LE
MANI
SULLA VERITÀ
100 ANNI DI FRANCESCO ROSI
a cura di Domenico De Gaetano e Carolina Rosi con Mauro Genovese e Fabio Pezzetti Tonion
PRESIDENTE
Enzo Ghigo
DIRETTORE
Domenico De Gaetano
COMITATO DI GESTIONE
Giorgia Valle (Vicepresidente), Paolo Del Brocco, Gaetano Renda, Annapaola Venezia
FILM COMMISSION REGIONE CAMPANIA
Titta Fiore (Presidente) Maurizio Gemma (Direttore)
ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI NAPOLI
Rosita Marchese (Presidente) Renato Lori (Direttore)
DET DANSKE INSTITUT I ROMACCADEMIA DI DANIMARCA
A ROMA
Charlotte Bundgaard (Direttore)
FESTIVAL “LA VALIGIA DELL’ATTORE”, ISOLA DI LA MADDALENA
Giovanna Gravina Volonté, Fabio Canu (Direzione)
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO IIDIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
LE MANI SULLA VERITÀ 100 ANNI DI FRANCESCO ROSI MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA MOLE ANTONELLIANA 15 NOVEMBRE 2022 > 17 APRILE 2023
A CURA DI Domenico De Gaetano e Carolina Rosi con Mauro Genovese e Maria Procino
COORDINAMENTO
Claudia Gianetto PROGETTO ALLESTIMENTO E DIREZIONE LAVORI Helga Faletti PROGETTO GRAFICO E IMMAGINE GUIDA Elena Manzone
ORGANIZZAZIONE PROGETTO, ALLESTIMENTO E LOGISTICA
Sabrina Mezzano con Paolo Bertuzzi, Claudia Bozzone, Leonardo Ferrante, Maria Riccobene
FOTOGRAFIE
Björn Blixt, Licio D’Aloisio, Mario Dolcetti, Pat Marin, Number One: G. Antro, Pierluigi, Michel Random, Roma’s Press Photo: Velio Cioni, Nicola Scafidi, Sergio Strizzi
TESTIMONIAL
Artem, Marco D’Amore, Francesco Di Leva, Valeria Parrella, The Jackal (Fabio Balsamo, Aurora Leone)
VIDEOINTERVISTE
Accademia di Belle Arti di Napoli
Gina Annunziata (Coordinatrice Scuola di Cinema Fotografia e Audiovisivo)
Luigi Barletta con Pasquale Napolitano
Allieve e allievi: Selene Casparrini, Luca Esposito, Roberto Esposito Salsano, Sara Fusco, Lucia Nasti
SOTTOTITOLI
Double Line S.r.l.s., Torino
ROSI ABOUT EBOLI
(Björn Blixt e Peter Englesson, 1982)
Giulia Longo (Det Danske Institut i Rom - Accademia di Danimarca a Roma); Giovanna Gravina Volonté (Festival “La Valigia dell’Attore”, Associazione Culturale Quasar, Isola di La Maddalena)
SELEZIONE SEQUENZE E MONTAGGI VIDEO
Cristina Monti
SELEZIONE OPERE
Stefano Boni con: Mauro Genovese, Erika Pauletto (Archivio Storico); Elena Boux (Fototeca); Nicoletta Pacini, Tamara Sillo (Manifesti); Antonella Angelini, Paola Bortolaso, Marco Grifo (Bibliomediateca)
SELEZIONE E ORGANIZZAZIONE MATERIALI STUDIO ROSI (ROMA)
Monica Caliendo
EDITING, ATTIVITÀ EDUCATIVE, RESA ACCESSIBILE
Paola Traversi con Marta Fontolan, Erica Girotto, Ornella Mura, Rocco Rolli, Tactile Vision
RASSEGNA FILM
Grazia Paganelli, Roberta Cocon
COMUNICAZIONE E MARKETING
Maria Grazia Girotto con Alessandra Aimar, Jenny Bertetto, Giovanna Lomonte, Bruna Ponti; Genio S.r.l. - Social Media; Alessandro DaminDesign Studio
UFFICIO STAMPA
Veronica Geraci con Serena Santoro
COORDINAMENTO GENERALE E AFFARI LEGALI
Daniele Tinti con Emanuela Peyretti
AMMINISTRAZIONE
Giulia Fiorio con Sandra Giaracuni
OSPITALITÀ
Roberta Bonalanza, Bianca Girardi
ALLESTIMENTO
Artinbox S.r.l.; Colorecolori S.r.l.; Abacus di Libanore Marco; Euphon Communication S.r.l.; Cienne S.n.c. di Gangemi A. & C.
TRADUZIONI
Art and Culture Translated Ltd.
ASSICURAZIONE
Reale Mutua - Agenzia Antonelliana, Torino
TRASPORTI
L’Arredottore Uno di Tezza C.
CREDITI FOTOGRAFICI
Archivio Björn Blixt; Archivio Sergio Strizzi; Reporters Associati & ArchiviRoma; Museo Nazionale del Cinema - Fondo Francesco Rosi; Biblioteca privata Francesco Rosi
SI RINGRAZIANO
Anna Masecchia (Università degli Studi di Napoli Federico II - Dipartimento di Studi Umanistici); Luigi Grispello (Agis Campania); Clotilde Punzo, Anna Maria Lubrano Lavadera, Federica De Rosa, Tonino Di Ronza, Claudio Malice, Barbara Napolitano (Accademia di Belle Arti di Napoli); Lucia Napolitano (Ufficio Cinema Comune di Napoli); Grazia Prota, Serafina Ormas (Feltrinelli Napoli - Ufficio Stampa), Björn Blixt, Peter Englesson
CATALOGO LE MANI SULLA VERITÀ 100 ANNI DI FRANCESCO ROSI
A CURA DI Domenico De Gaetano e Carolina Rosi con Mauro Genovese e Fabio Pezzetti Tonion
TESTIMONIANZE
Lirio Abbate, Roberto Andò, Furio Colombo, Marco Tullio Giordana, John Turturro
PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE Elena Manzone
STAMPA
GrafArt - Officine Grafiche Artistiche - S.r.l.
IL MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA È A DISPOSIZIONE DEGLI EVENTUALI DETENTORI DI DIRITTI CHE NON È STATO POSSIBILE RINTRACCIARE.
Le mani sulla città , 1963 Francesco Rosi Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
VITTORIA POGGIO
Assessore Cultura, Turismo e Commercio Regione Piemonte
A cento anni dalla sua nascita non poteva mancare nel ventaglio delle proposte del Museo Nazionale del Cinema una mostra dedicata a Francesco Rosi, regista impegnato, colto e di grande sensibilità che ha fatto del cinema uno strumento per stimolare il pensiero critico nello spettatore che lui considerava un protagonista a tutti gli effetti. Una figura che spicca per l’impegno civile col quale ha rappresentato i nervi scoperti del mondo contemporaneo: dagli intrecci tra politica e affari fino ad arrivare alle contraddizioni delle guerre.
La verità per Rosi non è solo cronaca, documento; è anche rappresentazione delle passioni umane. E questa alla fine è la lezione di Rosi, specie per coloro che di fronte a simili materie avrebbero creduto di non potere scegliere che tra il film d’invenzione più o meno fumettistico e il piatto documentario. Rosi immaginava lo spettatore non come una figura passiva, ma come un interlocutore del film. Un individuo che può e deve andare al di là dei dubbi insinuati dal suo lavoro e formularne a sua volta dei nuovi. Questo è il cinema della realtà, il suo cinema, che poneva domande più che dare risposte. Rosi non ha mai girato pellicole a tesi. Sono state sempre aperte alla riflessione e alla discussione. Il suo era un cinema che ha sempre avuto al centro l’uomo, le sue passioni, le virtù e i vizi: un modo perché gli uomini si conoscessero e si capissero meglio tra loro.
Anche questa volta la programmazione del Museo Nazionale del Cinema è al passo coi tempi, orientato alla riflessione come era lo spirito di questo nostro grande artista di cui la mostra coglie gli aspetti salienti senza dimenticare i dettagli, dove forse germogliano i significati profondi del messaggio della sua filmografia.
VINCENZO DE LUCA Presidente
Regione CampaniaA cento anni dalla sua nascita, la Campania, terra natale di Francesco Rosi, sostiene con convinzione l’iniziativa del Museo Nazionale del Cinema di Torino – realizzata in collaborazione con la Film Commission Regione Campania – per rendere omaggio ad uno dei più grandi Maestri del Cinema, autore di tanti capolavori, riconosciuto a livello internazionale, che ha sempre mantenuto vivissimi i rapporti con le sue radici e i luoghi della sua formazione. Rosi si è fatto interprete dell’impegno civico e della migliore tradizione intellettuale di un Sud che non si arrende all’arretratezza culturale, al malaffare, all’ingiustizia. Ed il Sud è rimasto sempre saldamente al centro della produzione artistica di Rosi, della sua estetica rigorosa, ma profondamente umana. La centralità del Sud, quanto mai attuale in questi tempi difficili, passa anche attraverso l’esempio e il ricordo di un uomo che ha fatto la storia del cinema nel nostro Paese e che da Napoli, dalla Campania, è partito per conquistare la scena internazionale, senza mai dimenticare le proprie origini. E la Campania non dimentica la lezione del grande Maestro, la cui eredità va ben oltre la ricorrenza del centenario e che continua a rappresentare fonte di ispirazione per le nuove generazioni di autori che la Regione sostiene con convinzione, anche attraverso le azioni previste dalla Legge “Cinema Campania”, affinché la produzione audiovisiva, in tutte le sue forme, continui ad essere strumento di crescita sociale e culturale per il nostro territorio.
ROSANNA PURCHIA
Assessore Cultura Città di TorinoLa Città saluta con grande entusiasmo la mostra Le mani sulla verità. 100 anni di Francesco Rosi ed è felice che il grande regista possa essere ricordato e celebrato qui, dove il cinema è nato. Francesco Rosi grazie al suo stile elegante, diretto, pungente e popolare ha saputo affrontare grandi temi dell’Italia di ieri, che però, a ben guardare sono ancora straordinariamente attuali. L’Italia che raccontava, gli italiani che descriveva, il mondo che raffigurava è ancora attuale: i cambiamenti climatici e il rapporto tra campagna e città, le questioni irrisolte con il passato fascista nel nostro paese, le tensioni internazionali e la guerra che sta schiacciando il popolo ucraino, la criminalità organizzata che si è evoluta ed è sempre più difficile da colpire, le nuove disuguaglianze sociali. Attraverso capolavori come Uomini contro, Le mani sulla città e Il caso Mattei abbiamo compreso come la sua opera sia libera, genuina e votata alla ricerca della libertà. Ed è questo che piace, ed è per questo che Torino è felice di ospitare una mostra a lui dedicata. La mostra sarà, ne sono certa, accolta dai torinesi con grande partecipazione. Ringrazio quindi i curatori della Mostra e, con particolare partecipazione, Carolina Rosi, alla quale va il pensiero della Città e il mio personale per tanta vita teatrale che ha incrociato i nostri destini.
Salvatore Giuliano, 1962
Françoise Sagan, Francesco Rosi e Franco Mancinelli Scotti
Foto di Number One: G. Antro
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
ENZO GHIGO
Presidente Museo Nazionale del Cinema
Cento anni. Un secolo. Eppure Francesco Rosi, uno dei più conosciuti maestri del cinema italiano a livello mondiale, è ancora straordinariamente attuale e presente grazie a un’opera che ci permette di riflettere sulla complessità del presente. I suoi film hanno la capacità di trasmettere un messaggio universale, la cui costante è la ricerca della verità e della giustizia. Rosi si è occupato con grande lucidità di temi civili e sociali, proponendo una riflessione sulla storia del Novecento dell’Italia e mettendo in luce le zone grigie tra politica e malavita, indagando la follia della guerra e mostrando in modo critico i meccanismi di un potere fiaccato da corruzione e trame occulte. Insieme a Carolina Rosi, senza la cui tenacia e disponibilità questo progetto non sarebbe venuto alla luce, abbiamo immaginato un omaggio che da un lato mettesse in luce il Fondo Francesco Rosi conservato negli archivi del Museo Nazionale del Cinema di Torino e dall’altro mostrasse ai visitatori le peculiarità di un regista del tutto atipico nel panorama nazionale. Un autore capace di unire una profonda passione civile a un raffinato, potente e innovativo stile cinematografico, ammirato da registi quali Martin Scorsese, Francis Ford Coppola e Paolo Sorrentino.
Francesco Rosi ha visitato Torino molte volte e quando entrava al Museo Nazionale del Cinema si sentiva a casa: non è dunque un caso che il Museo, tra il 2003 e il 2008, abbia acquisito il suo archivio. Dopo la mostra che gli è stata dedicata nel 2008 nella suggestiva location dell’Aula del Tempio, il Museo Nazionale del Cinema torna a omaggiare Francesco Rosi con un
progetto che, coinvolgendo l’Accademia di Belle Arti di Napoli e la Film Commission Regione Campania, ha come obiettivo quello di portare nuovamente il cinema di impegno e passione civile di Rosi al centro dell’attenzione.
