultramoderni, dove ferve l’attività dei canottieri che, all’alba o nelle tiepide ore della sera quando il mare è liscio come l’olio, sfilano silenziosi verso il tramonto.
Il Rowing Club La sede del Rowing Club Triestino ormeggiata al Molo Sartorio. Inalbera il gran pavese per celebrare una vittoria sportiva o un’importante ricorrenza. Una panoramica della Sacchetta Inizi del Novecento: in primo piano è ben visibile un piroscafo a ruote. All’estrema sinistra la casetta dei piloti e al centro la sagoma inconfondibile del Magazzino Vini.
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La casetta dei piloti Il Molo Sartorio viene realizzato in stadi successivi fra il 1840 e il 1845, data dell’ultimo prolungamento, come risulta dagli atti e dai progetti conservati dall’Archivio Diplomatico della Biblioteca Civica del Comune di Trieste. A pochi mesi di distanza viene presentato il progetto per la costruzione, in testa al molo, di una piattaforma su cui successivamente verrà eretta la
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casetta dei piloti che vediamo nell’immagine in alto in testa al molo e nell’immagine a destra. L’edificio ospitava i componenti della corporazione a cui comandanti e armatori affidavano le loro navi nei momenti difficili dell’entrata e dell’uscita dal porto. Nel 1924 sarà demolita, al suo posto viene costruita la nuova sede dello Yacht Club Adriaco.
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Adriaco, la prima sede Il pielago che fu dal 1905 al 1912 la prima sede dell’Adriaco: in questa immagine realizzata agli inizi del Novecento è ormeggiato al Molo Sartorio. Il pielago era un’imbarcazione a due alberi da carico con uno scafo panciuto e capiente. Per renderlo adatto ad ospitare la sede del club fu costruita in coperta una specie di tettoia e nello scafo, all’estrema prua, fu aperto un boccaporto attraverso il quale gli alberi delle imbarcazioni potevano essere ricoverati sotto coperta.
Adriaco, la seconda sede L’elegante silhouette di uno sloop con il gran pavese ormeggiato davanti alla nuova sede galleggiante dello Yacht Club Adriaco costruita dal cantiere Voltolina di Muggia. Sullo sfondo la casetta dei piloti sul Molo Sartorio.
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Relax alla canottiera Immagine di quiete e tranquillità per il galleggiante della Ginnastica. Sulla terrazza si vede un atleta in sedia a sdraio, riposa o prende il sole. Alcune barche dell’Adriaco hanno issato le vele forse per farle asciugare. Tutto è calmo, il mare è liscio come l’olio, il sole sta volgendo al meriggio. Quante volte abbiamo visto la Sacchetta così.
L’Adriaco Veduta della sede dello Yacht Club Adriaco. Nello specchio d’acqua si notano in primo piano le barche sociali tra cui spiccano le linee eleganti del due alberi con lo scafo dipinto di nero. In secondo piano l’imponente sagoma di un piroscafo attraccato alla banchina dei Frigoriferi Generali che fa sembrare modeste le dimensioni della palazzina del club.
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Dal molo della Pescheria ai bagni ci sono circa sei isolati paralleli al mare, lì dove stanno le case galleggianti, risulta sempre strano vedere case di tre o quattro piani dipinte di grigio e con finestre bianche, che oscillano dolcemente tra le onde, hanno sulle pareti del pianterreno grandi fasci di corde che le proteggono dai colpi contro la pietra del molo. Quando avrò la bici, pensa, arriverò agli stabilimenti in meno di cinque minuti. (da I corridoi della memoria di Santiago Grimani)
La Filonautica Triestina La prima sede della Filonautica Triestina è una vecchia brazzera ancorata in Sacchetta. La foto è stata scattata il 14 dicembre del 1923.
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La Sacchetta anni Trenta Due vaporetti provenienti dall’Istria stanno raggiungendo le Rive. Sul Molo Venezia sono ormeggiati numerosi trabaccoli. Sul Molo Sartorio si notano la sede dell’Adriaco e i tre galleggianti della Ginnastica, del Rowing Club e dell’Adria. Sul lato inferiore della foto si nota, quasi in primo piano, la sede della Triestina della Vela.
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La Bora del ’54 Il 2 febbraio 1954 la Bora raggiunse a Trieste i 171 chilometri l’ora. La raffica fu misurata a 45 metri di altezza, sulla sommità della torre dell’Istituto Talassografico in via Gioacchino Murat. La tradizione popolare riferisce che la velocità del successivo “refolo” fu tanto elevata che lo strumento di misura, l’anemometro, si ruppe. Qualche secondo prima questa raffica assassina aveva inferto il colpo di grazia al galleggiante della Canottieri Trieste. Lo fece sbattere con inusitata violenza sulla banchina del Molo Sartorio. Lo scafo iniziò a fare acqua e pochi minuti più tardi si adagiò sul fondo melmoso. Le imbarcazioni, i remi, i banchi da falegname su cui il custode Aldo Brezich costruiva e riparava gli scafi da regata e da gita, iniziarono a galleggiare, toccando il soffitto del magazzino allagato. Ebbero la peggio le esili prue degli outrigger, i timoni riposti sulle rastrelliere, gli attrezzi con i manici in legno, le tavole di mogano lasciate sul pavimento. Si salvarono alcuni skuller e poco altro. Il custode, sua moglie Clorinda e il figlio Giorgetto persero la casa e il lavoro. I canottieri della Trieste persero la loro indipendenza e autonomia. Finché non fu costruita la sede in muratura di Pontile Istria si sparsero per le canottiere consorelle: ospiti e senza imbarcazioni proprie. Le poche scampate al disastro furono ricoverate in un magazzino del Porto Vecchio appartenente al socio Pogorelz.
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Ragazzini A sinistra la sede galleggiante della Triestina della Vela nel maggio del 1929. Sul passo un ragazzino voga con un remo posto a poppa. Propulsione e timone allo stesso tempo. In alto un’immagine dell’età di mezzo: Giorgetto Brezich sulla zattera dell’Adria mentre alle sue spalle è quasi completata “al grezzo” la costruzione delle nuove sedi in muratura delle società di canottaggio. A destra un trabaccolo ormeggiato al Pontile Istria dove le costruzione delle nuove sedi non ha ancora raggiunto il secondo piano.
Dal legno al cemento armato Ho visto nascere sul tavolo di disegno di papà le nuove sedi in muratura delle canottiere della Sacchetta. Avevo sei o sette anni e da tempo frequentavo il galleggiante e la zattera della Canottieri Trieste, poi affondati in una terribile notte di Bora del febbraio 1954. Dei disegni su cui papà era chino ogni sera capivo poco o nulla anche perché prima la matita, poi il pennino del Graphos con l’inchiostro di china, lasciavano tracce sottili sui fogli di carta trasparente che i geometri chiamavano “lucidi”. Papà all’epoca lavorava fino alle 14 all’Ufficio tecnico della Provincia, secondo piano di palazzo Galatti; nei pomeriggi entrava verso le 15 nello studio di via delle Zudecche di cui era titolare l’architetto Umberto Nordio: sul tavolo a fianco di quello di papà lavorava l’architetto Bruno Kravos, di cui a tanti anni di distanza ricordo solo le camicie chiare con le maniche arrotolate e il fatto che mi sollevava con facilità per consentire alle mie mani di bambino di raggiungere il bottone “giusto” che faceva muovere il vecchio traballante ascensore dello stabile. Di sera papà spostava la macchina da cucire Singer che era della nonna Gisella e trasferiva dalla verticalità del muro al tavolo orizzontale la superficie levigata della tavola da disegno. Agli angoli tante “puntine” lucide e tanti minuscoli fori neri, lasciati dalle stesse puntine nel legno per bloccare altri lucidi e consentire il movimento della riga a martello. Poi si accendeva una lampada trattenuta dalla vite di un morsetto e la matita incominciava a correre sulla carta. Io guardavo lo squadretto che si posizionava, la punta di grafite che seguiva lo spigolo. Quante ore notturne papà abbia passato sul progetto delle nuove canottiere non
sono in grado di dire: certo moltissime perché dopo le “sedute” del consiglio direttivo della Canottieri Trieste di cui papà faceva parte, l’impegno e le ore di lavoro occupavano anche i sabati pomeriggio, quando lo studio di Umberto Nordio era chiuso. Il momento più felice fu quello della definizione degli “scafetti” dello spogliatoio. Ogni socio della Trieste ne doveva avere uno. Dopo averli disegnati, papà li costruì in scala ridotta usando alcuni fogli di spesso cartone. Affiancò tre o quattro copie degli armadietti, valutò, stringendo gli occhi, l’effetto prospettico e poi quello cromatico degli accoppiamenti di colore. Finalmente capivo, toccavo con le mani qualcosa che papà stava costruendo in un appartamento di via Carpaccio; qualcosa che sarebbe poi stato realizzato in Sacchetta. Mentre il progetto si definiva e prendeva corpo, le vecchie sedi galleggianti continuavano a essere frequentate come se non stesse per accadere nulla: in effetti una stagione si stava per chiudere e una nuova, tutta da definire, stava per aprirsi nel canottaggio triestino. Gli operai della SE.L.A.D. (Sezione Lavoro Aiuto Disoccupati, organismo che il Governo Militare Alleato creò per combattere la disoccupazione per mezzo di un imponente programma di opere pubbliche) avevano già “gettato” il calcestruzzo dei pilastri e della superficie piana su cui sarebbero sorte le “casette” dell’Adria, della Trieste, della Ginnastica e della Vela, progettate da papà, geometra, collaboratore dell’architetto Umberto Nordio e appassionato del remo. All’epoca l’acqua della Sacchetta era limpida e dalle zattere, osservando il fondo scuro del mare, si vedevano le granzievole muoversi immense e lente.
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Proponiamo di seguito due testi che sono due punti di vista diversi e opposti sullo sviluppo della Sacchetta e in particolare della parte così detta Porto Sportivo. Il primo Evoluzione della Sacchetta (tratto dalla «Rivista Mensile della Città di Trieste», Nuova Serie, Vol. IV, fascicolo n. 3, marzo 1953, pagine 15-16) esalta i nuovi lavori; nel secondo testo, dello scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini (tratto da Luce di Trieste, Eri Edizioni Rai Radiotelevisione italiana, 20 febbraio 1964, pagine 21-22) la visione è critica o forse nostalgica di un tempo passato: Passeggiando lungo la riva e proseguendo oltre la pescheria e il deposito vini, ecco affacciarsi lo specchio tranquillo della Sacchetta, una delle zone più caratteristiche di Trieste marinara. La Sacchetta nei secoli scorsi era il porto naturale di Trieste, il centro del traffico marittimo e ancora i nostri nonni la ricordano pulsante di vita, tutta un andirivieni di velieri che portavano sabbia, ghiaia, legname, sale, vino, merci tutte che venivano scaricate a mano su lunghe passerelle, in un brusio continuo che s’accendeva e si spegneva con il giorno. La mano del tempo è passata però sulla Sacchetta, ne ha forzato la vita e anche i colori e oggi essa ci appare un bacino tranquillo, popolato di natanti in disarmo, barche da pesca, barche da diporto, in un ambiente che si anima soltanto nelle giornate festive allorché più numerose fioriscono le vele bianche delle piccole imbarcazioni che s’avventuravano gioiose sul mare e più di frequente si manifesta l’eco scandito dai canottieri. Molte cose sono mutate nella Sacchetta, ma a poco a poco, impercettibilmente, per cui ai nostri occhi essa è sempre la stessa vecchia amica, il porto di tanti gioiosi ricordi, di tante ore liete passate nell’ambiente delle vecchie canottiere, tipicamente marinaresche, accovacciate, quasi stanche, lungo la riva, al riparo dal vento e dai marosi. Da qualche tempo però, in questo angolo sereno di Trieste, apparentemente immutato ed immutabile, si nota qualche cosa di inconsueto, un fremito di nuova vita, un flusso di nuove iniziative. È sorto sul lato sinistro di Molo Sartorio un nuovo molo, un pontile in cemento armato, sul quale fra breve avranno inizio i lavori per la costruzione delle nuove sedi sociali della Società Triestina della Vela, della Ginnastica, della Trieste e dell’Adria. Un po’ più a nord, sulla destra del Molo Sartorio, già si profila la sagoma ormai delineata della nuova piscina, altra importantissima realizzazione per Trieste sportiva. È tutto un mondo che sta sorgendo, un mondo che realizza tante vecchie aspirazioni degli sportivi triestini e per il quale, per germinazione spontanea, è già sorto un nome: “Il porto sportivo di Trieste”.
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Tutto questo complesso di opere dovrebbe essere portato a compimento entro l’anno 1953 e sarà un complesso armonico, dominato dalla mole imponente della piscina, vera e propria conquista dei nostri nuotatori. Si svilupperà al centro con il Molo Sartorio, con lo sfondo della palazzina dell’Adriaco, e a sinistra con il nuovo pontile sul quale sorgeranno quattro agili palazzine fiorite, sedi delle quattro Società nautiche già nominate. Completerà il quadro la flotta delle imbarcazioni da diporto che troveranno posto tutto all’ingiro e nello specchio d’acqua interno fra Molo Sartorio e pontile. Sarà un giorno lieto ma pieno anche di nostalgia e di rimpianto quello in cui vedremo lentamente avviarsi verso un nuovo destino le vecchie sedi galleggianti delle Società nautiche, fucine inesauste di glorie sportive e patriottiche, dalle quali, come dono finale, è scaturito il seme di questa nuova vita che sorge ad onore della nostra bella Trieste e a maggior gloria dello sport. *** Trieste ha già veduto scomparire gran parte della bellezza delle sue Rive, un tempo tutte aperte sul mare – lo dice il loro stesso nome – come un unico lunghissimo molo. Le Rive vennero sacrificate dapprima a poco a poco, poi con ritmo sempre più rapido. Oggi chi costeggiando la Sacchetta (cioè quella parte interna del porto che accoglieva velieri, piccoli piroscafi in disarmo e imbarcazioni da diporto), percorre la Riva Grumula, che ai tempi della mia infanzia era tutto un vario movimentato piacevolissimo lungomare, si trova né più né meno che in una via, chiusa da edifici dall’uno e dall’altro lato. La Riva Grumula cominciò ad agonizzare, molti anni fa, quando vi si costruì qualche magazzino; subì un colpo mortale allorché vi si edificò la piscina coperta, interrando un piccolo bacino sempre festoso di monelli, dove le barche venivano anche tirate in secca e calafatate; e finì di essere una riva il giorno in cui si sostituirono le graziose tradizionali sedi galleggianti delle società nautiche con alcuni edifici in muratura, sin troppo razionali, sorretti da palafitte di cemento. La piscina coperta è
La Società Triestina della Vela Il secondo piano della nuova sede è quasi completato. La parte sovrastante le piccole imbarcazioni oggi ospita il ristorante.
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certo gradita a più di un gruppo di giovani (sebbene la si veda quasi mai molto frequentata); ma essa avrebbe esplicato altrettanto bene la sua funzione se la si fosse costruita altrove. Là dov’è, e alta com’è (ha un tetto da autorimessa, anzi da hangar per dirigibili) oltre a togliere la vista del mare, è una delle costruzioni più stonate e più fuori posto che siano state innalzate a Trieste. Delle nuove sedi delle società nautiche, ossia delle cosiddette canottiere, si preferirebbe quasi non parlare. Nessun dubbio sulla loro funzionalità; ma come non ci si è resi conto che cosa erano i galleggianti, simili a quelli – spesso di nuovissima costruzione – che tuttora esistono, quali sedi di società di canottaggio o di stabilimenti balneari, sui canali olandesi, sulla Senna a Parigi, e anche sulla Loira, nonché a Filadelfia, e chissà in quali luoghi ancora, e altra cosa sono invece gli edifici in calcestruzzo che li hanno sostituiti? I quali, oltre al resto, hanno un difetto comune a troppe costruzioni moderne: quello di peccare di un certo gigantismo, rispetto alla esiguità dello spazio in cui sorgono. E la Riva e il Molo della Lanterna, che, descrivendo una specie di semicerchio, chiudono la Sacchetta di faccia alla Riva Grumula? Si sono infittite anche laggiù, nei pressi della Lanterna, e intorno ad essa (un tempo quasi isolata nel suo bianco profilo turrito, se si fa eccezione per una caserma della Marina), costruzioni piccole e grandi, che alzano un’altra quinta contro il mare. Per primo sorse un magazzino di parecchi piani (destinato inizialmente, se non erro, alle carni congelate in arrivo dall’Argentina), e poi tutta una madrepora, specie dentro la zona militare, di casematte e baracche. Così è scomparsa in gran parte la bellezza delle Rive in una città che veniva celebrata proprio per il suo immediato, diretto, contatto col mare. E lo sparuto pseudo-grattacielo innalzato a Campo Marzio? A causa di esso, chi percorra le Rive, venendo da piazza Unità, non vede più stagliarsi nel cielo la torretta della Pescheria: la torretta viene a sovrapporsi, prospetticamente, al corpo del grattacielo. Il quale, così intrudendosi in uno spazio d’aria che dava, sopra i tetti, un’impressione amplissima, come la dà sempre il cielo, tronca brutalmente il colpo d’occhio limitandolo e immeschinendo, quanto a sensazione visiva, tutta quella parte della città.
L’inaugurazione delle nuove sedi È il 22 gennaio del 1956 e sulla sinistra una Fiat 1400 e una 500 esibiscono ancora le targhe di colore bianco con l’alabarda rossa che furono imposte dal Governo Militare Alleato. In alto la facciata della nuova sede della “Vela”.
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la piscina Cinquant’anni di vita, non uno in più: poi l’entrata in scena violenta delle ruspe per un veloce e definitivo azzeramento. Abbattuta la volta, abbattuti i due corpi laterali, fatte a pezzi le gradinate con i duemila posti, distrutti i quattro trampolini, la vasca lunga 33,3 metri e larga 18, gli spogliatoi, gli uffici e gli ambulatori. Ora al suo posto c’è un parcheggio. Era nata il 13 marzo 1954 la grande piscina coperta costruita a Trieste con i fondi del Coni. All’epoca la città era amministrata dal Governo Militare Alleato e l’Italia voleva regalare alla città l’impianto sportivo «quale simbolo tangibile dei vincoli che legano Trieste alla Madre Patria». Il Comune avrebbe dovuto mettere a disposizione un terreno adatto ad accogliere la piscina e successivamente avrebbe dovuto assumersi gli oneri della gestione dell’impianto. La prima zona prescelta fu quella del piazzale di Montebello, posta tra l’Ippodromo e l’ex campo di calcio della Triestina. Non se ne fece nulla perché il Governo Militare Alleato acquisì per costruire un autoparco una parte dell’area individuata dal Comune. Allo stesso tempo erano emerse con grande evidenza tutte le difficoltà di collegarsi al mare con una conduttura. La piscina nel primo progetto avrebbe dovuto essere infatti riempita con la stessa acqua in cui si tuffavano i triestini che frequentavano l’Ausonia, il Pedocin, il Bagno alla Diga, il Ferroviario e l’Excelsior di Barcola. Acqua di mare, non di Aurisina. Nel 1950 la svolta, con l’individuazione e la scelta di un terreno ritenuto adatto sulla riva della Sacchetta, a lato del Magazzino Vini. In precedenza l’area era occupata da uno squero. I lavori iniziano nel 1951: il progetto è dell’architetto Enzo Cosolo, un professionista triestino che lavora alla Direzione Centro Studi Impianti Sportivi del Coni. La direzione del cantiere è affidata all’ingegner Paolo Scarpa. Le polemiche non tardano e si rifanno alle critiche che l’ingegner Aldo Badalotti, capo dell’ufficio tecnico comunale, aveva espresso in precedenza. Non era stato ascoltato e nella discussione svoltasi all’interno della Commissione edilizia avevano avuto il sopravvento il giudizio positivo e la volontà edificatoria del sindaco Gianni Bartoli. In estrema sintesi l’architettura dalla piscina non regge il confronto con il contesto neoclassico delle Rive, impedisce la vista del mare, è difficilmente raggiungibile da gran parte della città.
Reti e stelle Reti di pescatori stese ad asciugare davanti alla piscina demolita nel 2005. Sotto, la banchina del Molo Sartorio con decine di “stelle” allineate sui rispettivi scali, in attesa dell’avvio della regata.
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stazione rogers Era una stazione di servizio della raffineria Aquila. E vendeva benzina, gasolio, lubrificanti a chi si affiancava con il proprio camion, auto o moto alle colonnine di distribuzione. Ma c’era anche chi arrivava al distributore a piedi, con la tanica in mano. E poi riempito il contenitore fino all’orlo riguadagnava qualche pontile della Sacchetta dov’era ormeggiata la sua piccola barca. Oggi di tutto questo s’è perso quasi il ricordo. La Sacchetta è zeppa di imbarcazioni a vela e cabinati di dimensioni ragguardevoli e talvolta sfacciate. Nessuno versa più il carburante dalle taniche al serbatoio, nessuno si affianca alle colonnine dove Luisa, con la pistola in mano e la divisa della società petrolifera addosso, serviva i clienti, talvolta brusca, più spesso sorridente. Sotto il suo caschetto di capelli biondi. Oggi dalla Sacchetta e dalle vie che a terra la delimitano, sono scomparse tutte le stazioni di servizio. Esso, Shell, Agip e Total si sono ritirate da quell’area della città e a ricordo di anni in cui il carburante si comprava a prezzi meno esosi di quelli attuali, resta l’edificio che fu costruito al numero 12 di Riva Grumula tra il 1952 e il 1953 e che oggi ha preso il nome di Stazione Rogers. Il progetto è dello studio BBPR, fondato nel 1932 a Milano da Gianluigi Banfi, Ludovico Belgioioso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers. Quando il progetto della stazione di servizio venne definito nei suoi caratteri essenziali, dei quattro fondatori solo tre sono in vita: Gianluigi Banfi e Ludovico Belgioioso erano stati arrestati nel 1944 a Milano perché attivamente impegnati nella resistenza al nazifascismo e deportati nel campo di sterminio di Mauthausen dove Banfi muore nel giugno 1945. Ma ritorniamo alla stazione di servizio progettata per l’Aquila. Nel paesaggio acquistano sempre maggiore importanza certi organismi architettonici secondari: le edicole per i giornali, i chioschi, i diversi servizi per l’automobilismo, le tettoie alle fermate dei mezzi pubblici. Tutti questi, da una fase di spontanea improvvisazione stanno ora assumendo una fisionomia precisa. Il duplice problema è di non perdere quel carattere brioso che veniva conferito alla città dal pittoresco incontrollato, mentre si deve profittare degli insegnamenti della tecnica e dell’estetica moderne le quali concorrono alla determinazione di forme consapevoli e il più possibile rigorose. A questi principi si ispira il piccolo edificio che abbiamo costruito a Trieste.
