Una pioniera per la storia del cinema: Maria Adriana Prolo

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Una pioniera per la storia del cinema: Maria Adriana Prolo

Una pioniera per la storia del cinema: Maria Adriana Prolo

a cura di Claudia Gianetto e Silvio Alovisio

con la collaborazione di Gianna Chiapello

MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA

Presidente

Enzo Ghigo

Direttore Domenico De Gaetano

Comitato di gestione

Giorgia Valle Vicepresidente

Paolo Del Brocco, Gaetano Renda, Annapaola Venezia

Il presente volume pubblicato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino raccoglie testi inediti su Maria Adriana Prolo e accompagna nell’edizione in cofanetto la ristampa anastatica di Storia del cinema muto italiano Vol. I (Poligono, Milano, 1951).

Il progetto, curato da Claudia Gianetto e Silvio Alovisio con la collaborazione di Gianna Chiapello per il Centro ricerche sul cinema muto italiano “Giovanni Pastrone”, è stato realizzato dal Museo Nazionale del Cinema con la collaborazione del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino e dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema.

Supervisione grafica di Elena Manzone.

Hanno collaborato Antonella Angelini, Roberta Basano, Paola Bortolaso, Elena Boux, Marco Grifo, Gabriele Perrone, Fabio Pezzetti Tonion.

Si ringrazia la Famiglia Prolo – Agnesi, il Museo Storico Etnografico della Bassa Valsesia, Elena Bosio e Daniele Segre.

L’Artistica Savigliano S.r.l, Savigliano (CN), marzo 2023

© Museo Nazionale del Cinema, Torino

In copertina:

Maria Adriana Prolo

Archivio Famiglia Prolo-Agnesi

Enzo Ghigo 4 Stefano Geuna 6 Vittorio Sclaverani 7 una figura rappresentativa del novecento Domenico De Gaetano 9 spettacolo, industria, patrimonio, tra museo e storiografia Giulia Carluccio 17 UN LIBRO DA RISCOPRIRE Claudia Gianetto e Silvio Alovisio 25 la zia adri agli occhi del nipote e delle pro-nipoti Maria Luisa Bertotto 35 dalla biblioteca al museo. il viaggio di formazione di maria adriana prolo Donata Pesenti Campagnoni 39 cronologia essenziale della vita di maria adriana prolo e del museo del cinema Antonella Angelini e Paola Bortolaso 47

Il 20 febbraio 1991 moriva, a 82 anni, Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Stimata a livello internazionale, fece di tutto per rendere reale il sogno di un museo dedicato alla Settima Arte. In occasione del trentennale della sua scomparsa, il Museo del Cinema le ha dedicato una serie di eventi e progetti che la vedono protagonista: straordinaria figura del Novecento, pioniera del collezionismo e della storiografia cinematografica ma anche donna dal carattere forte e dallo spirito anticonformista, con una determinazione e una passione di esempio per intere generazioni di studiosi e appassionati di cinema e non solo.

Il primo è l’omaggio fotografico Maria Adriana Prolo: un Museo, la sua fondatrice, una selezione di immagini che la ritraggono dagli anni Venti alla fine degli anni Ottanta, ospitate dal 19 febbraio a fine maggio 2021 sulla cancellata storica della Mole Antonelliana e ora in parte inserite in questa pubblicazione.

Agli scatti privati, provenienti anche dall’archivio di famiglia, si accompagnano alcune delle fotografie esposte in occasione della mostra dedicata alla prima sede del Museo del Cinema a Palazzo Chiablese, curata da Lorenzo Ventavoli, per arrivare alle immagini realizzate da Elena Bosio sul set del documentario Occhi che videro di Daniele Segre (Italia 1989, 50’), pellicola di cui Maria Adriana Prolo e il suo Museo furono protagonisti assoluti.

Il film e i contenuti extra si presentano oggi come un documento unico capace di catturare la vitalità di questa piccola grande donna, avvolta nella magia delle preziose collezioni di precinema, fotografia e cinema raccolte per decenni con passione. Il documentario, edito in dvd, è disponibile anche online sul canale Vimeo del sito del Museo www.museocinema.it. Il secondo progetto si è realizzato a dicembre 2021: in occasione del processo di rinnovamento del piano di accoglienza del Museo alla Mole Antonelliana è stata inaugurata un’installazione che accoglie i visitatori narrando il legame a doppio filo che unisce le figure di Alessandro Antonelli e Maria Adriana Prolo. Lui geniale architetto che progetta l’edificio divenuto simbolo della città di Torino, lei tanto prolifica e appassionata da aver dato vita non solo al Museo Nazionale del Cinema di Torino ma anche - con

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Fernanda Renolfi e Carlo Dionisotti - al Museo Storico Etnografico fondato nel 1973 e che ha ora sede a Villa Caccia, un complesso progettato e realizzato da Antonelli.

In questa linea, il Museo in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino presenta la ristampa anastatica del volume Storia del cinema muto italiano Vol. I pubblicato da Maria Adriana Prolo nel 1951 e ormai di difficile reperibilità: un’opera coraggiosa che, in alcune parti superata dalle successive ricerche, si ripropone oggi per l’assoluta originalità nella scelta pionieristica dell’ambito disciplinare, con una raccolta diretta di documenti e testimonianze che conserva intatto il suo fascino. Ad accompagnare la Storia del cinema all’interno del cofanetto anche una breve raccolta di saggi inediti che permettono al lettore di contestualizzare sia l’autrice sia l’importanza del suo contributo agli studi e alle ricerche sul cinema muto italiano. Il progetto è stato realizzato con il contributo dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema.

Il cofanetto è simbolicamente la prima iniziativa realizzata dal Centro ricerche sul cinema muto italiano “Giovanni Pastrone”, fondato nel 2020 dal Museo. Dopo un periodo di stasi dovuto alla pandemia il Centro potrà, grazie alla stretta collaborazione tra Museo e Università, divenire un punto di riferimento per la realizzazione di altri progetti nazionali e internazionali di ricerca e di didattica legati al cinema italiano di inizio Novecento. Oltre che in edizione cartacea il volume sarà disponibile e accessibile gratuitamente in versione digitale. I tre capitoli del volume che precedono l’Elenco delle pellicole mute realizzate in Italia dal 1904 al 1915 saranno tradotti nelle lingue ufficiali della Fédération Internationale des Archives du Film, associazione di cui il Museo entrò a far parte all’inizio degli anni Cinquanta proprio grazie alla tenacia della sua fondatrice e alla preziosità delle sue collezioni.

La divulgazione di Storia del cinema muto italiano, libro ormai di culto a distanza di più di settant’anni dalla pubblicazione, auspichiamo sarà di stimolo a una riflessione sul passato e sul futuro della storiografia del cinema muto italiano.

Ed è anche un affettuoso omaggio che dedichiamo alla fondatrice del museo, rendendo merito al grande lascito culturale che ha tramandato, non solo in termini di collezioni, senza il quale l’attuale Museo del Cinema alla Mole Antonelliana non sarebbe esistito.

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Stefano Geuna rettore università di torino

La ristampa anastatica della gloriosa Storia del cinema muto italiano pubblicata nel 1951 da Maria Adriana Prolo, e l’edizione in cofanetto con testi inediti che sottolineano l’importanza della figura dell’autrice insieme alla pregnanza e peculiarità storiografica del suo lavoro, costituiscono un’occasione preziosa per proseguire la collaborazione tra il nostro Ateneo e il Museo Nazionale del Cinema. Una collaborazione sempre più produttiva che, in questo caso, fa riferimento al Centro ricerche sul cinema muto italiano “Giovanni Pastrone”, nato dalla perfetta sintonia e sinergia tra i ricercatori e le ricercatrici dell’Università di Torino e le grandi competenze presenti all’interno del Museo Nazionale del Cinema, per la valorizzazione del cinema muto attraverso un patrimonio unico come quello conservato dal museo torinese. Un patrimonio straordinario che trova le sue radici proprio nel lavoro della fondatrice del Museo, Maria Adriana Prolo, quella “Signorina del cinematografo” che, con il progetto del Museo da un lato e con la Storia del cinema muto italiano dall’altro, dà origine a un’avventura pionieristica e lungimirante destinata a distinguersi internazionalmente e a incidere in modo determinante sugli studi sul cinema e sugli sviluppi della nozione stessa di patrimonio cinematografico. Il rigore che contraddistingue la studiosa, esemplificato dalle sicure metodologie che guidano la Storia del cinema muto italiano, ma anche la vivacità intellettuale che ispirano la collezionista e la conservatrice che “pensa” il suo museo fin dal 1941, come ci ricorda un suo ormai leggendario appunto, fondano un approccio e un’idea di cinema come patrimonio culturale da conservare e valorizzare che anticipa di molto lo sguardo contemporaneo. Spregiudicata e anticonformista, esprime una visione lontana da schematismi culturali, una visione che non teme di legittimare il cinema non solo come arte, ma anche come industria e spettacolo, ponendo attenzione sia agli aspetti tecnologici che a quelli economici, oltreché a quelli artistici, utilizzando fonti e testimonianze molteplici e poliedriche che le consentono di dare vita a un progetto di storia culturale ante litteram, sensibile alla cultura materiale, molto in anticipo sui tempi. Anche per questo sono grato al Museo Nazionale del Cinema per aver coinvolto l’Università di Torino in questa preziosa operazione, augurando nuova vita alla Storia di Maria Adriana Prolo, certo dell’impatto che avrà sulle giovani generazioni di studiosi e studiose e sul pubblico interessato a riflettere sul ruolo della cinematografia e sul suo valore di patrimonio culturale.

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Nazionale del Cinema

(AMNC) poter contribuire alla ristampa di questa pubblicazione curata da Maria Adriana Prolo proprio nell’anno in cui ricorrre il 70° anniversario dalla fondazione avvenuta il 7 luglio 1953. Conservare e valorizzare la memoria cinematografica del territorio rappresenta la mission principale dell’Associazione e siamo contenti di poterlo fare al fianco del Museo in una stagione dove sono state molteplici le forme di collaborazione a partire dalla programmazione del film prodotto da Valentina Noya e diretto da Milad Tangshir VR Free nelle sale VR della Mole Antonelliana, l’organizzazione della ventunesima edizione del Premio Maria Adriana Prolo assegnato a Markus Imhoof con la laudatio di Emanuele Russo, Presidente di Amnesty International Italia, nell’ambito della Giornata mondiale dei diritti umani, le collaborazioni per l’omaggio a Pasolini, le mostre dedicate ad Argento e a Rosi. Significative le sinergie con i Servizi educativi per cinemAutismo e con le sale del Massimo per il progetto a sostegno dell’Ucraina.