Due mostre (una a Torino e una a Napoli), un catalogo comune, incontri, dibattiti, retrospettive di film, hanno infatti un unico filo conduttore: avvicinare i giovani a un autore estremamente attuale e il cui cinema è in grado di suscitare interrogativi e animare il senso critico del pubblico.
Al di là dell’esposizione di documentazione inedita, la novità più importante della mostra risiede nell’approccio che si è adottato nel presentare i materiali che compongono il Fondo. Non ci si è indirizzati solamente al pubblico dei cinefili e degli studiosi ma più di tutto si è voluto presentare e far conoscere Francesco Rosi ai giovani.
Per fare ciò sono stati scelti dei testimonial d’eccezione per raccontare i film in modo coinvolgente e sono stati realizzati percorsi didattici di approfondimento dei temi che contraddistinguono il suo cinema.
Francesco Rosi ha lasciato in eredità al Museo Nazionale del Cinema il suo enorme patrimonio: un archivio ricchissimo che può fornire risposte sull’uomo e sull’artista ma anche sulla società che quest’ultimo ha indagato. Il compito del Museo è di fare in modo che questa eredità non rimanga “fossilizzata” ma divenga un insegnamento vivo per le nuove generazioni.
ROSITA MARCHESE
Presidente Accademia di Belle Arti di Napoli
Francesco Rosi è stato maestro e protagonista del cinema italiano e internazionale della seconda metà del Novecento. A cominciare dall’opera prima La sfida (1958), film sulla camorra che mette in luce per la prima volta i legami con la politica e le problematiche del Mezzogiorno, passando per Le mani sulla città (1963), Il caso Mattei (1972) fino a La tregua (1997) tratto dal libro di memorie di Primo Levi, Rosi ha portato nel cinema italiano la forza e il rigore di un nuovo cinema di indagine. Carattere schivo ma grande creatività multiforme spesso proprio tipica dei napoletani, mi piace ricordare di lui la frequentazione al liceo Umberto I con illustri personaggi quali La Capria, Napolitano, Patroni Griffi, compagni e amici di vita. Questo gruppo amava riunirsi a Posillipo, nel salotto di Palazzo Donn’Anna discutendo di teatro, cinema, politica, letteratura ma soprattutto di impegno civile. In quest’ottica vanno visti i suoi film di inchiesta, connubio magistrale tra giornalismo e fotografia. Rosi raccontava fatti con finalità sociale, rappresentava inquietudini, poneva interrogativi, tutto con la passionalità partenopea.
La sua opera, profondamente radicata nella cultura e nella storia del nostro Paese, portatrice di valori etici e civili, rappresenta per la nostra Istituzione un punto di riferimento per tutti i nostri allievi e allieve che si avvicinano alla pratica artistica.
TITTA FIORE
Presidente Film Commission Regione Campania
Affascinato dalla ricerca della verità, animato dalla passione civile, sostenuto da uno straordinario talento per l’architettura delle immagini, Francesco Rosi è stato un autore rivoluzionario. Un maestro insuperato nell’arte di coniugare la potenza della narrazione con il rigore metodologico dell’inchiesta. Per la forza etica del suo cinema, fortemente impegnato a smascherare le opacità del potere e al tempo stesso capace di inventare un nuovo linguaggio, facendo scuola nel mondo, gli americani lo chiamavano “Citizen Rosi”, il cittadino Rosi. Una definizione che lo inorgogliva. Con film magistrali ha raccontato la corruzione delle mafie, la crudeltà della guerra, la spietatezza del terrorismo, la speculazione edilizia che cambiò il volto di Napoli, lo sfruttamento e i mali endemici del Sud componendo, pur nella specificità dei singoli progetti artistici, un’unica, grande indagine sulla realtà italiana. Il suo cinema è necessario, perché parla alle coscienze e al cuore. A lungo Rosi si era battuto perché fosse visto nelle scuole. Pensava che tra i compiti di un autore ci fosse anche quello di fornire ai giovani gli strumenti per esercitare lo spirito critico, per capire il mondo. Ed è bello e importante che le celebrazioni per il centenario della sua nascita, organizzate dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e dalla Film Commission Regione Campania con mostre, pubblicazioni inedite e convegni, vadano anche in questa direzione.
Salvatore Giuliano , 1962 Francesco Rosi Foto di Pat Marin Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi19 20 26 32 34 36 38 42 48 52 58 65 67 75 85 95 103 111 112 122 128 132
INDICE
LE MANI SULLA VERITÀ
Domenico De Gaetano Prospettiva Rosi: 100 anni dopo
Carolina Rosi Franco mio padre, regista della realtà
Gina Annunziata Rosi maestro nostro
Lorenzo Codelli Rosi secondo secolo
Giovanna Gravina Volonté
Lirio Abbate Roberto Andò Furio Colombo Marco Tullio Giordana
John Turturro
I FILM
Salvatore Giuliano
Le mani sulla città Uomini contro Il caso Mattei Cristo si è fermato a Eboli
ARCHIVIO
Mauro Genovese L’archivio Francesco Rosi del Museo Nazionale del Cinema
Maria Procino Quel laccio che mi ha regalato…
Giulia Longo Rosi about Eboli
Peter Englesson Rosi about Eboli
LE MANI SULLA VERITÀ
DOMENICO DE GAETANO
PROSPETTIVA ROSI: 100 ANNI DOPO
Francesco Rosi è uno dei grandi maestri del cinema italiano. Preferisco parlare di lui e del suo cinema al presente, perché dai numerosi materiali che il Museo Nazionale del Cinema conserva nel fondo dedicato al regista e che ho visionato per realizzare questa mostra, dai suoi scritti e interviste, così come dalle testimonianze di amici e collaboratori, oltre che della figlia Carolina, emerge la figura di un uomo, di un intellettuale e di un regista profondamente contemporaneo.
I suoi film – sebbene abbiano fatto la storia del cinema – visti oggi rivelano una sorprendente attualità per i temi affrontati e una straordinaria capacità di parlare allo spettatore. Accanto ad altre figure di maestri del cinema italiano, quella di Rosi si distingue per l’approccio e lo stile originali. Se infatti Federico Fellini è il regista dell’abbandono al sogno e alla fantasia, Michelangelo Antonioni è l’analista del disagio esistenziale e dell’alienazione, Dino Risi ed Ettore Scola dissezionano i molti vizi e le poche virtù nei perfetti meccanismi a orologeria di quelle stesse commedie all’italiana che Mario Monicelli porta a un livello superiore di cinismo e umorismo graffiante, Francesco Rosi incarna al massimo grado l’ideale di un cinema di impegno civile e politico. Se, come sosteneva Jean Renoir, “un regista rifà sempre lo stesso film con gli stessi temi, scelte e situazioni”, questo vale tanto più quando si osserva l’opera complessiva di un grande maestro come Rosi. Perché, sebbene i suoi film possano apparire diversi per i temi trattati e per modelli narrativi utilizzati, ciò che li fa riconoscere come appar-
tenenti a un corpus unico e autoriale, ciò che rende evidente la “firma” è la profondità dello sguardo morale del regista, è la definizione di una cornice civile ed etica all’interno della quale si circoscrivono gli avvenimenti che vengono analizzati, è la forza di un profondo ragionamento posto al servizio di una battaglia di idee che sa essere dirompente e anticonvenzionale. Il suo è un cinema pieno di interrogativi più che di certezze, costruito su molte domande (scomode) e sulla volontà di osservare le problematiche del reale oltre una superficie che si rivela spesso essere una comoda maschera atta a celare meccanismi di potere poco limpidi quando non addirittura criminosi. Un approccio autoriale decisamente distante dalle pastoie del politically correct che in questo periodo sembra attanagliare molto cinema contemporaneo. I suoi film sono percorsi impervi, affascinanti e inediti che conducono verso la ricerca della verità, contro un sistema di valori e uno status quo stantio e annichilente. Sono film che rifuggono soluzioni semplici e che, attraverso uno stile di grande rigore formale e un preciso assunto oggettivo, propongono domande scomode cercando di fare luce su snodi fondamentali della Storia e del presente del nostro Paese. Infatti, al di là di un’irrefrenabile corsa alla trasformazione tecnologica e digitale che ci rende tutti (inter)connessi nel mondo ventiquattro ore al giorno portandoci a fluttuare in un mondo virtuale che pare una fascinosa gamification di quello reale – con una globalizzazione sistemica che ci ha portato a frequentare usi e costumi un tempo lontanissimi – i problemi reali affrontati da Rosi in oltre trent’anni di carriera sono tutti presenti, incastrati, allora come oggi, nel nostro vissuto quotidiano. Il mondo è certo cambiato, ma le tematiche che il regista ha messo in scena e analizzato sono tuttora vive, forse hanno mutato un poco le loro apparenze ma mantenendo la sostanza. Per questo motivo il cinema di Rosi è un cinema terribilmente attuale che indagando il passato sa fornire gli strumenti culturali e di analisi per un confronto con il presente. In un mondo che ha fatto della velocità la sua ragion d’essere, dove quanto è accaduto ieri si trasforma immediatamente in qualcosa di vecchio, obsoleto, il cinema di Rosi si staglia nel presente in tutta la sua grandezza, con la sua capacità di affrontare drammi sociali, politici e culturali, indagando le tragedie della nostra storia senza edulcorarne le conseguenze.
Francesco Rosi è l’autore di opere il cui principio di testimonianza civile deve essere comunicato e trasmesso ai più giovani. E questo è un compito educativo di cui un’istituzione come il Museo Nazionale del Cinema non può non farsi carico.
Insieme a Carolina Rosi, abbiamo dunque deciso di selezionare cinque film esemplari facendoli introdurre da alcuni testimonial d’eccezione. Film capaci di affrontare con un linguaggio diretto e coinvolgente, lucido ma al contempo emozionante, alcuni mo-
menti emblematici dell’Italia del Novecento, ponendo in essere questioni che risultano legate a doppio filo a temi di profonda attualità. Salvatore Giuliano (introdotto da Marco D’Amore) indaga il problema della mafia e del suo rapporto ambiguo con lo Stato; il tema dei rapporti tra amministrazione pubblica e malaffare è invece alla base di Le mani sulla città (introdotto da Francesco Di Leva), duro apologo sulla corruzione e il sistema clientelare; Uomini contro (presentato da Artem) è uno spietato atto d’accusa contro la follia e i massacri della guerra ma anche una lucida riflessione sull’essere umano e il libero arbitrio alla quale siamo oggi tutti chiamati; ne Il caso Mattei (presentato dai The Jackal) si ipotizza che la scomparsa del presidente dell’ENI Enrico Mattei – interpretato da uno straordinario Gian Maria Volonté – sia da imputare all’intenzione d’impedire all’Italia di raggiungere una propria autonomia energetica ed è dunque di straordinaria attualità se si guarda alla crisi degli idrocarburi che stiamo vivendo. Infine con Cristo si è fermato a Eboli (introdotto da Valeria Parrella) si pone l’attenzione sulle problematiche del Mezzogiorno e, più in generale, su tutte quelle aree periferiche del Paese che scontano un ritardo economico e culturale, divario spesso insanabile in cui si manifesta la dicotomia tra ricchezza e povertà, tra possibilità di progresso e condanna all’arretratezza. La ricorrenza del centenario della nascita di Francesco Rosi permette al nostro museo di celebrare un grande autore del cinema italiano e mondiale, la cui opera è stata straordinariamente influente su più di una generazione di cineasti. Non solo: permette anche di fare conoscere alle giovani generazioni un autore animato da un fortissimo senso etico che fa del cinema uno strumento privilegiato per cogliere la realtà, indagarne i meccanismi e analizzarne le problematiche e i momenti di crisi. Non per darne solo testimonianza, ma per poter intervenire in modo diretto, cercando la possibilità di un cambiamento positivo e di un miglioramento. Per poter immaginare il futuro è necessario nutrirsi del passato, acquisendolo con un atteggiamento critico, proattivo, consapevole. Questo è l’unico approccio che consente di mettere le mani sulla verità.