Questo scrivono i tre architetti che attraverso il progetto di questa stazione di servizio riflettono con grande anticipo su uno dei problemi che di lì a qualche anno,
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con la motorizzazione di massa, si sarebbero avventati sul paesaggio italiano, lasciato spesso senza alcun controllo né forma di progettualità unitaria. La ripetizione sfalsata dei tre moduli diversifica le vedute, le coperture a volta creano un movimento che riesce a non stridere con il paesaggio urbano, l’uso di colori brillanti per le diverse componenti costruttive contribuisce a vivacizzare l’insieme, conferendo al piccolo oggetto architettonico quel carattere brioso che per il gruppo BBPR era necessario perseguire. La struttura è semplice con pilastrini di cemento colato in casseri di eternit, dipinti di blu che sostengono travi a doppia mensola e volte in laterizio armato
ha scritto Michela Maguolo nel volume Trieste Anni Cinquanta – La città delle forme. Luca Molinari scrive che lo «sviluppo seriale del padiglione in più elementi uguali, appoggiati tra loro con un leggero scarto, quasi una interpretazione del magazzino portuale, prova a porsi come alternativa a una interpretazione più macchinista e futurista del padiglione per automobili di matrice americana». Riaperta nel 2008 dopo un restauro – curato da Gigetta Tamaro e Luciano Semerani – che ne ha ripristinato anche i colori originali, l’edificio ospita mostre d’arte e conferenze, piccoli concerti e incontri. Da distributore di benzina a distributore di cultura.
Un distributore di cultura La stazione di servizio della società petrolifera Aquila, ora Stazione Rogers, in alcune immagini degli anni ’50. Dal carburante per motori a scoppio e diesel, a quello per la mente, gli occhi e i cuori.
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la bora
Nessun progresso tecnico, e scientifico, nessun sconvolgimento politico, nessuna rivoluzione ce la potranno togliere. C’è rimasta la Bora. Un tormento, un inferno, per chi a Trieste non è nato e cresciuto, per chi dall’Istria o dal Friuli non veniva, sin da piccolo, tutti i giorni per i suoi studi e per i suoi affari a Trieste. Una mezza catastrofe che tre, quattro, dieci volte all’anno si scatena sulla città, una sofferenza fisica, una fatica insostenibile – ma anche uno scoppio di gioia e di gioventù, di ebbrezza e di entusiasmo, una sferzata che fa piangere e ridere, che dà voglia di cantare. E solo chi è rimasto fedele a Trieste ne gode i benefici. Chi sta lontano anche pochi anni, cinque o sei, e ritorna all’improvviso in una giornata di Bora, viene agguantato alle spalle dai refoli e costretto a farsi tutta di corsa la strada fino a casa: è il primo castigo della madre severa al figlio ingrato che l’ha abbandonata. Quelle potenti manate sulle spalle e sul petto che sono deliziose carezze per i triestini fedeli alla loro città, diventano busse violente per gli estranei. (da Autoritratto triestino di Alberto Spaini)
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il respiro di trieste La Borra, di cui tanto si parla, senza conoscerne altro che il nome, è propriamente l’EstNord-Est, o sia vento, che viene tra il Greco, ed il Levante. Quest’è un vento di terra, che chiuso fra monti, fa lo stesso effetto che un torrente chiuso fra limiti troppo angusti. Peraltro anche rapporto al mare egli deve chiamarsi piutosto un vento incomodo, che vento pericoloso. Le Navi nel Porto temono più il mare, che il vento. La Borra come vento di terra solleva bensì, ma non agita il mare, perché convien far riflessione che il mare comincia ad agitarsi lontano dal lido, a misura che il vento ha campo di estendersi, di agire sopra la superfìcie, e di sconvolgere tutta la massa delle acque. Contro la sola violenza del vento le Navi si assicurano facilmente mediante un buon canape, purché trovino dove legarsi con sicurezza. (da Riflessioni sul porto di Trieste di Antonio de Giuliani)
Qualsiasi manifestazione di potenza della natura ci frastorna, ci intimorisce; non è paura sciocca, è un timore “sano”, quasi reverenziale di fronte a cui ci inchiniamo, deponiamo le armi, ma non siamo inermi e passivi, rimaniamo incantati e affascinati di fronte a qualcosa contro cui non possiamo niente. La Bora quando soffia per bene, quando le sue raffiche oltrepassano i 100 km orari fa parte a pieno titolo di questi meravigliosi fenomeni. Suscita intense emozioni. Emozioni che coinvolgono tutti i nostri sensi, l’udito quando il suo ululare, sibilare produce un frastuono assordante diventando in certi momenti, a sentirlo bene, musica; l’olfatto, odore di pulito, di aria tersa cristallina; la vista, quale spettacolo il mare con la Bora, con i suoi spruzzi, sembra ribollire, abbattendosi sulla sua superficie disegna carezze e schiaffi violenti; il tatto, le nostre mani sanno subito quando arriva, si asciugano, la loro pelle diventa più secca, e quale sensazione su tutto il nostro corpo camminare facendo fronte a un violento “refolo”; il gusto di salsedine, se cammini lungo le Rive, il sale ti imperla le labbra. È per questo che quando arriva la città si risveglia, percorsa da un fremito intenso, pochi non la amano. Solo chi non la capisce e non la “sente”, non può godere di tanta meraviglia. Nelle sue manifestazioni migliori genera un’inarrestabile curiosità e allora le Rive si affollano, e alle panchine stanno coppiette di tutte le età che ammirano incantate lo spettacolo del mare che danza al ritmo di un valzer o di un rock sfrenato cambiando continuamente registro. Di fronte a tanta bellezza è buona cosa lasciare la parola ai maestri. A chi sa realmente cogliere la poesia e la forza di una tale espressione della natura. Per questo, per accompagnare le immagini, abbiamo riportato in queste pagine gli scritti di Libero Mazzi e Anita Pittoni.
Il primo è stato scrittore, critico letterario e cinematografico, giornalista. Per quasi vent’anni ha diretto e gestito in prima persona la Terza pagina e quella degli spettacoli del quotidiano «Il Piccolo». Ha collaborato, fino alla morte avvenuta nel 1994 quando aveva da poco compiuto i 70 anni, con riviste e giornali italiani e stranieri. Prima di essere assunto al «Piccolo» nel 1957 era stato dipendente del Comune di Trieste e aveva lavorato al Museo della Cattedrale. Le sue grandi capacità erano state notate da Vittorio Tranquilli già direttore del quotidiano. Anita Pittoni, nata nel 1901, da subito dimostra uno spirito libero e anticonformista. Di famiglia socialista, suo zio Valentino Pittoni è stato il fondatore del partito socialista a Trieste, dopo un breve matrimonio si rifugia a casa delle sorelle Wanda e Marion Wulz, famose fotografe triestine. Lì comincia a lavorare e a promuovere le sue prime creazioni di moda, arredamento e artigianato artistico che in poco tempo ottengono un buon successo. Inizia a collaborare con gli studi di Peressutti e Rogers, Nordio, Belgioioso, Pulitzer Finali. Con i suoi lavori si allestiranno i saloni di grandi transatlantici. Partecipa a tutte le Triennali Internazionali d’Arte Decorativa di Milano, è presente alle Biennali di Venezia del 1934 e 1942, all’Esposizione Mondiale di Parigi del 1937, a diverse mostre d’arte decorativa a New York, Buenos Aires, Berlino. Subito dopo la guerra interrompe l’attività artistica: comprende che la città sta vivendo un momento difficile, crede sia fondamentale creare un luogo dove ritrovare la propria spiritualità e ricostruire l’unità culturale. La sua casa diventa un rifugio, un punto di riferimento, per molti intellettuali: Saba, Giotti, Stuparich, Quarantotti Gambini, Bazlen. Con il loro aiuto fonda una propria casa editrice, “Lo Zibaldone”, «con l’intenzione di offrire uno strumento di chiarificazione culturale per fissare i lineamenti complessivi di Trieste e della sua regione in una collana svelta e di agevole lettura che fosse un documentario verace, ideale e concreto, attraverso il tempo e gli argomenti, cui gli studiosi d’Italia e degli altri paesi, la gente di cultura, gli appassionati potessero affidarsi senza sospetto». Muore a Trieste nel 1982 in miseria, completamente dimenticata dalla sua città che solo dopo molti anni ha cercato di recuperarne la figura dedicandole nel 1995 una mostra ed erigendo un suo busto nel Giardino Pubblico.
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Ma la Bora d’improvviso, soffiando a centosessanta chilometri, rotola giù dal Carso, cambia tutta la fisionomia, e spazza, e spazza, e spazza. E il suo impeto non cessa: implacabile, non lascia sul cielo la più lieve sfumatura bianca. La città in breve sembra sommersa in un chiarissimo cristallo; ogni cosa acquista un colore vivo, polito. Son serene anche le pietre. Tutto è visibile e chiaro: le casette più piccole delle più lontane colline, gli alberi sul ciglio del Carso son disegnati alla maniera delle miniature; rivolgendosi al porto si possono vedere come son congegnate le gru, vite per vite. Quando soffia la Bora i colori da noi sono smaglianti anche d’inverno: blu, verdi, rossi, violetti intensi, bianchi. Saper adoperare queste tavolozze così ricche e mutabili e ardite è una gran gioia. Non creare, ma prendere dalla natura e foggiare. Dio creò dal nulla. Deve essere stato ben triste per lui. Noi troviamo le cose perfette, le utilizziamo solamente. E da ciò nasce la nostra possibilità di fede. Che se poi vogliamo pensare che siamo noi, spirito, a crearci tante bellezze, la fede per qualche cosa di perfetto all’infuori di noi vien meno. Ma allora ci aggrappiamo ad essa e in uno sforzo disperato d’analisi la riacquistiamo, obbligandoci a credere che è pur sempre la stessa Natura, operante all’infuori di noi e su di noi, che ci indirizza, ci porta, ci domina. (da Saper guardare di Anita Pittoni)
Lei non è mai stato in balia della Bora, colto da un refolo a centosessanta all’ora! Lei non ha mai visto le onde schiumanti farsi immobili nell’aria, alte sui moli, agghiacciate all’istante, fermate nel loro ardito movimento verso il cielo, ferme nella loro curva capricciosa e solenne, «decorative» che solo i giapponesi hanno saputo cogliere e che il liberty ha fatto sue. Mentre le rive, le strade deserte, sono una lastra di ghiaccio, e la città, anch’essa fermata, trema nel respiro vorticoso del vento, che umilia i coraggiosi costringendoli a camminare… seduti o aggrappati miseramente alle corde tirate lungo i marciapiedi; che butta in mare carri e cavalli e camions; che riempie in poche ore le sale operatorie degli ospedali… (da Lettere al professore in L’anima di Trieste di Anita Pittoni)
Una Sacchetta siberiana Alcune immagini dei primi giorni del febbraio ’54 quando la città fu investita da un’ondata di maltempo, seconda solo a quella del terribile inverno del 1929.
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Un muro di ghiaccio Il muro di cinta del complesso dell’ex caserma di artiglieria nel febbraio ’54.
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Ritorno alla Bora come sentimento. Come condizione del risveglio dalla subdola pigrizia della nebbia o dello scirocco che abbassa la latitudine fino a lunghe e compiacenti illusioni mediterranee. E come fatalistico e inevitabile castigo (penitenza?), per cui straborati al posto di stralunati, momento che la si piglia come il ciel la manda. Sentimento anche nelle sfumature o nei preludi. Quando si annuncia di notte, muovendo appena l’aria per pochi secondi, furtivamente, a modo di prova. Pare una carezza senza energia-carica-potenza. Non sbatte le imposte, anima solo con leggiadria qualcosa di bianco rimasto ad asciugare, ed è come un voltar pagina: dopo potrebbe accadere di tutto, nascere un genio o scoppiare una guerra. Gli altri annunci sono sempre più lunghi e più vicini uno all’altro, fino al sibilo nella fessura, fino alla raffica che non lascia dubbi. Ci risiamo. Un sentimento? Si, ma di rassegnazione. Sapere che prima o poi arriva, e ignorare quando se ne andrà. Dunque anche suspense, con alleanza interna di astuzia e resistenza, di mosse e contromosse per difendersi in una specie di duello con un avversario (non nemico) invisibile; tanto che a un certo momento potrebbe continuare per sempre; ed è invece il silenzio del dopo, calato all’improvviso, che sembra rumoroso e lascia intronati, vuoti di dentro e sospesi nell’aria di nuovo immobile, e tuttavia appesantiti. Sentimento ancora due volte. Quando alle cinque della sera porta dalle case a sperdersi sul mare il fischio di una sirena del porto. Arriva ondeggiando nell’incavo tra due o tre raffiche, e si allontana assottigliandosi dove il sole sta tramontando o è già sotto l’orizzonte. Oppure quando alla fine di una lunga e violenta rabbia si ferma esaurita sul mezzogiorno, ma prima, da un’ora o due, pur infiacchita si diverte a mutar quadrante quasi in uno scherzo, adesso che è il momento di smettere. Lo scherzo di chi non ce la fa più, di chi capisce d’essere alla fine. (da Andare a Lussino di Libero Mazzi)
La Sacchetta spazzata dalla Bora “Refoli” di Bora sulla Sacchetta, febbraio 1954.
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In balia del gelo Barche “ghiacciate�, febbraio 1954.
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Bora in Sacchetta Questa fotografia è stata scattata il 2 febbraio 1954 dal meteorologo Silvio Polli per documentare gli effetti della Bora sulle acque della Sacchetta e sulle banchine. Il giorno seguente, mercoledì 3 febbraio il «Giornale di Trieste» riferiva del disastro provocato dall’ondata di maltempo. «Il gelido vento dell’altra notte ha ucciso nel sonno una povera mendicante,
Sonia Peterlic, di 76 anni, che occupava un misero abituro nello stabile al numero 10 di Androna della Marinella. Nubile e senza nessuno al mondo la Peterlic aveva raccolto la sua miseria tra quelle mura fragili come carta alle 18.30, non reggendo il freddo delle strade e si era subito coricata».
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Gli accorti profeti della meteorologia lo predicavano da tempo: non ci sarà più la Bora. Lentamente, anno dopo anno, essa si affievolirà fino a sparire del tutto. Addio raffiche rabbiose e imprevedibili, ululati giù per i camini, spifferi gelidi invincibili dalle finestre pur piccole e rinforzate. Questione di masse d’aria, pare, o di grandi cambiamenti nell’atmosfera, lontanissimi da noi, che tuttavia per i misteriosi canali degli spazi celesti... Del resto sono spariti i dinosauri, sono spariti continenti di ghiaccio, perché non dovrebbe e non potrebbe sparire un vento capriccioso, violento e volubile? Ecco il gelo sempre un po’ sarcastico della scienza, ecco la dolce irrisione ai sentimenti. Perché la Bora è un sentimento prima di essere una oleografia e una paura (le cartoline umoristiche con i tram ribaltati e le gonne delle ragazze a paracadute capovolto). Un sentimento prima di una sensazione fisica invocata per liberarsi dall’umido, dal «caligo» che si allarga dalla Padania e fa belle le cose vicine sfumandone i contorni, ma lascia boccheggianti come un sub in apnea prolungata. Quando vien la Bora. Anzi, quando veniva. Una sferzata, una sveglia. Addio abbandoni e pigrizia imputati allo scirocco, al mare in casa. Si diventava brutti anche, come picchiati da un boxeur invisibile che lavorasse accanito al volto e al corpo. Si dice stralunati, perché non si dovrebbe dire straborati? Se con il cappello non volano via gli abiti, cento brandelli di coscienza vengono scossi e messi a nudo. Diventa difficile camminare, bisogna pensare, scegliere gli itinerari, resistere poi; perché durerà un giorno, ma può anche durare una settimana, ed è un match lungo, spossante, dove ci si difende con i riflessi e con l’astuzia, e infine con la pazienza. (Un po’ le onde matte che sballottavano Ulisse, e che forse Joyce percepì proprio qui da noi dopo rimbalzi tortuosi e trasformazioni psicofisiche inaccessibili o soltanto intuibili). È, in certi istanti, il momento della verità, quando si avverte di essere soli, nudi e indifesi, e tutta la forza disponibile sta nei battiti – accelerati o flebili – del proprio cuore che può reggere o no. Per la Bora ci si veste, o così sembra, mentre in realtà ci si spoglia. Poi la Bora in Carso, in campo aperto, quasi una sublimazione di elementi chimici; la Bora pura, a diciotto carati, nelle albe livide quando, a piedi, si sbucava sull’altipiano, ed era ormai una sorta di frenesia pagana, forse un residuo ancestrale di masochismo. «La Bora mi schiaffa a ondate nella schiena» scrive Slataper in quello che Gobetti ha definito il dramma di una moralità. E ancora: «La Bora aguzza di schegge mi frusta e mi strappa le orecchie. Ho i capelli come aghi di ginepro, e gli occhi sanguinosi e la bocca arida... Bella è la Bora...». Scriviamo con la nebbia e lo scirocco che da settimane non si dipanano, e pare archeologia, dinosauri, età sepolte. Ancora una decina d’anni fa in Sacchetta, durante una tumultuosa notte di Bora che durava da giorni, bisognò tagliare con l’accetta gli albe-
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ri di alcune barche per evitare una Scapa Flow tascabile, e i danni furono tanti. Poi il mare portato sui moli, sulle dighe, e fissato dal gelo in mostruose, gonfie sculture in libertà. «Dilati rabbioso il tuo fiato nello spazio e i tronchi si squarciano dalla terra e il mare, gonfiato dalle profondità, si rovescia mostruoso contro il cielo. Scricchia e turbina la città quando tu disfreni la tua rauca anima». Dramma di una moralità o resurrezione? E Saba: «Anche un fiato di vento pare un sogno – agli uomini del porto... Sotto il cielo coperto è volta l’ansia – di tutti ad una raffica, alla prima». Scriviamo nella nebbia pensando alla Bora, al rassegnato, gelido sarcasmo degli studiosi che prevedono al di là dei sentimenti. Un mondo antico, un mondo nuovo. È giusto dire: i giovani che ne sanno? Come per la guerra, del resto. Ci si vestiva addirittura in modo speciale per la Bora; cappotti stretti, chiusi in alto, suggerivano i sarti, e i consigli erano onesti ma superflui. Adesso va bene la linea Milano-Roma che scende da Londra. La Bora questa sconosciuta, questa mitologia, o fisima dei vecchi. Già, adesso quando viene è bella perché schiuma il golfo e basta. Tant’è vero che come gli abiti anche le case si allineano. A che servono le finestre strette? L’architettura come la moda; i diritti dei tempi che travolgono, che livellano; si parla, fra un paio d’anni non lontani, di una colonia nel sesto continente, che non sarebbe più ormai quello sottomarino di Folco Quilici, ma la Luna. «Dal primo al trenta gennaio sono aperte le emigrazioni per...». Di notte, quando c’è davvero silenzio e la città sembra aver ritrovato il suo cuore, ad ogni soffio d’aria si annusa e si tende l’orecchio. Chissà, forse è lei che torna almeno per un po’. Perché diciamo la verità: se la Bora dovesse scomparire, se non dovesse ritornare altro che come frammento di memoria, come i fanali a gas o il porto zeppo di velieri fino al largo della vecchia Lanterna, cosa resterebbe di vero a Trieste? (Requiem per la Bora di Libero Mazzi, in Scrittori Triestini del Novecento)
Febbraio 1954 La Sacchetta spazzata dalle raffiche di Bora nei primi giorni del febbraio 1954. L’ondata di maltempo, seconda solo per intensità a quella del 1929, trasforma in senzatetto oltre 300 triestini. Crolla la ciminiera della fabbrica di birra Dreher, tre pedoni, sbattuti a terra dal vento,
muoiono all’ospedale: si chiamano Graziella Gellini, 18 anni, Giovanni Vascotto, 57, Pio de Paulin, 30. Il porto è bloccato, le navi e le banchine sono ricoperte di ghiaccio. Domenica 7 febbraio arriva anche la neve che imbianca tutta la città mentre la Bora cessa di soffiare.