Tutte queste attività sono possibili oggi perché una donna visionaria, in un altro periodo di guerra, il 6 giugno del 1941, pensò il Museo. Chi coordina oggi l’AMNC non ha avuto modo di conoscere la fondatrice per questioni anagrafiche, ma ha avuto la fortuna di incontrare persone che hanno contribuito a rendere possibile il suo sogno come Giorgio Cattarello e l’Architetto Leonardo Mosso. Il nostro pensiero, per introdurre le pagine che state per leggere, va a queste figure che ci hanno lasciato un’importante eredità morale nel pensare sempre al Museo, citando con affetto e riconoscenza Leonardo, come uno spazio pubblico a consumo democratico.

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presidente associazione museo nazionale del cinema
È un’occasione unica per l’Associazione Museo
Maria Adriana Prolo nel suo studio a Palazzo Chiablese durante le riprese di Occhi che videro di Daniele Segre, 1988 Foto Elena Bosio Archivio Elena Bosio/I Cammelli – Torino

UNA FIGURA RAPPRESENTATIVA DEL NOVECENTO

Domenico De Gaetano

Non ho conosciuto Maria Adriana Prolo. Quando iniziai a collaborare col Museo Nazionale del Cinema, organizzando rassegne di film, la Prolo era mancata da più di un anno e la sua figura apparteneva già al passato. Il suo nome era stato ormai consegnato alla storia, legato all’epoca d’oro del cinema torinese, insieme agli oggetti antichi che aveva collezionato e ai nomi di registi, sceneggiatori e personaggi entrati nel mito, da studiare sui libri di testo all’Università come testimonianza di un mondo che non esisteva più da tempo. Tuttavia, negli ambienti di Palazzo Chiablese, si respirava un’aria fortemente intrisa di quel passato e nelle stanze, a quel tempo adibite alla conservazione e alla catalogazione delle sue collezioni di pellicole, apparecchi, manifesti e fotografie, restavano ancora angoli del suo museo rimasti pressoché intatti. La scrivania del suo studio, la sua sedia girevole, un divanetto dell’’800 dalla vecchia stoffa blu vago, alcune vetrine dove ancora erano esposti pezzi delle sue collezioni così come - forse - li aveva lasciati lei. Il suo nome echeggiava nella memoria, un ricordo via via sempre più sbiadito nelle menti dei giovani studenti che entravano timidamente a lavorare al Museo. Nell’allestimento della Mole Antonelliana del 2000, la Prolo era presente solo con un suo ritratto a grandezza naturale che la vedeva sorridente accogliere i visitatori, ma la sua forte presenza è ravvisabile in tutto il percorso di visita ed esplode nei depositi che custodiscono la maggior parte del patrimonio che ha raccolto. Maria Adriana Prolo non è solo la fondatrice

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del Museo Nazionale del Cinema di Torino ma è una figura rappresentativa della cultura italiana del Novecento e la sua vita, le sue ricerche e la sua carriera professionale costituiscono un modello per le nuove generazioni. Ecco dunque che la ristampa anastatica di questo testo ormai introvabile non è “semplicemente” un omaggio alla fondatrice del Museo, a colei senza la quale preziosi oggetti e testimonianze sulle origini del cinema e della fotografia sarebbero andati perduti per sempre invece di essere esposti e raccontati nella prestigiosa sede della Mole Antonelliana, ma è la prima tappa di un percorso che vuole raccontare la straordinaria avventura di una figura che travalica il suo tempo, si spinge oltre i confini del secolo che racchiude la sua vita e, soprattutto, va ben al di là delle ricerche sul cinema come industria da analizzare o arte da collezionare.

Maria Adriana Prolo è una sognatrice che ha perseguito la sua passione per il cinema con impegno smisurato, una combattente che ha nutrito la sua acuta intelligenza con discrezione e determinazione, un’infaticabile studiosa che ha lasciato un segno profondo nella storia della cultura del Novecento in Italia e in Europa, una donna che aveva trovato la sua strada sin da giovane come i grandi protagonisti del secolo scorso.

Alcuni suoi saggi, scritti non ancora trentenne, esprimono gli ampi interessi già dai titoli e mettono in luce una personalità attenta, curiosa, anticonformista e ben definita: Saggio sulla cultura femminile subalpina dalle origini al 1860 pubblicato nel 1937 come introduzione a una raccolta di poesie e Torino cinematografica prima e durante la guerra uscito nel 1938 su “Bianco e Nero”, la più importante rivista cinematografica italiana. Nel primo, la Prolo illustra la vita amara e solitaria della poetessa nizzarda Agathe Sophie Sassernò e ne esalta l’opera letteraria da un punto di vista critico, ripercorrendo la storia culturale piemontese attraverso i nomi e le opere di donne che si sono distinte nelle scienze e in letteratura, con particolare attenzione a chi ha dimostrato una notevole inclinazione poetica. Indagando la questione dell’istruzione femminile e tracciandone la storia da un punto di vista storico e sociale, la Prolo affronta anche la nascita e la diffusione delle teorie femministe, considerate come ragione prima dell’emancipazione femminile.

Nel secondo, la Prolo ricostruisce la storia dei primi produttori cinematografici torinesi dal 1904 al 1918, attraverso una mappatura degli stabilimenti più importanti, descrivendo le peculiarità tecniche di ciascuno di

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essi e citando i divi e le dive nonché gli sceneggiatori legati alle singole case di produzione. Stila anche un dettagliato elenco delle prime riviste italiane dedicate al cinema dal 1908 al 1917, con particolare attenzione al loro orientamento e alla loro veste grafica, e riporta un primo elenco di film distribuiti tra il 1910 e il 1913 suddivisi per anno e per casa di produzione. Inoltre approfondisce il rapporto tra lo scrittore Guido Gozzano e il cinema, dimostrando come molto probabilmente scrisse per la casa di produzione Ambrosio alcune sceneggiature, ma non volle apparire ufficialmente come autore delle stesse.

Dunque la storia del cinema, il legame con il territorio (piemontese nel suo caso) e il ruolo delle donne nella società sono i tre elementi di riferimento che, alimentati da inesauribile passione e indiscussa determinazione, contraddistingueranno il resto della sua vita, privata e professionale.

Sull’importanza della sua figura nella storia del cinema torinese, italiano e internazionale, è già stato scritto molto e basta visitare la Mole Antonelliana per rendersi conto della grandezza della sua “visione”. Può essere interessante tuttavia sottolineare come inizialmente il suo interesse per il cinema avesse spinto i suoi studi e le sue ricerche in due direzioni, entrambe impegnative e solo apparentemente in contrapposizione. Da un lato un percorso più lineare che potremmo definire “accademico”, attraverso l’attività di studiosa e ricercatrice - affinata nel periodo post-laurea nella Biblioteca Reale di Torino - bramosa di sistematizzare l’enorme quantità di informazioni raccolte secondo metodologie che formeranno la base indispensabile per la conoscenza della storia del cinema italiano di inizio Novecento e l’avvio degli studi filmografici raccolti in questo volume.

Dall’altro un percorso più complesso di organizzatrice culturale, infaticabile archivista, collezionista (oggi aggiungeremmo compulsiva), catalogatrice di pellicole, lastre fotografiche, manifesti, lanterne magiche, riviste, libri e memorabilia legati al mondo del cinema. Da conservare e, soprattutto, valorizzare ed esporre da moderna imprenditrice dell’arte, per trasmetterli al pubblico del presente e del futuro.

Di queste due anime prevalse la seconda e questo libro è in qualche modo la testimonianza della direzione abbandonata. Una direzione che non pensava di abbandonare completamente, forse solo di rimandare, spinta

dall’urgenza di salvaguardare il patrimonio, visto che a più riprese aveva progettato di ritornare sull’argomento con un secondo volume. Un proget-

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to che è rimasto incompiuto così come quello, completato in questa edizione secondo i suoi propositi, di rivedere la parte iconografica del primo volume. Questo testo divenne così per la Prolo uno strumento a difesa e sostegno della sua idea di dar vita a un museo. Fa riflettere constatare che pochi anni dopo la pubblicazione dei due saggi citati – a dimostrazione della sua pionieristica visione del mondo culturale – inizi a pensare a un Museo del Cinema per esporre le collezioni raccolte. In questo ben si manifesta anche, al di là dello spirito da archivista, la generosità della Prolo e il suo imperativo di condivisione. Un Museo concepito con una visione internazionale e fondato partendo dal passato glorioso del cinema delle origini, quando Torino era la capitale dell’industria cinematografica italiana e dava vita a capolavori come Cabiria, il kolossal realizzato dall’Itala Film nel 1914, e a supereroi come Maciste. Un patrimonio da riscoprire, strettamente legato al territorio almeno nella sua fase iniziale, ma di importanza mondiale. A conferma del suo legame con il Piemonte, all’inizio degli anni Settanta, con l’amica Fernanda Renolfi e il grande italianista Carlo Dionisotti, dà vita al Museo Storico Etnografico a Romagnano Sesia, dove era nata, per conservare e valorizzare usi, costumi e tradizioni della Bassa Valsesia e delle colline Novaresi. Due musei con un legame non solo “geografico” profondo che non potrebbero essere stati creati altrove.

L’idea di un museo del cinema nel 1941 assume un valore ancora più straordinario se la si fa precipitare nella realtà storica della prima metà del Novecento. La Prolo è vissuta in un’epoca in cui la società destinava alle donne un ruolo prettamente familiare, di moglie e madre. Senza diritto di voto, con i salari dimezzati rispetto agli uomini, l’autorizzazione a entrare nei pubblici uffici ma non in magistratura, in politica o nell’esercito, la possibilità di insegnare negli istituti magistrali ma non nei licei, per citare solo alcune limitazioni dei diritti delle donne in Italia - nelle grandi città e a maggior ragione in una cittadina di provincia - che solo dal dopoguerra in poi sono state eliminate. Da questa prospettiva, la famiglia ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione della Prolo, tenendo conto che i genitori hanno sempre assecondato le inclinazioni culturali e poi le aspirazioni professionali delle tre figlie: Tarsilla diventò pittrice, Itala studiò pianoforte mentre Maria Adriana Prolo si dedicò alla poesia e alle ricerche storiche. Oggi come allora, con affetto, ammirazione e rispetto, i familiari ricordano questa donna così speciale.