Le mani sulla città, 1963 Francesco Rosi e Rod Steiger Foto di Mario Dolcetti
Salvatore Giuliano , 1962 Francesco Rosi, il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo e, alla macchina da presa, l’operatore Pasqualino De Santis Foto di Number One: G. Antro ©Reporters Associati & Archivi –Roma Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
CAROLINA ROSI
FRANCO MIO PADRE, REGISTA DELLA REALTÀ
“In un momento nella nostra storia così difficile, in questo Paese sentirsi cittadini, essere stato definito cittadino è per me un invito ad andare avanti”. Parlavi così Franco a Venezia quando nel 2012 ricevesti il Leone d’oro alla carriera. “Cittadino”: questo appellativo ti rendeva fiero e questo era stato il titolo della retrospettiva dedicata a te a New York l’anno prima: Citizen Rosi: The films of Francesco Rosi
Il tempo dice che sono passati cento anni dalla tua nascita e me ne rendo conto solo se sfoglio i nostri album di famiglia: quel tuo modo serio di metterti in posa davanti all’obiettivo di tuo padre che ti fotografava mentre indossavi una piccola giacca da camera o un buffo vestito da pirata. Con lui scopristi il cinema e chissà forse proprio nel buio affascinante di una sala napoletana, ti innamorasti del “cinematografo” come l’avresti poi chiamato.
Il tempo dice che non ci sei più ma allora perché ti sento ogni momento accanto a me? Ogni volta che sono stanca, che vorrei mollare, che mi sento ferita o preoccupata, cerco il tuo volto e mi sorprendo ad aspettare lo squillo del telefono, c’è in me la tua voce che scandisce bene e lentamente quelle parole: Carolina andiamo avanti! E allora mi tuffo nei ricordi delle lettere che mi scrivevi, delle foto dei nostri viaggi, delle nostre risate, delle litigate, di mamma che ci zittiva. Apro una vecchia agenda per accarezzare la tua scrittura e trovo questa frase trascritta sulla prima pagina, ne apro un’altra e la ritrovo ancora, come un monito: Andiamo avanti! Foglio dopo foglio segnavi appunti e numeri
telefonici, raccoglievi appuntamenti e riflessioni su quel progetto che avevi in mente da anni, su quel film che eri andato a vedere e ti aveva colpito. Ricordi Franco? Quando lavoravamo al documentario Citizen Rosi, mi raccomandavi di non montare un film celebrativo, nulla del genere ti avrebbe mai interessato, del resto lo sappiamo entrambi le celebrazioni sono un rischio, possono smontare di ogni significato la vita stessa di un artista, di una persona. Ti rassicuravo sulla finalità di quella pellicola. Tu su un piedistallo non ci saresti mai stato… In ogni sequenza dei tuoi film chiunque potrà sempre scorrere la Storia non solo del nostro Paese, i ragazzi potranno sfogliare un cinema che attraverso il dubbio può renderli consapevoli del presente e di quanto possano determinare per loro stessi o subire nel futuro. Ma oggi permettimi di farlo, di celebrarti come è giusto che sia, anche con questa mostra realizzata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino. Attraverso foto, oggetti, film, chi ti ha amato ti ritroverà, le nuove generazioni potranno leggere l’uomo, l’intellettuale, l’artista, potranno riscoprire il tuo “cinema della realtà” perché è così che definivi il tuo lavoro, non amavi etichette quali cinema politico o d’inchiesta. Tutto il tuo percorso rappresenta un lascito culturale ed etico: i film di Francesco Rosi da La sfida a Lucky Luciano a La tregua, hanno indagato un’umanità sopraffatta dal potere, hanno fotografato gli uomini che del potere si sono serviti e quelli che dal potere sono stati schiacciati, con uno sguardo che continua ad intrecciare un dialogo con il pubblico, con coloro che si sentono e chiedono di essere considerati cittadini. Pochi sanno che la sera della prima di Salvatore Giuliano a Montelepre, uno dei paesi siciliani protagonisti della vicenda, fu necessario improvvisare uno schermo in piazza, calando un lenzuolo sul muro di un edificio: il cinema Italia, che avrebbe dovuto ospitare la proiezione, non poteva contenere tutta la gente giunta anche da altri paesi sfidando il freddo di quella giornata di marzo. Ancora sento la tua emozione nel descri-
vermi i volti di coloro che seguivano il film, attenti ad ogni inquadratura, ad ogni battuta; ricordo bene le parole nel raccontarmi il silenzio assoluto durante la proiezione, e quell’applauso lungo, scrosciante, intenso che squarciò la piazza, perché il tarlo della conoscenza stava scavando gli animi lasciando dentro il seme della consapevolezza. Non a caso dopo l’uscita del film, venne istituita per la prima volta la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia. E Il caso Mattei che con tutta la sua tragica e allo stesso tempo logica attualità diventa la chiave di lettura del presente. Nel 2003 portò il sostituto procuratore Vincenzo Calia alla riapertura delle indagini sulla morte del presidente dell’ENI. Anche questa è la forza dell’universo cinema. Vorrei prendere per mano ogni persona che verrà a vedere i film scelti nella mostra per discutere insieme su quanto ci coinvolgano ancora i problemi sollevati da Le mani sulla città che fa di Napoli un simbolo della speculazione edilizia, del degrado politico non solo in Italia. L’assurdità e l’orrore di tutte le guerre raccontate in Uomini contro. L’importanza della memoria storica e della questione meridionale in Cristo si è fermato a Eboli. “Io ho investigato con la macchina da presa… oggi bisogna andare avanti facendo il nostro dovere di cittadini, consapevoli di dover lavorare molto per aiutare il Paese ad uscire fuori dal baratro in cui è caduto”. Forse è solo un caso che proprio in una delle tue agende leggo queste parole? A cento anni dalla tua nascita nulla scalfisce quanto hai creato con coraggio e sacrificio, con rigore e senso critico, un modo di affrontare la vita giorno dopo giorno che ho assimilato, perché da te ho ereditato non solo tratti somatici e questa mia abitudine di scandire lentamente le parole ma anche le scelte etiche, artistiche, umane che oggi mi definiscono. È vero papà a volte è tutto così complicato e mi manchi, ma cerco di essere degna figlia ed allieva tua, di un uomo perbene che non si è mai arreso: del Cittadino Rosi.
Il caso Mattei , 1972 Gian Maria Volonté Foto di Alfredo Pierangelini ©Reporters Associati & Archivi –Roma Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
GINA ANNUNZIATA ROSI MAESTRO NOSTRO
Celebrare i cento anni dalla nascita di Francesco Rosi in un momento fondativo della Scuola di Cinema, Fotografia e Audiovisivo dell’Accademia di Belle Arti di Napoli significa tracciare il percorso lungo il quale guidare i nostri allievi e le nostre allieve rispetto allo statuto delle immagini in movimento. Dall’esordio alla regia con La sfida fino a La tregua, Rosi rappresenta per chiunque voglia avvicinarsi al cinema e alle sue pratiche l’esempio di un metodo che coniuga estetica e impegno civile, ricerca e passione. Nelle tante fotografie che ritraggono il maestro sul set, spesso lo si vede con il braccio proteso con l’indice puntato verso un pezzo di Storia. Un dito che punta con rigore su fatti scomodi che la macchina da presa sente il dovere di raccontare in un processo di disvelamento del reale.
A cominciare dal suo apprendistato tra radio, giornalismo, disegno e teatro in anni difficili come il secondo dopoguerra, passando per l’esperienza di assistente accanto a Luchino Visconti per La terra trema, il giovane Rosi si muove sperimentando diversi linguaggi tra cronaca e racconto. Con i primi lungometraggi come La sfida e Le mani sulla città, parte da Napoli per poi muoversi nel tempo e nello spazio – Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Uomini contro – solo per citare alcune opere, con cui inaugura e definisce un nuovo modo di fare cinema. Intellettuale e artista profondamente ancorato al suo tempo ma in controcorrente, Francesco Rosi abbandona il montaggio classico come la consueta grammatica cinematografica, insufficienti a penetrare la realtà, lasciando il posto a una visione grandangolare per nuove geometrie spaziali e simboliche per ispezionare il Novecento, per un’autopsia dei fatti sullo schermo. L’impegno della Scuola di Cinema nel festeggiare il Centenario con una mostra dedicata al film C’era una volta, con le proiezioni dei suoi film e il progetto di un documentario realizzato dagli allievi e le allieve, vuole dunque mantenere viva la sua lezione di cinema e di vita.
Le mani sulla città, 1963
Le contestazioni in un quartiere popolare di Napoli, dopo il crollo di un palazzo e l’ordine di sgombero degli abitanti Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
LORENZO CODELLI ROSI SECONDO SECOLO
Esiste un “canone rosiano”, una visione unica e immutabile della sua opera? Critici ed esegeti hanno via via esaltato, e magari attaccato, temi, strutture, stile, dei singoli film in base alle alte aspettative che Francesco Rosi aveva creato fin dai suoi primi, ambiziosissimi esordi. C’erano una volta la “critica di sinistra”, quella “di destra” e quella “cattolica”, e tutte e tre andavano a nozze nel duellare di fronte a Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei e altri capolavori. Senza scordare le prospettive illuminate offerte nel ventesimo secolo da studiosi internazionali quali Tullio Kezich, Michel Ciment, Gary Crowdus, siamo felici di festeggiare il centenario del maestro napoletano applaudendo l’analisi ad ampio raggio proposta da Gaetana Marrone. The Cinema of Francesco Rosi (Oxford University Press, 2021) offre oltre 300 pagine di riflessioni stimolanti che sconvolgono i clichés e deviano dalle strade battute.
Di Salvatore Giuliano, ad esempio, Marrone analizza la originale concezione narrativa che “si allontana dal genere documentario segnalando l’inizio della sperimentazione da parte di Rosi di strategie filmiche meno convenzionali onde creare un’opera aperta”. Seguendo la volontà del regista che intendeva collegare tra loro “non dei flashback ma degli episodi, ognuno dei quali era un film corto”, la studiosa osserva che “questo nuovo metodo di lavoro permette di scavare sotto la superficie delle cose per esporre i percorsi di verità sotterranee”. Lo stile estremamente innovativo di Salvatore Giuliano è visibile in particolare nella sequenza della strage di Portella della Ginestra, “girata con il gran-
dangolare e in controluce per mettere in risalto al paesaggio”. Documenti, dichiarazioni, interviste d’epoca citate a piene mani da Marrone permettono al lettore d’interagire dialetticamente con il produttore Franco Cristaldi, il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, il montatore Mario Serandrei e altri collaboratori di Rosi. La polivalenza metodologica dell’autrice si conferma nelle straordinarie pagine dedicate a Le mani sulla città. Titolo del capitolo: “La retorica del potere e la politica spettacolo”. Marrone sottolinea come il film sia stato generato dalle amare osservazioni fatte nel ripercorrere le strade di Napoli da parte di Rosi e del suo amico scrittore Raffaele La Capria in vista di un possibile adattamento del romanzo Ferito a morte di La Capria, che aveva recentemente ottenuto il Premio Strega. Ne Le mani sulla città “l’eccesso di dialoghi, che i critici considerarono un difetto, è in realtà un punto di forza perché fa capire al pubblico il potere diabolico degli oratori politici e dei loro dibattiti messi in scena”. Grazie alla scelta degli spazi architettonici “Rosi misura la distanza abissale tra i cittadini e i governanti”. Senza seguire l’ordine cronologico dei film, Gaetana Marrone affronta Il caso Mattei abbinandolo a Lucky Luciano. Due “film inchiesta” che si basano su una rete di tecniche massmediali, “reporter, testimoni, fotografi, troupes televisive e radiofoniche”. Rivolgendosi a dei lettori anglosassoni, l’autrice abilmente chiarisce loro chi fosse stato Enrico Mattei e come venisse inquadrato dalla stampa americana.
Uomini contro con i suoi “orizzonti senza gloria” viene esaltato sia sullo sfondo della storia del cinema antimilitarista internazionale che su quello dei ricordi bellici di Sebastiano Rosi, il padre del regista, oltre che di quelli di Emilio Lussu, fonte letteraria del film. “Rosi esprime guerra e violenza come fondamenti dei rapporti di classe e di quelli tra le nazioni”.
Il film Cristo si è fermato a Eboli “non tratta del passato ma è del tutto contemporaneo, riguarda i problemi eternamente irrisolti dell’Italia, in particolare il profondo divario economico e sociale tra Nord e Sud”. Secondo Gaetana Marrone questo adattamento del libro di Carlo Levi apre per Francesco Rosi una fase autoriflessiva. Il personaggio centrale e il regista tendono ad unificarsi.
GIOVANNA GRAVINA VOLONTÉ
Il 27 luglio 2011 viene proiettato Cristo si è fermato a Eboli, nel corso della ottava edizione de “La Valigia dell’Attore”, manifestazione dedicata al lavoro d’attore e intitolata a Gian Maria Volonté, che si svolge ogni anno in Sardegna nell’isola di La Maddalena.
Il film è presentato per l’occasione dal regista Roberto Andò, che nel 1979 partecipò alla lavorazione dell’opera cinematografica in qualità di aiuto regista ed è autore del documentario Il cineasta e il labirinto. Incontro con Francesco Rosi (2002).