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Scappa, scappa galantuomo In queste immagini vediamo l’Ursus, l’antico pontone che è stato vanto della città, che ha rotto gli ormeggi e ha trascinato verso il largo il rimorchiatore Audax che gli stava accanto. Era il 2 marzo 2011. L’Ursus ha strappato le cime vecchie, ha chiesto aiuto alla Bora che soffiava a 170 chilometri l’ora e se ne è andato. Finalmente libero. Ha lasciato la testata del Molo Quarto, ha sfiorato senza toccarla l’estremità della Diga Vecchia e assieme al rimorchiatore ha puntato, sospinto dalle fortissime raffiche, verso la Sacchetta e la Lanterna. Via, via dalla gente che lo aveva abbandonato come fosse un relitto o un’attrazione da luna park o circo. Via da chi diceva di volergli bene ma non accarezzava più da tempo le sue lamiere con odorosa vernice, che non gli riempiva il cuore e i serbatoi di olio e di nafta, che lasciava che i suoi tendini d’acciaio si irrigidissero nell’inattività. Meglio prendere il largo senza nessuno a bordo e fuggire in mezzo al mare. Altre raffiche hanno corretto la rotta, lo scafo non ha opposto resistenza e si è lasciato docilmente portare dal vento, incurante delle onde. Ha visto la Lanterna allontanarsi, ha evitato le dighe che proteggono il vallone di Muggia. Erano nascoste dal pulviscolo d’acqua sollevato dal vento impetuoso, ma l’Ursus sapeva come evitarle perché da almeno 80 anni aveva memorizzato la loro posizione. “Scappa, scappa galantuomo”. L’allarme era già suonato in città. «L’Ursus è al largo, dobbiamo raggiungerlo». I potenti diesel di formidabili rimorchiatori si erano messi a girare nelle sale macchine. Inizia la caccia. Altri uomini con piccole fotocamere in mano raggiungono le rive e cercano di mettere a fuoco nella tempesta i loro obiettivi sul gigante ormai lontano e quasi invisibile. Due ore più tardi, sono le 10 del mattino, i rimorchiatori “Taur”, comandante Mauro Delben, “Uran”, comandante Riccardo Segarich, e “Daneb”, comandante Franco Picaro, circondano l’Ursus e cercano di prenderlo al guinzaglio per riportarlo a riva. Lottano con le onde e le raffiche per altre due ore, 6.000 cavalli, contro la Bora che proteggeva la corsa disperata e libera dell’Ursus. Un marinaio del “Daneb”, Mario Sau, ha capito che la strategia della forza e dell’assedio al vecchio scafo non avrebbe prodotto nulla di positivo. Anzi, si sarebbe rischiato il disastro, il naufragio. Dalla prua del suo rimorchiatore il marinaio si lancia da solo sulla coperta del pontone. Scivola, si riprende, raggiunge la gru che ondeggia nell’ululato del vento. Sussurra parole gentili, sfiora la ruota del timone, cerca un cavo robusto, spiega al gigante d’acciaio che nessuno gli farà del male, che sarà finalmente rimesso a nuovo, oliato e verniciato. Gli promette che Trieste gli darà finalmente un ormeggio stabile, accanto al cuore della città. E l’Ursus capisce, si abbandona a quel piccolo uomo che ha rischiato la vita per raggiungerlo e spiegargli che in tanti gli vogliono bene, che gli perdonano quel gesto di orgoglio e di disperazione che lo ha portato in mezzo al golfo, tra le raffiche di Bora e il mare in tempesta. I cavi d’acciaio si tendono, il pontone ondeggia, si ferma, incomincia la lenta marcia di rientro verso la città che lo attende e ha trepidato per la sua sorte. La costruzione dello scafo dell’Ursus iniziò nell’aprile del 1913 su uno scalo dello Stabilimento Tecnico Triestino e il suo varo porta la data del 28 gennaio 1914: nelle intenzioni dei progettisti doveva sollevare ai 70 metri d’altezza del suo smisurato braccio ben 350 tonnellate. Questo per rendere meno problematico l’allestimento delle artiglierie delle navi da battaglia dell’Impero di Francesco Giuseppe. Invece la guerra impedì il completamento del progetto e lo scafo rimase all’ormeggio per anni, privo dei macchinari e delle strutture di sollevamento. Alla fine del conflitto mondiale il pontone ormai divenuto italiano continuò ad essere usato come deposito di materiale del cantiere. Soltanto a metà degli Anni Venti il progetto originario venne riesumato e lo scafo fu dotato di due motori tipo Graz, rimasti in servizio per
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mezzo secolo fino al 1975, quando furono sostituiti da altri due con potenza maggiore e peso di gran lunga inferiore. La gru girevole che lo ha reso famoso in tutto il Mediterraneo, fu installata il 10 ottobre 1931. Riusciva a sollevare fino a 150 tonnellate, aumentabili di altre 20-30 con l’allagamento dei gavoni di poppa. Nella sua lunga storia operativa l’Ursus ha sollevato locomotive a vapore e littorine, carri armati e fumaioli di transatlantici, cannoni di grosso calibro per armare numerose corazzate, la copertura dell’Idroscalo di Trieste, piccole navi, relitti sezionati dai palombari con la fiamma ossidrica. Ha alzato e portato a destinazione anche i tre giganteschi giroscopi Sperry che dovevano smorzare il rollio del Conte di Savoia, il transatlantico “cugino” del mitico Rex, costruito al San Marco tra il 4 ottobre 1930, il giorno della sua impostazione, il 28 ottobre 1931 quando fu varato e il 30 novembre 1932 quando fu consegnato alla società armatrice. Tutto questo ha fatto si che il pontone-gru, che oggi ha quasi cent’anni di vita e di multiforme attività, sia diventato uno dei simboli di Trieste: come il faro della Vittoria, come la cattedrale di San Giusto o il canale del Ponterosso. Nel luglio 2011 l’Ursus è divenuto “monumento nazionale”, anche se non è ancora chiaro chi si assumerà i notevoli costi di restauro e di gestione. Queste le sue caratteristiche: mille e 12 tonnellate di stazza, dislocamento a pieno carico 2.260 tonnellate, 53,67 metri di lunghezza, 23,95 di larghezza, raggiungeva autonomamente la velocità di 4,5 nodi spinto da due eliche. L’equipaggio era di 15 persone: un conduttore, un nostromo, nove marinai, un motorista, un fuochista, un elettricista e un gruista.
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il lavoro
Chi volesse formarsi un’idea di Trieste, prima della levata del Porto franco (1891) dovrebbe immaginare un fantastico magazzino di mercanzie di ogni specie, dove il lavoro di manipolazione, carico, scarico non aveva tregua né giorno né notte. La prima impressione che avrebbe riportata un osservatore di superficie sarebbe stata quella di trovarsi in mezzo a un piccolo caos mercantile, dove ogni cosa venisse risolta dalla combinazione fortuita. È vero che quell’accatastar merci sulle rive, sui moli, nei cortili e lungo le vie; quell’andirivieni di uomini, di carri e di cavalli, poteva generare l’idea del disordine, ciò che era realmente. Ma un disordine regolato da lunga pratica ed esperienza da parte di tecnici provatissimi. Dal veliero al transatlantico, dal treno merci all’ultima carrettella spinta a braccia, tutto si muoveva sotto le direttive degli esperti, senza tregua, senza posa come presi da un vortice di una danza tutta febbre. Si può dire che a Trieste allora fossero ignorati il riposo e l’inerzia. La spinta dall’alto s’irradiava per vibrazione in ogni ambiente. Nei grandi magazzini come nei modesti depositi, nei negozi di lusso come nei botteghini di stralcio, dalle baracche, sui mercati popolari, fino ai venditori stradaioli ambulanti. La città non aveva che un moto: scambio di denaro con merci e viceversa. (da Trieste che passa 1884-1914 di Adolfo Leghissa)
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il mare di un emporio Per i moli della Sacchetta, per le androne e lungo tutte le Rive lavorava senza tregua un’umanità variegata per lingua e professione: stivadori, che avevano il compito di caricare la nave senza pregiudicarne la stabilità, piateri che trasportavano le mercanzie su barcacce (peàte), armizzadori che si occupavano di assicurare la nave ai fari d’ormeggio con gomene, carpentieri, alberanti che preparavano le antenne per l’alberatura, pegoloti che preparavano la pece per le carene, sessolote donne che avevano il compito di sgranare i chicchi di caffé o le granaglie, segatori falegnami che segavano assi di legno per le ordinate delle navi, fabbri che preparavano le ferramenta (parti in ferro) delle barche, calafai che con stoppa e pece rendevano stagno lo scafo. Nicolò Tommaseo annota il 2 novembre 1824: Di nuovo a Trieste risospinto dal tempo… Tra gli ignudi scogli dalmatici, dentro al porto deserto di San Pietro in Nembo, per l’onde del Quarnero, sulle rive ospitali di Parenzo, nella terra di Trieste, tra l’imperversar delle stoltizie de’ miei compagni di viaggio, tra il fischiar dei venti, tra il vortice della contumacia triestina ove accorgonsi genti d’ogni favella, d’ogni abito, d’ogni fede, d’ogni costume, e il Commercio dimena le sue cento lingue, io me ne andavo mormorando sottovoce… Una moltitudine affaccendata che inonda le vie, un andazzo di mercanti e di meretrici, un bisbigliare di varie lingue, un misto di varii costumi, molta industria, poco impegno, molta arte, punto studio, molto moto, poca vita tale è Trieste…
luogo di febbrile attività mercantile e marinara si trasformò negli anni Cinquanta in una sorta di “porto sportivo” dove la pesca fu l’unica attività commerciale e marinara rimasta fino a quando una decina di anni fa la Pescheria non cessò la sua attività e i pescatori furono spostati all’ex Gaslini in Scalo Legnami. Nelle pagine che seguono alcune delle immagini più significative relative alle attività della pesca e dei pescatori agli inizi del secolo sono della collezione di Mario Marzari (1947-2000). Il suo profondo amore per il mare in tutte le sue declinazioni lo hanno fatto raccogliere, collezionare e studiare nel corso della vita migliaia di volumi, riviste, fotografie, cartoline e disegni. Acuto indagatore e fotografo egli stesso, Mario Marzari è stato anche curatore di numerose mostre e allestimenti, autore di libri dal grande valore storico documentale e di articoli pubblicati su molte riviste internazionali e corrispondente dall’Italia per la rivista specializzata inglese «Classic Boat & The Boatman». Alla sua morte la moglie Alessandra Festini ha donato al Civico Museo del Mare di Trieste l’intero archivio per renderlo fruibile ad altri studiosi e dall’8 giugno del 2010 la biblioteca di questo stesso museo è intitolata a Mario Marzari.
C’era un fermento di attività, un continuo movimento di carri trainati da cavalli o buoi che trasportavano le merci dalle navi ai magazzini sparsi in tutta la città o viceversa, ambulanti che vendevano merce di vario tipo, agenti, mediatori, procacciatori di affari ecc. Tutti anche se di nazionalità diversa alla fine si comprendevano usando come lingua franca il triestino. Con la perdita del Porto Franco nel 1891, la situazione gradualmente mutò. Le rive e la Sacchetta si decongestionarono e tutto il traffico si spostò all’interno del Porto Franco Nuovo. In Sacchetta rimasero le maone che scaricavano sabbia e pietre per i lavori di imbonimento o di costruzione di nuove parti della città, le barche dei pescatori o i mercantili che aspettavano il loro turno per poter scaricare la merce nel nuovo porto o per fare qualche lavoro di manutenzione. Comparvero le prime zattere galleggianti sedi di società sportive per il canottaggio e lo yachting, vennero costruiti i primi bagni pubblici. Lentamente nel corso dell’ultimo secolo la Sacchetta da porto principale della città cambiò la sua destinazione d’uso e da
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Il Molo Giuseppino Velieri e vapori ormeggiati al Molo Giuseppino in questa originale fotografia scattata dal tetto della Pescheria.
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Molo Giuseppino, 1918 Scaricatori in attesa accanto a un carro. Uno dei tre facchini ha alla cintura il classico sacco che gli avrebbe protetto il capo, le spalle e la schiena nel caso avesse dovuto sbarcare o imbarcare merce polverosa, sporca e ingombrante.
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Il mare vuoto La Sacchetta è completamente “vuota”. Né piroscafi, né trabaccoli né tantomeno imbarcazioni a a vela o canoe delle società remiere sono visibili nel ristretto “braccio di mare” ripreso in modo inusuale, dalla banchina antistante la stazione della ferrovia, in direzione della città. A destra maone e scafi in disarmo.
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Chi di noi non ricorda i chioggiotti? Voglio dire: chi di noi, cresciuti sulle coste adriatiche, non ricorda i pescatori di Chioggia, che, scendendo dai loro bragozzi, si aggiravano familiarmente sui nostri moli? Era facile riconoscerli, non soltanto dalla parlata, molle e tuttavia non priva di energia, ma anche dal loro modo di vestire: dalle ruvide brache alquanto corte, e dagli zoccoli soprattutto, che d’inverno essi portavano assieme a grossi calzerotti di lana. C’era rumore di zoccoli sul lastrico dovunque passasse un chioggiotto; e in genere essi giravano in due o in tre. Certe sere d’estate, poco dopo il tramonto, quando la luce, impallidendo, durava ancora nell’aria, lungo i moli di Trieste, nei pressi della Pescheria e nella Sacchetta, si accendevano alcuni fuochi. Erano le barche chioggiotte: un fuoco in ogni barca; e, accanto al fuoco, un uomo intento a rimestare la polenta. Polenta e sardelle: era la cena dei chioggiotti. Mangiavano raccolti in cerchio sopracoperta, e poi rimanevano lì, chiacchierando e fumando la pipa, sinché durava la luce, e anche più tardi. Chi passava per di là, udiva talvolta le loro voci nel buio, accanto all’ultima brace. (I Chioggiotti di Pier Antonio Quarantotti Gambini, in Luce di Trieste)
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A bordo Un momento di pausa per la ciurma, panni stesi ad asciugare sul boma, facce stanche e consunte dalla salsedine.
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Il pranzo Giovani marinai stanno allegramente consumando il pranzo, alle loro spalle si nota la gran quantitĂ di imbarcazioni ormeggiata fra il Molo Sartorio e la riva. A sinistra si intravede la casetta dei piloti.
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Pesca fortunata Pescatori rientrati in porto preparano le cassette di pesce da presentare all’incanto in Pescheria o forse sperano di venderlo direttamente sui moli.
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Alberi Una selva di barche e alberature rientrate forse dopo una notte di pesca, sullo sfondo a sinistra si intravedono le sedi galleggianti delle societĂ sportive.
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Il Molo Sartorio Sul Molo Sartorio, in primo piano un marinaio osserva i trabaccoli su cui sta lavorando un gruppo di uomini, mentre un manzo pascola tranquillamente, sullo sfondo la Casa Sartorio, a destra si scorge la casa galleggiante sede dello Yacht Club Adriaco.
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Occhi, tricolori e stelle C’è uno stretto legame tra questi bragozzi e la Pescheria Centrale. Sulle prue al posto dei tradizionali “occhi” le barche esibiscono altrettanti tricolori, con tanto di stemma sabaudo. Sulla facciata della Pescheria i bragozzi in altorilievo, realizzati da Ambrogio Pirovano, al posto degli occhi esibiscono la stella d’Italia. Una provocazione sfuggita nel 1913 alle autorità austriache.
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Il Molo Venezia negli anni Trenta In primo piano un bragozzo con un lunghissimo bompresso e le enormi vele. L’equipaggio è a bordo e ha steso i panni ad asciugare su un improvvisato cordino. All’estrema sinistra è riconoscibile la sede di mattoni rossi dell’Adriaco e, sulla destra, sono ben visibili la Lanterna e il vaporetto “San Marco” 276 tonnellate di stazza, 49,5 metri di lunghezza, costruito a Monfalcone nel 1911 per la Società di Navigazione a vapore Istria-Trieste. Un piroscafo sfortunato. Nell’inverno terribile del 1929 mentre navigava tra Isola e Pirano fu
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investito da ondate altissime che spazzarono il ponte di comando e trascinarono in mare un marinaio, morto annegato. Il 9 settembre 1944 mentre era al comando del capitano Millo Rassevi e navigava da Umago verso Trieste, fu attaccato da aerei alleati che lo mitragliarono e lo bombardarono. Il fumaiolo fu dilaniato così come il ponte di comando e a bordo si sviluppò un devastante incendio. Il San Marco col timone bloccato si incagliò sulla scogliera di Punta Salvore. L’attacco costò la vita a più di 150 incolpevoli passeggeri e marinai.
Gli ultimi trabaccoli L’acqua in coperta, la pompa di sentina in costante azione, il diesel che borbotta. Uno degli ultimi trabaccoli sta attraccando al Molo Venezia con il suo povero carico di sabbia. La foto, scattata nel 1964, racconta il crepuscolo del tradizionale veliero che per più di 200 anni ha solcato le acque dell’Adriatico trasportando merci di ogni genere. Da Trieste a Otranto, da
Lussino alla Romagna, a Fiume, a Ragusa gli scafi sono stati del tutto uguali. Fino ai primi decenni del Novecento il trabaccolo ha navigato usufruendo di grandi vele al terzo. Poi subentrarono i primi motori e le eliche mentre i due alberi diventavano sempre più corti. Spariva anche il bompresso, l’albero suborizzontale che sporgeva dalle prue.
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Trabaccoli e barchetti Nell’immagine in alto a destra gli ultimi trabaccoli attraccati alla banchina del Molo Venezia nell’aprile del 1964 carichi di sabbia. È il gradino più basso nella scala sociale dei trasporti e dei profitti, il canto del cigno di un piccolo veliero che per più di due secoli ha collegato i porti dell’Adriatico. In basso vediamo che sullo stesso Molo Venezia, ma sul lato Nord, attraccavano barche da pesca molto simili al trabaccolo, ma di dimensioni minori. Si chiamavamo “barchetti” e nei bassi fondali dell’alto Adriatico calavano le reti a strascico, conosciute anche come “a tartana”.
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Legera, Legeron, Vanessa Tre imbarcazioni da pesca triestine hanno esibito questi nomi dipinti sui loro scafi. Gli equipaggi lavoravano formalmente per cooperative, consorzi, o società non ben definite negli scopi e negli organigrammi perché mutavano di continuo sede e ragione sociale. Certo è che tutte facevano riferimento ad un unico armatore. Si chiamava Toni Lorello, non amava rispettare alla lettera regole e gerarchie; gli appioppavano multe e sanzioni per aver violato qualche norma sulla pesca, sui punti del golfo in cui calava le reti, sull’uso della nafta super che, lo accusavano, troppe volte finiva anche nei serbatoi di alcune vetture. Era in buona compagnia in questi “travasi” Toni Lorello e rideva quando citava il nome di un famoso e ricco manager di una società di salvataggi, bloccato dalla finanza con due taniche ben strette nelle mani mentre usciva dal Pontile Istria per rifornire la sua potente automobile. Toni Lorello pensava e pescava a modo suo. Al termine di una notte infruttuosa, ormeggiò la “Vanessa” al pontile della Siot. Non c’erano petroliere. Fece calare la saccaleva, accese le lampare. La rete si riempì presto di cefali. Guizzanti e abbondanti. Una pesca miracolosa, impossibile in altre zone del golfo invano battute nelle ore precedenti con lo scandaglio a colori. Era quasi giorno quando la “Vanessa” sciolse le cime dall’ormeggio “proibito” dell’oleodotto. Nessuno l’aveva disturbata nonostante le migliaia di watt delle sue lampare. La luce intensa attirava i pesci, ma apparentemente non era vista dagli uomini. Un’ora più tardi i cefali erano al mercato all’ingrosso, ancora ospitato dalla Pescheria Centrale. Anche lì la vendita non subì scossoni o rallentamenti. E l’incasso fu buono, anzi trionfale. I cefali targati Siot finirono nelle rivendite rionali. Dopo alcuni giorni il mistero delle lampare non viste fu chiarito. Quella notte non c’erano in golfo motovedette di pattuglia. All’epoca, molti, molti anni fa, uno degli uomini della “Vanessa” restava a terra, all’imboccatura della Sacchetta, dove ancora oggi sono ormeggiati motoscafi della Guardia di Finanza e dei Carabinieri. Osservava le prue, le contava con attenzione e riferiva a Toni e al suo equipaggio col “baracchino”, se qualcuna stava per avviarsi verso l’agguato. Ovviamente usava un gergo, un linguaggio cifrato. Per evitare la Capitaneria non c’erano invece problemi. In quegli anni i diesel delle motovedette targate “Cp” erano talmente rumorosi che il loro rombo da Barcola raggiungeva il molo Audace, e dalla parte opposta quello carboni. Avviandoli all’alba avrebbero svegliato migliaia di persone. Va ricordato che dopo qualche anno quei diesel provvidenziali furono mandati in pensione e la “Legera”, il “Legeron” e la “Vanessa” finirono di conseguenza in disarmo. Fermo pesca, specie alla Siot.
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Un gesto antico di millenni Le reti da pesca venivano tessute in canapa dalle donne della famiglia o dai più anziani, a cui l’età avanzata precludeva lavori più pesanti. Poi venivano tinte, immergendole nell’acqua bollente assieme a pezzi di corteccia di pino. Il tannino conferiva alla canapa un colore bruno rossastro e rendeva le reti più durevoli, preservandole dalla macerazione e dalle muffe. La loro tessitura seguiva regole precise, dettate dalla profondità a cui dovevano essere calate. Le reti più leggere, quasi trasparenti, erano usate per i bassi fondali; quelle più pesanti per le profondità maggiori dal momento che resistevano meglio agli sforzi per riportarle – cariche di pesce – in barca. Ma non basta. Anche le dimensioni delle prede condizionavano la larghezza delle maglie. In questa immagine realizzata negli Anni Ottanta sul retro della piscina, un piccolo gruppo di anziani pescatori sta rammendando le reti stracciate durante la notte precedente. Il loro è un gesto antico di millenni, oggi difficile se non impossibile da osservare sulle rive o sui moli di Trieste. Nelle immagini successive si vede come fino all’epoca della motorizzazione di massa il selciato delle rive della Sacchetta diveniva laboratorio di rattoppo delle reti dei pescatori. Lavorano seduti a terra, in maniche di camicia come mostrano queste immagini di Mario Magajna. Siamo nel settembre del 1950. In fondo vediamo una garrita sulle Rive che ritorna anche nell’immagine della pagina successiva. La garrita Reti al sole e, dietro la garrita in cemento destinata ai malcapitati finanzieri “comandati” a sorprendere contrabbandieri o poveri cristi che durante la guerra cercavano di procurarsi un po’ di sale, prelevando un fiasco o due di acqua di mare. Quelle garrite, sparse a piene mani sulle rive della Sacchetta, ma anche più in là, rappresentavano vere camere di tortura: forni d’estate, frigoriferi d’inverno.