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Dunque l’identikit che emerge dalle persone che l’hanno conosciuta e dai documenti a disposizione è quello di una giovane donna di provincia, della provincia aspra e concreta, dal carattere difficile e dagli interessi anticonformisti, amata e sostenuta dalla sua famiglia, con una spiccata tendenza all’autonomia, testarda al limite della cocciutaggine nel perseguire e difendere le proprie posizioni, stimata e rispettata da tutti, consapevole delle rinunce nella vita privata per poter coltivare la carriera professionale in un ambiente cinematografico - tra Giovanni Pastrone e Henri Langlois, registi e colleghi, collezionisti e associati della F.I.A.F. - prevalentemente maschile.

La Prolo dimostra di essere una donna moderna, il cui profilo appare oggi attuale più che mai, non solo per i contorni pionieristici dei contenuti del suo lavoro, ma anche per l’energia e la caparbietà nel dare alla sua idea visionaria una dimensione imprenditoriale pur con tutti gli ostruzionismi economici, sociali e culturali dell’epoca.

Per questi motivi la ristampa del suo libro non vuol solo ripercorrere nostalgicamente le sue indagini filmografiche (ovviamente superate dagli storici e dai ricercatori venuti dopo di lei) o rammentare la smisurata eredità che ci ha lasciato, ma soprattutto vuol farci riscoprire le radici del suo lavoro, nutrirci dell’attitudine critica e dell’indomabile curiosità, per trarne insegnamento per il futuro del Museo. La sua avventura cinematografica pone alcune domande che sono tutt’ora aperte soprattutto pensando alla direzione scientifica e culturale che può percorrere un’istituzione articolata e complessa come un Museo del Cinema che deve occuparsi per sua stessa natura dell’archeologia e del contemporaneo. E dunque: che cosa collezionerebbe oggi Maria Adriana Prolo? Come avrebbe messo a disposizione del pubblico le sue collezioni con la trasformazione digitale in atto? In che modo avrebbe connesso le forme di spettacolo dei preziosi apparecchi di precinema con le esperienze immersive e virtuali dei nuovi linguaggi immateriali?

A queste domande, così dense se calate nell’articolato mondo di oggi, tocca a noi e ai giovani lettori di questo volume trovare le adeguate risposte. Interpretare nel modo più coerente possibile la sua eredità intellettuale è un imperativo col quale misurarsi, supportati dalla sua prerogativa di rivolgersi al passato con lo scopo di salvarlo dall’oblio pur rimanendo tenacemente ancorata al presente e proiettata nel futuro come anticipatrice di un nuovo modo di esporre il “cinematografo” per le generazioni che verranno dopo di noi.

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Maria Adriana Prolo e il regista Daniele Segre durante le riprese di Occhi che videro, 1988 Foto Elena Bosio Archivio Elena Bosio/I Cammelli – Torino Maria Adriana Prolo, il giornalista Luciano Curino e Federico Fellini in occasione della visita del regista al Museo Nazionale del Cinema, 27 settembre 1986 Archivio “La Stampa”

SPETTACOLO, INDUSTRIA, PATRIMONIO, TRA MUSEO

E STORIOGRAFIA

Giulia Carluccio

“Torino, la culla del cinema italiano, si adagia sulle rive del Po con la simmetria regolare delle sue vie rettilinee, dominate dalla punta della Mole Antonelliana…. Il turista non può penetrare in questa rovina bizzarra. Ma se riesce a convincere la guida valdostana, allora viene introdotto in una strana scenografia espressionista… Una sala gigantesca, tutta in pannelli, in cemento armato e ragnatele, è il regno delle colombe e dei sorci… Attigua a questa grande sala, un’angusta cellula, sospesa fra il cielo e la terra, è il dominio della signorina Prolo, che da quindici anni raccoglie con la pazienza di una intelligente formica tutto ciò che ella ha potuto salvare del vecchio cinema italiano. Mille tesori, riposti negli armadi o negli scaffali, si scaldano al tepore di una stufa di ghisa sistemata nella stanza stretta e consunta. Maria Adriana Prolo è la donna che conosce la storia del vecchio cinema italiano meglio di chiunque altro al mondo. Essa è, in Italia, quello che Rachel Low è in Inghilterra, Henri Langlois in Francia, l’ingegnere Smrz a Praga, Iris Barry a New York, Ove Brusendorff a Copenaghen, Vishnenski a Mosca: tutti specialisti noti per i loro lavori sulle origini dell’arte del film dei loro paesi. Ho letto le bozze del primo volume della Storia del cinema muto italiano (1896-1916) che sta per uscire presso la casa editrice Poligono. È la monografia più accurata,

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documentata e completa che io conosca. Il repertorio dei film muti italiani, contenuto in appendice al volume, non ha equivalenti in nessun paese del mondo, eccetto l’U.R.S.S.”

Queste le parole con cui Georges Sadoul apre l’articolo La tecnica rivoluzionaria nella “Cabiria” di Pastrone, nella sezione “Retrospettiva” del n. 58 della rivista “Cinema” del 15 aprile del 1951. Colpisce la decisione con cui lo storico francese riconosce il valore e l’importanza del contributo storiografico della “signorina” Prolo (ribadendo, come noto, il suo apprezzamento anche nell’ avvertissement anteposto al terzo volume dell’Histoire Generale du Cinéma, dedicato al periodo 1909-1920 - Le Cinéma devient un art e uscito in quello stesso 1951). Le parole di Sadoul risultano non solo decise, ma anche precise e nette nell’evidenziare, oltre all’accuratezza e alla completezza della monografia di Prolo, il suo essere “documentata” e accompagnata da quel “Corpus Filmorum Italicorum” la cui esemplarità verrà sottolineata ancora cinquanta anni più tardi da Aldo Bernardini nel saggio dedicato alla Filmografia nel V volume della Storia del cinema mondiale curata da Gian Piero Brunetta per Einaudi (2001).

Ma ciò che più di tutto è importante rilevare nelle parole di Sadoul è l’assoluta contiguità e consustanzialità tra il riferimento alla già leggendaria “signorina del cinematografo” che colleziona, custodisce e tutela i “mille tesori” del “vecchio cinema italiano” e la studiosa rigorosa che consegna alla storiografia del cinema il primo importante contributo sul cinema muto italiano. In effetti se Maria Adriana Prolo è ricordata soprattutto come fondatrice del Museo Nazionale del Cinema, “pensato” fin dal 1941, come annota nel celeberrimo appunto dell’8 giugno di quell’anno, il ruolo altrettanto pionieristico della studiosa non è meno significativo e soprattutto meno innovativo di quello svolto come collezionista e conservatrice, e ciò in un’ottica non solo nazionale, ma anche internazionale, come peraltro indicato dallo stesso Sadoul.

Del resto, come ricordato nei contributi compresi in questo volume e come ben ricostruito da Donata Pesenti Campagnoni nei suoi studi dedicati a Prolo, la tenace Signorina di Romagnano Sesia era riuscita ad entrare ben presto in un quadro di scambi e relazioni nazionali e internazionali. Come più volte richiamato nelle pagine di questo volume, fin dalla pubblicazione dell’articolo Torino cinematografica prima e durante

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la guerra, su “Bianco e Nero” nel 1938, Prolo aveva preso contatto con Luigi Chiarini e con il mondo dei protagonisti del dibattito intellettuale italiano sulla cinematografia, per avviare, dal momento in cui inizia a pensare il museo e a ricostruire la storia del cinema muto torinese, un fitto scambio con interlocutori che in buona misura coincidono con quelli ricordati da Sadoul, tra l’altro tendenzialmente tutti uomini, con poche eccezioni, tra cui la grande Iris Barry citata dallo storico francese. Se in questo modo Prolo entrerà a far parte di quella “costellazione di padri della storiografia cinematografica internazionale”, come sottolinea Brunetta nel saggio dedicato alla Storiografia del cinema nel già citato V volume della Storia del cinema mondiale da lui curata, il suo ruolo nella storia del cinema e delle istituzioni cinematografiche è pure quello di contribuire a definire anche una costellazione di “madri”, e cioè di donne che delineano con nettezza un percorso femminile non secondario per avvalorare la pratica del Doing Women’s Film History , proposta per esempio dal volume di saggi curato da Christine Gledhill e Julia Knight nel 2015, in cui tuttavia il nome di Maria Adriana Prolo ancora non compare. Ma torniamo alla questione di quella che potremmo definire la co-necessità delle due attività e missioni che contraddistinguono l’eccezionale contributo della “madre” Prolo. A questo proposito risulta perfettamente calzante il richiamo longhiano a cui ricorre Brunetta nel 1994 per rievocare l’importanza dell’ ”insieme del lavoro di Maria Adriana Prolo”, citando l’articolo programmatico del primo numero di “Paragone” del gennaio 1950, Proposte per una critica d’arte, in cui Roberto Longhi “indicava come significativi atti critici e storiografici ‘di grande portata (quelli) che si traducono in cura e sollecitudine per la stessa sopravvivenza fisica delle opere d’arte’…”. Quello di Maria Adriana Prolo, nel doppio versante di cui si diceva, è allora davvero un atto critico e storiografico di grande portata, fondato su quella doppia dimensione che la stessa Prolo richiama insistentemente, come testimonia per esempio una lettera a Ugo Casiraghi del 1950, in cui sollecita l’uscita del primo volume della sua Storia del cinema muto italiano: “fa che esca presto il mio libro! Con quello il problema Museo sarebbe risolto, ed io riuscirei a raccogliere in Italia tutto quanto c’è ancora da raccogliere! Lo so, è un pallino, il mio, ma sono così stupidamente certa che il cinema e la sua storia meritino i miei

