Imprese e Territorio

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BIMESTRALE DI INFORMAZIONE DI CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE

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2017 L’ITALIA CHE CAMBIA

NE PARLIAMO CON RICOLFI, GIAVAZZI, DE BIASE E DI VICO

VARESE AL VERTICE

BILANCI, FISCO E OBIETTIVI MERLETTI: «VOGLIO UN PAESE ROCK»

FARINETTI, CORTILIA&CO RIVOLUZIONARI IN AZIENDA I “SEGRETI” PER CRESCERE

Tutte le sfide

di un anno che sfida le imprese

S P E D I Z I O N E I N A . P. 4 5 % A R T 2 C O M M A 2 0 / B L . 6 6 2 / 9 6 A R T 1 - 2 D P C M 2 4 / 0 2 D C V A R E S E E U R O 0 . 2 5



3 EDITORIALE

Provi, chi governa, a immaginare con quale spirito un genitore può lasciare l’azienda al figlio sapendo che dovrà saldare conti sempre più salati

davide galli

Chi dovrà pagare i conti dello Stato? Da un lato il nuovo Governo, accompagnato da molte incognite di durata e programma. Dall’altro il bilancio, in chiaroscuro, dei mille giorni dell'ex Governo Renzi. È da questi due recentissimi passaggi istituzionali, e dalle relative conseguenze economiche, che siamo partiti per far sentire ancora una volta alla politica la voce delle piccole e medie imprese. Perché di una cosa siamo convinti: l’aumento del debito pubblico non può essere considerato una leva di sostegno all’economia. Incrementarlo, alla lunga, potrebbe anzi azzerare gli attuali deboli segnali di ripresa, lasciando in eredità alle generazioni future – imprenditori compresi – un conto salatissimo. Così salato da trasformarsi in disincentivo al fare impresa e, di conseguenza, in un danno all’economia di interi territori. Il tema ci sta a cuore, lo abbiamo dimostrato sin da quando – a ottobre – abbiamo chiesto al Governo una svolta («Fateci fare gli imprenditori, non i burocrati») e portato l’attenzione sul quadro economico/sociale in cui si muovono le Pmi. Un editoriale a firma del sociologo Luca Ricolfi, pubblicato domenica 11 dicembre sul Sole24Ore, ha ulteriormente rinsaldato le nostre convinzioni e innalzato il tasso di preoccupazione (l'intervista a Luca Ricolfi alle pagine 6-7)

Davide Galli Presidente Confartigianato Imprese Varese

La scelta di trasformare la spesa pubblica nel carburante per la ripresa ha dimostrato per l’ennesima volta di essere inefficace, così come è risultato poco utile il ruolo dello Stato come regolatore del mercato. Cosa fare? Servono politiche di contrazione del peso che la Pa riversa sulle imprese, trasformandole non solo in sostituti di imposta, ma nello strumento per mantenere saldi i principi del benessere sociale, della tutela del lavoro, della redistribuzione della ricchezza,

della salvaguardia delle fasce più deboli, dell’occupazione giovanile... Il tutto, e non è un dettaglio irrilevante, a dispetto del permanere di ritardi nei pagamenti a favore delle imprese che operano per le Pa. Secondo un secondo un sondaggio Cribis D&B, solo il 22,35% delle aziende pubbliche salda nei tempi concordati. Il 25,3% liquida le spettanze con più di un mese di ritardo e il 52,4% paga entro il mese di ritardo. Un fenomeno che stiamo monitorando con un sondaggio. Le nostre imprese vogliono continuare a operare in questo Paese ma sappiamo che, in molte, sono in corso non semplici passaggi generazionali. Provi, chi governa, a immaginare con quale spirito un genitore possa apprestarsi a lasciare in eredità l’azienda al figlio consapevole che toccherà soprattutto a lui e alla sua generazione portare il peso di ulteriori incrementi della spesa pubblica. Non vorremmo che questi timori si traducessero nella scelta di chiudere l’attività e rinunciare al fare impresa. La storia di un Paese nel quale la grande industria e la finanza privata hanno spesso dimostrato di non saper fare a meno degli aiuti dello Stato è poi ulteriore motivo di preoccupazione, aggravato dalla previsione di un quadro internazionale che potrebbe non essere dalla nostra parte. Oggi, infatti, gli interessi sul debito pubblico sono bassi ma l'elezione di Donald Trump ha già provocato un aumento generalizzato dei rendimenti dei titoli di Stato. Qualora gli effetti dovessero rendersi sensibili anche in Italia, il debito pubblico finirebbe per alzarsi ulteriormente. E su chi peserebbe il conto finale? Sulle piccole imprese e, di riflesso, sui territori ai quali garantiscono benessere l


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ommario

NOVEMBRE | DICEMBRE 2016

3 PRIMO PIANO | DOVE VA IL FUTURO 4.0 «Rivoluzione 4.0? Prima rendiamo efficiente l'Italia che c'è già»

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Dalla diffidenza alla fiducia Anche in Italia sarà l'impresa a portarci nel digitale

Sfida per tutti. Come negli anni '80 NEWS DA CONFARTIGIANATO | VARESE AL VERTICE Merletti: «Questa Italia è una canzone degli anni Sessanta Nel 2017 voglio il rock duro»

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FOCUS | IL VALORE DELL'OROLOGIO Tempo sprecato per colpa dei "file" «La svolta? Provate con Eisenhower...»