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Tre tonni Tre tonni congelati vengono sbarcati, appesi per le code, da un peschereccio sul Molo Fratelli Bandiera dove all’epoca avevano sede i Frigoriferi Generali. Dalla Sacchetta all’Atlantico Sul suo scafo d’acciaio, a poppa e a prua era scritto “Selene”: questo era il nome del peschereccio triestino che negli anni Sessanta assieme al gemello “Oceanus”, calava la propria rete a strascico a Nord dei banchi di Arguin, Mauritania, Africa Occidentale. «La rete veniva calata ogni tre ore» spiega Raffaello Moradei, imbarcato sul “Selene” come mozzo di coperta. All’epoca era uno studente del terzo anno dell’Istituto Nautico di Trieste in cui due estati più tardi si sarebbe diplomato. Ora è un pilota in pensione del Porto di Venezia, non va più per mare nemmeno per piacere, e ricorda con tenerezza e ironia quel suo primo imbarco. L’unico della sua lunga navigazione a bordo di un peschereccio. «La rete restava in mare per un’ora e mezzo. Poi veniva salpata e riversava in coperta il suo guizzante contenuto. Noi dividevamo subito i pesci. Da una parte i pregiati: cernie, palombi, razze, grossi sgombri. Dall’altra i comuni. Finivano tutti in una cella di congelamento a 30 gradi sotto zero. Poi sarebbero stati conservati a meno 18. Buttavamo invece in mare il pesce che non aveva valore commerciale». I ritmi con cui la rete veniva calata e salpata, 24 ore su 24, sette giorni su sette, condizio-
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navano la vita di bordo. «Due ore di lavoro, una di sonno. Ma era un sonno pesantissimo, ristoratore. Avevo 17 anni e non sentivo la fatica. A bordo eravamo in 26 e dormivamo all’estrema prua». «Il Selene era stato costruito in base a un progetto olandese. Credo al Navalgiuliano» racconta Raffaello Moradei. Dalla sua “matricola” conservata in un cassetto della sua bella casa di Rialto, risulta che il “Selene” aveva un stazza di 602 tonnellate, era lungo 56 metri e il suo diesel Man da 1.310 cavalli gli consentiva di raggiungere con l’unica elica una velocità di 13-14 nodi. «Ma noi durante la pesca andavamo sempre più piano man mano che la rete si riempiva. Non eravamo soli su quella platea continentale. Vedevamo attorno a noi enormi pescherecci giapponesi, coreani e sovietici. Tutti con lo scivolo a poppa che agevola i movimenti della rete. Noi invece la salpavamo dal lato sinistro dello scafo. Una tecnica superata. I soldi erano pochi per tutti. Poi capii quale fosse il vero business…». Il vero business era rappresentato da decine e decine di casse di sigarette che venivano acquistate a Las Palmas, nella Gran Canaria. Nel viaggio di ritorno a Trieste il “Selene”, al largo di Giulianova, le distribuiva a piccoli pescherecci che venivano sotto bordo. Appuntamenti volanti. Tutto l’equipaggio partecipava all’affare. «L’unico escluso ero io, perché ero al primo imbarco e forse non si fidavano. Sui pescherecci che portavano a terra le sigarette, erano imbarcati molti parenti di uomini del nostro equipaggio. Un affare di famiglia…».
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lo svago
Apertura alle ore 5 del mattino nel mese di agosto, alla 6 nel mese di settembre, chiusura alle 22 in agosto, alle 20 in settembre. Nel caso il mare fosse agitato e minacciasse la sicurezza dei bagnanti, lo stabilimento verrĂ immediatamente chiuso per essere riaperto a pericolo cessato. Ăˆ vietato bagnarsi fuori dai luoghi a ciò destinati. I bagnanti devono indossare almeno mutande i maschi e le femmine una vestaglia. Soltanto bambini accompagnati, possono accedere al reparto donne. Ăˆ vietato condurre cani, cavalli e altri animali. Sono rigorosamente vietati canti e schiamazzi, il lancio dei sassi e ogni altro atto molesto o pericoloso per la sicurezza delle persone. Imperial Regia Direzione di Polizia
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i bagni pubblici Il clima di Trieste, checché ne sia stato detto, deve chiamarsi buono. L’aria vi è pura, amena la posizione e, dopo l’apertura della ferrovia anche quella polvere di cui ci si lagnava tanto, per il frequente passaggio dei rotabili sulla nuova strada di Opicina, si è diminuita di molto. L’acqua del nostro mare è ottima, limpidissima, e contiene tutti i principi che sono utili per quelli che hanno bisogno di prendere i bagni di mare. Furono stabilite varie galleggianti all’uopo. (da Tre giorni a Trieste di P. Formiggini, P. Kandler, P. Revoltella e G.B. Scrinzi)
Per i triestini, come giustamente sostiene Mauro Covacich nel suo Trieste sottosopra, a Trieste il mare è semplicemente un lato della stanza, ti alzi al mattino e sai dov’è, stai dove stai e sai che c’è. Viene percepito in modo diverso da qualsiasi altra città o località balneare, qui c’è più prossimità, più confidenza con il mare, non a caso si dice “andar al bagno” per indicare che si va al mare, quasi a dire che si va scalzi o al massimo in ciabatte in un luogo prossimo, vicino, familiare e non solo fisicamente Fin dagli inizi dell’Ottocento c’era per i triestini la consuetudine di fare i bagni di mare, esistono testimonianze nelle cronache cittadine di bagnanti presenti lungo la riva di Sant’Andrea e alla base esterna (verso il mare aperto) del Molo Teresiano. Il primo bagno pubblico fu Il soglio di Nettuno, un bagno galleggiante dall’aspetto elegante e imponente, aperto nel 1824 in Sacchetta nei pressi del Molo Giuseppino a cui si accedeva attraverso una passerella. Dotato di molti comfort, offriva alla sua clientela – per la maggior parte borghesia italiana e tedesca – cabine per spogliarsi, vasche per immersione con acqua calda e fredda, un servizio di caffetteria e addirittura una mostra di flora e fauna marina. Il successo dell’iniziativa fu enorme e molti imprenditori seguirono l’esempio. Poco dopo, infatti, aprì il Bagno Buscaglia (in seguito Buchler) posto proprio in centro città di fronte a Piazza Grande: lo si poteva raggiungere con un vaporetto, aveva una struttura completamente smontabile e d’inverno soggiornava a ridosso del Molo Teresiano in Sacchetta. Fra tutti però, il più bello, il più grande e il più famoso fu il Bagno Maria realizzato nel 1858 dai cantieri Strudthoff e posizionato davanti all’Hotel de la Ville. Ma le strutture galleggianti purtroppo si sa sono alla mercé degli elementi e, infatti, scomparirono tutte dopo la terribile mareggiata del 1911. Anche la Marina, attenta alla salute dei suoi militari, costruisce nel 1830 uno stabilimento galleggiante ancorato verso la Lanterna, la Scuola Militare di Nuoto,
“Al bagno” Donne si apprestano a prendere il sole al Bagno Militare, sullo sfondo la Lanterna e la tettoia in legno dell’omonimo bagno. Nella foto sotto uomini placidamente immersi in acqua. Uomini e donne erano separati e avevano a disposizione due zone diverse dello stabilimento e guai a contravvenire al regolamento. Oggi questa divisione è sopravvissuta solo allo stabilimento alla Lanterna, meglio conosciuto come “Pedocin”.
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Il Bagno Fontana Fine ’800, la sontuosa facciata del Bagno Fontana. Il bagno venne demolito di lì a pochi anni durante i lavori di ampliamento delle Rive. Nella foto panoramica della pagina accanto, realizzata da Giuseppe Wulz negli anni Novanta dell’Ottocento, si nota davanti alla Lanterna il Bagno Fontana e, tra i binari, le cataste di quello che fu lo scalo legnami.
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all’inizio riservato solo ai militari, ma poi ristrutturato e ampliato viene frequentato anche dalla buona società austriaca. Verso la fine dell’Ottocento si ha l’apertura del primo bagno popolare, all’estremità del Molo Teresiano, mentre alla sua radice, nel 1890, ne viene eretto un altro, il Bagno Fontana, destinato ad una clientela borghese che poteva permettersi di pagare un biglietto e la corsa del tram a cavalli che lo collegava con la città. Questo stabilimento però ha vita breve, scompare, infatti, con i grandi lavori di sistemazione del Porto agli inizi del ’900, che prevedevano fra l’altro anche l’ampliamento delle Rive da Riva Grumula alla Caserma di Marina (ex Lazzaretto Vecchio) e Campo Marzio con la costruzione della Stazione Transalpina. Il problema dei bagni pubblici però non viene accantonato dal governo della città che anzi pattuisce una convenzione con l’Imperial Regio Governo Marittimo con la quale il Comune si garantiva – in virtù anche dell’aumento della popolazione – una porzione di riva maggiore del Molo Teresiano, (ex zona scalo legnami, verso il mare aperto) da destinare a bagno pubblico o da dare in concessione a privati. Così nasce il nuovo popolare Bagno alla Lanterna, originariamente una struttura in legno, negli anni ’30 eretta in calcestruzzo. Nel 1909 nasce il Nuovo Bagno Militare posizionato alla base del Molo Teresiano verso Sant’Andrea, costruito su una struttura di legno a palafitte, lungo 40 e largo 43,5 metri, con un’altezza di 3 metri sopra la media bassa marea. Dotato di 120 cabine, di una vasca di 15 per 30 metri per nuotatori provetti, di due vasche più piccole per i meno esperti e di una zona riservata alle donne. Lungo il pontile di accesso che misurava ben 86 metri, c’erano due sale d’aspetto, buffet e servizi. L’accesso era libero tranne che negli orari riservati ai militari. Nel 1919, dopo la Grande Guerra, lo stabilimento è messo all’asta e acquistato nel 1920 dal cavalier Bartolomeo Vigni che s’impegnò a cambiare denominazione da Bagno Militare a Bagno Savoia. Nel 1932 il bagno subisce una totale trasformazione sul progetto dell’architetto Franceschina, le vecchie strutture di legno sono sostituite con un’opera in calcestruzzo e cemento armato, le cabine diventano 400, viene dotato di un servizio ristorante, di un guardaroba, di parcheggi e secondo il regolamento vigente di bagnino munito di imbarcazione per qualsiasi operazione di salvamento, inoltre, cosa alquanto curiosa, di un macchinario per la respirazione artificiale per gli asfittici.
Il Bagno Militare In questa immagine scattata dalla Lanterna, si vede in primo piano il primo Bagno Militare. A destra alcuni bagnanti. Lo stabilimento sarà demolito agli inizi del ’900 durante i lavori per l’ampliamento del Molo Teresiano.
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Il Molo Teresiano Decine e decine di tronchi d’albero accatastati dicono che la banchina veniva usata come scalo legnami. Sulla sinistra sono visibili i binari di un raccordo ferroviario.
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Il Bagno Militare e la Lanterna In quest’immagine realizzata nel 1902 si nota l’ampia area libera alla base del faro, oggi al contrario circondato, quasi asfissiato, da magazzini, caserme, depositi, parcheggi.
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Il Bagno Militare A pochi metri dalla Lanterna, accanto al Bagno Fontana, si sono gettati in mare con i pantaloni rimboccati sopra il ginocchio. Scopo evidente quello di raggiungere l’estremità della staccionata e buttare l’occhio dall’altra parte. Cosa realmente attirasse questi giovani non è certo, comunque nel 1904, quando questa foto è stata scattata, la separazione tra uomini e donne in riva al mare era tassativa.
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l’ausonia Ad una distanza di circa 37 metri dal Bagno Savoia e a 19 metri dalla Riva Traiana sorge nel 1935 il Bagno Ausonia. Realizzato in cemento armato con le più moderne tecniche di costruzione e tra le prime realizzate in Italia con il metodo dei pilotis (piloni tipo palafitte che permettevano di far partire la costruzione dal primo piano lasciando libero il piano terra) il nuovo stabilimento doveva offrire alla sua clientela quanto di meglio si poteva avere per lo sport e per la cura del corpo, siamo in pieno “ventennio” e la pratica dello sport è uno dei pilastri su cui poggia tutta l’ideologia fascista. Il progetto, infatti, prevede ampi spazi per le attività ginniche dotati di tutti i più moderni attrezzi, una vasca di 50 metri per praticare il nuoto con tanto di scalinate e tribune per assistere alle gare, trampolini di 3, 5, e 10 metri. Nel 1936 il Savoia e l’Ausonia vengono unificati e diventano lo Stabilimento Ausonia. Negli anni svolse a pieno le sue funzioni di polo sportivo e ospitò i Campionati Nazionali di Nuoto femminile nel 1938, 1941, 1947 e il Campionato di Nuoto Maschile nel 1939 con grande partecipazione di pubblico poiché molti dei nuotatori erano triestini. Oltre allo sport c’era anche altro, possiamo dire infatti che l’Ausonia sia stato una sorta di beauty farm ante litteram: lo stabilimento offriva parrucchiere, callista, un servizio di massaggi, bagni terapeutici seguiti da un medico, solario riservato alle donne che volessero prendere il sole “integrale” e ancora, per chi volesse passare tutta la giornata al mare, non mancavano un servizio ristorante e sale di servizio. Insomma uno stabilimento modello che poteva ospitare fino a 2000 persone. Nel 1953 a causa di una fortissima mareggiata le strutture subiscono gravi danni in seguito ai quali vengono fatti ulteriori lavori di ristrutturazione e ampliamento. Per oltre mezzo secolo è stato uno degli stabilimenti più amati dai triestini intere generazioni hanno imparato a nuotare, a tuffarsi, hanno flirtato, ballato, passato giornate intere. Poi lentamente la struttura per incuranza e mancanza di manutenzione ha iniziato a cedere, tanto che nel 1995 il trampolino di 5 metri è precipitato in acqua con una decina bagnanti: per fortuna in quel momento non c’era nessuno che nuotava sotto… Oggi è in gestione a una cooperativa, sono state demolite tutte le cabine in legno e della struttura rimangono solo la piattaforma, la vasca natatoria e il solarium ma è ancora affollatissimo e amato dai triestini.
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Una giornata d’agosto In questa e nelle pagine successive una serie di fotografie che mostrano lo Stabilimento Ausonia all’apice del suo fulgore. Le foto a pagina 130 sono state fatte nell’agosto del 1936, mentre quella grande è stata scattata nell’agosto del 1937. Si vede bene la struttura dei trampolini che culminava con un orologio. Una curiosità: tutte le immagini sono state scattate attorno a mezzogiorno.
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All’Ausonia, anni ’50 Sane e sportive “mule” triestine fanno bella mostra di sé in vari momenti di una giornata passata allo stabilimento. Il momento della doccia gelata dopo un tuffo in mare o mentre si apprestano a tuffarsi sotto lo sguardo ammirato dei ragazzi. Negli anni ’50 era ancora integra la struttura dei trampolini, oggi non più esistente. La piattaforma raggiungeva i dieci metri di altezza, quella intermedia i cinque.
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pedocin Da sempre la zona preferita dai triestini per fare il bagno era quella lungo il Molo Teresiano intorno alla Lanterna. Verso la fine dell’Ottocento sorse un bagno popolare vicino al Bagno Fontana, era una struttura in legno senza alcun servizio tanto che se volevi appendere i tuoi vestiti dovevi portarti un chiodo e batterlo sulle travi, da cui il suo primo nome: Ciodin. Con i lavori di sistemazione del porto all’inizio del ’900 anche questo stabilimento come il Bagno Fontana fu smantellato. Una volta conclusi i primi lavori di ristrutturazione del Molo Teresiano il Comune riuscì a farsi concedere uno spazio ancora più ampio del precedente e vi eresse il nuovo Bagno alla Lanterna, una struttura con una lunga tettoia in legno che fungeva anche da spogliatoio, recinzioni che arrivavano fino al mare e uno steccato che divideva la zona riservata alle donne e ai bambini da quella riservata agli uomini, con tanto di bagnino munito di barca. Il nuovo bagno fu subito affollatissimo tanto da meritarsi il nome di Pedocin (un tacà all’altro come i pedoci); in realtà sull’origine del nome ci sono varie interpretazioni: il bagno era frequentato all’epoca anche da molti soldati che erano infestati dai pidocchi. La divisione fra uomini e donne all’interno dello stabilimento era rigorosa, tanto che chi sconfinava doveva vedersela con la polizia; anche l’abbigliamento doveva essere consono e adeguato: mutande da bagno per gli uomini e “vestaglia” per le donne. Negli anni ’30 viene completamente ristrutturato con opere in calcestruzzo e lo steccato divisorio diviene un muro. Da allora il bagno più amato dai triestini non è cambiato per nulla. Il muro divisorio esiste ancora e guai abbatterlo, i triestini sono gelosi della loro privacy. Nella parte delle donne si continua a stare come “pedoci”, mamme e nonne con bambini, che a mezzogiorno cominciano a tirar fuori dalle borse sardoni o fetine impanade, commesse e impiegate che rubano l’oretta della pausa pranzo per farsi il toc’ (tuffo) quotidiano, le “vecchie habitué” con la pelle come il cuoio che iniziano la stagione con il primo sole, alle quali, se per caso rubi il posto abituale, devi alzarti e lasciarglielo perché loro – le habitué – hanno il loro posto da… decenni ormai.
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“El pedocin” Una veduta aerea della Lanterna ai giorni nostri, l’affollato “Pedocin”, l’Ausonia e sullo sfondo i pontili della Lega Navale. A destra una suggestiva immagine del Bagno alla Lanterna che sembra quasi rievocare le parole della bella canzone di Enrico Ruggeri Il mare d’inverno («Il mare d’inverno, è solo un film in bianco e nero visto alla tv. E verso l’interno, qualche nuvola dal cielo che si butta giù… Passerà il freddo e la spiaggia lentamente si colorerà…»).