Nel corso della serata è stata consegnata da Giovanna Gravina Volonté, nelle mani di Roberto Andò, la Medaglia della Presidenza della Repubblica, come prestigioso riconoscimento per le iniziative del circuito “Le isole del cinema” e per il “Premio Gian Maria Volonté”, per donarla in preziosa “custodia” al Maestro Francesco Rosi: per il suo ruolo di protagonista di una stagione del cinema civile che ha contribuito alla formazione della memoria storica del nostro Paese.
Il Maestro, non potendo essere personalmente presente, ha inviato a Giovanna Gravina Volonté la lettera che viene qui riprodotta.
Carissima Giovanna, sarei venuto con piacere all’isola della Maddalena per il tuo Festival, una occasione per manifestare ancora la mia grande ammirazione sempre viva per Gian Maria. Ho fatto cinque film con Gian Maria e sono attuali testimonianze di una condizione umana, sociale e politica che richiede conoscenza e solidarietà umana. Di questi fa parte Cristo si è fermato a Eboli, capolavoro di Carlo Levi, scritto durante il suo confino politico, in Lucania nel 1935. Nelle desolate terre della Lucania “dove Cristo non è mai arrivato, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e egli effetti, la ragione e la storia”. Carlo Levi, nato a Torino, medico, scrittore, pittore, viene confinato per il suo antifascismo. Conoscerà questo mondo contadino che vive in una terra arida, dove la gente vive assediata dalla malaria, dalla miseria e crede ancora nella superstizione.
Levi si sentirà umanamente vicino a questi contadini, ne conoscerà i bisogni, vivrà con loro un anno fino al 1936, quando per la conquista fascista dell’Abissinia, la condanna al confino gli verrà condonata. Racconterà la sua esperienza nel libro Cristo si è fermato a Eboli, un saggio e un diario più che un romanzo. Da questo libro, nel dopoguerra, più di un regista, di quelli che volevano raccontare l’Italia e farla conoscere particolarmente a chi ne ignorava le arretratezze che facevano del sud un mondo diverso dal resto dell’Italia [,tentò di trarre un film]
Anch’io volli tentare, e ne parlai a Levi che non mi disse né sì né no, ma mentre giravo in Sicilia Salvatore Giuliano, mi raggiunse per farmi un’intervista, ma in verità, io credo, per vedermi girare. Passò del tempo, io feci altri film, Carlo Levi morì e i diritti del “Cristo” erano ancora liberi. Li chiesi a Linuccia Saba che li custodiva. E fu d’accordo nel darmeli. Una sera al teatro Valla incontrai Renzo Fichera, direttore di Rai 2. Mi chiese: Quando ti decidi a fare qualcosa per noi? Io subito gli dissi: Voglio fare Cristo si è fermato a Eboli . MI strinse la mano, era fatta. Chiamai Cristaldi, la Vides, il mio solito produttore, la Gaumont nella persona del produttore Daniel Toscan Du Plantier e fu combinata la coproduzione.
Mi incontrai con ì Gian Maria: fu entusiasta. La sua interpretazione fu straordinaria, indimenticabile.
Completai il cast, secondo il mio solito, con attori professionisti – Paolo Bonicelli, Lea Massari, Irene Papas, François Simon, Alain Cuny, tutti bravissimi – e molti personaggi locali, promossi attori per l’occasione con esito molto soddisfacente.
Cara Giovanna, penso che questo film vada visto dai giovani, sarei molto contento se tu ci riuscissi.
Ti ringrazio della medaglia del Presidente della Repubblica, è un grande regalo che mi fa onore.
Ti abbraccio e ti faccio tanti auguri.
Tuo Francesco Rosi
LIRIO ABBATE
Guardando i film di Francesco Rosi penso che i problemi del nostro Paese non siano cambiati molto dagli anni lontani in cui li ha girati. Viene a galla la genesi di tutto quello che è l’Italia. È come se avesse filmato progressivamente il declino e ne ha decodificato le immagini. La corruzione delle istituzioni in Italia è cominciata da tanto tempo. Così come il potere della mafia. La camorra, una volta, era strettamente legata al Sud: il primo lungometraggio di Rosi che ne parla è ambientato nel mercato ortofrutticolo di Napoli, La sfida, realizzato nel 1958 e poi Salvatore Giuliano del 1962, un film tra mafia e politica, un’inchiesta sui fatti che hanno condotto all’uccisione del bandito siciliano. Ha vissuto quasi un secolo di storia italiana, e gran parte l’ha raccontata nei suoi grandi film, da La sfida a Le mani sulla città, da Cristo si è fermato a Eboli a Cadaveri eccellenti, da Lucky Luciano a Il caso Mattei, inaugurando il filone dei film d’inchiesta. Erede del grande cinema neorealista, Francesco Rosi è stato uno dei maggiori registi italiani di tutti i tempi che ha portato l’inchiesta sul grande schermo e l’ha resa immortale. Le sue opere toccano con mano l’attualità, che non è solo quella degli anni Sessanta, perché somiglia a quella dei nostri periodi, a quello che adesso raccontano i giornalisti nelle loro inchieste. Ed è infatti il modo con cui ci mostra i vari soggetti che l’opera di Rosi è
unica, con un linguaggio fotografico e cinematografico che mette i suoi film fra quelli che ritengo possono essere definiti “didattici”, perché aiutano a decodificare la società di ieri e di oggi e il messaggio arriva diretto. Anche per questo i suoi lavori devono essere fatti vedere agli studenti nelle scuole per poi discuterne con i loro insegnanti. Le mani sulla città è perfetto per raccontare il sistema. A differenza del modo in cui si parla oggi di corruzione, quel populismo che ha molto successo e che ha bisogno di identificare un nemico fisico, il banchiere, il politico corrotto. Rosi identifica un sistema malato nel quale anche l’eventuale ribellione dell’individuo viene completamente annichilita, assorbita. L’analisi di questo grande regista è moderna. E anticipa ciò che è poi successo in questi anni nel Paese. Quando gli chiedevano: “Non ti viene voglia di fare un film sull’Italia di oggi, su ciò che sta succedendo?”, Rosi rispondeva: “Questi argomenti li ho trattati per tempo. Non avrebbe senso ripetersi. Bisogna andare avanti”. Questo di Rosi non è solo un cinema di lotta, ma è pure di speranza e l’impegno a uscirne da tragiche situazioni che non erano completamente facili. Film, che nonostante la pellicola in bianco e nero, rimangono moderni. Perché il presente non sta nell’oggetto del racconto, ma nel modo che Rosi ha scelto di raccontare.
Uomini contro , 1970 Francesco Rosi Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
ROBERTO ANDÒ
Aveva delle mani grandi e forti, Francesco Rosi. Nei suoi ultimi giorni di vita, mentre combatteva col nemico più difficile e insidioso, la morte, mi è capitato di tenerle strette, di carezzarle. Furono giorni dolcissimi e strazianti, e io ebbi il privilegio di viverli al suo fianco, in compagnia della sua amatissima figlia Carolina. E di Giuseppe Tornatore, Marco Tullio Giordana, Ettore Scola, Paolo Sorrentino, Furio Colombo, Raffaele La Capria. Amici e colleghi che non hanno mai smesso di amarlo, e di attingere al suo candore, alla sua intransigenza morale, alla sua irresistibile simpatia umana. Per tutta la vita, dalla giovinezza spartita con Raffaele La Capria, Giorgio Napolitano, Peppino Patroni Griffi, sino all’ultimo respiro, Francesco Rosi ha sempre celebrato il senso dell’esistenza attraverso l’amicizia, la lealtà di rapporti umani vissuti con calore e intensità. Era una sua specialità, l’amicizia, ed era scontato che se ne andasse circondato dalle persone che gli hanno voluto bene, stretto nel cerchio affettuoso di un’ultima conversazione, inviando agli amici, con gli occhi, o con un cenno della mano, il segno e la sigla di un legame che non s’interromperà mai.
Era un leone, Francesco Rosi, e da uomo e artista, non si è mai piegato, mai placato, mai acquietato al corso delle cose.
“Dubito di poter onestamente confessare con quanto poco pregiudizio della calma e della tranquillità della mia vita io l’abbia passata per più di metà in mezzo alla rovina del mio paese”, questa dichiarazione di Montaigne non potrebbe mai valere per lui. La vita di Francesco Rosi è infatti trascorsa interamente – e generosamente – all’insegna dell’impegno civile, nel nome di una indomabile ribellione al sopruso e alla corruzione imperanti nel nostro paese. I suoi capolavori – ne ha lasciati diversi – si offrono allo sguardo degli spettatori di oggi e a quelli del futuro, come una ininterrotta contestazione del potere, della sua liturgia criminosa, del suo andare a braccetto con la morte. Il potere e la morte, un flirt che non accenna a finire, cui Rosi ha dedicato con rigore e poesia, dal primo all’ultimo dei suoi film, una lucida, e implacabile, requisitoria.
Dal giorno della sua scomparsa abbiamo avvertito quanto ci manchi la sua autorevolezza, e con essa il timbro inimitabile della sua voce. Ho avuto il privilegio di incontrare Francesco Rosi in un’età in cui il desiderio ancora molto astratto di fare cinema cercava di sostanziarsi in qualcosa di tangibile e definitivo. E sicuramente l’incontro con il professore – era questo il suo appellativo nell’ambiente del cinema – ha avuto per me un carattere fatale. Il magistero essenziale appreso in quella occasione – con un accento viscontiano nel modo rigoroso di affrontare il cinema, e nell’obbligo morale che impone che davanti alla macchina da presa accada sempre qualcosa di vero – lo devo a lui. Me lo ha trasmesso attraverso una combinazione di fattori diversi, in cui come sempre accade, si mescolano a caso le regole del mestiere e quelle ineffabili della vita. È difficile trovare in una filmografia un elemento ossessivo così coerente come quello presente nel cinema di Rosi, un’opera che non ha mai smesso di occuparsi del disastro politico e civile italiano. Lo sguardo speciale di questo grandissimo autore è nel non essere mai venuto meno alla convinzione che il cinema è la traccia di una realtà, e che il cinematografo è un’arte che sancisce e celebra l’autorevolezza del reale. Questo carattere di unicità è un dato di fatto che emerge non solo dall’intera opera di Rosi, dalla qualità delle scelte che vi si trovano, dalla ricerca di una coerenza che nella carriera di un cineasta appare rara, ma anche dal tono di voce, dalla qualità umana che egli ha saputo imprimervi. C’è nelle pagine del suo bellissimo libro intervista con Giuseppe Tornatore, nella voce malinconica che vi si riverbera, una precisa misura morale, per esempio quando dice: “col cinematografo puoi condannare ciò che non è giusto perché ti consente di viverlo. Il cinema è un fondamento della democrazia, perché è difficile che il cinema tradisca la realtà”. Ma c’è anche un elogio dell’imperfezione, un attestato di modestia rispetto alla forza dei fatti, alla loro urgenza, testimonianza di un illimitato rispetto per il reale. “L’imperfezione e l’incompiutezza non mi hanno mai messo paura. Certe volte bisogna lasciarsi andare, avere più fiducia nel contenuto che nella forma”.
Più di altri, Rosi ha saputo intercettare la voce misteriosa del potere e il desiderio di cambiare dell’Italia civile, e lo ha fatto creando dei prototipi narrativi insuperati, in grado di varcare i confini nazionali per divenire oltreoceano un modello per autori come Scorsese, Coppola e Oliver Stone. È stato un maestro, come già lo erano stati Rossellini e Visconti. I suoi capolavori, Le mani sulla città, Salvatore Giuliano, Il Caso Mattei, Lucky Luciano, Uomini contro, Cristo si è fermato a Eboli, Carmen, restano a futura memoria, ma vivono anche nell’eredità – parola ingombrante e desueta – di chi si è riconosciuto, moralmente e poeticamente, nel suo metodo.