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molteplici sacrifici!”. Ma vale anche il reciproco: nel 1942, quindi diversi anni prima, la fondatrice del Museo, in una lettera alla rivista “Cinema”, aveva per contro dichiarato “Macchine, pellicole, fotografie, scenografie, documenti per un piccolo Museo del Cinema Italiano che per ora è insediato alla Mole Antonelliana. Come mi è venuta tale idea? Raccogliendo notizie e informazioni per la storia del cinema muto in Italia...”. Se l’idea di museo, come è ancora Brunetta a sottolineare nel saggio del 1994 sopra citato, è “già proiettata in avanti per la sua capacità di porre in prospettiva, osservare e interrogare nella loro ricchezza e struttura poliedrale una serie di oggetti, di macchine e di documenti eterogenei capaci di restituire il senso della memoria di fenomeni legati alle meraviglie della visione…”, quella che fonda la Storia del cinema muto italiano è forse ancor più avveniristica. Innanzitutto per l’attenzione alla cultura materiale che anticipa effettivamente quell’approccio di storia culturale che solo molti anni più tardi orienterà la storiografia del cinema italiano, ben al di là della centralità dei film, come rilevano Silvio Alovisio e Claudia Gianetto in questo volume e come Pesenti Campagnoni ha ben dimostrato anche precedentemente. Ma anche perché, se è vero che tra i progetti non realizzati da Maria Adriana Prolo vi è un’antologia di scritti critici e teorici sul cinema, che non vedrà la luce così come non vedrà la luce il secondo volume della Storia del Cinema muto italiano, basta sfogliare il (primo) volume della Storia per capire come il ricorso continuo alle fonti a stampa, le numerosissime citazioni di testi e documenti che inframezzano le pagine del libro (tra cui il celebre testo di Giovanni Papini Filosofia del cinema), lo innervano di una dimensione anche antologica, che restituisce pensieri e discorsi sul cinema, insieme a notizie e a informazioni, in modo che lo stesso progetto storiografico risulta poliedrico e multidimensionale come il suo museo. Per non parlare del ricchissimo apparato iconografico che “musealizza”, in qualche modo, il volume. E, a proposito di musealizzazione, vale la pena di notare che il pionierismo di Prolo e la forza innovativa del suo progetto storiografico stanno anche nella precisa intuizione del cinema come parte di un patrimonio culturale da salvare e preservare, di un’eredità culturale preziosa. Sono significative a questo proposito le parole con cui, nell’Introduzione della Storia, Prolo presenta l’Elenco delle pellicole mute realizzate in Italia dal 1904 al 1931:

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Maria Adriana Prolo, nel suo studio a Palazzo Chiablese, mostra la fotografia (Coll. Museo Nazionale del Cinema) che la ritrae con Alfred Hitchcock in occasione della sua visita al Museo nel 1960

Foto Elena Bosio

Archivio Elena Bosio/I Cammelli – Torino

…si potrebbe intitolare “Corpus filmorum italicorum”, e che per noi è disperante come un elenco di preziosi incunaboli o rari disegni distrutti o smarriti...

Al di là dell’intento di legittimazione culturale che il paragone con oggetti artistici già canonizzati in qualche modo esprime, quello che colpisce è come questo stesso intento sostiene una rivendicazione del film in quanto bene artistico e culturale, parte di un patrimonio da difendere. In questo, dunque, ancora una volta il gesto storiografico e quello museografico si confondono e si sostengono a vicenda. Ma la spregiudicatezza, l’ampio respiro e l’apertura mentale di questa pioniera, fanno sì che l’idea patrimoniale e l’urgenza di difesa culturale del cinema non escludano la sua dimensione di industria, di tecnologia, così come non escludono il valore di esperienza sociale dello spettacolo cinematografico. Anche qui risultano pregnanti le sue parole:

In Italia il cinematografo nacque come spettacolo e come produzione… I primi italiani che se ne occuparono furono uomini modesti e pratici che ne intuirono le possibilità commerciali ed impiantarono le prime sale di proiezione e in seguito fabbriche di pellicole, superando numerose difficoltà tecniche… Per molti anni, critici e storici cinematografici italiani e stranieri sottovalutarono, denigrarono il nostro cinema muto, ma è da stolti accusarlo di non essere stato “arte”…

Ma ecco che è proprio nell’apertura del libro che il cinema, come spettacolo e industria, rappresenta anche il culmine di una storia della visione di cui bene l’autrice evoca il valore esperienziale, le modalità di fruizione da parte degli spettatori e del pubblico, in senso affettivo, psicologico, sociale, cogliendone la natura di prodotto di consumo e di ricreazione di massa:

Il linguaggio visivo, l’ultimo dei mezzi d’espressione concesso agli uomini, divenne ben presto necessità di una dose quasi quotidiana di sensazioni e di sogni, trasformò un numero sempre maggiore di spettatori di tutte le classi sociali, immettendo in loro desideri di cose mai prima viste, consolandoli e rallegrandoli con visioni di gioia e di benessere, oppure accrescendo i motivi della loro insofferenza per l’impossibilità materiale

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di adeguarsi immediatamente al lusso e all’eleganza figurati sullo schermo. Per il suo apporto di elementi costruttori e distruttori il cinematografo deve ormai essere studiato come una delle più importanti manifestazioni della vita culturale e sociale di un popolo, essendone, con lo sport, la più diffusa ricreazione.

Come si vede, vi è un’idea di cinema precisa quanto ampia, plurale, multidimensionale, tenuta insieme con lo spessore costruito anche attraverso il ricorso a quell’ altrettanto ampio, plurale, multidimensionale dialogo con le eterogenee fonti citate, in un intreccio che rilancia il gesto istituzionale di una storiografia che vuole attestare un bene culturale, con la presentazione spregiudicata di tutta la sua complessità. Una storia culturale, come si diceva, in cui non mancano peraltro preziose notazioni sullo stile (la descrizione del carrello pastroniano in riferimento all’emergere del primo piano, che coniuga in modo mirabile appunti di tipo tecnico con l’intuizione di come cambia lo sguardo cinematografico, o le acutissime osservazioni sulla recitazione), sui generi cinematografici, sul fenomeno divistico. Il libro, aggiornabile ovviamente dal punto di vista dei dati e delle informazioni, è per contro uno stimolo del tutto attuale e per nulla obsoleto per ripensare oggi la storiografia del cinema, ripartendo dalle intuizioni anticipatrici di una pioniera e dalla sua piena intelligenza del fenomeno cinema.

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Maria Adriana Prolo nel suo studio a Palazzo Chiablese durante le riprese di Occhi che videro di Daniele Segre, 1988 Foto Elena Bosio Archivio Elena Bosio/I Cammelli - Torino

UN LIBRO DA RISCOPRIRE

Le seul véritable voyage, le seul bain de Jouvence, ce ne serait pas d’aller vers de nouveaux paysages, mais d’avoir d’autres yeux, de voir l’univers avec les yeux d’un autre Marcel Proust, La prigioniera (Alla ricerca del tempo perduto, 1923).

La lettura o la rilettura della Storia del cinema muto italiano di Maria Adriana Prolo sorprende: ci si attenderebbe un testo sì prestigioso ma anche troppo compromesso dai dati divenuti poi obsoleti o anche poco avvincente. Sfogliandolo, scoprirete poco a poco che accade il contrario. La scrittura, leggera ed efficace, è estremamente gradevole nonostante l’autrice debba sintetizzare la straordinaria vivacità industriale, sociale e culturale dei primi vent’anni del cinema italiano in sole 88 pagine più 27 di densissime note e con una chiusura anche un poco precipitosa (forse motivata dalla convinzione che al primo volume sarebbe presto seguito il secondo).

Pur in un’economia testuale così ridotta, il libro offre un contributo storiografico straordinariamente innovativo ma, come vedremo, rimasto per decenni in larga misura incompreso. Per capire meglio la portata di tale innovazione occorre ritornare per un attimo indietro nel tempo, ricordando quale fosse lo sconfortante contesto nel quale la Prolo

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sviluppò le sue pionieristiche ricerche. Prima del suo volume, il cinema muto italiano era stato oggetto occasionale di ricostruzioni frettolose e distratte, affidate alla memoria soggettiva, interessata e vacillante, di alcuni testimoni (Emilio Ghione, Giovanni Pastrone, Lucio D’Ambra, Enrico Guazzoni, Francesco Soro ecc.), alle strumentalizzazioni di una critica intelligente ma molto ideologica (si pensi solo a Umberto Barbaro che esalta Sperduti nel buio), al facile bozzettismo impressionistico colorato dalla deleteria retorica del buon “vecchio cinema italiano” (Eugenio Ferdinando Palmieri nel suo libro omonimo pubblicato nel 1942), dove si mescolavano toni favolistici e accenti ironici ora teneri e ora quasi derisori. Agli occhi, spesso miopi, degli aspiranti storici dell’epoca, d’altronde, lo scenario delle fonti si presentava quasi desertico. Nella quasi totale assenza, come rileva la stessa Prolo, di archivi nazionali che raccogliessero e conservassero il materiale prezioso che documenta la storia della cinematografia (Nota 3 pag. 89-90), i film ancora visibili, spesso tagliuzzati in discutibili centoni antologici (dall’Antologia del cinema muto italiano di Luigi Chiarini, 1935, a Vent’anni di arte muta, di Emilio Scarpa, 1938), si contavano sulle dita di una mano, mentre quasi nessun critico o studioso (se non, almeno un po’, Palmieri) faceva lo sforzo, davvero minimo, di consultare le pur numerose riviste specializzate conservate nelle biblioteche nazionali e locali. Di ricerche su fonti primarie negli archivi cartacei, ovviamente, non si parlava nemmeno. Invece di evolvere, dunque, l’interesse, peraltro relativo, verso il cinema muto italiano stagnava in un limbo culturale privo di reali oggetti di studio e senza metodo, impaludato da ottuse condanne estetiche (“il vecchio cinema italiano era artisticamente ben poca cosa”, dichiara convinto Guido Bezzola sulle autorevoli pagine di “Cinema” nel 1951, lo stesso anno in cui esce il volume di Prolo), da tante omissioni e, ancora di più, da innumerevoli errori che si perpetuavano di testo in testo (come rileverà poi amaramente pochi anni dopo l’ex sceneggiatore Arrigo Frusta, nei suoi bellissimi “ricordi di uno della pellicola” pubblicati su “Bianco e Nero”).

Da questa approssimativa ma influente tradizione di studi (se così, con non poca indulgenza, la vogliamo chiamare), Prolo prende chiaramente le distanze, proponendo non soltanto una rigorosa metodologia della ricerca, dovuta alla sua solida formazione storiografica, ma anche un’idea di cinema.