Quando il bagno era deserto con le docce tristi imbiancate di calce che si susseguivano su una sola riga coi loro cannelli asciutti, scendevano i soldati. Pareva essere tutto sereno intorno: a quell’ora non c’era più nessuno dei bagnanti del mezzogiorno.La spiaggia era divenuta grigia e azzurra, lontana, con la città fumosa di ciminiere e di fabbriche dietro la Lanterna. Scendevano i soldati coi loro grossi vestiti di lana verde pregni di polvere e di sudore: si spogliavano lentamente al riparo del vento liberandosi con un respiro di sollievo della giubba e delle fasce alle gambe: immergevano i piedi nell’acqua. Erano bianchi e affaticati. Sulla spiaggia verso le otto comparivano gli operai del cantiere con un disegno di sole sul petto fin dove arriva la camicia, il resto del corpo pallidi, con le vene delle braccia in rilievo: qualcuno aveva dei tatuaggi, ma solo chi era stato un tempo marinaio. Allora avevano il desiderio e il coraggio di spogliarsi per un bagno anche due uomini con le barbe lunghe e nere che sembravano ebrei: erano vestiti di
panno grosso, con cappelli rotondi sul capo, neri. Sceglievano un posto isolato sulla riva a sassolini chiari, spiccavano da soli come due fantocci. Il vento li faceva gonfi nelle camicie e ne uscivano con due braccetti magri ed esangui, con un petto su cui stava appuntato un giustacuore. Non si immergevano mai completamente, neanche a bagnarsi la barba, e conservavano il cappello sulla testa come a riparare una cosa preziosa. Forse erano due preti israeliti: né qualcuno a quell’ora avrebbe potuto meravigliarsi della loro prudenza. Passava il vaporetto di San Nicolò con le musiche allegre dei gitanti e dei forestieri nelle cabine gialle di luminarie: allora le ondate scompigliavano gli esuli bagnanti della Lanterna. Quando il San Nicolò aveva superato il faro tornava l’azzurro plumbeo del cielo a calmare le acque. (da Una patria da trovare di Graziana Pentich in Scrittori triestini del Novecento)
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andare a vela Il primo, lo Yacht Club Adriaco, nasce il 21 marzo 1903 da un incontro di appassionati velisti e ferventi irredentisti tenutosi nel lussuoso Hotel de la Ville sulle Rive. Di sicuro le tendenze politiche dei fondatori erano note al governo austriaco e fu per questo che furbescamente come primo presidente fu scelto il comandante della Marina Militare Austroungarica Vittorio Bousquet. L’autorizzazione da parte del Governo, arrivò, senza intoppi, il 31 marzo 1904. La sede fu posta a bordo di un vecchio “pielago” ormeggiato in Sacchetta mentre le imbarcazioni dei soci avevano ottenuto il permesso di ormeggiarsi lungo il Molo Sartorio. Nel 1907 la prima regata, percorso Trieste-Miramare e ritorno che si conclude con la sfilata delle imbarcazioni davanti al Molo San Carlo (oggi Molo Audace) assiepato di spettatori ammirati. Nel 1912 viene ormeggiata in Sacchetta,nello spazio oggi occupato dal Pontile Istria, la nuova sede galleggiante costruita dal cantiere Voltolina di Muggia. Dopo l’intermezzo drammatico e sanguinoso della Prima Guerra Mondiale la Sacchetta ritorna ad animarsi. L’Adriaco riprende l’attività sportiva e “poiché non tutti possono essere soci dello Yacht Club Adriatico” come recita la lettera di autorizzazione della Prefettura, il 2 luglio 1923 nasce dall’idea di nove amici riuniti al Caffè Tommaseo, la Filonautica Triestina. È una nuova associazione aperta a tutti gli amanti del mare e dello sport della vela. La sede viene fissata su una vecchia brazzera ancorata in Sacchetta. Il successo dell’iniziativa è immediato, le adesioni alla nuova associazione si moltiplicano. La brazzera a breve scadenza non sarebbe stata più in grado di accogliere tutti i soci. Ma proprio in quegli anni lo Yacht Club Adriaco per gli stessi motivi di sovraffollamento aveva avviato la costruzione di un’ampia palazzina in mattoni rossi, in testa al Molo Sartorio. Il 4 novembre 1925 con una solenne cerimonia e con tanto di sfilata delle barche sociali nel bacino San Giusto, il presidente Antonio N. Cosulich inaugura la nuova sede dello Yacht Club Adriaco. Nel 1925 la Filonautica Triestina acquista la vecchia casa galleggiante e ne fa la nuova e più consona sede al suo numero crescente di soci. L’attività sportiva dei due circoli anima la Sacchetta. Frequenti le feste, i ritrovi e le regate di Cut Boat e Passere Lussignane. Gli eleganti scafi dei 6 o 8 m. S.I. degli armatori dell’Adriaco fanno bella mostra di sé lungo la banchina del Molo Sartorio, e raggiungono importanti risultati sportivi. Nel 1926 per la prima volta l’Adriaco organizza una regata di 6 m. S.I. per soli equipaggi femminili. Mentre nel
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1931 la Filonautica Triestina cambia nome e diventa la Società Triestina della Vela. Negli anni ’30 all’Adriaco iniziano a far capolino nomi che poi entreranno nella storia della vela: Tito Nordio, Luigi de Manincor, Carlo Strena, Mario Salata, Gino Paolin, Gino Natali, Bruno Pancrazi, Gabrio de Szombathely, i fratelli Moscovita, Giorgio Machne, Nico Rode, Pietro Gorgatto. Nel 1936 all’Olimpiade di Kiel, Luigi de Manincor e Mario Salata fanno parte dell’equipaggio del 8 m. S.I. Italia che vince l’oro. In Sacchetta iniziano a veleggiare le prime Star. Tito Nordio, Mario Salata, Nico Rode diventano i protagonisti indiscussi di questa nuova classe. La stagione fortunata continua anche nel dopoguerra. Nico Rode fa coppia fissa con Straulino sulla Star e diventano leggenda. Sergio Sorrentino partecipa alle Olimpiadi nella classe Dragoni. Ottaviano Danelon, Bruno Dequal, Franco de Denaro, Carlo Lapanje, Claudio Toffaloni primeggiano nelle Star. La Triestina della Vela in quegli anni consolida le basi dell’associazione anche grazie alla forte personalità dei suoi primi dirigenti. Riccardo de Haag (Barbanera), Paolo Pupis, Marsilio Vidulich solo per citarne alcuni sono stati capaci di coinvolgere nel loro progetto decine di soci, entusiasmandoli e motivandoli. In questo modo il circolo cresce e si radica nel territorio. Di storia della vela, della marineria e della cantieristica si occupa l’Associazione Marinara Aldebaran, nata nel 1951. L’associazione per un periodo è stata ospitata all’interno del Civico Museo del Mare; ora la sua sede è posta sul Molo Fratelli Bandiera, in un edificio a pochi metri dalla Lanterna. Non ha pontili, non possiede imbarcazioni, non organizza regate, ma la sua attività influenza l’ambiente culturale e marinaio non solo cittadino. Il suo “tesoro” è rappresentato da una biblioteca con più di 4.000 volumi dedicati alla storia, alla cantieristica, alle società di navigazione. Sono conservate nell’archivio anche migliaia di fotografie e centinaia di documenti e progetti. Negli anni ’50 Paolo Pupis, assieme ai presidenti delle società di canottaggio, riesce a portare a termine la costruzione del Pontile Istria su cui il 22 gennaio 1956 viene inaugurata anche la nuova sede della società. La Sacchetta con la costruzione della piscina e del Pontile Istria diventa un vero porto sportivo. Nel suo bacino ancora libero dai pontili, galleggianti e non, bordeggiano le derive degli allievi dei due circoli velici che iniziano a cimentarsi in questo sport. Diventa una sorta di palestra, dove provare i primi bordi, le prime strambate, le prime regate, e poi finalmente prendere il largo. Alla Triestina della Vela si punta molto sull’addestramento teorico e pratico dei giovani. Sin dal 1948 vengono attivati i primi corsi. Il direttore sportivo Mario
4 novembre 1925 Sfilata delle barche sociali in Bacino San Giusto per l’inaugurazione della nuova sede dello Yacht Club Adriaco.
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Sfilata nel Bacino San Giusto L’inizio della sfilata nel Bacino San Giusto e il Molo Sartorio addobbato a festa per l’inaugurazione della nuova sede sociale dello Yacht Club Adriaco.
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Finozzi si mette d’impegno e i risultati si vedono negli anni a seguire. Atleti come Giorgio Brezich, Franco Ostoich, Giorgio Giani, Piero Napp, Giuseppe Terdoslavich, Giorgio Radin, Giorgio Ferin, Pietro Barcia, Bruno Catalan, Arrigo Fonda, Roberto e Vincenzo Distefano, conquistano per vari anni consecutivi il titolo italiano juniores delle classi giovanili. Ma non bisogna dimenticare neanche l’apporto dei soci come Brunetto Rossetti, armatore del mitico “Nibbio”, sul quale hanno regatato generazioni di giovani allievi, o Lucia Giurco “Lucetta” armatrice di “Lucy” e “Susan Joy”. Basta sentire come Lucetta si autodefinisce: «una vita per vela e per la Vela», per capire il sentimento che univa e unisce queste persone e che ambiente hanno creato tutt’intorno a sé. Arrivano gli anni ’60 e dalla Sacchetta partono barche alla volta delle coste dalmate dove si può nuovamente navigare per diporto. L’Adriaco organizza la TriesteSan Giovanni in Pelago (un isolotto posto davanti a Rovigno d’Istria), e le regate d’altura Transadriatiche sono molto frequentate. Nel 1960 si disputa la prima edizione della Coppa Nordio (in onore del campione scomparso nel 1959): la sede dell’Adriaco e il Molo Sartorio sono letteralmente invase per tre giorni dalle Star. Dagli anni Settanta in poi nuove generazioni di atleti hanno raggiunto importanti risultati in campo agonistico, come Guglielmo Danelon, Giuseppe Moletta, Gianfranco Noè, Roberto Vencato e Roberto Sponza, Fabio Apollonio, Marino Vidulich, Dani De Grassi, Franco Cittar, Marco Penso, Lorenzo e Marco Bodini, Emanuela Sossi, e molti altri: basta guardare il palmares dei due circoli fino alle ultime vittorie di Elena Pesle, Francesca Pitocco, Giulia Pinolo, Chiara Calligaris. Negli anni Ottanta la Triestina della Vela decide di mettere ordine in Sacchetta. Sono troppo numerose le imbarcazioni ormeggiate nello specchio d’acqua antistante la sede, la situazione rischia di diventare critica per uscire in mare aperto e pericolosa in caso di maltempo. Così si decide di costruire dei pontili e l’operazione, molto dispendiosa, si conclude nel 1981. Alla fine degli anni Ottanta fa la sua comparsa in Sacchetta la Lega Navale. Ottiene la concessione per ancorare all’estremità del Molo Fratelli Bandiera i suoi pontili galleggianti e nel 1989 inaugura la sua sede nautica. Fra il 1990 e il 1992 restaura la storica Lanterna e ne fa la sua sede sociale. Un nuovo circolo nautico ha come base lo specchio d’acqua della Sacchetta, inizia un’attività che allo sport affianca la diffusione della cultura marinara. I circoli della Sacchetta continuano la loro attività organizzando manifestazioni di rilievo come la Coppa Banfield (YCA), originale regata per ultrasessan-
tenni, un appuntamento imperdibile per i “vecchi lupi di mare”; la Coppa Sciarrelli (YCA) dedicata al designer scomparso nel 2006; il Trofeo città di Trieste (YCA) manifestazione che richiama da tutta Italia bellissime imbarcazioni d’epoca; il Nastro Azzurro (STV), la Marinaresca (STV), il Piccolo Nastro Azzurro (STV), la Coppa dei due Fari (LNI), la Trieste-Grado-Trieste (LNI), la Coppa d’Inverno (LNI), solo per citarne alcuni. Nel 1995 la Triestina della Vela decide di ristrutturare la sede sociale per renderla più funzionale e moderna. L’anno successivo viene scelto il progetto del consocio Umberto Wetzl. I lavori finiscono nel 2000. Anche lo Yacht Club ristruttura e amplia la sua palazzina di mattoni rossi. Viene scelto il progetto dell’ingegner Dino Tamburini e, dopo un iter burrascoso, finalmente nel 2005 la nuova sede viene inaugurata. Nel 2009 la Lega Navale inaugura la palazzina servizi, nuova ala della sua sede sociale. I circoli continuano a crescere: lo Yacht Club Adriaco raggiunge la quota di 800 soci; la Triestina della Vela quasi 700; la Lega Navale più di 600. La Sacchetta oggi è un vero porto sportivo. L’impegno e la dedizione di chi ha fondato e animato questi circoli nel corso degli anni ha raggiunto risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ne possono essere fieri Gabrio de Szombathely, l’attuale commodoro Yacht Club Adriaco, in carica dal 1999, e Giorgio Brezich commodoro dal 2011 della Triestina della Vela.
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Verso Capodistria Barche a rimorchio verso una regata a Capodistria. Facce allegre in primo piano, e sullo sfondo l’infilata di scafi e vele.
Emo Tarabocchia Equipaggio in posa a bordo del 8 m. S.I. “Emo Tarabocchia”, donato all’Adriaco dal conte Ettore dalla Zonca nel 1920. Prima di assumere il nome del volontario triestino morto nel 1915 sul Podgora vestendo la divisa dell’esercito italiano, il cutter si chiamava “Marietta”.
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La Triestina della Vela, 1928 Casa galleggiante della Triestina della Vela nel 1928: è l’ora delle pulizie e uno zelante nostromo gratta con vigore il ponte sotto lo sguardo divertito dei suoi amici.
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Aprile 1929 Un’insolita veduta del bagno Lanterna con in secca sulla spiaggia derive e barche probabilmente il giorno prima di una regata.
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Carlo Sciarrelli e la Sacchetta Non possiamo parlare di Adriaco, vela o Sacchetta senza accennare a Carlo Sciarrelli, classe 1934. Questo incredibile e particolare personaggio frequenta fin da ragazzo l’Adriaco e girando per i moli rimane affascinato dalle barche, dalle loro forme e da come scivolano sull’acqua. Ancora ragazzo inizia a bordeggiare per la Sacchetta per impadronirsi dei segreti della navigazione. Ma non basta, vuole capire il comportamento degli scafi in mare. Inizia così un percorso di conoscenza e formazione puntiglioso e maniacale che lo porterà a progettare fra gli scafi più belli e armoniosi degli ultimi quarant’anni della storia dello yachting. Tutta la sua opera di yacht designer infatti, è stata connotata dalla ricerca della bellezza. Da profondo conoscitore dei classici quale era, puntava alla sintesi perfetta tra armonia ed equilibrio delle forme e funzionalità. «Il bello non è nuovo, il nuovo non è bello» soleva dire. Nel 1960 la sua prima barca, l’“Anfitrite”, vince quasi tutte le regate alle quali partecipa. Inizia così la sua storia di progettista, architetto, yacht designer. Nella sua vita ha progettato circa 140 barche e dai suoi progetti sono state realizzate in tutto il mondo più di 400 imbarcazioni. All’Adriaco e alla Vela fanno e hanno fatto tanta bella mostra di sé molti scafi progettati da Carlo Sciarrelli come “Andromeda”, “Attica”, “Athena”, “Isabella”, “Nababbo”, “Tiziana IV”, “Mon Ile”, “Stella Polare” e “Shahrazad” solo per citarne alcune. Barche che non ci stancheremo mai di ammirare. Nel 2003 riceve la Laurea ad Honorem in Architettura dall’Università di Venezia e nello stesso anno gli viene conferita la civica benemerenza dal Comune di Trieste con la seguente motivazione: «per aver contribuito con la sua opera a diffondere in tutto il mondo il valore e il nome della città di Trieste e la sua tradizione per lo yachting. Le sue creazioni hanno avvicinato la progettazione dell’architettura navale alle soglie dell’arte». Lo Yacht Club Adriaco ricorda il grande progettista scomparso nel 2006 con la Coppa Sciarrelli che viene disputata ogni anno ai primi di ottobre. Carlo Sciarrelli. Architetto del mare era il titolo della mostra con la quale Trieste gli ha reso omaggio nel 2007; e lo stesso titolo ha il volume uscito in questa collana che ripercorre le vicende di questo intelligente frequentatore della Sacchetta. Nell’immgaine lo vediamo al lavoro allo scafo dell’“Anfitrite” davanti alla sede dell’Adriaco. Menigo Nell’immagine a destra il nostromo dell’Adriaco “Menigo” al lavoro mentre pittura lo scafo di una barca.
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Zio Toti e “Giorgetto” Giorgetto Brezich con lo “zio Toti”, un anziano nostromo: sono fotografati nei primi anni Cinquanta a bordo di una piccola imbarcazione ormeggiata alla zattera della Canottieri Trieste. “Zio Toti” era un vero artista nella realizzazione delle “impiombature” di cime e cavi. Anche d’acciaio. I proprietari delle barche a vela lo cercano per affidare alla sua arte le estremità dei cavi da chiudere ad anello. Impiombare un cavo è infatti tutt’altro che facile. Serve forza, intuito, esperienza perché bisogna fondere la fune dentro ai capicorda, pressandola in modo tale da non farla più sfilare sotto sforzo. Anzi maggiore è lo sforzo più si compatta l’impiombatura. “Zio Toti” in questo era un re. Sullo sfondo vediamo la Lanterna dipinta a righe dal Governo Militare Alleato. Un ammiraglio in Sacchetta Tino Straulino, campione olimpico e comandante della Vespucci, in Sacchetta nel pozzetto di Merope III nel 1959, quando al XXI Campionato Italiano Star con Francesco Lapanje vince il titolo italiano per la dodicesima volta. Sullo sfondo si nota la stazione di servizio dell’Aquila (oggi Stazione Rogers) nella sua veste originaria prima delle modifiche degli anni ’70 e ’80.
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“Arma e vai!” Questo scrive Straulino nel suo libro. Ecco i giovani allievi della Vela fotografati mentre armano le loro derive. Fin dal 1946 la società organizza corsi di addestramento teorico e pratico per i ragazzi che vogliano avvicinarsi a questo sport. I nuovi allievi imparano a «sentire il mare, a leggere sulla sua superficie il vento, ad assecondare gli elementi e a non opporsi ad essi. Devono conoscere la barca e sentirne l’anima, ed essere tutt’uno con lei. Solo così potrai sapere come risponderà ai tuoi comandi, e né lei, né il mare ti tradiranno mai. Solo così si può diventare un vero marinaio» (Tino Straulino in Arma e vai!).
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Trieste-Isola Traguardo di partenza della regata Trieste-Isola, 16 giugno 1929. Con passere lussignane e Cut in Sacchetta. I Cut sono barche di derivazione americana, dallo scafo largo con la poppa tagliata (cut, tagliata appunto), senza slancio, dotate di un solo albero posto molto a prua, l’armo quindi disponeva della sola randa. Allenamento in Sacchetta La specchio d’acqua della Sacchetta prima della posa dei pontili era la palestra ideale per iniziare a praticare lo sport della vela. Coppa Fernetto, 1967 Di bolina, con i muscoli tirati per lo sforzo, facendo bordo all’ultimo momento prima di schiantarti sulla sponda per vedere se hai coraggio. Due allievi sulla deriva in Sacchetta. Sullo sfondo vediamo a sinistra la sede della Vela, Casa Stabile e all’estrema destra Stazione Rogers, che nel momento in cui è stata fatta la foto era ancora una stazione di servizio, non più dell’Aquila ma della francese Total.
Finn e Snipe Nella pagine successive due belle e insolite immagini della Sacchetta. A sinistra Finn e Cadet che si accingono a prendere il mare per le regate, a destra la spiaggia del Bagno alla Lanterna invaso da Snipe e Flying Dutchman.
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canottiere Fieri dei muscoli del loro torace, dei bicipiti e dei quadricipiti. Lucidi di sudore, elastici, eleganti, con gli occhi che guardano lontano. L’iconografia del canottiere agli inizi del Novecento deve rispondere a questi canoni estetici. Un paio di baffi a manubrio, un berretto da marinaio completano il ritratto. Trieste è all’apice della sua fortuna commerciale, secondo porto del Mediterraneo alle spalle di Marsiglia. Piroscafi e velieri, ferrovie e magazzini, facchini e operai, commercianti e funzionari. Tutti sudditi austriaci ma di sentimenti politici e nazionali molto diversi. Talvolta opposti. Nelle acque del golfo remano e sudano soci e atleti della Ginnastica Triestina, dell’Adria, del Rowing Club, della Società operaia Triester Arbeiterverein. I primi guardano a Roma, i secondi non rinnegano i fondatori della loro società, ricchi commercianti di Amburgo calati sulle rive dell’Adriatico. Due sono invece le anime dei canottieri del Rowing: chi si riconosce in quella di ispirazione mazziniana, uscirà dalla società nel 1904 per fondare a Barcola la Canottieri Nettuno. Gli atleti della Società operaia guardano invece al Socialismo austriaco. Ma andiamo con ordine e focalizziamo la nostra attenzione sulle tre società oggi presenti in Sacchetta: la Ginnastica, l’Adria e la Canottieri Trieste. «Fu acquistata una barca per gli esercizi ginnastici a remo». Questa decisione che risale al novembre 1863 segna l’inizio dell’attività della Ginnastica Triestina, o meglio di quella che fu la Sezione nautica dello storico sodalizio che, più volte sciolto dalle autorità austriache, coniugò sotto vari nomi l’attività fisica e l’amor di Patria. La prima “barca” biancoceleste fu un lancione della lunghezza di 14 metri. Oltre al timoniere i vogatori erano costretti a trasportare a bordo anche il caposquadra. Una dozzina di remi per due passeggeri. Il primo regolamento dedicato ai “remiganti” venne pubblicato nel 1868 mentre la sede era ospitata nel bagno galleggiante Al soglio di Nettuno; nel 1872 i canottieri e le imbarcazioni si spostano al Bagno Maria, ormeggiato nel Bacino San Marco. La Canottieri Adria, o meglio la Ruderverein Adria, era stata fondata il 15 settembre 1877 nel corso di una riunione organizzata nella birreria Adria alle 8.30 della sera, come si legge nell’atto di costituzione pubblicato sul Vereins Journal des Triester Ruderverein Adria. Il locale scelto per la riunione, con buona probabilità, era la trattoria-birreria “All’Adria” di Giovanni Pitschen, in via Canal Grande 11, oggi via Cassa di Risparmio. La riunione era stata promossa da Alessandro Cristian Mattia Schröder, unico figlio maschio del ricco commercian-
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te Alessandro Schröder e di Giulia Hansenclever. Schröder ha 27 anni e viene eletto presidente. Riesce a fondere tre piccole società nautiche: si chiamano Carlotta, Themis e Meteor e più che altro sono tre gruppi di amici che, amando il mare e l’attività fisica, avevano riunito le loro forze e i loro risparmi per acquistare e usare in comune alcune imbarcazioni. Il Rowing Club Triestino – oggi Canottieri Trieste – viene fondato nel 1896 per iniziativa di Camillo Picciola, forse il più completo atleta del canottaggio ottocentesco triestino. Aveva vestito la maglia dell’Unione Ginnastica e del vecchio Club Saturnia. Campione dell’Adriatico per tre volte, pioniere del turismo nautico su lunghe distanze, primo nelle acque del golfo a comprendere il ruolo essenziale della tecnica, dell’elasticità e della leggerezza della vogata. Pur essendo un patriota convinto non disdegnò di vogare con atleti austriaci e tedeschi che stimava e rispettava. Ma il suo pragmatismo non fu apprezzato. Il suo carattere, la sua determinazione, l’apertura a chi era visto dai liberal-nazionali come nemico, gli alienarono molte simpatie. Uscì dalla Saturnia e costituì un circolo nautico, il Rowing Club, che richiamò giovani atleti italiani refrattari al dogmatismo, al settarismo. Nonostante le profonde differenze e la rivalità che li contraddistingue, i vari club triestini costituiscono nel 1884, col beneplacito della Massoneria, la Società delle regate, una sorta di coordinamento, una cassa di compensazione delle diverse “anime” e delle diverse origini politiche e nazionali. L’attività remiera ha un crescendo quasi trionfale. Coppe, trofei, prime forme di professionismo, imbarcazioni, sedi, feste, raid. La guerra mondiale spazza via
Cinque uomini in barca Sei uomini compaiono in questa foto realizzata dallo studio Sebastianutti & Benque nell’estate del 1886 dalla banchina della Sacchetta; ma solo di cinque si conoscono i nomi. È noto quello dell’allenatore Alexander Leine che sta dando gli ultimi ordini all’equipaggio di un “quattro con timoniere” della Canottieri Adria. Leine, originario di Parigi, è stato assunto da un anno come allenatore della società di cui è presidente Alessandro von Schroder, primogenito di una famiglia di commercianti di Amburgo stabilitisi a Trieste nel 1843. Alexander Leine è anche architetto nonché comproprietario del cantiere Clasper, Leine e Tellier, specializzato nella costruzione d’imbarcazioni da regata per il canottaggio a cui l’Adria negli anni successivi ordinerà numerosi modelli. Si conoscono anche i nomi di quattro dei cinque componenti l’equipaggio che, di fronte al fotografo, ha assunto la posizione più adatta per scattare al segnale di partenza della regata. Kermol, Vernouille, Ganzoni, Kessel impugnano i remi. Del timoniere, al contrario non si sa nulla. Né nome né cognome. È una tradizione antica dei canottieri opposta a quella dei velisti, dove viene ricordato molto spesso solo il nome di chi traccia la rotta. Sullo sfondo la Lanterna e il Bagno Militare.
tutto. Le società di sentimenti italiani vengono sciolte dalla Imperial-Regia Direzione di polizia. Alla fine del conflitto l’azione si ripete, ma nel verso opposto. L’Hansa, la società remiera dei tedeschi residenti a Trieste, viene chiusa, l’Adria è in bilico e rischia di fare la stessa fine perché la sua appartenenza italiana è ritenuta “discutibile” e la lingua ufficiale in cui vengono redatti gli atti è quella tedesca. Piccoli funzionari, zelanti burocrati pretendono di riscrivere la Storia. Vogliono piegare il passato e il presente al volere dell’ideologia che si è fatta regime. I danni sono enormi ma pochi li vedono. La normalizzazione impera: chi non si allinea anche se è stato degnamente presidente della società, è costretto a gettare la spugna. Accade all’Adria dove prima Ernesto Krauseneck, poi Riccardo Maramaldi, devono lasciare la carica a cui sono stati eletti dai soci perché la loro azione «non ha soddisfatto a pieno le autorità fasciste». Al contrario in campo agonistico i successi non si contano. Il canottaggio triestino e istriano vive una stagione d’oro. Anche l’iconografia ufficiale cambia profondamente con l’entrata in scena nelle canottiere di nuovi ceti sociali. Via i baffi, via i berretti da marinaio, via gli sguardi che guardano lontano. I volti sono rasati, i capelli lucidi di brillantina. Anche sulle zattere della Sacchetta in quegli anni compaiono uomini in divisa nera che calzano alti stivali di cuoio. Poco dopo, nell’autunno del 1938, i consigli direttivi delle società sportive applicano alla lettera le disposizioni delle leggi razziali volute dal fascismo e promulgate dal re-soldato. Di questa infamia sono state trovate le prove nei verbali delle riunioni dei direttivi. Il 15 novembre 1938 sette persone decidono di espellere i soci ebrei dell’Adria. Ecco i nomi. «Wondrich, Rutter, Romano, Ivanissevich, Berta, Krauseneck, Mareglia, deliberano, in conformità alla situazione attuale e alle direttive politico razziste, di considerare dimissionari i seguenti soci attivi: Giorgio Camerini, Bruno Cohen, Roberto Cohen, Piero Guastalla, Giuseppe Klugmann, Riccardo Klugmann, Bruno Levi, Sergio Macerata, Egone Lussland, Gualtiero Lussland, Bruno Tolentino, Paolo Tolentino, Alfredo Pollitzer, Tullio Segrè, Egone Weiss». La Canottieri Trieste non è da meno dell’Adria e sotto la presidenza di Giorgio Amodeo mette alla porta, tra gli altri, Mario Stock, che trent’anni più tardi sarebbe stato eletto presidente della Comunità ebraica cittadina. Scampato all’arresto e alla deportazione, Mario Stock al termine del conflitto mondiale avrebbe chiesto e ottenuto di rientrare nella società che lo aveva espulso. Un gesto forte per ristabilire il suo diritto.