Ricordare Francesco Rosi nel centenario della nascita ci obbliga a evocare quel potere straordinario che solo il grande cinema possiede, parlo del potere di stregare i luoghi, svelando la loro anima nascosta, fissando la loro immagine oltre il tempo, nel rovescio del tempo. Francesco Rosi e i grandi film che ci ha lasciato hanno reso immortali alcuni luoghi chiave del nostro paese, per esempio Napoli o la Sicilia, tanto da darci la sensazione di potere riconoscere l’autenticità del loro volto più attraverso quei film che nella loro dimensione reale. Ho detto riconoscere perché il cinema quando è grande riesce a rimettere insieme i frammenti delle rovine, e, come accade con i reperti di un vaso greco nelle mani di un restauratore, a restituirci l’anima e la forma di qualcosa che il tempo ha reso informe, mostrandoci un luogo non solo per quello che è ma anche per quello che è stato e potrebbe essere. La Sicilia di Salvatore Giuliano è, e sarà per sempre, un labirinto inespugnabile, un geroglifico morale, espressa con il senso della verità e del dolore che fu della tragedia greca. L’aula del consiglio comunale di Napoli sarà per sempre il luogo e la metafora in cui la politica e gli affari vivono una contiguità infame e pericolosa. Un luogo di voci pure e di voci corrotte che mescolandosi orchestrano un rumore indistinto e impotente. La nostra identità di cittadini italiani si rinnova attraverso quelle immagini potenti. Ma per un equivoco Rosi ha anche rischiato di rimanere prigioniero di una parola chiave, micidiale e semplicissima: inchiesta. Non c’era articolo che lo riguardasse dove prima o poi non saltasse fuori la denominazione fatale: Francesco Rosi, l’inventore del film-inchiesta. Se è perfettamente comprensibile che in un certo momento storico si cadesse in questa approssimazione, oggi una così rozza semplificazione appare imperdonabile. I film di Rosi rappresentano una delle frontiere linguistiche più innovative del cinema italiano del dopoguerra, e la sua opera, come ha detto Emiliano Morreale, vale per il cinema italiano ciò che è valsa l’eredità della Nouvelle Vague in Francia. È la frontiera di uno sguardo nuo-
vo sul reale, in cui si frantuma l’idea di narrazione, e con essa il confine tradizionale di finzione e realtà. Se dovessi estrarre una sola lezione dal suo cinema, la troverei nel suo ritornello: “La dimensione politica di un film è una questione di linguaggio. È la scelta tra ciò che si deve mostrare e ciò che deve restare fuori campo”. Quando Rosi mi fece l’onore, ormai molti anni fa, di affidarmi un documentario su di lui, Il cineasta e il labirinto (fu proiettato in prima in Campidoglio per i suoi ottant’anni), una sorta di ritratto prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, rivedendo i suoi i film uno appresso all’altro, scoprì che aveva ossessivamente, ed esclusivamente, indagato sul legame tra il potere e la morte. Il fatto che in molti film di Rosi ci sia un cadavere a partire dal quale si comincia una ricerca per reperire i legami, visibili e invisibili, del crimine col potere, rinvia a qualche cosa di più profondo e misterioso, cui ha inteso alludere anche Leonardo Sciascia mettendo in epigrafe al caso Moro una micidiale frase di Canetti: “Un uomo è morto al momento giusto, la frase più terribile di tutte”. C’è in Rosi, in tutta la sua opera, una coerente contestazione della morte. Le morti che la storia civile italiana ci ha consegnato, relegandole all’impenetrabilità, sono per lui inaccettabili. In quel documentario, Martin Scorsese attribuisce a Rosi un ruolo da precursore nel cinema italiano, attraverso uno sguardo non più, o non solo, legato al neorealismo. Avendo egli scelto di investigare l’origine di un potere che in Italia risale a una genealogia criminale, e dunque è fondato sul segreto, Rosi ha dovuto necessariamente inventare un linguaggio nuovo.
La recente storia civile italiana è una storia che ha una deriva romanzesca, mai risolta processualmente. Alle nostre spalle ci sono inchieste per le quali non è stato possibile trovare dei colpevoli, o dei mandanti, e ancora oggi l’Italia è sotto sequestro a causa di questo problema, un sequestro civile, segnato dall’impossibilità di riconoscere l’esatta sequenza degli accadimenti e delle responsabilità. Il regista che in Italia ha raccontato meglio questo stato di cose è Francesco Rosi. In questo senso, la sua è un’opera di civilizzazione, cioè un’opera che ha una così alta coerenza formale da autorizzare per lui quello che Éluard ha detto di Picasso. Quando gli chiesero: “Cosa ne pensa di Picasso?”, il poeta rispose: “È un civilizzatore”. Anche Rosi lo è. Ne è prova il seme con cui ha fecondato generazioni diverse di cineasti che orgogliosamente rivendicano il suo modello, il “metodo Rosi”. Oltre a me, penso ai miei “fratelli”: Sorrentino, Martone, Giordana, Tornatore, per citarne solo alcuni. Ma nel dire questo sono certo che la lista Rosi in futuro è destinata ad allungarsi.
FURIO COLOMBO
Il rapporto di Francesco Rosi con il cinema era questo: dire ciò che non era stato detto. Ma non come spunto, pretesto o “da una idea di…” ma come inchiesta implacabile, esatta, raccolta dall’accaduto.. Nel cinema di Rosi si crea una tensione fortissima tra il fatto (le cose così come sono, dal massacro di Portella della Ginestra alle case degli speculatori che crollano) e la rappresentazione del fatto che diventa cinema perché lo sguardo che narra è insieme quello di un artista (tra i più grandi di un’epoca) e del cittadino che denuncia, conoscendo il pericolo di farlo, e il mestiere straordinario di raccontarlo. La verità, nel cinema di Rosi, non è giuridica o scientifica. È testimonianza che non cede all’inconvenienza di narrarla, e che il narratore non pretende di rivelare, di farne una sua scoperta. Il suo impegno - a momenti molto solitario e coraggioso, è che la testimonianza non vada perduta. I punti cardinali della vita e del lavoro di Francesco Rosi regista sono la storia (ogni cosa ha un passato che non viene mai dimenticato) la cultura, nel senso, soprattutto, della letteratura del suo tempo, che era anche la sua vita, perché, come autore ne era parte e voce), la politica, una politica senza frontiere, ma anche molto vicina, nel senso che ne sentiva e ne coglieva il respiro, la cronaca, anche la meno notata, che Rosi faceva diventare evento. Dei film di Rosi (specialmente di alcuni, come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei, La tregua) non serve (o non basta) dire che ti restano per sempre impressi nella memoria. In realtà diventano (come gran parte dell’opera cinematografica di Rosi) esperienze che hai convissuto con l’autore, dotato della capacità fortissima di farti diventare partecipe della sua visione di vita. C’è nella cinematografia di Rosi (ho citato quattro film esemplari, ma anche tipici
come un segnale di riconoscimento di questo autore) una fortissima energia, che crea un coinvolgimento intenso dello spettatore con la vicenda e lo spinge a far parte della testimonianza. Questa energia spiega e motiva il coraggio con cui Rosi regista affronta il suo tempo, che è il nostro tempo, con tutti i suoi protagonisti presenti, schierati e rancorosi. La tragedia italiana è di avere resistito impunemente alla sua narrazione in forma di spietata denuncia. La sua buona sorte è di avere avuto testimoni come Francesco Rosi, che non hanno taciuto nulla e non hanno tenuto conto delle minacce e del pericolo, come quando Rosi si è inoltrato nel “caso Mattei”. Sono stato parte de Il caso Mattei e ho davanti a me Rosi in piedi, che gira le pagine del copione che narra una storia non detta della Repubblica e non ne toglie nessuna, benché su ciò che era detto in quelle pagine, nessuno è mai ritornato. Si è spesso parlato di capolavoro tecnico per il celebre crollo della casa nell’indimenticato film Le mani sulla città. Ho sempre pensato che quella scena straordinaria e paurosa fosse come la frase unica che apre il capitolo di un libro. In quell’unica scena ci sono anni di convegni, incontri, proteste, denunce, marce, elezioni vinte e perdute in cui il tema della speculazione è rimasto tragico e intatto e continua ad essere trasportato a braccia da un corteo all’altro, come il carro di una processione, in un brutto rito che ricomincia sempre. Ho indicato La tregua perché più di ogni altro film di Rosi, rivela una calda, dolce vena poetica, le immagini di una umanità abbandonata che cerca in luoghi senza senso il suo treno, e sul fondo si sente la voce del Greco, che grida, preannunciando la nostra vita di tanti decenni dopo, “Guerra sempre”. Nel suo cinema Francesco Rosi affronta tre questioni che ne fanno un riferimento e (dicono alcuni) un maestro. Il primo è il rapporto fra fiction e documentario. Salvatore Giuliano è senza dubbio un documentario fatto film, ma anche un film girato come un documentario. Di certo ha risposto alla domanda: come si documenta e si rappresenta qualcosa che è avvenuto prima ed è avvenuto per sempre? E la risposta di Rosi è la più persuasiva: la forza del cinema sta proprio nel far vivere, purché sia fatto con rigore e documenti, ciò che è già irreversibilmente accaduto. La seconda questione è come colmare i vuoti di documentazione, di memoria o di possibile inganno. Qui Rosi è particolarmente rigoroso. Gli spazi vuoti restano vuoti, in attesa di una possibile rivelazione che nessuno può anticipare (vedi Il caso Mattei). La terza domanda è: Rosi è un “uomo contro”, come si legge nel titolo di un altro suo bellissimo film? Credo che si possa rispondere che lo è nel senso della sua irruente intolleranza per l’attitudine di molti a vivere la vita da predoni e da speculatori. Ma al di là delle sue esplorazioni delle vite che detesta, c’è il cittadino rigoroso e gentile, che mette al primo posto il rispetto per gli altri. Tutto il suo cinema (come è stata la sua vita) è segnato dal rispetto per il suo Paese e per gli altri.
Uomini contro , 1970 Il direttore della fotografia Pasqualino De Santis, la segretaria d’edizione Franca Santi e Francesco Rosi Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
Rosi aveva questa abitudine, oggi inimmaginabile ma nemmeno così comune negli artisti della sua generazione: se un film lo colpiva scriveva o telefonava al suo regista, magari debuttante, magari al secondo o terzo film. Telefonate di amichevole approvazione, di incoraggiamento per il futuro. Capitò anche che qualcuno, pensando a uno scherzo, rispondesse male o buttasse giù il telefono. Ho goduto anch’io del privilegio di quelle telefonate e, afferratolo al volo, non me lo sono mai lasciato scappare. Nacque in seguito la consuetudine di frequentarsi, andare al cinema assieme o fare lunghe passeggiate, perfino di intervistarlo a fondo sulla vita e i suoi film. A sua volta, Franco – il nome che meglio interpreta la sua incapacità di annacquare o edulcorare un’opinione –faceva lui le domande e guai a rispondergli in modo reticente su un regista, su un film, sul fatto del giorno, perché non tollerava i sottintesi o le prudenze della diplomazia. I giudizi, anche sferzanti, non erano mai demolitori ma intesi semmai a correggere, a cercare la soluzione. Comunque non l’ho mai sentito dir male di qualcuno o lasciar galleggiare un pettegolezzo. Molto semplicemente ignorava ciò che lo poteva infastidire e non si lasciava incantare da andazzi e mode, soprattutto se era in ballo la politica, argomento che l’ha appassionato fino all’ultimo. Ci separavano quasi trent’anni. Nel cinema toccherebbe moltiplicarli per due o per tre perché i cambiamenti intervenuti nel frattempo – nella tecnologia, nei modi di produzione, nel pubblico ormai dirottato verso la televisione – hanno mutato il quadro
come dopo una rivoluzione. Se la generazione di Rosi, Fellini, Antonioni, Lattuada, Monicelli, Risi, Comencini ha potuto succedere in continuità con quella di De Sica, Rossellini, Visconti (che a loro volta avevano rilevato il testimone da Blasetti, Camerini, Alessandrini, etc.) e legittimare i nuovi eredi della cuvée ’60 come Pasolini, Olmi, Zurlini, Bellocchio, Bertolucci, Petri, etc, lo si deve a un comune denominatore: la fortissima affluenza nelle sale. È stato quel pubblico – sia pur differenziato dalla localizzazione geografica, dal contesto urbano o agricolo, dalla maggiore capacità di spesa grazie alla ricostruzione e al boom economico – a fare spazio anche al cinema “d’autore”, anzi a richiederlo non contentandosi del solo intrattenimento. Per la mia generazione è stato tutto diverso avendo dovuto fare i conti con la perdita di centralità che il cinema ha subito – forse non disinteressatamente – nell’establishment culturale. Da ragazzo guardavo alla generazione dei Maestri con venerazione, ma mi sembravano tutti irraggiungibili. Invidiavo che questi Padri avessero potuto contribuire all’età dell’oro del cinema italiano, ma non avrei mai osato avvicinarmi. Erano più vicini i Fratelli maggiori, quei ragazzacci Bertolucci, Bellocchio, Argento, Amelio, etc., impermeabili al retaggio neorealista, contaminati semmai dalle nouvelles vagues mondiali. Se mai ci fosse stato un testimone da agguantare avrei cercato il loro. L’eccezione per me fu proprio Franco Rosi, che apparteneva sì alla generazione dei Padri (era nato giusto dieci anni dopo il mio) ma mai faceva valere l’autorità che proveniva dai suoi film e dall’unicità della sua figura. Per me poi, orfano a otto anni, non c’è mai stata la necessità di uccidere il Padre, cercando semmai di trovarne tanti nel cinema assorbendone la lezione come una spugna ricettiva. Sarebbe stato facile cadere in soggezione, ma era proprio Rosi a evitarlo; nulla lo seccava più della devozione o del fanatismo. Si appassionava invece ai contrasti, alla diversità di opinioni e punti di vista; dovessi trovare un movente nei suoi film lo cercherei nella curiosità e nella diffidenza verso le versioni ufficiali. Il cineasta “civile” nasce proprio da questo spirito investigatore, dal bisogno di smontare ogni forma retorica che soffochi la verità per arrivare alla secchezza dei fatti, alla brutalità della notizia. Uomo di grande eleganza – vestiva come un borghese, un borghese però di scuola napoletana, non lombardo/abruzzese come i Caraceni che vestivano l’Avvocato e le sue imitazioni – detestava i toni profetici e oracolari, né ambiva a essere un tribuno. Per questo non l’ho mai visto cavalcare il sessantottismo dei suoi coetanei, preoccupati di restare indietro. Quella sua posizione - che nessuno gli aveva regalato e per la quale aveva dovuto combattere – lo avvicinava agli Illuministi piuttosto che a Masaniello, all’aristocrazia colta napoletana decapitata da sanfedisti e Restaurazione anziché al tumulto di plebi accecate o vendicative. Convinto riformista – e per questo svillaneggiato dal radicalismo “rivoluzionario” – fu convinto
socialista anche quando, nel furore di Tangentopoli, rischiava ulteriori villanie nell’illusione di salvarne gli ideali. La fine del partito e degli uomini in cui aveva creduto fu motivo di sofferenza ma non di sconforto. Perché Rosi sapeva bene quanto fosse impeccabile la sua testimonianza di intellettuale e la coerenza di tutta la traiettoria del suo lavoro. Tale il prestigio che nemmeno la più giustizialista delle cagnare avrebbe mai potuto scalfirla. Franco non abbandonò mai l’idea di fare film, ogni giorno si metteva alla scrivania a levigare antichi e nuovi progetti. Un gruppo di “allievi”, se così possiamo chiamarci, come Giuseppe Tornatore, Robertò Andò, Mario Martone, Marco Pontecorvo e tanti altri, continuò a frequentarlo con assiduità, sorta di appuntamento senza convocazione dov’era prezioso e stimolante ritrovarsi. Mai potrò dimenticare quelle riunioni estemporanee dove Franco era prodigo di consigli e anche di insofferenze, soprattutto constatando il deteriorarsi del Paese e delle sue istituzioni, del patto costituente che aveva reso possibile, nella grande stagione del cinema italiano, anche i suoi film capaci di raccontare dell’Italia veleni e illusioni. Uno dei risultati fu il bel libro di Giuseppe Tornatore Io lo chiamo cinematografo, la cui meticolosa gestazione ebbe tra l’altro il merito di strapparlo al dolore che patì dopo la morte di Giancarla, il baricentro della sua vita, l’amoroso conflittuale punto di equilibrio. Altro argine alla malinconia fu la volitività e il cuore di Carolina, la figlia che ne raccolse l’ingiunzione araldica: “Andiamo avanti!” Aggiungo solo che questo amico esigente e insostituibile mi manca molto. Posso solo tener care le sue parole, che scandiva come dovessimo scolpirle nella pietra, e ricordarmene nelle contrarietà. Soprattutto cercare di seguirne l’esempio nella professione, nella vita, negli affetti.