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Dal punto di vista della metodologia, alcune note del volume chiariscono l’approccio della Prolo a questa disciplina di studio (allora però ancora non considerata tale) e soprattutto il modo di raccogliere e approfondire i dati. La studiosa intende dimostrare, in primo luogo, come non sia possibile scrivere una storia del primo cinema italiano senza consultare, citare e verificare le fonti. Quelle da lei scelte come fonti principali del suo volume sono le fonti a stampa e le testimonianze dei sopravvissuti. Per quanto riguarda la prima fonte, chi oggi volesse rimproverare alla Prolo che la stampa dell’epoca quasi mai può essere considerata come una fonte primaria, dimostrerebbe colpevolmente di non sapere che alla fine degli anni Trenta, quando l’autrice avvia la sua lunga ricerca storica, delle riviste del cinema muto si ignora o quasi l’esistenza. Inoltre, come si può dedurre anche dal suo progetto, parallelo alla Storia, di pubblicare un’ampia antologia di scritti d’epoca sul cinema tratti da quotidiani e riviste letterarie e cinematografiche, progetto che purtroppo non vedrà mai la luce (bisognerà attendere quasi trent’anni per vedere la pubblicazione di un’iniziativa editoriale in parte simile, l’antologia Tra una film e l’altra curata da Redi e Camerini per Marsilio), Prolo non consulta solo innumerevoli fascicoli della stampa cinematografica ma comprende nella sua ricognizione anche quotidiani, riviste culturali, bollettini scientifici, giornali di fotografia e periodici militari. Appare evidente come l’autrice intenda proporre quindi un uso storiografico inclusivo e non settoriale delle fonti a stampa (proposta caduta per decenni nel vuoto e solo da pochi anni ispiratrice di una nuova storia culturale del primo cinema italiano basata sulle fonti discorsive). Per quanto riguarda invece le fonti orali, la Prolo non si limita a considerare le testimonianze già edite ma, come ben ricostruito da Pesenti Campagnoni (Id., Maria Adriana Prolo , Torino, Museo Nazionale del Cinema, 2002), contatta sin dal 1941 i pionieri delle origini, soprattutto torinesi: Giovanni Pastrone e il già ricordato Arrigo Frusta (poi entrambi soci fondatori del Museo), lo scenografo Ettore Ridoni, i grandi tecnici Charles Lépine, Ernest Zollinger e Giovanni Vitrotti, Anton Giulio Bragaglia, solo per ricordare quelli da lei espressamente citati nella Storia. Prende quindi forma, in queste pagine, l’ipotesi esemplare, purtroppo rimasta allo stadio embrionale, di una storia orale del primo cinema italiano, del tutto analoga al lavoro che in quegli stessi anni la Commission de Recherche

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Historique della Cinématèque Française andava svolgendo sul cinema d’Oltralpe.

Un altro punto innovativo nella metodologia che ispira il libro della Prolo risiede nella convinzione che non si possa studiare il cinema italiano senza contestualmente impegnarsi nella (ri)costruzione di una filmografia nazionale attendibile, capace gradualmente di emendare gli errori presenti sulle fonti a stampa, alimentati dai ricordi sovente fallaci dei testimoni o indotti da scorrette interpretazioni dei dati (Prolo esorta per esempio a non stabilire nessi causali tra il numero progressivo del visto di censura e la data di realizzazione delle pellicole, cfr. Nota 32 pag. 110). Il grande valore storiografico dell’imponente (quasi 80 pagine) “Corpus Italicorum Filmorum”, ossia l’elenco delle pellicole italiane realizzate tra il 1904 e il 1915, ordinato per anno e per case di produzione (primo tentativo filmografico relativo al muto italiano dopo quello, ben più lacunoso, di Domenico Paolella per “Bianco e Nero”) risiede, al di là della sua successiva obsolescenza, proprio nella comprensione di questa necessità. Dal punto di vista “epistemico”, come si anticipava, Prolo propone non solo una storia ma anche una idea di cinema che potremmo definire “olistica” e in largo anticipo sui tempi. In altri termini, e in pieno accordo con la parola d’ordine che stava ispirando in quegli stessi anni la formazione e la crescita delle sue eccezionali collezioni museali (raccogliere non solo pellicole ma anche manifesti, memorabilia, libri, riviste, fotografie, macchine, documenti cartacei, persino i biglietti delle sale), il cinema è concepito nel volume, a dispetto del dominante clima idealistico dell’epoca, non solo come un fenomeno artistico ma anche industriale, tecnologico e, soprattutto, sociale. Ecco perché, di conseguenza, nessun aspetto della “macchina cinema” sembra sfuggire allo sguardo lucido della studiosa. Non può che colpire, per esempio, la sistematica attenzione per tutti gli aspetti materiali del cinema (la meccanica degli apparecchi, il funzionamento della pellicola, i primi tentativi di cinema sonoro ecc.), così come per i riti e gli spazi della fruizione collettiva con un primo tentativo di censimento delle sale. L’attenzione all’impatto del cinema sulla società si coglie molto bene nelle pagine che Prolo dedica al cinema scientifico, all’uso didattico dei film, alla Censura di Stato, al ruolo degli scrittori e degli intellettuali nel cinema (è in questo libro che viene riproposto per la prima volta il fondamentale, e poi citatissimo,

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articolo sul cinema pubblicato nel 1907 su “La Stampa” dal filosofo Giovanni Papini), ai servizi che il cinema seppe offrire alla comunità del suo tempo. Riguardo a quest’ultimo aspetto, basti ricordare, per esempio, il toccante passaggio (pag. 105) dedicato alle “cinematografie” delle famiglie dei combattenti in Tripolitania e Cirenaica, vere e proprie “cinecartoline” spedite dalla Cines che ebbero al tempo una straordinaria rilevanza, arrivando a occupare le prime pagine dei grandi quotidiani. Prolo è stata la prima a ricordare questi filmati ma il suo implicito spunto alla ricerca, rimase, come molti altri del suo volume, inascoltato per decenni (cfr. L. Mazzei, La celluloide e il museo, “Bianco e Nero”, n. 571, 2011).

Prende vita, così, un quadro del primo cinema italiano complesso e sfaccettato ma mai aneddotico e divagante, che spazia dalle cause intentate tra case di produzione, soggettisti, autori e musicisti (una pista di ricerca quasi tutta da esplorare) alle riflessioni sulla recitazione delle dive, in particolare Lyda Borelli, “splendide a teatro ma non ancora pronte al nuovo mezzo”. Particolarmente interessanti gli spiragli sul contesto politico, sintetici ma fortemente evocativi, come il riferimento agli operai in sciopero che lavorano come comparse sotto la direzione di Nino Oxilia (episodio di una storia “operaia” del cinema italiano ancora da scrivere). Molto ricca, come ci si poteva d’altronde aspettare da una torinese d’adozione amica di Pastrone, la parte dedicata a Cabiria, sia nella nota tecnica (Nota 6 pag. 111) relativa al brevetto del 1912 del carrello sia in quella (Nota 7 pag. 11) dedicata allo straordinario lancio pubblicitario del film, senza precedenti. Con alcuni spunti particolarmente interessanti, come la citazione dell’avviso su “La Stampa” per la prima di Cabiria avvenuta il 18 aprile 1914 (Nota 9 pag. 111-112), dove si indica chiaramente come la “Sinfonia del fuoco” fosse, per lo meno in quella occasione, preludio al film (un particolare dimenticato per decenni e che sarà poi ripreso in considerazione per l’ultimo restauro del film, nel 2006).

Tale quadro storico possiede nel suo insieme il grande pregio – decisivo in ogni ricerca storiografica degna di questo nome – della sua consapevole provvisorietà: i toni della Prolo non sono mai perentori e definitivi, al contrario cercano il dialogo con i testimoni e con gli altri studiosi, riconoscono la possibilità dell’errore, ammettono la parzialità delle ricostruzioni e, soprattutto, auspicano la perfettibilità dei risultati, come dichiarato nelle parole che chiudono la seconda nota dell’Introduzione:

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“a tutti coloro che sono in grado di correggere e di aggiungere dati e notizie, rivolgo un cordiale invito affinché tanto la Storia, quanto l’Elenco possano in seguito raggiungere la massima precisione” (pag. 89). Questo invito, però, rimase purtroppo a lungo inascoltato, soprattutto in Italia (ben più fecondi furono i riconoscimenti espressi al lavoro dell’autrice da Sadoul e Langlois in Francia). Per decenni, infatti, la Storia della Prolo fu ampiamente utilizzata, talora senza nemmeno riconoscerlo pubblicamente, da chi cercava un comodo quanto valido sostegno bibliografico per la veloce rievocazione di un periodo del cinema italiano che nessuno voleva studiare. Occorrerà allora attendere la fine degli anni Settanta per far si che il lavoro della Prolo diventi finalmente, grazie agli studi di Brunetta, Redi, Bernardini, Martinelli, Turconi, Camerini, Cherchi Usai e altri, un polo d’interlocuzione e una pietra di paragone per lo sviluppo di ricerche storiche e filmografiche finalmente solide e documentate.

Nota alla ristampa del volume

Come Gianna Chiapello ha ricordato in un’intervista concessa a Fabrizio Dividi (Adriana Prolo, la signora del cinema, “Corriere della Sera”, Edizione di Torino, 19 febbraio 2021), all’inizio degli anni Ottanta, Prolo avrebbe voluto rimetter mano al primo volume della sua Storia del cinema muto italiano. Forse uno degli ultimi progetti rimasti incompiuti tra i tanti che la fondatrice del Museo del Cinema avrebbe ancora voluto realizzare. Tramontato definitivamente il progetto di un secondo volume sul cinema muto italiano, Prolo era quindi pronta ad affrontare una revisione del primo. Ma anche questo si sarebbe presto rivelato come un lavoro lungo e complesso, troppi i dati da emendare e da integrare nell’ “Elenco delle pellicole mute realizzate dal 1904 al 1915”. Un obiettivo più realizzabile, invece, era rivedere la corposa parte iconografica (118 illustrazioni) e quel compito Prolo lo affidò, con molta fiducia, proprio a Gianna Chiapello, sua collaboratrice dal 1981. Chiapello racconta: “Squartò un volume, per facilitarmi il compito, e separò le fotografie riprodotte, le riunì e dopo averle bucate le legò con uno spago. Mi fece trovare il fascicoletto sullo scrittoio. Mi piacerebbe sapere dov’è finito… Penso quanto le sia costato massacrare uno dei pochi, preziosi per lei, volumi rimasti. Evidentemente teneva moltissimo al progetto. Aveva fatto riprodurre dalle lastre originali una quantità di fotografie, quasi tutte inedite, e me le

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affidò. Incominciò il mio lavoro di identificazione.” Ciò che più angustiava Prolo nello sfogliare il libro che avrebbe voluto aggiornare, erano le indicazioni pionieristicamente da lei date per le molte immagini e che negli anni si erano rivelate in parte non corrette o incomplete. Un lavoro che per molte ragioni non poterono proseguire insieme ma che oggi Gianna Chiapello, esperta nel riconoscere attori e identificare film, ha potuto finalmente portare a termine. La ristampa anastatica del volume presenta dunque la revisione delle didascalie che accompagnano le immagini, a coronare un progetto avviato dall’autrice e terminato ora in omaggio alla sua passione per la ricerca.