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ARTIGIANI NEL FOOD | L'INTERVISTA Io, un commesso che sapeva sognare «La meritocrazia? Guardate Wall Street"

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FABERNEWS43 | FILO DIRETTO CON L'INNOVAZIONE Il cioccolato in 3D è unico Buosi personalizza gusti e prezzi della dolcezza

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Il regolamento risponde a tutto E sei tranquillo

FOCUS | I NUMERI DEL 2017 Imprese, aprite le porte Restare soli non conviene Il buon Bilancio per le Pmi Ma l’incertezza rischia di mangiarselo

Al via a misura di Pmi. Nel 2017 cresceremo

FOCUS SERVIZI E AGENDA | AREA LAVORO Regole condivise per crescere insieme

EDITORIALE Chi dovrà pagare i conti dello Stato?

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FOCUS | COSA PESA SULLE IMPRESE «Comuni, fate Rete. Lo chiede il mercato»

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GIOVANI IN AZIENDA | LE NUOVE COMPETENZE Rivoluzione Ovosonico «Non ho mai inseguito quello che esiste già I nuovi mercati? Createveli» «Il mercato agricolo viaggia online Merito del nonno e del digitale»

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IMPRESE E TERRITORIO NEWS | UNA NUOVA STORIA Da dipendenti a imprenditori «Chi lo dice che il posto fisso è una garanzia per il futuro?»

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VERSIONE BETA | OFFICINA DELLE IDEE Il mercato rompa gli schemi Come Uber

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SOCIAL CORNER Senza video la Rete ci fa scomparire

Bimestrale di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese Tel. 0332 256111 Fax 0332 256200 www.asarva.org asarva@asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AGLI ASSOCIATI ED ENTI VARI Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002

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Hanno collaborato i colleghi: L. De Angeli, S. Bartolini, M. Menegon, A. Imondi, C. Chiuppi, M. Cancian Interventi e contributi: L. Ricolfi, M. Mancino, M. Parolini, L. De Biase, G. Merletti, S. Aimetti, O. Farinetti, F. Giavazzi, P. Provenzano, A. Aliverti, E. Marletta, D. Belosio Stampa Litografia Valli Tiratura 12.069 copie Chiuso 23 dicembre 2016 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compresa nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali.


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6 PRIMO PIANO | DOVE VA IL FUTURO

Rivoluzione 4.0? Prima rendiamo efficiente l’Italia che c’è già Sarà un anno ricco di sfide, qualcuno dice che sarà l’anno della vera ripresa Quasi tutti concordano nell’affermare che il 2017 sarà un anno 4.0 In questa intervista al sociologo Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati all'Università di Torino, mettiamo sul tavolo i temi caldi del presente e del futuro Per rifletterci su

Liberi di fare impresa: è la richiesta che arriva dalle Mpmi, insofferenti alla pressante richiesta di contribuire al “welfare” di Stato e al mantenimento della Pa attraverso una tassazione alla quale non corrispondono adeguati ritorni in servizi, infrastrutture e norme di lungo respiro per la produttività. Da dove si può partire per invertire la tendenza? Dato che non credo proprio che un pachiderma come la Pubblica Amministrazione italiana possa diventare capace di semplificarsi ed erogare servizi decenti prima di qualche decennio, se fossi un’impresa punterei più sulla riduzione delle tasse che su improbabili “ritorni in servizi, infrastrutture e norme di lungo periodo per la produttività”. Li chiediamo da decenni, e abbiamo visto solo aumentare le complicazioni e gli ostacoli. Piano nazionale I4.0: un intervento positivo, che rischia però di escludere le imprese di piccole dimensioni a causa della scelta di agire con incentivi fiscali su investimenti già effettuati. Chi non disporrà delle risorse sufficienti per anticipare le spese come potrà entrare nella quarta rivoluzione industriale? Lo Stato saprà garantire, a suo giudizio, interventi a supporto del processo per un tempo lungo quanto quello ipotizzato dalla Germania (25 anni)?