Il caso Mattei, 1972
Francesco Rosi
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
JOHN TURTURRO
Conoscere Francesco Rosi e lavorare con lui è stato uno degli eventi più rilevanti della mia vita. Francesco ed io ci siamo conosciuti lungo un periodo durato cinque anni, dopo l’invito a partecipare al film tratto da La tregua di Primo Levi, che stava adattando. E siamo rimasti amici intimi. Scrisse a Martin Scorsese dopo avermi visto in Barton Fink. Scorsese mi scrisse una lettera mentre a Chicago stavo lavorando alla messa in scena del dramma La resistibile ascesa di Arturo Ui, in cui interpretavo una versione di Hitler ambientata a Chicago: una strana coincidenza! Mi ricordo di avere parlato al telefono per la prima volta con Francesco e di essere andato in libreria per cercare La tregua (The Truce). Era stato intitolato The Reawakening e non l’ho preso. Ho invece comprato La chiave a stella (The Monkey’s Wrench), un libro in cui Levi celebra la gioia del lavoro, la nostra infinita capacità di risolvere i problemi, l’arte del narrare e ciò che rende la vita soddisfacente. Esuberante e selvaggiamente divertente, è il libro che mi ha fatto innamorare di Levi. E sì, ho poi trovato La tregua! Ho iniziato a conoscere Francesco, incontrandolo a Roma, e guardando tutti i suoi film. Scorsese aveva una copia di Salvatore Giuliano che mi ha generosamente proiettato e poi ci fu un’intera retrospettiva al Lincoln Center, dove andai a vedere molti dei suoi film: Il momento della verità, Le mani sulla città, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli, Carmen, Il caso Mattei e Lucky Luciano in cui lavorò per la quarta volta con il grande Gian Maria Volontè. I film di Rosi trattano della condizione umana, della politica, della corruzione e del posto che l’uomo occupa nel mondo. Non ha mai smesso di esplorare quel tema. Mi sovvengono alla mente molte cose quando penso a lui: prima di tutto che non avrei mai letto l’intera opera di Primo Levi se non fosse stato per Francesco. Lavorare con lui è stato come avere una porta aperta su di me, la sua fiducia nel fatto che io potessi interpretare una versione di Primo Levi mi prese davvero alla sprovvista ed egli vide in me qualcosa che nessun altro aveva notato in precedenza. Ho provato a ricambiare quella fiducia, facendo un grandissimo lavoro di ricerca e di preparazione, leggendo tutto ciò che Levi ha scritto, recandomi a Torino, incontrando la famiglia di Levi, intervistando molti sopravvissuti all’Olocausto, guardando documentari, studiando l’italiano, leggendo tutto ciò che potevo sull’argomento e perdendo molto peso nel periodo precedente alle riprese. Tutto ciò è accaduto in un periodo di cinque anni durante i quali abbiamo avuto modo di conoscerci sempre meglio l’un l’altro.
La delicatezza con la quale mi ha diretto e il suo occhio per la composizione – unito a quelli di Pasqualino De Santis e Marco Pontecorvo – è qualcosa che non avevo mai provato a quel livello. Ricordo la sua bocca sensuale in gran dettaglio. E il suo lato birichino. Ne La tregua voleva che l’attrice polacca Agnieszka Wagner, che intrepreta un’infermiera, mangiasse di fronte a me una fragola in modo stuzzicante; non soddisfatto, le mostrò come fare e ricordo quanto sensuale ed efficace fosse il suo modo di masticare quella fragola, tanto generare un sorriso vergognoso sul mio viso. Ricordo un altro episodio in cui un attore aveva un problema durante una scena e Franco fu abbastanza duro con lui. Io suggerii a Francesco che quell’attore più si sforzava e più diventava nervoso e che aveva bisogno di rilassarsi, anche perché era difficile per lui recitare in un’altra lingua. Francesco mi disse: “Va bene, dirigilo tu e poi ti dirò la mia teoria”. Provai a far rilassare l’attore e credo che egli fece un po’ meglio. Allora Francesco mi prese da parte e disse: “John, nella vita sono tutti bravi attori?” Io gli risposi: “No, certo che no”. Mi rispose: “Ogni film ha bisogno di un pessimo attore e lui lo è!”. Scoppiammo a ridere. “Sei tremendo!”, gli dissi, e lui rise ancora di più. Per realizzare il film ha dovuto lottare contro molti e grandi ostacoli. Per motivi assicurativi era necessario che avesse un regista che lo sostituisse in caso di malattia e ovviamente non approvava nessun nome che gli veniva suggerito; decise di affidarmi quel compito, che fino ad allora avevo diretto un solo film, Mac. “Tu conosci il materiali meglio di chiunque altro, lo farai tu!”. Accettai con riluttanza, scuotendo la testa. Continuavamo ad avvicinarci alla produzione e poi il film veniva posticipato. E alla fine ci siamo arrivati: il primo giorno mi tremavano le gambe, non volevo deludere né lui né Primo Levi. Ricordo come se fosse ieri che ero su un camion con tutte le comparse, mentre venivamo trasportati in un nuovo campo di transito. Faceva freddo e nevicava. Durante la notte il clima si fece primaverile e la neve si sciolse; dovemmo dunque fare “alla Ėjzenštejn”, realizzare della neve artificiale e spararla verso il cielo dalle trincee che avevamo scavato. È stato un film moto difficile da realizzare. Anche se non sempre, andavamo d’accordo. E mi piaceva. Durante la lavorazione del film, perse due dei suoi più fidati collaboratori: Pasqualino De Santis e Ruggero Mastroianni. È stata una delle più grandi esperienze della mia vita e penso che mi abbia cambiato come persona. Che abbia cambiato il modo in cui lavoro e quello con cui guardo il mondo. Penso ancora che si tratti di una delle cose migliori che io abbia mai fatto. Mi ha fatto scoprire molte cose, tra cui Eduardo De Filippo. Se non fosse stato per Franco non avrei mai portato sui palcoscenici di New York e di Napoli Questi fantasmi e non avrei mai realizzato il documentario Passione.
Quando Francesco venne da me per visionare Passione nella sala di montaggio, mi diede numerose grandi idee e quindi tornai indietro e girai scene ulteriori e, su suo suggerimento, inserii me stesso come narratore/guida. Ricordo che venne a trovarmi mentre stavamo facendo il missaggio, di quanto fu entusiasta e quanto significasse, per me e per la mia montatrice Simona Paggi, avere la sua approvazione. Ha significato tantissimo per me vederlo raggiante di gioia ed orgoglio per quello che avevamo realizzato. È qualcosa che non dimenticherò mai. Quando lesse una fantastica recensione del film scritta in un quotidiano dal suo amico e straordinario scrittore Raffaele La Capria me la inviò con orgoglio perché la leggessi. C’erano tante cose che amo nei suoi film. Di recente ho visto Cristo si è fermato a Eboli e sono stato impressionato dalla sua profondità, dalla semplicità e contemporanea complessità, dal senso dei luoghi e delle persone che esistono in quei luoghi: è davvero straordinario nel suo colpirti profondamente. I suoi film sono visivamente evocativi e impegnativi ma puoi guardarli e riguardarli venendo arricchito dall’esperienza della visione. Prima di incontralo avevo perduto mio papà e lui è stato quasi un secondo padre o uno zio, se così si può dire. Tra noi c’era un’intesa e mi sarebbe piaciuto molto poter fare qualcos’altro con lui ma purtroppo questa possibilità non si è mai concretizzata. Sapevo che voleva realizzare Julius Caesar , ne avevamo parlato ed era qualcosa al quale stava pensando. Per lui era difficile pensare in piccolo e io continuavo ad incoraggiarlo: “Pensa in piccolo, ancora più in piccolo. Magari possiamo fare un piccolo film insieme, come Fame di Knut Hamsun o qualcosa di simile”. Ma non l’abbiamo mai fatto.
È stata una persona che ha profondamente arricchito la mia vita ed aiutato la mia educazione, introducendomi - dopo Levi - a molti scrittori italiani, partendo da Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, De Filippo e Eco per arrivare a Elena Ferrante e a molti altri. Ho una grandissima ammirazione per Francesco. Appesa alla parete ho una sua fotografia autografata, in cui tiene in mano un ventaglio della Carmen e indossa una fascia per capelli. È una grande fotografia dei suoi gloriosi giorni di lavoro. Ho cenato numerose volte con lui, la moglie Giancarla e la figlia Carolina e mi sono sempre sentito parte della famiglia: ora è difficile andare a Roma e non vederlo. È stato unico nel suo genere.
Gli ho voluto bene e ho amato lavorare con lui.
Mi manchi tantissimo Francesco…*
*in italiano nel testo
GIUSEPPE TORNATORE
“[Per Lucky Luciano] lui studiò tutto, indagò su tutto. Quello che era chiarissimo lo esponeva in modo evidente; quello che non era chiaro lo alludeva in un modo tale da essere plausibile e soprattutto accettabile sempre. I suoi film sono a tenuta stagna: a distanza di decenni sono lì”.
COSTA-GAVRAS
“Francesco Rosi, il cineasta, ha raccolto la grande eredità del neorealismo italiano, l’ha rinnovato, ha inventato un linguaggio nudo, raffinato, personale, per raccontarci la sua Italia con delle storie locali, legate a un’epoca, ma che lui è riuscito a rendere universali e fuori dal tempo”.
FRANCIS FORD COPPOLA
“Se penso all’Europa, penso a un regista da ammirare, Francesco Rosi. Francesco Rosi è realmente un regista innovativo. Ha realizzato un’opera cinematografica straordinaria sulla storia di Salvatore Giuliano. Un film inusuale dedicato alle vicende di Giuliano, con immagini che lo raccontano, facendo in modo che lo si veda il meno possibile. […] Penso a Francesco Rosi come a un autore che ha saputo attuare la possibilità di lavorare da vero artista, esprimendo davvero se stesso”.