Quanto descritto costituisce l’unico intervento correttivo di questa edizione anastatica rispetto all’edizione originale del 1951. Si è scelto infatti di non compiere il tentativo, in fondo tanto anacronistico quanto irrispettoso, di emendare quegli errori che la stessa Prolo aveva messo in conto. La ragione di tale scelta è duplice: da un lato siamo convinti che solo Prolo avrebbe potuto riscrivere il suo libro a distanza di decenni, e non lo fece; dall’altro lato, riteniamo che soltanto la riproposizione di questo testo nella sua forma originale e integrale possa dimostrarne il suo valore esemplare: a oltre sett’antanni dalla sua uscita, forse si è ora alla giusta distanza per riproporre un volume che ha ormai cessato di essere un vecchio libro per trasformarsi in un classico della storiografia cinematografica.

Riproporre non significa tanto celebrare quanto, per certi aspetti, salvare dal rischio della sparizione un libro mai più rieditato e di sempre più difficile reperibilità. Ma non solo: riproporre significa anche rendere accessibile il testo della Prolo a quell’ampio pubblico internazionale che ancora non lo conosce: da qui la scelta di tradurlo in inglese, francese e spagnolo, le tre lingue ufficiali della Fédération Internationale des Archives du Film, associazione di cui il Museo del Cinema entra a far parte dalla sua fondazione nel 1953 e con la quale Prolo collaborò incessantemente per decenni. Ripubblicare e tradurre, dunque: solo in questo modo, a nostro avviso, questo straordinario “paesaggio” storiografico potrà conservare ancora intatta la sua forza illuminante e precorritrice, la sua capacità di mostrarsi ancora non solo agli “occhi che videro” ma anche a quelli, si spera sempre più numerosi, degli studiosi e degli appassionati che un giorno vedranno.

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Inaugurazione del Museo del Cinema a Palazzo Chiablese, 27 settembre 1958: in primo piano, Maria Adriana Prolo e il Ministro del Turismo e dello Spettacolo Egidio Ariosto Foto Publifoto

Collezioni Museo Nazionale del Cinema

Maria Adriana Prolo con Gianna Chiapello nel suo studio a Palazzo Chiablese, durante le riprese di Occhi che videro di Daniele Segre, 1988 Foto Elena Bosio Archivio Elena Bosio/I Cammelli – Torino

LA ZIA ADRI AGLI OCCHI DEL NIPOTE E DELLE PRO-NIPOTI

Se per tutti era conosciuta come la professoressa Maria Adriana Prolo, per noi pro-nipoti, Maria Luisa e Monica Bertotto, era soltanto una zia, la zia Adri o semplicemente ZiAdri, come usava firmarsi. La zia Adri era la sorella minore di nostra nonna Itala essendo noi le figlie di Mimma Agnesi. Ricordare la zia è come parafrasare il titolo del film del 1914 che tanto l’affascinò e che le aprì il mondo del cinema. Occhi che videro. Si, noi la ricordiamo attraverso gli occhi di bambine prima e della sottoscritta da studentessa universitaria poi.

Per noi bambine, la zia Adri era una persona allegra che cantava spesso e che conduceva una vita originale, affascinante e misteriosa. Nonostante la sua intensa attività per il Museo, non appena poteva partecipava alla vita di famiglia. Raccontava poco delle sue attività museali, accennava vagamente ai suoi successi o alle sue ansie. Ad esempio per la stesura e conseguente pubblicazione dei suoi scritti, come il secondo volume sulla storia del cinema muto, che non riuscì mai a pubblicare. Scarse erano le notizie dei suoi viaggi per destinazioni lontane per noi “esotiche” come ad esempio Parigi, Mosca, Roma o Venezia per la Mostra del Cinema. Essendo nata nel 1908, la vita di Adriana e la sua libertà di decisioni e di movimento rappresentavano una situazione anticonformista rispetto alle usanze dell’epoca, soprattutto per le donne. È sempre stata una donna libera ed indipendente, una femminista convinta. Il padre, il severo Giovanni Prolo, aveva cresciuto le sue tre figlie, Tarsilla, Itala e Maria Adriana, favorendo le inclinazioni culturali ed artistiche di ognuna di loro, ma dando loro dei rigidi principi e valori ai quali Maria Adriana sarà fedele per tutta la vita senza mai scendere a compromessi. Dopo l’8 settembre 1943 i Prolo, da sfollati, rientrano da Torino nel paese natio, Romagnano, e la zia Adri insegna italiano ad Arona. La sua intransigenza era nota a tal

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punto che qualcuno scrisse sui muri del cortile della scuola “Abbasso la Prolo”, così come ricordava mio zio Giacomo che all’epoca viveva con lei e frequentava la scuola media.

L’attività di insegnante della zia continuerà anche a Torino nel dopoguerra nelle scuole serali per permetterle di occuparsi dei suoi interessi, durante il giorno, ma soprattutto per dedicare tutti i suoi risparmi alla ricerca di reperti per il suo Museo. Altra esperienza lavorativa sarà alla Radio di allora, l’EIAR, come annunciatrice. Per tornare al mondo della scuola, la zia ha sempre avuto un occhio di riguardo per la sua professione di insegnante ed alla sottoscritta, insegnante di inglese, regalava libri antichi in lingua originale con la dedica “dalla vecchia prufia alla prufia giovane, ZiAdri”

In ambito familiare, la zia Adri era una zia attenta all’evolversi delle vicende di tutti: si interessava dei progressi dei tre nipoti, Giacomo, Mimma e Pietro Agnesi, partecipando alle loro gioie od insuccessi. Il cognato Luigi Agnesi, a nome dell’azienda della famiglia, fu uno dei primi suoi sostenitori offrendo 1000 lire di allora per finanziarne le attività, quando altre aziende pubbliche e private piemontesi e torinesi offrirono molto meno. Ogni volta che poteva la zia Adri faceva visita ai nipoti nella casa di Imperia e il suo arrivo era una festa. Per loro organizzava spettacoli con le marionette su storie, filastrocche e canzoni inventate da lei al momento, come pure i nomignoli. Per ogni membro della famiglia aveva creato un soprannome. Un altro modo di portare allegria era quello di preparare le frittelle con la marmellata, i panserotti, attività alla quale tutta la famiglia, bambini compresi, partecipava. Infatti la zia Adri, seppur parca nel cibo, in quanto mangiava solo a colazione e a pranzo, era golosa di dolci che chiamava “godurie”. Famose erano le merende a base di tazze di tè e paste in qualche caffè di Torino, in particolare Baratti, per celebrare ogni tipo di ricorrenza, visita in città o semplicemente per rincuorarsi. Altre merende che le piaceva condividere erano quelle a casa di amiche alle quali venivo orgogliosamente presentata durante i miei anni universitari a Torino. Un altro rito legato a quando ero sua ospite per le sedute di esami, a colazione mi offriva un bicchierino di cognac prima di uscire di casa per superare l’ansia da esame.

Era una donna piena di fascino senza essere civettuola. Ci teneva alla sua figura e alla sua bella presenza. Aveva una cura particolare per i suoi lunghi capelli neri che portava raccolti in uno chignon: ogni giorno 100

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colpi di spazzola e 3 noci per mantenerli sani e lucenti. Un’altra passione erano i cappellini e la bigiotteria: collane e spille che modificava secondo gli abiti ai quali venivano abbinati. Diverse volte l’ho accompagnata dalle modiste in centro città. Questi erano i soli vezzi che si concedeva. Era molto attenta alla femminilità, come si legge in una sua lettera indirizzata alla nipote Mimma, neo-sposa, dove elargiva consigli sull’atteggiamento da tenere con il marito.

Durante i miei studi universitari, quando ero libera dalle lezioni, trascorrevo il pomeriggio al Museo situato in Palazzo Chiablese. Era un luogo molto diverso da quello presente alla Mole che tutti conoscono, pieno di luci, di colori e di suoni. Il Museo del Cinema di Palazzo Chiablese era grigio, polveroso, dall’aspetto triste, severo e silenzioso, ma seppur silenzioso, assordante di parole e pieno di fascino. Quando entravi dall’ingresso principale venivi accolto da due uccellini impagliati, automi, che se inserivi un soldino, cinguettavano. Ed erano un gioco per noi bambine. Il Museo era anche dotato di una piccola sala di proiezione dove ogni pomeriggio veniva proiettato un film di una rassegna. Il primo film che la zia Adri mi ha consigliato di vedere è stato Papà Gambalunga con Fred Astaire e Leslie Caron. Piano piano grazie alla zia mi sono formata una cultura cinematografica, conoscendo storie, registi, attori e attrici sia italiani che stranieri. A parte la visione dei film, ho dato un piccolo contributo al lavoro interno al Museo: ho aiutato a catalogare cartoline provenienti da Roma su attori e attrici; a sistemare libri in una fantomatica biblioteca la cui direzione era affidata al preziosissimo dott. Radicati; a organizzare inventari di materiali da esibirsi in mostre temporanee in varie città italiane. Ho avuto la possibilità di incontrare personaggi legati al mondo della cultura e della fotografia oltre che semplici studenti che venivano a salutare la zia. Tutte queste persone venivano sempre accolte dalla professoressa Prolo che indossava l’immancabile grembiule nero, pur essendo la Direttrice del Museo. Il grembiule, chiamato “questi vecchi stracci”, per lei rappresentava la dedizione, costanza e tenacia al proprio lavoro e alla propria creatura: il Museo del Cinema. Onori e glorie erano secondari.

L’ultimo ricordo della zia risale a poco tempo prima di morire. Era assopita e noi parenti stavamo commentando la sua vita dove dicevamo che era stata una grande donna. La zia, a sorpresa, aprì gli occhi ed esclamò: “…e non ne nasceranno più!”. Grande ZiAdri!