Il Rowing Club La sede del Rowing Club era ospitata tra il 1897 e il 1908 in un magazzino della Sacchetta a pochi metri da dove oggi sorge la Piscina terapeutica. Due i piani della costruzione: il primo era adibito a spogliatoio, con 60 “cassetti” per gli abiti degli atleti e due stanzini riservati rispettivamente alle riunioni della direzione e al custode. Al pianterreno il magazzino per le imbarcazioni e un ripostiglio-doccia. La bandiera irredenta Fine ’800: la Lanterna, l’animato scalo legnami alla base del Molo Teresiano, il vecchio Bagno Militare con issata la bandiera austro-ungarica: tutto normale se non fosse che qualche “simpatico e intraprendente” irredentista ha grattato la lastra fotografica e vi ha disegnato la bandiera italiana sull’asta in primo piano.
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L’Eintracht Un atleta dell’Eintracht fotografato in Sacchetta. La società aveva sede sulla Diga Vecchia, nella costruzione che oggi ospita un rinnovato stabilimento balneare. L’associazione ginnica “Turnverein Eintracht” nacque a Trieste nel 1864 dalla fusione di due club preesistenti.
L’evoluzione del canottaggio Una strana imbarcazione con a bordo l’equipaggio con i colori del Rowing Club, fotografata in Sacchetta a qualche decina di metri dal Bagno Militare. L’imbarcazione è “strana” perché ai due vogatori di coppia era stato affiancato un timoniere, comodamente seduto su un’elegante sedia con tanto di braccioli. Oggi nessuna imbarcazione di coppia è dotata di un timone e di un timoniere che lo manovra. Questa immagine testimonia l’esistenza di un ramo estinto nell’evoluzione del canottaggio.
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Un impettito equipaggio L’impettito equipaggio di un quattro con timoniere si mette in posa nello specchio di mare antistante la casetta rossa dei piloti. L’alberatura e i pennoni ancora presenti sullo scafo del piroscafo alla fonda sulla sinistra dell’immagine dicono che la fotografia è stata scattata alla fine dell’Ottocento.
Canottieri vittoriosi In questa antica fotografia conservata nella sede della Ginnastica di Pontile Istria, sono quindici i canottieri che si sono messi in posa davanti all’obbiettivo. Al centro un uomo barbuto con la bombetta sul capo, di certo un dirigente della società. Alla sua sinistra cinque atleti, quattro ben piazzati e uno, mingherlino, seduto a terra. È evidente che si tratta dell’equipaggio di una yole a quattro. Sulla destra altri nove atleti, otto vogatori e un timoniere di una vittoriosa yole a otto.
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I protagonisti Bandiere, gagliardetti, medaglie, divise e un fotografo capace di comporre un’immagine equilibrata e accattivante dei canottieri vittoriosi, quasi una foto pubblicitaria della società – l’Unione Ginnastica – per la quale gli atleti si propongono come “testimoni”.
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Tirreno La yole a quattro vogatori “Tirreno” dell’Unione Ginnastica ha raggiunto il canale delle Noghere. L’imbarcazione era stata acquistata nel 1886 ma l’immagine è stata realizzata nel 1889. Sullo sfondo il ponte di Zaule che fino al 1797 separava il territorio dell’Impero d’Austria da quello della Repubblica di Venezia. Il ponte fu distrutto nel corso della Seconda Guerra Mondiale.
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La più popolare, la più fiera. Sciolta a ogni momento dalla polizia austriaca che l’accusa di complotti irredentistici (persino due bombe erano state trovate nascoste sotto il pavimento di uno spogliatoio, ma la voce corrente era che ve le avesse messe la polizia) la Ginnastica cambia sempre nome: si chiamava Società, Unione, Associazione, ma sempre Ginnastica. E il grido “forza Ginnastica” era altrettanto fervido e suscitava altrettanto entusiasmo dell’altro, mai pronunciato, ma sempre vivo nell’animo di tutti: viva l’Italia. “Forza Ginnastica” voleva dire “Viva l’Italia”. E questo spiega come con l’avanzare della mattinata gli animi sempre più si accendessero, fino a quell’ultima regata, nella quale il Turnverein aveva qualche probabilità di vincere, la jole a quattro. Ostinati i tedeschi tutti gli anni puntavano su quell’armo, che era poi quello dove la Ginnastica era la più quotata. Barca tranquilla, sicura, popolaresca, la jole a quattro si poteva considerare un genere aperto a tutti (persino ai lugari del Turnverein) e là ogni anno Trieste pativa la sua passione estiva e marinara: con un brivido accettava la sfida dei tedeschi e, febbricitante, confidava nella vittoria. In fondo di tutta la regata, e con bravissimi canottieri, e doppi skuller, e otto fuori scalmo, tutto quello che interessava ai triestini era la borghese jole a quattro, la gioia di vedere la Ginnastica battere il Turnverein. (da Autoritratto triestino di Alberto Spaini)
Una yoletta Una yoletta a due fotografata nelle acque della Sacchetta negli anni ’20. Le forme dello scafo sono più panciute di quelle delle analoghe imbarcazioni odierne.
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L’allenamento Nel 1913 alla Ginnastica Triestina durante una lezione di voga nello zatterino.
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Crociera a remi con fidanzamento Pierpaolo Luzzato Fegiz (Trieste 19 giugno 1900 - 11 agosto del 1989), fu professore di statistica e un grande innovatore. Nel 1936 fu incaricato dell’organizzazione dell’Ufficio Statistico della SIAE, che impostò con un sistema a schede, trasformabili in schede perforate, idoneo a recepire le innovazioni in tema di elaborazione di dati che si stavano sviluppando negli Stati Uniti. Nel 1946 assieme ad un gruppo di studiosi fonda la DOXA, che per 38 anni sotto la sua direzione ha eseguito centinaia di indagini su campioni, dal referendum istituzionale del 1946, a quello sulla distribuzione del reddito nazionale o sul divorzio ecc. È preside della Facoltà di Economia e Commercio di Trieste dal 1951 al 1960. In seguito fu chiamato alla Cattedra di Statistica della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Roma, cattedra che lasciò nel 1975 con il titolo di professore emerito. Nel 1955 fu nominato presidente della Camera di Commercio di Trieste. Appassionato sportivo è stato uno dei pionieri dello sci alpino e nel 1925 ha conseguito il titolo di Campione italiano di canottaggio (singolo). Ecco come nel suo Lettere da Zabodaski. Ricordi di un borghese Mitteleuropeo (1900-1984), ricorda una particolare «crociera a remi con fidanzamento»:
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La mia attività remiera presso il Rowing Club Triestino, diventato in seguito Canottieri Trieste, si svolgeva in parte su imbarcazioni a due o quattro remi yole e in parte su canotti monoposto, un po’ più larghi e più pesanti degli skiff. Per me quello che chiamavano sculler era diventato una specie di bicicletta, con cui andavo al bagno e alla ricerca di amici e di amiche. Qualche volta, non avendo trovato una data persona a Grignano presso Miramare (8,5 km dalla Canottiera) attraversavo il golfo di Trieste fino a Punta Sottile (altri 14 km) per poi ritornare a Trieste (7,5 km) in mattinata. Totale circa 30 km. Al Rowing Club Triestino c’era la tradizione delle lunghe crociere, con le barche a remi normalmente usate per brevi gite nel Golfo e per le regate; e alcune yole a quattro con timoniere erano arrivate, dopo aver attraversato l’Alto Adriatico e risalito il Po, a Torino e a Lugano. Perciò una gita da Trieste a Zara in yole a quattro, come quella progettata da me e da quattro amici, nell’agosto del 1934, non aveva nulla di straordinario. Per me fu invece, tenuto conto del suo esito imprevisto, una crociera eccezionale. Queste leggere barche, a madieri di mogano sovrapposti, sono aperte, ma lunghi e stretti spazi di prua e di poppa possono essere chiusi con due protezioni impermeabili (paramari), cosicché vi trovano posto i cavi, l’ancorotto, gli indumenti dell’equipaggio, le provviste ed eccezionalmente anche una tenda. Noi avevamo previsto di dormire in alberghetti della costa istriana; e infatti, partiti nel pomeriggio dell’8 agosto, passammo la notte a Salvore.
8 agosto 1934 Alle 16 in canottiera. Partenza alle 18. L’equipaggio dell’Aquileia è così composto: Willy Cavalieri, Andro Clarici, Gigi Liebmann (della Ginnastica), Carlo Struckel, io. Alla partenza sono io primo remo, Gigi al timone. In seguito ci cambiamo di posto ogni mezz’ora (il primo va al secondo, il timoniere al primo, il quarto al timone, ecc.). Pirano circa 20.30. Notte scura. Ormeggiamo la barca, poi mangiato e a dormire (alberghetto). Dormito male (Clarici mi viene continuamente addosso). 9 agosto Bella mattina, la baia Salvore tranquilla e luminosa. Partenza poco dopo le 7. Il tempo peggiora. Al largo di Umago siamo incerti se proseguire o no. Mare calmo. A Cittanova deciso di far tappa (ore 10). La pioggia però non viene. Bagno, colazione (pesce), poi circa ore 13, partenza. Prima di Parenzo rovesci di pioggia, poi colpo di vento fortissimo (io al timone). Entrati senza incidenti nel porto di Parenzo. Mentre manovriamo per sbarcare, altro colpo di vento. Siamo completamente inzuppati. Cambiati, quindi al caffè e a passeggio. Visitato la basilica. Verso le 18, visto il tempo migliorato, ci rimettiamo in mare. In circa due ore a Rovigno. Dopo cena visto Massimo Selva, Direttore dell’Istituto di biologia marina di Rovigno, e famoso studioso dei tonni. Parliamo della spedizione tonnifera che stiamo progettando col Capitano Antonio Cosulich. Dopo Rovigno la crociera prosegue senza incidenti, con tappe a Fasana, Porto Olmo piccolo (pernottamento). 11 agosto La traversata del Quarnero comincia alle 5.45 dell’11 agosto, con mare quasi calmo, che gradualmente diventa agitato (scirocco). Ogni mezz’ora vuotiamo l’acqua imbarcata. Alle 11.15 siamo a Unie. Ripartiti alle 13, e doppiata la punta N-O di Unie, abbiamo ancora mare e vento contrari. A Punta Bianca, di fronte allo scoglio di Zabodaski, sentiamo un urlo, e vediamo gente in shorts che si agita e sventola asciugamani. Mi pare di riconoscere Argia Cosulich. Poco dopo avvistiamo la motonave Vulcania: preoccupazione per le onde. In bonaccia, presso lo scoglio di Zabodaski, vuotiamo la barca, poi remiamo in direzione Bocca Vera… 12 agosto Bello. Mattina Cigale; lunga discussione coi miei compagni. Visto Mario Mini, Anita Sparano, Blitznakoff, Dudan, Bruno Corazza, i Fulignot, ecc. Dopo colazione assistito alle regate a vela, prima dalla finestra, poi dal motoscafo Foca di Antonio Cosulich.
La cosa più importante è il duello, che si ripete tutti gli anni fra la Mimosa di Eustachio Tarabocchia (padre di Ivetta) e la Primavera. Tutta Lussino si divide in due parti. Ma oggi c’è poco vento, e la gara non è interessante. La Mimosa è indietro, poi raggiunge la Primavera, infine lottano bordo a bordo. Dopo cena al Park Hotel, ballo interrotto dalla pioggia. Conosciuto il padre di Ivetta, capitano di lungo corso, bell’uomo, simpatico. Parlato di tonni. 13 agosto Mattina a Cigale. Discussioni coi miei compagni: si parte o non si parte per Zara? Liebmann non può venire a Zara e tentiamo invano di rimpiazzarlo con un locale. Così la crociera finisce a Lussino. Del resto il tempo è poco promettente. Poi passeggiata con Ivetta, Carlina Piperita e Laura Boschian alla Croce a Val d’Ora e Bocca Falsa. Bellissimo sentiero. Animata conversazione con Ivetta. […] 18 agosto Bellissimo. Gara a staffette fra tre «quartieri» di Lussinpiccolo: Pricco, Squero, Cigale. Ogni squadra ha 8 membri, 3 femmine e 5 maschi. Vince Squero, con Ivetta, Carlina, Struckel, Guerrino e un altro. Alla sera, grande cena alla pensione Hajos, offerta dalla signora Anna Martinolich (detta zia Anna dei matrimoni) ai suoi nipoti. Io unico non nipote. A tavola sono fra Argia e Ivetta. 19 agosto Mattina bagno, nel pomeriggio giocato tennis con Ivetta (perduto 2-6). Altro bagno, poi lasciamo Paoletto e Leone, e ritorniamo, io e Ivetta, a Velopin. Lì abbandoniamo la strada, e prendiamo un sentiero verso la Croce. Caldo, cielo in parte annuvolato, mezza luna… Durante quella passeggiata mi parve di sentire una voce imperiosa che mi diceva: «Oggi o mai più». Mai più significava non solo non sposare Ivetta, che non mi avrebbe aspettato indefinitamente, ma non sposarmi affatto e continuare una vita disordinata e agitata, alla lunga infelice. Improvvisamente le chiesi: «Crede che potremmo vivere insieme il resto della vita?». La risposta affermativa segnò per me la fine di un lungo periodo di navigazione senza bussola.
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La Ginnastica A sinistra Mario Ustolin e Francesco Dapiran con i remi del due di coppia, con cui parteciparono nel 1948 alle Olimpiadi di Londra, raggiungendo onorevolmente la semifinale. Seduto a terra l’allenatore Pino Culot. La foto è esposta nella sede della Ginnastica di Pontile Istria e sul passepartout di colore azzurro si legge: «la presente quale ricordo alla gloriosa Società Ginnastica che, per prima nella storia del canottaggio triestino, ebbe l’onore di rappresentare Trieste italiana ai Giochi Olimpici di Londra 1948. L’allenatore Pino Culot sentitamente offre». L’Adria L’equipaggio di un quattro senza timoniere dell’Adria in precario equilibrio, con i remi sollevati, fotografato tra la zattera e la banchina del Molo Sartorio negli anni immediatamente precedenti il secondo conflitto mondiale. È riconoscibile il capovoga, Silvio Ernè. La Canottieri Trieste Nella pagina accanto la yole a otto della Canottieri Trieste, capovoga il presidente della società, l’avvocato Giorgio Amodeo, fotografata nel 1976 davanti ai Frigoriferi Generali costruiti nel 1925 per conservare la carne congelata proveniente dall’Argentina. Il deposito era considerato area extradoganale, e per queso motivo all’entrata e all’uscita la merce era “verificata” da militari della Guardia di finanza. Alla carne congelata negli anni Cinquanta si affiancò il pesce: tonni, razze, cernie, calamari, catturati nelle acque dell’Oceano Atlantico da pescherecci armati a Trieste. Tra questi il Selene e l’Oceanus.
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un album di canottieri imperiali Un album fotografico venne regalato ad Alessandro Schröder, presidente della Canottieri Adria-Ruderverein Adria, dai soci del club. Era l’11 maggio 1880 e in quel giorno Ali Schröder avrebbe sposato Ida Moll, figlia di un ricco commerciante triestino. L’album ha una copertina in pelle, rilegata a sbalzo con preziose inserzioni in ottone dorato e smalti policromi: nelle trenta pagine portafoto erano inseriti i ritratti dei soci dell’Adria, tutti commercianti residenti a Trieste. Il prezioso regalo di nozze era stato realizzato dalla ditta August Klein di Vienna, all’epoca forse il più prestigioso “Buchbinder”, rilegatore di libri, e fonditore miniaturista dell’Impero, nonché fornitore di famiglie reali, nobili e agiati borghesi. L’album era stato ordinato a Vienna attraverso la ditta triestina di Luigi Lordschneider che nel 1896 gestiva un negozio in piazza della Borsa 6 in cui offriva al pubblico «chincaglierie da semplici oggetti d’uso ad articoli di gran lusso. Esclusivo deposito argenterie Christoffe a prezzi originali di fabbrica, nonché bronzi e ceramiche artistiche delle più rinomate fabbriche». Ma ritorniamo all’album oggi custodito dalla Canottieri Adria. Sulla prima pagina interna compare la dedica in lingua tedesca. «La società Canottieri Adria, al suo amato presidente nel giorno della festa di nozze. Trieste, maggio 1880». Poi inizia la “galleria” dei ritratti dei soci che oggi costituisce, grazie alle minuziose e approfondite ricerche d’archivio dell’architetto Francesco Fegitz, un documento antropologico di grande rilevanza per capire e descrivere il passato della nostra città alla fine dell’Ottocento. La ricerca, oltre all’età e alla città di nascita mette in evidenza le professioni – al 90 per cento commercianti, ma anche un impresario, un comandante del Lloyd Austriaco – nonché la religione di ogni socio dell’Adria: gli evangelici sono più numerosi dei cattolici ma non mancano gli ebrei. Non mancano i rapporti di parentela. Ma ancora più forte, come dicevamo, è il legame etnico linguistico, religioso ed economico sociale. Come scrive l’architetto Francesco Fegitz nella sua ricerca: I soci che hanno dedicato l’album al loro presidente erano per lo più di origine tedesca e, in minor numero, austriaca, fatto salvo Juhasz che è di origine ungherese e Curths, Garzoni ed Escher che sono svizzeri. Bryce è suddito inglese e Tonnies nasce a Lubiana, ma è austriaco. Ben sedici soci sono o saranno anche iscritti al Deutschen und Österreichischen Alpenverein. I più eminenti tra i commercianti risultano essere oltre a Schröder, gli appartenenti alla famiglia Brunner. Parte dei
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I campioni dell’Adria Di questi sette canottieri con le medaglie esibite sul petto, si sono tramandati i nomi e cognomi: Otto Curths, Hugo Moll, Rudolf Lixl, Rudolf Bacharach, Carlo Antonio Ganzoni, Rudolf Bryce, Alfred Pollitzer, fondatore della fabbrica di saponi Adria.
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soci fotografati nei ritratti, o meglio le loro famiglie costituiscono il gotha della borghesia benestante tedesca e i loro nomi si intrecciano ai vertici delle istituzioni commerciali ed economiche.
Gran parte delle foto dell’album sono state realizzate da Giovanni Battista Rottmayer - K.K. Hof & Marine Fotograph con studio in via Santi Martiri 1. Nel 1884 sarebbe diventato l’Atelier Rottmayer di Spiridione Manenizza. Altre immagini portano la firma di Giuseppe Wulz, di Sebastianutti & Benque, fotografi della Imperial Regia Corte d’Austria e del Brasile e degli studi Zanutto di Trieste e Graz.