FEDERICO FELLINI
“Rosi è un compagno di viaggio ideale, fedele, coerente, un cineasta condottiero che riverbera il nostro mestiere di una dignità particolare, da crociato, vivendo il film come un’eroica impresa dove si richiedono volontà, ardimento, onestà, spirito di sacrificio”.
PAOLO SORRENTINO
“È uno dei più grandi registi, un punto di riferimento per me, per noi italiani e tanti stranieri. Scorsese lo cita continuamente. In questo film [Youth - La giovinezza] ho un doppio debito perché la genesi dell’idea me l’ha data un incontro a casa sua quando con un’altra persona ricordavano di una ragazza con cui da giovani erano stati fidanzati entrambi. Da lì è partito tutto”.
MARTIN SCORSESE
“Per me Francesco Rosi è uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo. È riuscito a delineare un’intera cultura con grande sensibilità artistica, coniugata al suo occhio vigile di etnografo. […] I suoi film sono di un realismo illuminato: prima di tutto ti coinvolgono, e poi esigono l’obiettività. Rosi ha spesso il rigore di Dreyer o di Bresson”.
SOPHIA LOREN
“Professionalmente, Francesco era un uomo di enorme serietà, ma sul set riusciva ad essere anche affettuoso: che persona straordinaria, un raro esempio di unione tra dolcezza e professionalità”.
I FILM
SALVATORE GIULIANO
SOGGETTO E SCENEGGIATURA
Francesco Rosi Suso Cecchi d’Amico Enzo Provenzale
Franco Solinas FOTOGRAFIA Gianni Di Venanzo
CON
Pietro Cammarata (Salvatore Giuliano)
Frank Wolff (Gaspare Pisciotta) Salvo Randone (presidente Corte d’Assise) Federico Zardi (avvocato di Pisciotta)
1962 SALVATORE GIULIANO
Sicilia, 5 luglio 1950: nel cortile di una casa di Castelvetrano viene trovato il corpo senza vita di Salvatore Giuliano, capo di una banda che il corpo di repressione del banditismo, costituito dal nascente Stato repubblicano, riesce a sconfiggere solo dopo accordi occulti con la mafia.
Con una tecnica narrativa scandita da numerosi flash back, Rosi racconta le spinte separatiste di una Sicilia povera, le lotte sociali, l’avanzata del potere mafioso e delle sue collusioni con il potere politico. Il film testimonia anche la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e l’assassinio in carcere di Gaspare Pisciotta, cugino di Giuliano, che durante il processo di Viterbo contro i banditi arrestati aveva minacciato di svelarne i mandanti.
Un film rivoluzionario che smonta il mito romantico del bandito. Rosi indaga e coniuga eventi storici e riflessioni sulla realtà dei fatti, in modo lucido e oggettivo, attraverso sequenze non cronologiche e un linguaggio anche simbolico. Il film vince l’Orso d’argento al Festival di Berlino del 1962.
1 maggio 1947: manifestazione di Portella della Ginestra Foto di Licio D’Aloisio Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
Le donne di Montelepre forzano il blocco militare a seguito dell’arresto degli uomini del paese
Foto di Number One: G. Antro
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Francesco Rosi
Foto di Number One: G. Antro
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
LE MANI SULLA CITTÀ
SOGGETTO
Francesco Rosi Raffaele La Capria SCENEGGIATURA
Francesco Rosi Raffaele La Capria Enzo Provenzale Enzo Forcella
FOTOGRAFIA
Gianni Di Venanzo
CON
Rod Steiger (Eduardo Nottola)
Salvo Randone (De Angelis)
Guido Alberti (Maglione) Carlo Fermariello (De Vita)
Nella pagina precedente Rod Steiger Foto di Mario Dolcetti ©Reporters Associati & Archivi – Roma Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
1963
LE MANI SULLA CITTÀ
Con Le mani sulla città Francesco Rosi indaga le collusioni tra il potere politico e quello economico. La storia inizia con il crollo di una palazzina fatiscente, interessata da un progetto che non rispetta alcun piano regolatore e che provoca vittime in uno dei rioni popolari di Napoli.
La potenza del film è evidente fin dall’inizio e fa della città partenopea una metafora della speculazione edilizia e della cementificazione selvaggia che, da nord a sud, ha distrutto e continua a distruggere il territorio italiano, con le conseguenze disastrose che sono sotto gli occhi di tutti ogni giorno. Nelle prime sequenze, l’imprenditore edile che si candiderà ad assessore mostra le sue mani che sembrano violentare il suolo, seppellendolo sotto colate di asfalto e calcestruzzo. Così come le mani dei politici corrotti – che nel Consiglio comunale grideranno “le nostre mani sono pulite” – sembrano voler schiaffeggiare gli spettatori e i cittadini. Il film è premiato con il Leone d’oro alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 1963.
Le contestazioni in un quartiere popolare di Napoli, dopo il crollo di un palazzo e l’ordine di sgombero degli abitanti Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
UOMINI CONTRO
SOGGETTO
da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu
SCENEGGIATURA
Francesco Rosi Tonino Guerra Raffaele La Capria
FOTOGRAFIA
Pasqualino De Santis CON
Mark Frechette (tenente Sassu) Gian Maria Volonté (tenente Ottolenghi) Alain Cuny (generale Leone) Giampiero Albertini (capitano Abbati)
Nella pagina precedente Francesco Rosi Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
1970 UOMINI CONTRO
Durante la Prima Guerra Mondiale, reparti dell’esercito italiano comandati dal generale Leone sono mandati allo sbaraglio contro le posizioni austriache sull’Altipiano di Asiago. Il susseguirsi delle inutili carneficine crea un clima di ribellione. I soldati che si oppongono ai folli ordini ricevuti sono condannati alla fucilazione. Solamente pochi ufficiali – come i tenenti Ottolenghi e Sassu – cercano di contrastare questa strage senza senso: ma Ottolenghi muore nel tentativo di fermare un attacco inutile, mentre Sassu è fucilato per insubordinazione. Ispirato al romanzo autobiografico Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu e connotato da un forte valore estetico e formale, il film propone un’amara riflessione sulla follia della guerra, rovesciando la narrazione ufficiale di una Grande guerra avvolta dalla retorica dell’eroismo. Attraverso una esigenza morale precisa, Rosi scaglia un veemente atto d’accusa contro il mito del sacrificio, dell’onore e della gloria, facendo suo il punto di vista dei soldati costretti a obbedire ad un potere militare ottuso: il nemico è un’arma che spara in mezzo al fumo.
I soldati italiani si preparano all’imminente battaglia Collezione Museo Nazionale del Cinema –Fondo Rosi
Il direttore della fotografia Pasqualino De Santis, Francesco Rosi e Alain Cuny Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
IL CASO MATTEI
SOGGETTO E SCENEGGIATURA
Francesco Rosi
Tonino Guerra
FOTOGRAFIA Pasqualino De Santis CON
Gian Maria Volonté (Enrico Mattei)
Luigi Squarzina (giornalista) Peter Baldwin (Mc Hale, intervistatore americano)
Furio Colombo (assistente di Mattei)
Nella pagina precedente Gian Maria Volonté Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
1972
IL CASO MATTEI
1962, campagna di Bascapè, nei pressi di Pavia: il presidente e fondatore dell’Eni Enrico Mattei muore in quello che sembra un incidente aereo, insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William McHale che doveva intervistarlo. Mattei aveva ripreso le trivellazioni in Val Padana, ottenendo attraverso il metano energia a basso costo, e aveva cercato nuovi accordi per svincolare il paese dalle lobby internazionali del petrolio. Si era quindi reso inviso alle grandi multinazionali petrolifere, ma anche a una parte della politica italiana e alla mafia, che ne decreteranno la morte. Il film restituisce la personalità controversa di Mattei attraverso la superlativa interpretazione di Gian Maria Volonté e affronta il caso della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, interpellato da Rosi per documentare gli ultimi giorni dell’imprenditore. Forte di una struttura narrativa in cui gli avvenimenti si susseguono secondo un ordine ideologico e non cronologico, il film vince la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1972.
SOGGETTO da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi SCENEGGIATURA
Francesco Rosi Tonino Guerra Raffaele La Capria
FOTOGRAFIA Pasqualino De Santis CON
Gian Maria Volonté (Carlo Levi)
Paolo Banacelli (Luigi Magalone) Lea Massari (Luisa Levi) Irene Papas (Giulia)
Nella pagina precedente Lea Massari e Gian Maria Volonté Foto di Sergio Strizzi ©Archivio Sergio Strizzi Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
1979 CRISTO SI È FERMATO A EBOLI
Nel 1935 l’antifascista torinese Carlo Levi, medico e pittore, viene condannato al confino ad Aliano, un piccolo paese della Lucania. Qui si confronta con un mondo primitivo e pieno di superstizioni.
Dapprima soffocato da un contesto così radicalmente alieno alle proprie esperienze, Levi poco a poco entra in contatto con i contadini, provando per essi una naturale empatia e condividendone le amarezze della quotidianità.
Intanto anche in quei luoghi risuona la retorica trionfalistica del regime fascista e molti giovani del paese si arruolano per la guerra in Etiopia, sperando di sottrarsi alla povertà. In seguito al successo militare italiano in Africa, per Levi giunge l’amnistia e può ritornare a Torino. Il ricordo dei contadini lucani, fiaccati da un lavoro durissimo e da una miseria atavica, sfocerà nel romanzo autobiografico Cristo si è fermato a Eboli. Il film è un viaggio nelle problematiche della questione meridionale che diventa questione nazionale, ma anche un viaggio poetico nella condizione umana.
Gian Maria Volonté
Foto di Sergio Strizzi
©Archivio Sergio Strizzi
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Francesco Rosi e Gian Maria Volonté
Foto di Sergio Strizzi
©Archivio Sergio Strizzi
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
ARCHIVIO
MAURO GENOVESE
L’ARCHIVIO FRANCESCO ROSI DEL MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA
L’Archivio Rosi è un complesso estremamente interessante e raro per quantità, qualità e completezza dei documenti, oltreché per l’importanza del personaggio che rappresenta. Esso è stato acquisito dal Museo Nazionale del Cinema di Torino nel 2003 e comprende, oltre ai classici documenti archivistici, anche libri e riviste, raccolte di articoli e ritagli stampa, fotografie, manifesti, materiali pubblicitari e audiovisivi. La completezza e la ricchezza del fondo sono dovuti a diversi fattori: sicuramente uno di questi è la meticolosità di Rosi nel conservare i propri documenti, ma ci sono altri motivi. Molto spesso infatti gli archivi giungono presso gli istituti che li conservano solamente dopo la scomparsa del soggetto interessato. In questo caso invece è stato lo stesso regista a decidere di affidare tutti i suoi documenti al Museo di Torino, seguendo personalmente la loro organizzazione e il loro trasferimento.
La parte più cospicua dei materiali archivistici è costituita dalla documentazione dei diciassette film realizzati da Rosi, riguardante tutte le fasi di lavorazione, dalla prima idea sino ai materiali di post-produzione, distribuzione e promozione. La potenza di questi documenti è straordinaria, dalla prima pellicola La sfida (1958) fino all’ultima La tregua (1997), passando per pluripremiati capolavori del cinema mondiale come Salvatore Giuliano (1962) e Le mani sulla città (1963), quest’ultimo vincitore del Festival di Venezia. Per ognuno dei film, sono presenti materiali di ricerca sui temi di volta in volta affrontati, scritti, scalette, soggetti e sceneggiature, disegni e storyboard, fascicoli di corrispondenza, premi, diari e appunti.
Le puntuali ricerche che Rosi svolgeva per preparare i suoi film sono testimoniate dalla documentazione ufficiale raccolta, indice di come egli conoscesse bene l’importanza della ricerca negli archivi. Singolari sono invece i documenti che testimoniano i problemi che quasi tutti i suoi lavori avevano provocato al regista. Il modo di fare cinema di Rosi, con la ricerca di una verità spesso scomoda, ha infatti avuto molte conseguenze: a volte, come per Il caso Mattei (1972), con veri e propri tragici casi di cronaca (la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, incaricato da Rosi di fare delle ricerche sulla morte di Mattei per la preparazione di questo film), più spesso fortunatamente “solo” con denunce nei tribunali, censura e boicottaggio delle sue opere. Un’altra tipologia documentaria di straordinario impatto che si incontra nell’Archivio Rosi sono i suoi disegni. Il regista aveva infatti un retroterra da fumettista e disegnatore e questa sua vocazione si può riscontrare ovviamente anche tra le sue carte. Sono presenti tantissimi disegni, da semplici schizzi che Rosi faceva sulle sceneggiature dei film – per cominciare a immaginare e prefigurare come una scena poteva essere girata – fino ad arrivare a delle raccolte di disegni più strutturati, che si avvicinano a dei veri e propri storyboard.
Da segnalare anche scritti e corrispondenza non riconducibili a un film in particolare, ma che testimoniano i rapporti di Rosi con molti personaggi del mondo del cinema (da Martin Scorsese a Oliver Stone) o di altri ambiti, come il mondo politico e culturale italiano (da Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano a Lucia Levi).