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Francesca Bertini e Maria Adriana Prolo a Grado durante l’inaugurazione della manifestazione Settimana Internazionale del Cinema, 15 settembre 1970 Foto Mauro Marocco Collezioni Museo Nazionale del Cinema

DALLA BIBLIOTECA AL MUSEO. IL VIAGGIO DI FORMAZIONE DI MARIA ADRIANA PROLO

Donata Pesenti Campagnoni

Le pretese sabaude e francesi al Principato di Neuchâtel e Valengin (1930); Dal nido savoiardo al trono d’Italia – Vita, ritratti e politica dei Savoia dall’anno 1000 al 1870 (1930); L’economato in Valsesia nei rapporti di Vittorio Amedeo II con Clemente XI (1931); Documenti su di un supposto sbarco di Garibaldi in Sardegna nel 1851 (1932): è sufficiente questo breve elenco di sue pubblicazioni, incompleto, a dare un’idea di come si sia rapidamente delineata la fisionomia culturale della giovanissima studiosa Maria Adriana Prolo, all’epoca poco più che ventenne. Era infatti nata il 20 maggio 1908 a Romagnano Sesia, terza figlia di una famiglia benestante della zona, il cui padre Giovanni amministrava una nota casa vinicola, la Fratelli Don & C., di proprietà della famiglia della madre, Maria Don. Nonostante il padre vedesse in lei la sua naturale erede, Maria Adriana non ne seguì le orme ma si avviò ben presto su una strada differente. Nel 1929 ottenne col massimo dei voti il diploma del corso quadriennale rilasciato dall’Istituto superiore di Magistero di Torino, antesignano dell’omonima Facoltà. Aveva scelto il curriculum letterario con specialità in storia e discusso una tesi sull’economista torinese Ignazio Donaudi delle Mallere, vissuto nel Settecento: fu subito pubblicata sul “Giornale degli Economisti” di Milano. Maria Adriana consolidò poi il suo percorso formativo, già indirizzato verso gli studi storici, con la frequen-

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tazione di corsi specifici di Biblioteconomia e di Archivistica e Paleografia che le consentirono di portare avanti le sue ricerche con un solido bagaglio di strumenti di lavoro. Come se tutto ciò non bastasse, svolse nel frattempo un’attività intensa di analisi delle fonti presso alcune prestigiose istituzioni culturali di Torino: in particolare, la Biblioteca Nazionale, l’Archivio di Stato e, soprattutto, la Biblioteca Reale, dove lavorò con il direttore, generale Nicola Brancaccio principe di Ruffano, figura centrale per la carriera della giovane studiosa. Fu probabilmente lui che l’aiutò a entrare in contatto con il contesto culturale dell’epoca e con lui Maria Adriana Prolo firmò un’opera dedicata alla storia della dinastia sabauda, Dal nido savoiardo al trono d’Italia…, che corredò con oltre 400 testimonianze fotografiche accuratamente selezionate. Furono anni fruttuosi per la sua formazione perché l’attività svolta le consentì di “appropriarsi e nutrirsi della biblioteca”, come sottolineò l’italianista Carlo Dionisotti, legato a Maria Adriana Prolo da un rapporto di reciproca stima e affetto (Dedicato a Maria Adriana Prolo, “Museo Nazionale del Cinema. Notiziario”, n. 47, 1996). E questo speciale “nutrimento” le avrebbe dato un imprinting da ricercatrice puntigliosa e metodica che fondava il suo lavoro (e avrebbe analogamente orientato la successiva attività di collezionista e creatrice di musei) sulle fonti documentarie, spesso attinte da ambiti diversi, come nel caso dei documenti fotografici, e su una metodologia di analisi trasversale e comparativa che le consentiva di evidenziare correlazioni e discordanze tra le differenti fonti consultate. Negli anni immediatamente successivi, Maria Adriana Prolo decise di specializzarsi sul periodo risorgimentale e continuò a pubblicare sistematicamente i risultati delle sue ricerche, aiutata da un indubbio spirito d’intraprendenza e da una capacità fuori del comune. Ottenne in tal modo anche il “Premio di perfezionamento Principi di Piemonte”, grazie al quale nell’estate del 1935 ebbe la possibilità di studiare a Londra i fondi documentari del Public Record Office (sede all’epoca degli archivi nazionali inglesi) per analizzare uno storico caso di arbitrato internazionale tra il Regno Unito e gli Stati Uniti, l’Alabama Claims, presieduto con successo tra il 1870 e il 1872 dal giurista, scrittore e politico del Regno Sabaudo Federico Sclopis di Salerano, su cui Prolo aveva concentrato i suoi interessi. La sua abitudine allo “scavo” documentario si ampliò quindi ulteriormente. Ma se tutto ciò avrebbe lasciato una traccia indelebile sulle sue

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scelte metodologiche future, furono invece gli studi letterari che portò avanti in quegli stessi anni a farle scoprire l’universo della Torino cinematografica d’inizio Novecento. Nel contempo infatti Maria Adriana Prolo aveva incominciato a occuparsi anche di letteratura dell’Ottocento; in particolare di poesia, ambito che predilesse sempre (lei stessa scriveva poesie) e che la portò a pubblicare nel 1937 con l’editore Treves la raccolta della poetessa nizzarda Agathe Sophie Sassernò. A incoraggiarla nel proseguire in questa direzione fu il giurista e storico Federico Patetta, altra figura di rilievo nella formazione della studiosa che in quel periodo aveva allargato il suo raggio d’azione all’Accademia delle Scienze di Torino, di cui Patetta era membro. Fu lui uno dei primi a cui la giovane studiosa illustrò il progetto di Museo che, inaspettatamente, le cambiò in modo radicale la vita.

L’occasione fu una ricerca di materiali sulla letteratura piemontese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento che Maria Adriana Prolo fece nel 1938 con Francesco Pastonchi. Analizzando con l’occhio vigile della storica abituata a leggere con attenzione tra i documenti di una biblioteca e i fondi di un archivio scoprì gli indizi che la portarono al cinema: il poeta Carlo Chiaves e il letterato Guido Volante avevano scritto entrambi delle sceneggiature ed Ernesto Maria Pasquali aveva lasciato il giornalismo per la regia. Evidentemente nella Torino dell’epoca il cinema doveva già avere un ruolo di un certo rilievo. E Maria Adriana Prolo decise di andare a fondo anche se la sua indagine in un primo momento si rivelò complessa: “Non riuscendo a trovare materiale su di loro, sfogliai, volume dopo volume, le riviste di cinema muto che avevo trovato alla Biblioteca Nazionale”. Colse nel segno. La centralità del ruolo svolto da Torino nell’ambito della prima produzione cinematografica le apparve subito evidente e, secondo la sua consuetudine, pubblicò nello stesso anno sulla rivista “Bianco e Nero” l’articolo Torino cinematografica prima e durante la guerra (Appunti): ovvero, una sorta di mappa storica delle case di produzione torinesi e dei periodici di cinema del periodo, “appunti presi qua e là, data l’inesistenza di una storia della cinematografia italiana in cui cercare notizie sul passato cinematografico di Torino”. Fu la prima occasione di contatto con Luigi Chiarini, allora direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, che appoggiò la studiosa nel suo nuovo progetto di ricerca sulla storia della cinematogra-

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fia italiana, “data la serietà del suo lavoro e dei suoi intenti”, e l’aiutò a entrare in contatto con alcuni studiosi e rappresentanti del mondo del cinema al fine di “raccogliere dati, notizie, materiali interessanti”. Maria Adriana Prolo fece in tal modo la sua svolta definitiva. In un tempo brevissimo conobbe i protagonisti, più o meno noti, della grande stagione del cinema muto torinese: da Giovanni Pastrone ad Arrigo Frusta a Charles Lépine ai “registi, attori, attrici, sceneggiatori, cartellonisti” che avevano vissuto quell’epoca. E subito diede l’avvio a un’altra storia parallela: “quasi tutti avevano documenti, foto, apparecchi ed è per questo che quel famoso 8 giugno 1941 scrissi sulla mia agenda ‘pensato il Museo del Cinema’”. Nell’arco di neppure tre anni, la giovane donna abbandonò la sua precedente veste di storica del Risorgimento (e dintorni…) per intraprendere quella di una vera e propria pioniera della memoria del cinema. Incominciò a raccogliere materiali e testimonianze orali dei protagonisti della stagione del muto che incontrava per creare un museo che ne raccontasse l’epopea e, contemporaneamente, intensificò la ricerca di dati e materiali bibliografici su tutto il territorio nazionale, presso biblioteche pubbliche e private, per pubblicare la Storia del cinema muto italiano e in parallelo un’Antologia con “scritti di Ricciotto Canudo, D’Ambra, Papini, etc. etc.”. Fu solo la guerra a frenare la sua ricerca frenetica di testimonianze per l’Antologia a cui Maria Adriana Prolo dovette alla fine rinunciare pur avendola proposta alla casa editrice Poligono, che nel 1951 avrebbe pubblicato la sua Storia: solo il primo dei due volumi previsti tuttavia (il secondo fu completato molti anni dopo ma mai dato alle stampe) e con un notevole ritardo rispetto agli accordi presi. Per una donna abituata da sempre a non lasciare margini d’azione tra il progetto e la sua realizzazione, ciò significò non poche incomprensioni con i responsabili della Poligono, quasi sempre espresse con quella dose di ironia che l’accompagnò per tutta la vita: “Caro Casiraghi, palpitando ho aperto la tua seconda lettera. Credevo, povera illusa, che tu mi scrivessi: ‘Sai tra quindici giorni esce il tuo libro’. Invece accenni a ‘questi mesi’, sciagurato! Bada sai che se per il Festival veneziano del 1950, dico millenovecentocinquanta, non esce il libro, io vengo a Milano e faccio una rivoltellica strage alla Poligono!!!!!!!” (lettera di M.A. Prolo a Ugo Casiraghi del 7 maggio 1950). Nella sua doppia veste di storica del cinema muto e di creatrice di un museo che ne tutelasse la memoria, era

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infatti profondamente convinta che l’uscita del libro l’avrebbe di sicuro aiutata “a raccogliere in Italia tutto quanto c’è ancora da raccogliere”. E non si sbagliava. Ma avrebbe dovuto abituarsi ai tempi più lunghi e alle difficoltà che l’intervento delle istituzioni pubbliche inevitabilmente portano con sé. Il Museo a cui stava lavorando dal 1941 fu infatti aperto al pubblico a palazzo Chiablese solo nel 1958 anche se nel frattempo Maria Adriana Prolo non aveva certo perso tempo prezioso. Negli anni era stata protagonista di molte mostre dedicate al cinema, italiane e straniere, un vero banco di prova per il futuro museo permanente. Lo avrebbe progettato secondo linee guida che affondavano le loro radici nella metodologia di ricerca acquisita in gioventù perché era profondamente convinta che “la serietà e il prestigio di un museo dipendono dal rigore della scelta delle opere esposte”. E tuttavia non poté fare a meno di affiancare al rigore di chi si è formata nelle biblioteche e negli archivi anche un approccio più istintivo, più simile a un processo creativo che nasceva dal mettere in scena e davanti a un pubblico la sua amata collezione. Lo raccontano oggi indicazioni scarabocchiate qua e là come “il lato spettacolare deve essere potenziato”, “una cosa messa bene è più espressiva di 30 messe male” e via dicendo. Lo racconta il patrimonio che riuscì a raccogliere nell’arco della sua vita, così diverso rispetto alle analoghe collezioni a cui altri pionieri stavano dedicando la loro, e che ha reso il suo museo un ineguagliabile luogo della memoria del cinema.