Il presidente e gli atleti Alexander Christian Matthias Schröder, “Alessandro junior” per distinguerlo dal padre, è stato il fondatore e il primo presidente dell’Adria. Quando Gianbattista Rottmayer realizzò nel 1880 questo ritratto nel suo studio di Trieste in via Santi Martiri 1, “Ali” Schröder aveva 30 anni. Nelle pagine successive alcuni dei 173 atleti dell’Adria fotografati nel 1886 in occasione di un’importante vittoria. Gli atleti, da sinistra a destra, dall’alto in basso: Julius Buchler, Victor Wunsch, Max Schnizer, Johannes G. Juhasz, Rudolf Buchler, Edward de Bondely, Rudolf Brunner, L. R. Lixl; Carlo Vernouille, Julius Kubin, Rudolf Bachrach, Otto Cürths, Axel Bodtker, Carlo Antonio Ganzoni, Albert von Wittenbach, Rudolf Lixl; Paul Cozzi, Hugo Moll, Heinrich Eberhardt, Heinrich Wintenberger, Oscar von Escher, Adolf Tonnies, Rudolf Schwarzl, Basil Bryce.
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Quaranta palate al minuto per l’Italia, Francesco Giuseppe o il Reich Alla prima regata dei canottieri triestini disputata il 26 agosto 1883 assistette una folla straripante, difficilmente eguagliabile oggi anche negli stadi del calcio: ben 15 mila persone. Un altro dato fa meditare sulla passata popolarità del canottaggio: per assistere alle fasi finali delle regate che si svolgevano sul lungomare di Barcola, ogni spettatore doveva sborsare una corona. In caso contrario doveva restare al di là di un lunghissimo tendone steso parallelamente alla costa che impediva agli occhi di seguire le ultime fasi della regata, il cosiddetto “serrate” degli equipaggi in vista del traguardo. Va aggiunto che per raggiungere Barcola o si saliva su un tram a
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cavalli, o si affrontava una passeggiata a piedi di tre o quattro chilometri. Dalla Sacchetta al lungomare di Barcola, da più di un secolo il campo di tutte le regate triestine. «Quando un armo è in gara – scrive Alberto Spaini in Autoritratto triestino – sotto la pressione di quaranta palate al minuto, le sottigliezze politiche scompaiono al di là di quel velo purpureo che offusca lo sguardo sotto lo sforzo tremendo. Che si corra per l’Italia, o si corra per l’Austria di Francesco Giuseppe o si corra per una Grande Germania che vada da Trieste ad Amburgo, sono cose da dimenticare dal momento in cui la pistola dello starter ha dato il via».
i raid remieri C’era chi le vacanze le passava in barca: non a bordo di un agile e spazioso yacht da diporto, ma come un forzato, legato indissolubilmente al remo e allo scanno della barca che era insieme sua dimora e suo tormento. Tra i canottieri fin dagli anni pionieristici di questo sport, il viaggio per mare esercita un grande fascino. La prima impresa di cui resta memoria risale al lontanissimo 1869, quando un equipaggio della Ginnastica raggiunse a remi Treviso. Nella lancia, probabilmente a sedile fisso, soffrono e vogano cinque atleti di cui riferisce i nomi Luciano Michelazzi, dirigente della stessa società, storico del remo, consigliere della Federazione. I cinque ardimentosi si chiamavano Moretti, Martinelli, Sandrinelli, Erminio e Federico Ongaro. Altre imbarcazioni biancocelesti si spingono a cavallo tra ’800 e ’900 ad Ancona, Rovigno, Pola e Zara. Probabilmente non più a bordo di pesanti lance ma vogando su più slanciate e veloci yole da mare. Altrettanto fa l’Adria i cui atleti raggiungono ripetutamente Venezia, Fiume e molti porti della costa dalmata. In effetti la yole trova nei raid un nuovo impiego come mezzo di trasporto e non solo come agile imbarcazione da regata e allenamento. A forza di remi vengono raggiunte località della costa più lontane delle usuali Muggia, Capodistria e Sistiana. Le maglie della Ginnastica, dell’Adria, del Rowing Club raggiungono spesso Parenzo, Grado, Barbana, Terzo di Aquileia, Caorle, Orsera e Capo Promontore. Qualche volta risalgono il Livenza fino a Motta e a Sacile. E quando i canottieri sbarcano e cercano una locanda, una trattoria dove riposarsi e rifocillarsi indossano obbligatoriamente la divisa sociale, berretto stile marina con visiera, giacca blu o nera con bottoni d’ottone, cravatta con lo stemma della società di appartenenza, pantaloni e scarpe bianche. Nel 1901 è raggiunta Abbazia, l’anno successivo Fiume e nel 1903 per ben due volte Ragusa. Le imbarcazioni erano fragili e scomode, le riserve d’acqua razionate, la possibilità di un naufragio sempre presente a causa dei “neverini” e dei groppi di vento. Anche la fatica fisica è grande e prolungata per ore e ore. Talvolta anche dieci, sotto il sole estivo, con la protezione di cappellini e berretti. Si dorme spesso all’addiaccio o protetti da una tenda. Si ricuperano le forze, poi di primo mattino via di nuovo a remare. Negli anni successivi alla Grande Guerra vengono raggiunte Venezia e Chioggia, navigando per buoni tratti in mare aperto, fidando nella buona fortuna e nelle capacità di preveggenza meteorologica del comandante. Nel 1919 una yole targata Sacchetta, in dettaglio Rowing Club Triestino, raggiunge Mantova, nel luglio del 1921 nuovamente Zara e nell’estate del 1922
A Sistiana Il maestro Piero de Iurco, una delle figure più note dello sport triestino del Novecento, titolare negli anni Cinquanta di una rubrica di esercizi ginnici che andava in onda in diretta ogni mattina alle 7 su Radio Trieste, è l’organizzatore della gita remiera a Sistiana di cui questa immagine costituisce la foto-ricordo. La guerra è appena finita, il desiderio di svago è grande e una fisarmonica allieta i canottieri e le ragazze.
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Torino. È un’impresa di grande risonanza. Festeggiamenti attendono nella città sabauda i vogatori e il Reale Rowing Club, l’attuale Federazione canottaggio, li premia con un diploma di benemerenza che ancora oggi è conservato nella sede della Canottieri Trieste. Con linguaggio pieno di enfasi «viene conferito ai signori Gefter Wondrich Riccardo, Barbich Sebastiano, Nicolich Giorgio, Carniel Cornelio, Carniel Publio, un diploma di benemerenza con plauso per il raid nautico Trieste-Venezia-Torino effettuato dal 22 luglio al 9 agosto 1922 per la gloria del Canottaggio italiano». Lo stesso equipaggio si ripete nell’estate 1927 e sempre con una yole da mare risale il Po, tocca Milano, naviga a fatica sul Ticino e raggiunge Locarno e Lugano. L’impresa ha ampio risalto non solo sui giornali locali. Anche perché il raid non si limita solo al tragitto di andata ma l’equipaggio ritorna vogando a Trieste sempre sullo stesso percorso. Complessivamente 1600 chilometri, tutti percorsi a forza di remi, a bordo di una yole a quattro vogatori. L’impresa è stata compiuta da cinque canottieri dell’allora Rowing Club: Riccardo Gefter Wondrich, organizzatore e capo della spedizione, poi presidente della Canottieri Adria e nel dopoguerra Deputato della Repubblica a Roma eletto nelle liste del Movimento sociale; Sebastiano Barbich-Barbo, veterano di altri raid remieri tra i quali la TriesteTorino del 1922; Nino Catalan e i fratelli Mario e Oscar Pirona, famoso pasticciere. Il 17 agosto 1927 «Le Ultime notizie», l’edizione delle ore 18 del quotidiano «Il Piccolo», pubblicò, a firma di Riccardo Gefter Wondrich, un dettagliato resoconto del raid. Ecco alcuni passi:
Sul lago Maggiore La yole a quattro del Rowing Club fotografata a Pallanza, sul lago Maggiore. È il diciassettesimo giorno del raid avviatosi dalla Sacchetta il 20 luglio 1927. A Locarno L’equipaggio del Rowing Club è giunto a Locarno: è il 5 agosto 1927. I vogatori riconoscibili dalle canottiere bianconere sono, da sinistra, Sebastiano Barbo, Riccardo Gefter-Wondrich, Nino Catalan, Mario Pirona. Oscar Pirona è seduto a terra.
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L’imbarcazione: fu scelta la vecchia e gloriosa yole “Aquileia”, che avendo compiuto altri raids aveva completo l’equipaggiamento di bordo; casse di zinco per i vestiti, i viveri e il servizio di cucina, tenda coperta, bidoni per l’acqua potabile, cassetta per le riparazioni, farmacia e remi di riserva, un carico di circa due quintali. La partenza: all’alba del 20 luglio lasciamo dalla nostra sede della Sacchetta. Un’ora più tardi incominciano le difficoltà: si è levato un vento di levante molto fresco e la yole incomincia a imbarcare acqua. Bisogna assolutamente poggiare verso terra e attendere il calare del vento. Ci portiamo sotto la terza diga e quindi a Punta Sottile dove togliamo l’acqua e aspettiamo la bonaccia. Alle 9 si può ripartire e si punta direttamente sul faro del Tagliamento. Arrivati a Porto Buso per il canale, torniamo in mare e alle 21 dopo circa 12 ore di voga, giungiamo a Porto Lignano. I canali: il giorno seguente dopo sei ore di voga lungo un canale monotono e deserto che porta a Caorle, entriamo in mare e seguiamo la costa fino al faro di Piave Vecchia dove una ondata improvvisa carica la yole di acqua, costringendoci all’immediato approdo. Il vento: è continuo e molesto e ci ha impedito di fare molta strada, pur avendo vogato per oltre undici ore. Il 22 luglio lasciamo all’alba il Faro di Piave Vecchia e percorriamo il litorale veneto fino a Chioggia, senza toccare Venezia, sempre ostacolati da vento contrario. L’ardore del sole ci ha fatto assumere il bel colore dei gam-
beri dopo la cottura ma grazie al grasso speciale di cui siamo abbondantemente coperti, non dobbiamo però lamentare bruciature. Nel pomeriggio infiliamo i bellissimi canali che oltre il Brenta e l’Adige, di cui risaliamo un tratto, portano al Po. Alla conca di Tornova bisogna trasportare la yole a braccia dopo averla scaricata: è un lavoro lungo e faticoso. A sera avanzata giungiamo al canale di Loreo e ci fermiamo nell’omonimo paese dopo una vogata di undici ore. La fatica nel Po: per otto giorni voghiamo nel fiume e arriviamo al Ticino. Il fiume è in magra eccezionale ma talvolta è solenne e triste, nudo e spoglio in qualche suo tratto, altre volte verdeggiante di pioppi, ontani e betulle, pieno di isolotti, di banchi di sabbia, con la corrente ora rapida, ora lenta, le cime dei campanili dei piccoli borghi sporgenti dagli argini, i traghetti accanto ai ponti, i sandolini e i burchielli immutati nella forma da secoli, i poveri pescatori con le caratteristiche reti quadrate. Otto giorni vogando in media otto-nove ore al giorno, toccando Pontelagoscuro, Ostiglia, Boretto, Casalmaggiore, Cremona, Piacenza. Dormiamo sempre all’addiaccio e quasi sempre provvediamo da soli alla cucina. Il caldo è ancora insopportabile ed è grande la fatica di vogare contro corrente. Non credo di sbagliare dicendo che da qualche giorno la temperatura al sole ha raggiunto e superato i 55-60 gradi: la sete è continua e grondiamo di sudore. Il Ticino: è impetuoso e la yole non lo può percorrere. Dobbiamo andare a Milano, percorrendo il Naviglio superando ben nove chiuse. Il dislivello fra Pavia e Milano è di circa 80 metri su un percorso di 34 chilometri. Dopo Turbigo la corrente del Naviglio è talmente forte e impedisce assolutamente di avanzare, vogando con la nostra yole tanto carica non si procede. Fabbrichiamo e indossiamo una sorta di bardatura e iniziamo il traino camminando sulla riva, mentre uno di noi sta al timone per mantenere dritta la barca. Rischio di naufragio: i dieci chilometri che ci separano dal Lago Maggiore sono segnati da una corrente impetuosa e pericolosa e da frequenti rapide sassose. Con ogni attenzione tiriamo la barca, il timoniere teso nello sforzo di mantenere la prora nel filone. Qui si verifica l’incidente più grave del viaggio. Un istante solo e la yole viene investita dalla corrente di fianco, i suoi dieci metri e mezzo vengono trascinati inesorabilmente via. Vediamo spezzarsi la corda di traino, la yole fa due giri su se stessa, il timone è strappato, la corrente l’abbranca. Mi getto in acqua con Catalan e Mario Pirona, sperando di precedere la yole. L’agguantiamo per la poppa e la tiriamo a riva. Il confine svizzero: la sera del 5 agosto dopo 17 giorni passati sempre a vogare, arriviamo a Locarno. Il 6 agosto con la yole su di un carro percorriamo la strada lunga 10 chilometri che unisce Luino a Ponte Stresa, dove riprendiamo contatto con l’acqua. Il lago di Lugano è stretto, cupo, rinchiuso tra i monti. A mezzodì arriviamo a Lugano.
Gli atleti della Ginnastica non sono da meno. Zara viene raggiunta tre volte. Di questi raid l’archivio della società biancoceleste conserva i diari redatti da Raimondo Cornet e Tito Perissini, rispettivamente nel 1925 e nel 1931. È invece scomparso il libro di bordo della spedizione remiera effettuata nel 1935 lungo la costa dalmata. Dei componenti di quell’equipaggio sono noti solo i cognomi: Alzetta, Beltramini, Biagi, Dobrina e Lipanije.
Da Trieste a Zara La foto in alto è stata scattata il 5 luglio 1975 al largo di Rovigno. Al centro, con il cappello di paglia sul capo, Luciano Michelazzi che ha organizzato il raid Trieste-Zara per ricordare le analoghe imprese realizzate nel 1925 e nel 1931 dalla sua società, la Ginnastica Triestina. Con Michelazzi hanno vogato per cinque giorni a bordo della yole a quattro “Zara” e del doppio skuller “Timavo”, Mario Parasuco, Vinicio Tomasi, Mario Gottardis, Libero Mogorovich, Duilio Biloslavo, Fausto Toffoli. La foto in basso mostra come i canottieri sono riusciti a superare il gran caldo di quell’estate tuffandosi per rinfrescarsi. Qui li vediamo nelle acque basse della Gagliola.
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bellezze al remo Quattro signore col cappellino fotografate nel 1935 sul terrazzo della sede del Rowing Club, quella che all’epoca era ritenuta la più esclusiva delle società di canottaggio della Sacchetta. Le donne non erano ammesse sul galleggiante ormeggiato al Molo Sartorio, eccezion fatta in occasione di alcune feste diurne in cui veniva celebrato l’anniversario di fondazione del club oppure quando veniva varata una nuova imbarcazione. Come esimersi in questo caso dal beneaugurante ruolo di una madrina? Ma la madrina non poteva essere l’unica donna presente sulla zattera e allora le munitissime porte della canottiera necessariamente si dovevano aprire alle altre signore, mogli e figlie di soci e di invitati alla cerimonia. Negli anni Venti e Trenta l’apartheid rappresentava un “valore” tenacemente difeso nelle società della Sacchetta anche perché le rare aperture alle ragazzeatlete non si erano rivelate facili da gestire in un ambiente prettamente maschile e giovanile. La società che per prima aveva aperto in modo effimero le porte anche all’altro sesso era stata la Ginnastica. Era il 1927 e si era costituita una sottosezione per signorine, «subito ricca di 32 iscritte, ma era una gatta da pelare come fu presto evidente» scrive Manlio Cecovini nel 1963 nel prezioso volume dedicato ai primi 100 anni della società biancoceleste. «Le barche non andavano bene, o se non erano le barche erano gli spogliatoi o gli orari. Fatto è che la sezione femminile tante volte tentata, finì coll’esaurirsi...». Nel 1942 in piena guerra, il “maestro” Piero de Iurco tenta nuovamente di avviare la sezione femminile della Ginnastica. «Le difficoltà erano tante e di ogni genere, ma le ragazze triestine avevano voglia di cimentarsi anche nello sport del remo e la Federazione applaudiva. La squadretta era tosta e si assicurava la partecipazione ai campionati nazionali di Padova e Venezia». Altrettanto accade all’Adria per iniziativa del capitano Milan degli Ivanissevich. Ma pochi mesi più tardi dopo un’unica vittoria in regata, la sezione femminile viene chiusa. La Ginnastica invece persevera e Pino Culot nel 1943 ne diviene l’allenatore. «Un grosso nucleo di gentili vogatrici, unite a quelle originarie bianco-azzurre, danno alla sezione femminile nuova linfa e energia, portando il numero complessivo dei soci paganti sceso fino a 144, a ben 216, numero più che promettente, dato il tempo di guerra». Nel 1945, a conflitto ormai concluso, un equipaggio femminile biancoceleste partecipa alle regate di Milano con una yole a quattro. «L’armo femminile si affer-
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mò in modo brillantissimo, entusiasmando i tecnici e i giornalisti, ancora una volta dimostrando le grandi doti sportive delle ragazze triestine. Componevano l’armo Fernanda Barbariol, Lydia Giusti, Lyda Curtolo, Liliana Corazzini, timoniere Pino Culot». Le immagini pubblicate in queste pagine raccontano come si svolgevano gli allenamenti in Sacchetta; quale fosse lo spirito di cameratismo e di amicizia che contrassegnava vogatori e vogatrici. Ora a più di 75 anni da questa fotografia delle signore con il cappellino realizzata nel 1935, ragazze e donne sono stabilmente insediate nelle canottiere. Partecipano a regate, escono in mare per diletto e alla Canottieri Trieste, che per decenni è stata la più refrattaria all’apertura ma che ha ceduto aprendo la sezione femminile nel 1985, una donna ha la responsabilità come allenatrice della squadra agonistica: si chiama Valentina Mariola e ha conquistato nel 2011, dopo 53 anni di digiuni forzati, un titolo italiano per la società bianco-nera. L’equipaggio del doppio esordienti era femminile: Lisanna Bartolovich ed Eloisa Dutra.
Fascismo, donne e sport, 1942 Lo sport nell’Italia tra le due guerre è un “dovere” che il regime impone anche alle ragazze. Le loro mamme non possono seguirle, vista la diversa età e – come si vede nell’immagine nella pagina di sinistra – devono accontentarsi di osservarle dal ballatoio di una “canottiera” in un giorno di festa.
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Ragazze in Sacchetta Un doppio skuller, uno strano quattro di coppia con timoniere e una tradizionale yole a quattro nelle acque della Sacchetta. Su queste imbarcazioni vogano o stanno per vogare, giovani ragazze che vogliono cimentarsi con i remi e con la fatica che questo sport impone a chi lo pratica. Le foto risalgono ai primi anni della seconda guerra mondiale, quando l’Adria e la Ginnastica Triestina aprirono le porte delle canottiere e degli spogliatoi alle ragazze. Forse era un tentativo suggerito dal Regime di dimostrare alla città che tutto comunque stava procedendo per il meglio, normalmente, tranquillamente. La guerra invece aveva già coinvolto drammaticamente i nostri soldati e marinai, in Grecia, in Africa, nel Mediterraneo.
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Le biancocelesti Le pale dei remi sono quelle biancocelesti della Ginnastica, i sorrisi quelli delle ragazze che formano un equipaggio: amiche, atlete, forse complici in un’attività sportiva che era stata fin dalle origini rude, forte, maschile, muscolosa e sfibrante nella sua meccanica ripetitivi-
tà. Questa immagine mostra un volto diverso del canottaggio, un volto sorridente, gentile e scanzonato. In sintesi l’apertura di questa attività sportiva alle ragazze e alla loro sensibilità e creatività.