Chiudono la collezione un’ampia sezione di materiali sui progetti non realizzati del regista, gli attestati dei numerosi premi ricevuti, i materiali su rassegne e festival, scritti, interviste, ecc., ma soprattutto una piccola sezione di libri appartenuti a Rosi. Sono volumi unici e straordinari, in quanto ritroviamo tra le loro pagine le sottolineature, le annotazioni e le prime impressioni del regista. E così la copia di Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu riporta le annotazioni per il futuro film Uomini contro (1970), oppure Il contesto di Leonardo Sciascia contiene le note per il film Cadaveri eccellenti (1976). Sono documenti che riportano insomma i primi pensieri di un regista rivoluzionario e innovativo, ma anche estremamente concreto e attaccato alla realtà tangibile delle cose. Un esempio emblematico dell’importanza che gli archivi hanno avuto, hanno e avranno per la conservazione della memoria e per la ricerca della verità.
Salvatore Giuliano, 1962 Quaderno di lavorazione di Francesco Rosi Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Il caso Mattei, 1972
Telegramma di Gian Maria Volonté dopo la vittoria del film al Festival di Cannes Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Il caso Mattei, 1972 Sceneggiatura di lavorazione di Francesco Rosi, con ipotesi di titoli per il film Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Le mani sulla città, 1963 Disegno e appunti per la scena del crollo del palazzo Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Cristo si è fermato a Eboli, 1979 Scaletta e riassunto di Francesco Rosi, con ritagli dal volume di Carlo Levi Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Uomini contro, 1970 Sceneggiatura di lavorazione con note e disegni di Francesco Rosi Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
MARIA PROCINO
QUEL LACCIO CHE MI HA REGALATO…
“La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno. Tenere un diario per vederci chiaro. Non lasciar sfuggire le sfumature, i piccoli fatti anche se non sembrano avere alcuna importanza, e soprattutto classificarli”. Così scriveva Sartre ne La nausea e Francesco Rosi durante tutta la sua vita ha classificato, conservato nei cassetti del suo studio, quaderni, agende e taccuini: per ogni film non solo si documentava in modo rigorosissimo ma annotava dubbi, sequenze che immaginava, descriveva minuziosamente i luoghi che sceglieva. Quando nel 2006 mi chiamò per riordinare il materiale da inviare al Museo Nazionale del Cinema di Torino, scoprii che aveva conservato tantissima documentazione ordinata in cartelline e in faldoni: sceneggiature, soggetti, scalettoni, corrispondenza, rassegna stampa, fascicoli numerati a cui aveva dato un titolo. Ogni scatto fotografico era un ricordo, ogni appunto un racconto: restavo ad ascoltarlo in silenzio. Solo dopo la sua scomparsa mi sono esplose dentro le mille domande che avrei voluto rivolgergli. Scorrendo i suoi scritti, nel desiderio che quel dialogo non si interrompesse mai, scoprivo il narratore che fotografava una società in trasformazione. Dall’Italia della criminalità agricola, alla Sicilia del dopoguerra, dalla Germania degli emigranti italiani alla Spagna dei giovani toreri in cerca di un’occasione, alle donne drammaticamente simili in Le mani sulla città come in Carmen. E sempre l’istantanea di una povertà spietata, inumana, esaminata con la lente d’ingrandimento del cinema. Francesco Rosi aveva
descritto così anche l’America latina dilaniata dalle multinazionali, per un film mai realizzato sugli ultimi giorni di vita di Ernesto Che Guevara. Proprio a Cuba nel 1967 in un incontro con i giornalisti aveva affermato: “Quando c’è una verità tanto forte, lo stile di regia viene da solo, è la realtà stessa che lo esige, che lo identifica. […]. La metà di Giuliano è venuta fuori così perché non era scritta nel copione, è uscita dal mio incontro con la realtà dei paesi della Sicilia. Io andavo in giro per i paesi, parlavo con la gente e uscivano episodi, uscivano momenti, se non storici, momenti umani che imponevano la loro esigenza di essere filmati e al tempo stesso dettavano uno stile”. I documenti dell’archivio custoditi a Torino e i diari conservati nello studio a Roma, svelano anche il disegnatore che visualizzava le idee con uno schizzo o un disegno preciso, attraverso i quali sembra aver voluto creare una distanza tra lui e gli avvenimenti del film, per poterli leggere meglio, perché come ribadì a Cannes nel 1991: “Un film è un atto responsabile. Ed è un atto responsabile soprattutto quando chi lo fa, riesce a non tenere separato il suo ruolo di artefice dell’opera, dall’uomo che egli è e l’atto creativo dal proprio coinvolgimento morale”.
Francesco Rosi era conscio dell’importanza della cultura, a tal punto che definiva archivi, musei, biblioteche, cineteche, “luoghi di conoscenza”: “Il cinema ormai è Storia, è la nostra memoria, sia il cinema della realtà che quello di invenzione: costituisce un patrimonio di incommensurabile valore che va protetto e preservato”. Queste le parole ribadite nel 2002 all’EFA, European Film Academy. Fu felice di lasciare al Museo del Cinema il suo archivio cinematografico che si configura come un importante patrimonio per chiunque voglia studiare il suo cinema, comprendere il suo metodo di lavoro e di pensiero e voglia capire la società non solo italiana. Oggi che viviamo il pericolo di smarrirci nel labirinto della precarietà di un’Italia che rischia di perdere la propria memoria storica e civile, basta vedere un suo film, studiare il soggetto o leggere un brano dei suoi diari, per comprendere che Francesco Rosi ha lasciato a tutti un laccio da annodare alla vita: se lo teniamo stretto, ci farà emergere dal buio dell’oblio e dalla palude dell’ignoranza.
Cadaveri eccellenti, 1976 Disegni di Francesco Rosi sulla sceneggiatura di lavorazione del film Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
Carmen, 1984 Disegni di Francesco Rosi sulla sceneggiatura di lavorazione del film Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
GIULIA LONGO ROSI ABOUT EBOLI
Ho conosciuto Björn Blixt ad un corso di lingua italiana durante il quale accennò ad un’incredibile esperienza giovanile in Italia, fatta con il connazionale Peter Englesson, sul set di Rosi Cristo si è fermato a Eboli. Non credevo alle mie orecchie! Un mio studente, più di quarant’anni prima, aveva conosciuto Francesco Rosi, regista che per me – napoletana amante del cinema – era un vero e proprio mito. Gli chiesi di ritrovare il filmato, la cui copia “ufficiale” era andata perduta, e mostrarmelo. Volevo infatti aiutare i due registi a proporre in Italia il loro documentario, ma per prima cosa dovevo vederlo. Fu Peter a ricavare una copia da una videocassetta malconcia e a restaurarla. Björn mi mostrò il loro Rosi about Eboli nel bar della Cineteca di Copenaghen: ricordo ancora l’emozione che provai durante quei venti minuti di visione. Björn e Peter mi hanno poi raccontato con dovizia di particolari i retroscena di quello che divenne un autentico “dietro-le-quinte” del film. Accorgendomi subito del valore inestimabile di quella testimonianza cinematografica, feci ai due autori una promessa: in un modo o nell’altro, saremmo riusciti a far vedere il loro documentario in Italia, così come – da giovani cineasti di grandi speranze – sognavano sin dai tempi delle riprese. Sorprende pensare che, a fine anni ’70, grazie a una borsa di studio messa a disposizione dalla Scuola di Cinema di Stoccolma, due giovani scandinavi – senza sapere una parola di italiano – ebbero questa opportunità eccezionale, di cui ancora oggi raccontano con gli
occhi luccicanti pieni di entusiasmo. Grazie al loro filmato inedito, unito al brio dei loro racconti, ho vissuto anch’io su quel set, benché all’epoca non fossi ancora nata. In Danimarca il romanzo di Carlo Levi è ancora letto e discusso, così come i film di Francesco Rosi vengono ancora proiettati e studiati. Rosi sul set fu con loro molto generoso: con quei due ragazzi biondi venuti dal profondo Nord si comportò come un papà premuroso. Li accolse senza darsi pose da divo, anzi si fece filmare anche mentre parlava con le comparse di argomenti intimi quali la salute precaria dei genitori o in quella scena epica in cui intona un’aria napoletana. Il set era casa sua, ma – da buon partenopeo – li invitò ad entrare, e condivise con loro momenti importanti, e finora del tutto inediti. Da studiosa napoletana, amante del cinema e della Scandinavia, ho creduto fosse doveroso riportare in Italia questo gioiello, presentato in anteprima nazionale estiva al festival del cinema La Valigia dell’Attore.
Il centenario dalla nascita di Francesco Rosi è l’occasione perfetta per mantenere quella promessa, fatta un giorno di primavera nel bar della Cineteca di Copenaghen, quarant’anni dopo le riprese a cui i due registi svedesi avevano assistito, girando filmati e scattando foto che adesso, per la prima volta, grazie all’interesse del Museo Nazionale del Cinema di Torino, non solo torneranno in Italia, ma troveranno anche una casa, nel cuore della Mole Antonelliana.
Rosi about Eboli , Björn Blixt e Peter Englesson, 1982 Francesco Rosi sul set di Cristo si è fermato a Eboli Foto di Björn Blixt ©Archivio Björn Blixt
PETER ENGLESSON ROSI ABOUT EBOLI
Durante l’ultimo semestre alla Scuola Nazionale di Cinema di Stoccolma vinsi una borsa di studio per viaggiare e visitare un set cinematografico a mia scelta. Björn Blixt, diplomatosi alla Scuola di Cinema un anno prima, nel frattempo era entrato in contatto con Pasqualino De Santis, che lo invitò a visitare il set di Cristo si è fermato a Eboli. Björn mi chiamò subito chiedendomi se volevo accompagnarlo. Eccome se volevo! Avevo già letto il romanzo di Carlo Levi. Ci avevano invitato a visitare il set, ma cogliemmo l’occasione al volo e portammo con noi alcune attrezzature. Ebbi l’opportunità di prendere in prestito delle apparecchiature audio dalla Scuola di Cinema e a Roma noleggiammo una cinepresa. La Televisione Svedese ci offrì generosamente dieci bobine di pellicola da 16 mm, che corrispondevano a circa 120 minuti di “materia prima” per il documentario. Nell’aprile 1978 prendemmo il treno da Stoccolma fino a Matera: un viaggio a quei tempi molto lungo e complicato. Riuscimmo ad arrivare giusto in tempo per l’inizio delle riprese. Visto che avevamo avuto brevi conversazioni solo con Pasqualino e comunque non parlavamo una parola di italiano, eravamo un po’ timidi all’inizio e ci tenevamo un po’ in disparte. Ma nessuno si oppose alla nostra presenza, e allora iniziammo ad essere più attivi. Un giorno il produttore Norman (l’unico del gruppo a parlare inglese) venne da noi e ci disse che Gian Maria Volonté voleva fare un’intervista con noi. Poiché nessuno di noi due parlava italiano, disse di poter fare l’intervista senza domande da parte nostra, ma intervistandosi. Quindi abbiamo avuto la possibilità del tutto unica di intervistare Gian Maria Volonté senza sapere di cosa parlasse. Ovviamente poi abbiamo fatto tradurre il tutto quando abbiamo montato il film. Alcuni anni dopo, Francesco Rosi venne a Copenaghen per una masterclass alla Scuola di Cinema Danese, ed io ho potuto intervistarlo proprio in merito alle riprese di Cristo si è fermato a Eboli. Stavolta avevo preparato le mie domande e Francesco si mostrò molto magnanimo e di larghe vedute durante l’incontro. Il documentario Rosi about Eboli è stato mostrato una sola volta alla ST, la Televisione Svedese. La copia del film poi scomparve. Ora, 44 anni dopo, abbiamo restaurato il film da una videocassetta.
Speriamo che questa storia contribuisca a raccontare la grande generosità di Francesco Rosi nell’invitare le giovani generazioni a visitare il suo set senza alcuna reticenza.
©Archivio Björn Blixt
IN COPERTINA
Carmen, 1984
Francesco Rosi
Foto di Sergio Strizzi
Collezione Museo Nazionale del Cinema – Fondo Rosi
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LE MANI SULLA VERITÀ
100 ANNI DI FRANCESCO ROSINel centenario della nascita di Francesco Rosi, il Museo Nazionale del Cinema celebra un grande autore della cinematografia italiana e mondiale. Animato da una forte passione civile, Rosi indaga una realtà politica, sociale e storica che travalica i confini del nostro Paese, restando drammaticamente attuale. Coniugando la visione critica della realtà con l’innovazione stilistica e narrativa, il suo cinema offrirà sempre, soprattutto alle nuove generazioni, gli strumenti per amare ancora di più l’arte cinematografica e per diventare allo stesso tempo cittadini più consapevoli.