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Maria Adriana Prolo nel suo studio a Palazzo Chiablese durante le riprese di Occhi che videro di Daniele Segre, 1988 Foto Elena Bosio Archivio Elena Bosio/I Cammelli – Torino Maria Adriana Prolo Archivio Famiglia Prolo – Agnesi

CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLA VITA DI MARIA ADRIANA PROLO E DEL MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA

di Antonella Angelini e Paola Bortolaso

1908, il 20 Maggio Nasce a Romagnano Sesia, ultima di tre sorelle in una famiglia colta e benestante.

1929, il 16 Giugno Si laurea a pieni voti presso l’Istituto superiore di Magistero a Torino in Storia con una tesi intitolata Il conte Ignazio Donaudi delle Mallere economista piemontese del sec. XVIII

1930 Lavora presso la Biblioteca Reale di Torino e collabora con l’allora direttore, il generale Nicola Brancaccio, al volume sulla storia della dinastia sabauda Dal nido savoiardo al trono d’Italia. Vita, ritratti e politica dei Savoia dall’anno 1000 al 1870.

1935 Il Rotary Club di Torino le assegna il “Premio di perfezionamento Principi di Piemonte” che le consente di studiare a Londra i fondi documentari del Public Record Office sulla Storia del Risorgimento.

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1937 Si dedica a ricerche letterarie riservando un’attenzione particolare al ruolo svolto dalle donne nei vari ambiti culturali; cura la raccolta di poesie edite e inedite di Agata Sofia Sassernò; scrive poesie con l’ambizione di pubblicarle e redige il Saggio sulla cultura femminile subalpina dalle origini al 1860 (pubblicato da Treves nel volume Poesie di Agata Sofia Sassernò).

1938 Inizia il suo interesse per il cinema. Data la scarsità di documentazione consulta e analizza le raccolte di riviste sul cinema muto conservate nelle biblioteche torinesi. Sulla prestigiosa rivista del Centro Sperimentale di Cinematografia Bianco e Nero pubblica il saggio Torino Cinematografica prima e durante la guerra (Appunti. Anno II, numero 10, 31 ottobre, pp. 60-94), un’ampia ricognizione storica che censisce le case di produzione torinesi e i periodici del cinema muto.

1940 In accordo con il Centro Sperimentale di Cinematografia, allora diretto da Luigi Chiarini, avvia uno studio sulla storia della cinematografia italiana. Viene introdotta alla conoscenza dei pionieri del cinema muto: incontra Giovanni Pastrone, al quale la legherà una lunga amicizia, Arrigo Frusta, Charles Lépine e frequenta attori e personaggi del cinema muto torinese. Parallelamente inizia ad acquisire materiali sul cinema (fotografie, manifesti, brochure, oggetti e pellicole).

1941 L’8 giugno annota sulla sua agenda la celebre frase “pensato il Museo”. Inizia a ricercare fondi e sponsor per acquistare cimeli e memorabilia per il futuro museo; i materiali raccolti vengono conservati in un deposito al secondo piano della Mole Antonelliana.

1949 Conosce Henri Langlois, il fondatore della Cinémathèque française; tra i due pionieri si instaura un rapporto di sincera stima e autentica fiducia testimoniato da un carteggio durato 28 anni.

1951 Pubblica per l’editore milanese Il Poligono il volume Storia del cinema muto italiano. Vol. I. Quest’opera le conferirà il prestigio e la credibilità necessari a raccogliere velocemente fondi e materiali per realizzare il Museo.

1953 Nasce l’Associazione Culturale Museo del Cinema. Tra suoi fonda-

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tori Mario Gromo, Arrigo Frusta, Leonardo Mosso, Giovanni Pastrone, Giordano Bruno Ventavoli, e altri nomi illustri. L’associazione ha lo scopo di raccogliere, conservare ed esporre al pubblico tutto il materiale relativo alla documentazione e alla storia delle attività artistiche, culturali, tecniche e industriali della cinematografia e della fotografia. Il Museo del Cinema diviene membro della Fiaf (Fédération Internationale des Archives du Film).

1954 Con la collaborazione di Henri Langlois allestisce a Parigi una mostra sulle sue collezioni che introduce il Museo nel panorama internazionale.

1955 Ottiene dal Comune di Torino la sede di Palazzo Chiablese per allestire il Museo.

1958 Il 27 settembre viene inaugurato il Museo a Palazzo Chiablese articolato in sedici spazi espositivi e una sala di proiezione.

1973 Fonda insieme a Carlo Dionisotti e Fernanda Renolfi il Museo Storico Etnografico della Bassa Valsesia.

1974 Riceve una medaglia d’oro “per l’attività svolta in favore del cinema italiano con il prezioso apporto d’intelligenza, capacità artistica, eccezionale preparazione professionale” dal Centro studi di cultura cinematografica di Roma.

1975 Organizza il Congresso annuale della Fiaf (Torino, 3-6 Giugno) il cui programma prevede un convegno su Giovanni Pastrone e David Wark Griffith.

1978 Pubblica con Luigi Carluccio Il Museo Nazionale del Cinema, un catalogo dettagliato delle collezioni.

1984 La Federazione italiana associazioni fotografiche la nomina “Benemerito della Fotografia Italiana” per la sua attività a favore della fotografia. Al circolo de La Stampa insieme a Primo Levi riceve una targa d’argento riservata ai piemontesi che durante l’anno meglio “hanno testimoniato, in Italia e all’estero, la civiltà, il talento e la tradizione della Regione Piemonte”.

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1988 Il 12 ottobre viene nominata “Chevalier de l’ordre des Arts et des Lettres” in Francia. È la prima volta che tale prestigioso riconoscimento viene conferito a un italiano.

1989 Il 27 settembre appare per l’ultima volta in pubblico in occasione dell’inaugurazione della multisala Massimo dove viene presentato il film Occhi che videro di Daniele Segre, omaggio alla sua vita straordinaria. Nell’ambito dell’ottava edizione de “Le Giornate del Cinema Muto” di Pordenone, le viene assegnato il prestigioso premio Jean Mitry per l’attività di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio cinematografico e precinematografico.

1991, il 20 febbraio Muore all’età di 82 anni a Romagnano Sesia.

1992 Nasce la Fondazione Maria Adriana Prolo – Museo Nazionale del Cinema – Archivi di Cinema, Fotografia ed Immagine.

1995 Nell’anno del centenario della nascita del cinema il Comune di Torino assegna al Museo del Cinema la Mole Antonelliana come futura sede espositiva.

1996 – 1999 Viene realizzato un intervento di recupero funzionale e di restauro dell’edificio sotto la direzione dell’architetto Gianfranco Gritella. Le scelte architettoniche hanno come finalità prioritaria il recupero filologico della struttura antonelliana. Viene installato dal Gruppo Torinese Trasporti il nuovo ascensore con cabina panoramica.

2000 Il 20 luglio viene inaugurata all’interno della Mole la nuova sede del Museo Nazionale del Cinema. Il complesso e suggestivo allestimento è curato dall’architetto François Confino. Si tratta di un percorso espositivo articolato su più livelli per una superficie complessiva di circa 3.200 metri quadrati.

2002 L’Associazione Museo Nazionale del Cinema istituisce un premio annuale in onore di Maria Adriana Prolo che viene assegnato a una personalità del mondo del cinema che particolarmente si sia distinta nel panorama della cinematografia italiana ed europea.

2005 Il Torino Film Festival e il Museo scelgono di condividere proget-

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tualità e obiettivi. L’Associazione Cinema Giovani continua a elaborare le linee programmatiche del Festival, mentre spetta al Museo la sua attuazione e la gestione finanziaria.

2006 In occasione dei Giochi Olimpici invernali viene presentato un nuovo allestimento del Museo che riguarda tutti i livelli espositivi. Il Torino GLBT Festival – Da Sodoma a Hollywood (ora Lovers) e CinemAmbiente passano sotto la gestione amministrativa e organizzativa del Museo.

2007 In un’ottica di inclusività e accessibilità il Museo realizza la prima tappa del progetto Oltre la visione: il museo da toccare, il cinema da ascoltare e inaugura nuove aree espositive con percorsi tattili.

2008 Il 9 luglio apre al pubblico, in una veste completamente rinnovata, nei locali di Via Serao la nuova sede della Biblioteca Mario Gromo e dell’Archivio Storico del Museo. Per l’occasione si trasforma in Bibliomediateca.

2009 Nuova tappa del progetto Oltre la visione. Il 4 giugno si inaugura, all’interno dell’Archeologia del Cinema, la nuova area L’ottica e i segreti della visione, caratterizzata da allestimenti interattivi visivo tattili, modelli tridimensionali, pannelli con testi e disegni accessibili anche ai non vedenti.

2011 In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia si realizza il restauro della cupola della Mole.

2013 Il Museo s’impegna in un vasto progetto di rinnovamento degli allestimenti e dei contenuti all’insegna dello slogan Il Museo per Tutti, il Museo per Te. L’ampio ricorso alle tecnologie digitali è volto a migliorare l’esperienza di visita per tutte le tipologie di pubblico.

S’inaugura l’aula didattica Paideia e il percorso di visita Salita della Cupola che dal piano terra arriva fino alla terrazza panoramica a 85 m di altezza, lungo le scale dell’intercapedine della Mole.

2020 In occasione dei 20 anni del Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana e della costituzione della Film Commission To-

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rino Piemonte, la Mole diventa per la prima volta un cinema a cielo aperto con uno spettacolo di video mapping altamente innovativo.

Il Museo istituisce il premio internazionale Stella della Mole

2021 Il Museo Nazionale del Cinema crea nell’Aula del Tempio due salette di CineVR dedicate alla realtà virtuale con l’obiettivo di rafforzare la divulgazione delle nuove tecnologie legate al cinema.

Si rinnova il piano di accoglienza alla Mole Antonelliana attraverso un ampio spazio destinato a mostre temporanee, un nuovo sistema di illuminazione che valorizza gli elementi architettonici, il grande schermo ledwall che propone una videoinstallazione dedicata ad Alessandro Antonelli e a Maria Adriana Prolo.

Nel periodo segnato dalla pandemia di Covid 19, il Museo mantiene un legame con il pubblico e le scuole intensificando l’offerta di attività on-line a distanza.

2022 Il Museo si concentra sulla gestione delle collezioni con l’avvio del laboratorio digitale per la lavorazione dei film e il progetto di un unico catalogo del patrimonio conservato. Si potenziano le attività e i progetti didattici per coinvolgere anche il pubblico più giovane e per tornare ad accogliere gli studenti al Cinema Massimo e al Museo in Mole.

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ISBN 978-88-96469-20-0

9 788896469200

www.museocinema.it

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