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Sulle assi di legno scuro Non so se sono stato portato sulle assi di legno scuro di una zattera della Sacchetta quando mi dondolavo nel sacco pieno d’acqua di mia madre e dovevo ancora nascere. Lei andava lì, sul molo Sartorio, scendeva la passerella e percorreva il lato destro della sede galleggiante della Canottieri Trieste. Poi attendeva papà che di lì a poco sarebbe rientrato dall’allenamento a bordo del quattro senza timoniere. Non ho la prova di esserci stato, ma lo credo perché i miei genitori erano sposati da poco. Quel che è certo è che quando ero un bambino ancora disteso nella carrozzina verde, su quella zattera mi hanno portato più volte. «Piangevi quando la carrozzina si muoveva di conserva con la zattera su cui due o tre canottieri erano saliti contemporaneamente, facendola ondeggiare» dicevano in famiglia. Certo è che quando ho acquistato la prima certezza dei miei passi, tenuto per mano, su quel galleggiante sono salito più volte. Lì, per la prima volta ho guardato l’acqua scura, ho visto pesci piccoli e grandi. Ho visto la gatta Lilla che attendeva che qualcuno li prendesse all’amo e glieli regalasse. All’Ausonia, sulla spiaggetta di sassolini, papà mi ha fatto entrare nel mare salato per la prima volta. Gli occhi nell’acqua bruciavano e piangevo. In Sacchetta, da scolaro, sono salito per la prima volta su una barca a vela. Al timone c’era Furio Nordio e quando le raffiche di bora facevano sbandare lo scafo e l’orizzonte si alzava da una parte, abbassandosi dall’altra, io gridavo, «affonda, affonda», e mi rifugiavo sotto la tuga. Assieme a tanti canottieri ho viaggiato da bambino su grandi pullman, sul tetto dei quali erano state caricate a fatica sottili barche da regata e remi con la pala bianconera. Siamo stati a Ravenna ed anche a Padova sul Bacchiglione a sostenere i nostri equipaggi. Poi in Sacchetta tanti anni fa, ho provato a salire per un paio di volte su uno Snipe; io inesperto al fiocco, al timone e alla randa Giorgio Brezich, figlio di Aldo e della signora Clorinda che preparava panini formidabili col salame tagliato grosso e aveva il frigorifero sempre pieno di aranciate, bottiglie di coca cola e birre. Avevo visto crescere d’inverno quel beccaccino nel magazzino della canottiera quasi deserta. Aldo, custode e carpentiere di lusso, lo aveva costruito con l’aiuto del cognato Valerio Filiput, poi custode della Ginnastica. Era il primo di una serie fortunata e vincente: si chiamava Barbanera e papà aveva dipinto a poppa sul legno lucido il nome con la vernice gialla. Il paramare non aveva uno spigolo al centro, ma un intarsio perfetto gli aveva donato una rotondità da mobile di classe. Aldo Brezich, tra un beccaccino e l’altro, costruiva e riparava yole e skuller, remi di coppia e di punta, timoni e carrelli. Legno e vernice, bronzo e ottone. Lì, sulla zattera
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della nuova canottiera in muratura, ho conosciuto il remo dello zatterino. Un remo con la pala bucata, perché non ci fosse troppo attrito con l’acqua. Avevo 15 anni. Ho imparato presto e dopo una settimana di quegli esercizi all’asciutto, sono salito su una yole a quattro. Sei del mattino, la zattera che si allontana, le barche della Vela, poi quelle dell’Adriaco, l’uscita dalla Sacchetta, la città appena illuminata dai primi raggi di sole, la diga vecchia. Vogando per un’ora, seduto su un carrello che andava su e giù, ho capito per la prima volta a mie spese che la fatica apre ferite dolorose nelle mani dei canottieri alle prime armi. Vesciche che scoppiano, dolore, crema. «Remo ferisce, remo guarisce» dicevano gli anziani. Era vero e ho visto formarsi i primi calli sul palmo delle mie mani di studente. All’inizio il mio remo era il tre, poi sono passato al due, perché dicevano che avevo il braccio destro più forte del sinistro e un remo pari era quello che mi spettava. Dalla Sacchetta sono partito speranzoso un paio di volte vogando verso Barcola per partecipare a regate che non ho mai vinto. Passato il traguardo mi tenevo lontano da riva, dove spettatori e bagnanti guardavano e si agitavano. Ero un po’ vergognoso. Colpi di remo veloci e via verso la Sacchetta. Nelle docce fumanti di vapore della canottiera, al rientro dalle “uscite” in barca, ho visto decine di uomini nudi nelle docce. Qualcosa di simile sarebbe accaduto di lì a qualche anno alla visita di leva. Nella doccia ho conosciuto i primi profumati bagnoschiuma. E gli accappatoi lunghi fino al ginocchio. Lì, allontanandomi dalla zattera, ho capito cos’è la solitudine di chi è costretto a vogare su un singolo; sono stato anche contagiato dall’allegria scanzonata degli equipaggi numerosi. Dietro la piscina che non c’è più, ho baciato nella penombra una ragazza di cui non so più nulla. Ricordo che la bora soffiava e che il freddo era intenso. Lì, all’angolo della Sacchetta dove un tempo svettava severo l’edificio dei Frigoriferi Generali, mi sono immerso con lo scafandro di palombaro. Qualche anno dopo, a non molta distanza, ho assistito all’arrivo di due motovedette grigie della Guardia di Finanza. In coperta, ammassati tra i militari in tuta blu, decine di uomini giovani con volti neri e maglie colorate. Spaventati anche se alzavano verso il cielo la mano destra con due dita aperte a “v”. Erano albanesi e curdi, ricuperati nella laguna di Grado dove erano stati fatti sbarcare e poi abbandonati a se stessi. Erano stati intercettati e portati a Trieste per essere interrogati e spediti poi chissà dove. Barche, uomini, vedette, acqua, remi, scafi da regata, scafandri, galleggianti e treni che non ci sono più. Credo siano motivi sufficienti per aver costruito questo libro. Un tuffo nella memoria, un tuffo nella mia Sacchetta quando il futuro appariva migliore. Claudio Ernè
Porta aperta sul mondo Porta di casa mia di cui tengo le chiavi a portata di mano. Vado e torno lenta o di corsa, al mattino curiosa del nuovo giorno. Scappo frettolosa e corro a rifugiarmi dopo una giornata fredda di Bora. Luogo sicuro per accucciarsi al calduccio. Porta aperta sul mondo giro d’aria fresca d’avventura. Basterebbero queste cinque righe forse per spiegare il perché di questo libro. Certo di lei i miei ricordi sono zeppi. Pieni di immagini scolpite nella memoria piene di emozioni e sensazioni che mi accompagneranno per tutta la vita e che sono la mia vita. Dalla prima infanzia quando passeggiavo con i miei genitori lungo le sue Rive e guardavo con curiosità e stupore le belle barche ormeggiate ai suoi pontili, o quando quasi adolescente smontavo dalla Lambretta di mio padre per andare alla Piscina Bruno Bianchi e venivo colpita dall’odore acre che proveniva dal Magazzino Vini, e una volta dentro spesso rimanevo incantata a guardare dai grandi finestroni la Bora che impazzava suscitando subito le ire della mia allenatrice che mi intimafa di tornare in vasca. O quelle più recenti e forti di quando corro giù per le scale di casa con la macchina fotografica per andare a immortalare il mare in tempesta. O ancora forse il ricordo più struggente il ruggito delle lamiere della piscina in demolizione che come un animale ferito a morte si dimenava languidamente sotto i colpi sferzanti della Bora come toccato da un ultimo élan vital. Odori e visioni che appartengono a tutti noi. Ma non è solo per questo. La Sacchetta è qualcosa di più. Uno spazio non fisico o perlomeno non solo fisico. Uno spazio dell’anima, una condizione dell’essere in cui mi sento ogni mattina quando scendo in strada ed è la prima cosa che vedo, inforco la bici vado a vedere come sta Attica, la mia barca, guardo i segnavento delle barche per capire che vento tira. Inizio bene la giornata. O quando dopo il lavoro ripercorro la stessa strada in senso contrario, con l’ansia di arrivare e di stare in pace, a passare ore in silenzio a far piccole manutenzioni sulla barca forse inutili e superflue in sé ma tanto importanti per me. Certe volte rimango immobile a guardare i ragazzi che entrano in fila indiana fra la Vela e l’Adriaco con le loro derive dopo l’allenamento e ascolto divertita tutta quell’allegria e spensieratezza. Oppure nelle giornate di regata l’attività che ferve, tutta quell’agitazione sui moli quell’umanità che si muove chiacchera, si scambia opinioni e consigli, c’è tanta energia nell’aria e tento di assorbirla di farne tesoro.
Ogni volta quando cammino su quelle pietre penso a com’era, penso alle vecchie fotografie che mi mostrava mio padre, con tutti quei bastimenti ormeggiati, alla vitalità di queste Rive e alle storie umane che si sono intrecciate lungo questi moli. La Sacchetta è nata come porto ed è rimasta tale, forse il suo fascino sta proprio in questo. Una volta dalle sue sponde partivano e arrivavano merci e uomini con i loro sogni e le loro speranze oggi in fin dei conti il quadro non è cambiato poi molto, invece degli alberi dei bastimenti ci sono quelli delle barche a vela, dalla Sacchetta si continua a partire per poi farvi ritorno. Partiamo ragazzini alla nostra prima avventura, annusando il mare, e cento volte dopo ritorniamo verso terra ricchi di neverini, bonacce, mare corto, boline invernali, laschi estivi. Portiamo con noi, scritto sulla nostra pelle e sull’opera viva della nostra barca tutta questa vita e la riversiamo in Sacchetta. Tre secoli di storia, cent’anni di navigazioni, fantasmi di marinai e capitani, facchini e paroni di trabaccoli. Legno, fumo, tela, reti, carbone, Bora ghiacciata. Tutto questo porto con me in Sacchetta. La Sacchetta è casa mia. Tiziana Oselladore
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Cronologia
1827
medioevo città dentro le mura
prova in mare per la nave “Civetta” di Giuseppe Ressel, che muove per mezzo di una verigola o elice
1382
Atto spontaneo di dedizione all’Austria
1830
1711
sale al trono Carlo VI
1830-1840 vengono realizzati palazzi in via Lazzaretto
primo bagno galleggiante militare
1717
Carlo VI emana la Patente di sicura e libera navigazione nel mare Adriatico
Vecchio 1831
nascono le Assicurazioni Generali
1718
pace di Passarowitz; in seguito alla quale stipula accordi commerciali con la Sublime Porta
1833
inaugurazione della Lanterna su progetto di Matteo Pertsch
1719
18 marzo: Trieste Porto Franco inizio bonifiche delle saline fuori Porta Riborgo
1836
nasce il Lloyd Austriaco di Navigazione
1837
i Sartorio costruiscono sulle rive due palazzi e un molo (Molo Sartorio)
1838
nasce la RAS – Riunione Adriatica di Sicurtà
1720-1731 costruzione Lazzaretto San Carlo 1740
sale al trono Maria Teresa
1744-1769 costruzione Molo Teresiano 1749
1753
Maria Teresa emana l’Istruzione composta da cinquantadue paragrafi su come fare di Trieste un emporio; inizia la costruzione del Borgo Teresiano Maria Teresa fonda l’Imperial Regia Accademia di Commercio e Nautica Nasce la Borsa Mercantile
1769
1780
Iver Borland costruisce in androna Campo Marzio uno stabilimento meccanico, e un molo, il primo dotato di una gru meccanica
Maria Teresa proclama Trieste Libera Città Marittima; promulga l’estensione del Porto Franco dalla Val Rosandra a Santa Croce; viene inaugurato il nuovo lazzaretto di Maria Teresa sale al trono Giuseppe II
Giuseppe II emana la Toleranzpatent piani per interrare la riva dal Mandracchio al Lazzaretto Vecchio
1787
Molo Teresiano completato con un fortino pentagonale
1788
Giuseppe II decreta l’avvio della costruzione del Borgo Giuseppino
1818
prova in mare per “Carolina”, primo piroscafo a vapore
1824
nasce il Soglio di Nettuno, il primo bagno galleggiante
186
edificazione della Stazione Transalpina
1909
nasce il Nuovo Bagno Militare dal 1918 Bagno Savoia; nasce anche il bagno Lanterna
1913
edificazione della Pescheria Nuova
1925
4 novembre: inaugurazione palazzina Yacht Club Adriaco edificati i Frigoriferi Generali
1935
nasce il Bagno Ausonia che nel 1936 incorpora anche il Bagno Savoia
1953
lo Studio Belgiojoso Peressutti e Rogers realizza sulle Rive la stazione di servizio per la raffineria Aquila (oggi Stazione Rogers)
1954
forte Bora con gravi danni alle sedi galleggianti Costruzione Piscina Bruno Bianchi
1956
Nascono le Officine Strudthoff, poi Stabilimento Tecnico Triestino 1839
nasce il cantiere San Marco di Gaspare Tonello
1846
si realizza il Molo Giuseppino
1854-1858 si costruisce il palazzo del Barone Revoltella 1858
viene inaugurato il Bagno Maria (bagno galleggiante)
1862-1883 costruzione del nuovo porto nella zona fra la
nuova stazione e il Lazzaretto Santa Teresa che viene smantellato 1869
17 settembre: apertura del Canale di Suez
1875
inaugurazione della statua di Massimiliano in piazza Giuseppina Sacchetta sottoposta a opera di approfondimento della batimetria con lo scoppio di mine
1890
inaugurazione del Bagno Fontana
1891
Porto Franco ridotto alla sola superficie del nuovo porto
1900
inizia il progetto di riqualificazione delle Rive, imponenti opere di interramento dal Canal Grande a Sant’Andrea
inaugurazione Pontile Istria e delle nuove sedi delle società sportive realizzazione della struttura del Mercato ortofrutticolo all’ingrosso sull’area ex Lazzaretto Vecchio
1958
costruzione del grattacielo su progetto di Romano Boico
1969
Edificio principale dell’area ex Lazzaretto Vecchio diventa il Civico Museo del Mare
1981
posizionati i piloni per i pontili di ormeggio della Società della Vela
1989
la Lega Navale inaugura la sezione nautica
1992
la Lega Navale inaugura la sua sede sociale nella Lanterna
1999
Inaugurazione nel bacino San Marco del Marina San Giusto
2000
inaugurazione nuova sede della Società della Vela
2005
inaugurazione nuova sede Yacht Club Adriaco
2008
riapertura della rinnovata Stazione Rogers
2009
inaugurazione nuova palazzina servizi della Lega Navale
1853-1861 costruzione dell’Arsenale del Lloyd
prima richiesta di edificazione in Borgo Santi Martiri 1781
1906
abbattimento della Piscina Bruno Bianchi
Panorama della Sacchetta anni ’50 La Lanterna a strisce e sullo sfondo la quinta della splendida “palazzata” di Riva Grumula; si scorge sul mare il Pontile Istria in costruzione, a destra lo Stabilimento alla Lanterna.
187
Bibliografia consultata dagli autori Evoluzione della Sacchetta, in «Rivista Mensile della Città di Trieste», Nuova Serie, Vol. IV, fascicolo n. 3, marzo 1953 AA. VV., Maria Teresa, Trieste e il Porto, catalogo della mostra, Istituto per l’Enciclopedia del Friuli Venezia Giulia, Udine, 1981 AA. VV., Scrittori Triestini del Novecento, Lint, Trieste, 1968 AA. VV., Trieste: l’architettura neoclassica, B&MM Fachin, Trieste, 1989 AA. VV., Trieste anni cinquanta, Comune di Trieste, Trieste, 2004 Alga Marina (pseudonimo di Eugenio Chiminelli), Il porto di Trieste dal 1700 in poi, Stabilimento Tipografico Nazionale, 1934 Fabio Amodeo, Nives Millin, Arturo Giacomelli, viaggio nella Trieste di Svevo, Ed. Arte &, Udine, 1990 Enzo Angiolini (a cura di), Ursus, Luglio Editore, Trieste, 2007 Liliana Bamboschek, Ocio, col bagno! Vecchi stabilimenti balneari a Trieste, Il Murice, Trieste, 2001 Edgardo Bartoli, Nicoletta Brunner, Nonna Trieste, Modiano, Trieste, 1970 Corrado Belci, Il libro della Bora, Lint, Trieste, 2002 Guido Botteri, Il Porto Franco di Trieste, una storia europea di liberi commerci e traffici, Editoriale Libraria, Trieste, 1988 Fulvio Caputo (a cura di), Le carte dell’Impero, catalogo della mostra, Comune di Trieste 23 settembre-30 ottobre 1982, Albrizzi, Venezia, 1982
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Fonti iconografiche
Ringraziamenti
4-5, 13, 14-15, 17, 21 dx b, 23, 25, 26, 28, 31, 32, 34, 38 dx, 42-43, 45, 47, 49, 55 dx, 57, 58, 59, 65, 69, 72, 73, 75, 78, 80, 81, 87, 88, 89, 90 sx, 91, 102, 111, 112 a, 116, 119 (le prime due), 121 b, 123, 125, 126, 127, 134, 135, 157, 158, 160, 168 dx, 171, 176: Collezione Claudio Ernè, Trieste;
Gli autori e l’editore ringraziano quanti hanno contribuito in vario modo alla realizzazione di questo volume:
16, 35: Collezione Piero Delbello, Trieste;
Giorgio Brezich per le immagini e le notizie sulla Triestina della Vela;
18, 19: Collezione Fabio Amodeo, Udine; 20: Archivio CRAF, Spilimbergo; 21 a, 24, 27, 40, 130, 131, 187, 190: Collezione Massimiliano Schiozzi, Trieste; 22, 39, 41, 46, 55 sx, 64, 101, 108, 109, 110, 117, 121, 122, 156: Collezione Tiziana Oselladore, Trieste;
Fabio Amodeo per le immagini di Arturo Giacomelli; Cinzia Benussi per l’attenta revisione;
Massimo Cetin per le immagini della Pescheria Centrale; Guglielmo Danelon per le vicende storiche dell’Adriaco; Piero Delbello per le immagini storiche del porto; Andrea Di Matteo per le immagini dei treni sulle Rive; Maurizio Eliseo per le notizie sulla storia della marineria;
36, 51, 63, 100, 103, 104, 105, 106, 107: Collezione Mario Marzari, Trieste;
Francesco Fegitz per la documentazione sull’Adria;
I dati relativi alla casetta dei piloti sono tratti dall’Archivio Diplomatico – Biblioteca Civica A. Hortis del Comune di Trieste (4 L 1/579 - Piano di costruzione d’una piattaforma da eseguirsi alla estremità del Molo Sartorio. Trieste 26 Sett.bre 1845. Disegno a penna parzialmente acquerellato 453x617 scala di 7 klafter = mm 160 per la pianta scala pel profilo costruzione non precisata. Imp. Reg. Direzione delle pubbliche costruzioni. Molo Sartorio Moli. DG N 904/845; 4 L 1/581 - Piano d’ulteriore prolungamento con muratura cementiccia del Sartorio nella Rada di Trieste. Trieste 18 Settembre 1845. Disegno a penna parzialmente acquerellato 482x749 scala di 10 klafter = mm 133. Imp. Reg. Direzione delle pubbliche costruzioni Francesco Tureck, Baubelay Molo Sartorio Moli. DG N 844/845. Sul retro 53 su talloncino in carta e manoscritto 197. 4 L 1/583 - Pianta della piattaforma all’estremità del Molo Sartorio che varia dal progetto approvato in quanto d’avere costruito la parte m-n onde lasciare l’appertura pella corrente dell’acqua. Trieste 20 Giugno 1846. Disegno a penna parzialmente acquerellato 342x500 scala di 11 klafter = mm 145 per la pianta e di 3 klafter = mm 139 per il profilo. Imp. Reg. Direzione delle pubbliche costruzioni Anthoine Molo Sartorio Moli. In alto a sin. e sul retro Tipo F. DG N 386/846.).
37, 52, 53, 54, 56, 68, 86, 112 b, 113, 114, 118, 124 dx, 132, 133: Collezione privata, Trieste;
Walter Liva direttore del CRAF di Spilimbergo;
Le piante alle pagine 9 e 11 sono tratte da Pietro Kandler, Cartolare di piani e carte dove si descrive la storia di Trieste e del suo territorio, Trieste, 1856 (riproduzione facsimilare dell’originale a cura, con saggio e commenti di Giulio Cervani, Edizioni della Cassa di Risparmio di Trieste, Trieste, 1975); Biblioteca Civica A. Hortis del Comune di Trieste, R.P. 7-65.
146: Collezione Giorgio Brezich, Trieste;
62, 159, 166, 169, 178, 180: Archivio Società Canottieri Trieste, Trieste; 48: Collezione Andrea Di Matteo, Trieste; 60, 155, 170, 172, 173, 174, 175: Archivio Società Triestina Canottieri Adria 1877; 61, 66, 67, 93, 138, 137, 140, 141, 145: Archivio Yacht Club Adriaco, Trieste;
Alessandra Festini per le immagini dalla collezione Marzari; Walter Macovaz e Simona Dibitonto per le immagini dell’Ursus; Luciano Michelazzi e Paolo Rosso della Ginnastica Triestina Sezione Nautica per le immagini storiche e i diari dei raid remieri; Raffaello Moradei per il racconto e le immagini del Selene e delle donne canottiere;
82, 83: Archivio Stazione Rogers, Trieste;
Claudio Oselladore senza il quale la parte storica non sarebbe stata scritta;
90 dx: © Ugo Borsatti, Collezione Guglielmo Danelon, Trieste;
Giorgio Sebastiani per i materiali storici dell’Adriaco;
94, 95: © Simona Dibitonto, Trieste;
Mario Sorz per le foto storiche della Canottieri Trieste;
96, 97: Walter Macovaz, Trieste;
Paola Ugolini dell’Archivio Generale e Gabriella Norio della Biblioteca Civica A. Hortis del Comune di Trieste per le ricerche archivistiche;
115: © Mario Magajna, Collezione privata; 124 sx, 179, 182 dx a: Collezione Luciano Michelazzi, Trieste; 128, 129: Collezione Basiliola de Leitenburg, Trieste;
Stelio Vinci per averci segnalato il libro Corridoi della memoria di Santiago Grimani (Oscar Grünbaum);
119, 177, 181, 182, 183: Collezione Raffaello Moradei, Venezia;
Cristina Zar per i suoi suggerimenti sui testi di Libero Mazzi;
144: Archivio Comunicarte Edizioni, Trieste;
Stelio Zoratto del Civico Museo del Mare di Trieste per i preziosi consigli;
147: Collezione Marzia Straulino, Novara; 38 sx, 70, 71, 74, 76, 77, 79, 142, 143, 148, 149, 150, 151, 152, 153: Archivio Società Triestina della Vela, Trieste; 161, 162, 163, 164, 165, 168 sx: Archivio Società Ginnastica Triestina Sezione Nautica - Canottaggio, Trieste;
gli archivisti del quotidiano «Il Piccolo» per la gentilezza e la disponibilità dimostrata nelle ricerche; Fabrizio Gaio e Maila Zarattini per le pazienti letture; Infine un sentito ringraziamento a tutti i soci dei circoli sportivi della Sacchetta che ci hanno aiutato con i loro racconti e i loro ricordi.
189
Finito di stampare nel mese di ottobre 2011 presso le Poligrafiche San Marco, Cormons.
«Il cutter continuava ad inclinarsi, le increspature dell’acqua si facevano sempre più visibili; entrambi tacevano, dalla poppa lui si era spostato sul lato dove sedeva lei, reggendo una cima in una mano, nell’altra l’impugnatura del timone. […] Tuttavia lui aveva lo sguardo puntato in direzione della città, che si stava lentamente allontanando. Disse: «Quando vengo qua e osservo la città, mi fa sempre la stessa impressione. Altre città, come Napoli, Palermo, Venezia, per esempio, hanno mantenuto lo scopo per il quale sono state costruite. Conoscono la ragione della loro esistenza. A Trieste, invece, è come se fossero stati eretti dei grandi edifici lungo la costa solo perché altrove, nel mondo, ci sono palazzi in riva al mare. Quei grandi edifici stanno ancora attendendo che la gente decida cosa farne.» Boris Pahor
€ 25,00 ISBN 978-88-6287-067-2
carte di mare 192