Luca Ricolfi


di Sara Bartolini @SaraBartolini

Prima di occuparmi di “internet of things”, automazione, digitalizzazione, big data e cose del genere, mi preoccuperei che la fibra ottica arrivi dappertutto, che allacciamenti telefonici, elettici, idrici, del gas siano tempestivi, e che gli adempimenti di un’impresa passino dalle attuali centinaia a meno di 10 all’anno

E’ impossibile fare previsioni, con un Governo debole come quello varato dopo il referendum. Non sono neppure tanto sicuro che le risorse annunciate (13 miliardi) ci saranno davvero, visto che dovremo salvare un po’ di banche, sterilizzare di nuovo l’aumento dell’Iva, frenare la crescita del debito pubblico. Ma io sono anche un po’ perplesso sull’enfasi retorica con cui si parla di industria 4.0, come se fosse un processo entusiasmante e privo di rischi. Se badiamo all’efficacia, prima ancora di occuparmi di “internet of things”, automazione, digitalizzazione, big data e cose del genere, mi preoccuperei che la fibra ottica arrivi dappertutto, che allacciamenti telefonici, elettici, idrici, del gas siano tempestivi (giorni, anziché mesi), e che gli adempimenti di un’impresa passino dalle centinaia a meno di 10 l’anno. Ho l’impressione che ne verrebbe una spinta al Pil (e all’occupazione) decisamente più incisiva, e magari senza la distruzione di posti di lavoro che osservatori qualificati si aspettano da industria 4.0.

La dimensione familiare di molte imprese, e i passaggi generazionali, sono fattori critici. Potrebbero esserlo ancor di più in caso di aumento del debito pubblico e della tassazione. Come sostenere un processo che, se dovesse lasciare troppe chiusure sul tappeto (anche a causa dei timori per il futuro), produrrebbe un impoverimento del tessuto economico di molti territori? Qualche volta le chiusure sono dovute all’inadeguatezza di figli e parenti degli imprenditori. Forse bisognerebbe considerare per tempo l’eventualità di affidare le piccole e medie imprese a manager, magari cambiandone la ragione sociale, se utile.

Sempre a proposito di i4.0, resta il nodo della professionalizzazione del capitale umano: le grandi industrie possono promuovere ricerca e riqualificazione al proprio interno. Per le piccole sarà sufficiente il sostegno dell’attuale sistema formativo pubblico? Ovviamente no, se non altro perché la formazione pubblica spesso non è un granché. Temo che l’unica soluzione sarebbero consorzi fra imprese medio-piccole, per condividere i costi della formazione e creare un bacino comune di lavoratori altamente qualificati cui attingere.

La vicinanza alla Svizzera ha pesato su un territorio come il nostro dove, negli anni, si è assistito alla fuga di capitali, professionalità e imprenditoria. Le Zes potrebbero essere la soluzione? Delle Zes si riparla ciclicamente, ma poi si conclude poco. Il loro interesse deriva dal fatto che il costo annuo per lo Stato è dell’ordine delle centinaia di milioni (max qualche miliardo, se sono tante e molto estese), mentre una vera defiscalizzazione, estesa a tutto il territorio nazionale, costerebbe tra i 10 e i 30 miliardi all’anno. Per quel che so del caso svizzero, l’attrattiva per le imprese italiane non erano solo le tasse basse, ma il fatto che le autorità svizzere, anziché ostacolare la nascita o il trapianto di imprese, la favorissero, riducendo gli adempimenti e facendosi carico delle procedure.

In un Paese ad altissimo tasso di Mpmi sul totale delle imprese (il 60% delle aziende conta meno di 250 dipendenti) si può far coesistere uno Stato più arbitro che attore del mercato, accarezzato delle Mpmi, con lo Stato più attore del mercato che arbitro, più volte garante negli anni della sopravvivenza di parte della grande industria nazionale? Per me lo stato dovrebbe intervenire poco e limitarsi a ridurre drasticamente l’aliquota dell’imposta societaria (15% potrebbe essere un buon obiettivo, appena al di sopra del 12.5% dell’Irlanda), che secondo i miei lavori sull’equazione della crescita è il freno fondamentale all’aumento del Pil, ben più della pressione fiscale complessiva o del cuneo fiscale.

Si parla di Mpmi come spina dorsale del Paese. Ritiene che le politiche economiche dei Governi, negli anni, abbiano saputo rispecchiare questa fotografia del tessuto imprenditoriale italiano? Forse fin troppo, mi verrebbe da dire. Certo, ci si può lamentare del fatto che i governi abbiano fatto troppo poco per le piccole e medie imprese, ma la più grave responsabilità della politica industriale in Italia è di non aver fatto nulla per impedire la distruzione della grande industria (un punto questo tante volte denunciato da Luciano Gallino). Se oggi in Italia si fa troppo poca ricerca è soprattutto per questa imperdonabile indifferenza dei governi degli anni ’70 e ‘80 l


8 PRIMO PIANO | DOVE VA IL FUTURO di Michele Mancino Vicedirettore Varesenews @micmancio

Dalla diffidenza alla fiducia Anche in Italia sarà l'impresa a portarci nel digitale Tra il 2017 e il 2019 arriveranno 20,4 miliardi di incentivi Attesa per l’iperammortamento al 250% sulle nuove tecnologie U

n piano di politica industriale può essere analizzato e giudicato sotto vari aspetti. Nel caso di “Industria 4.0”, come già era avvenuto con la riforma del mercato del lavoro, si può affermare che si tratta di un provvedimento i cui muri portanti poggiano sul senso di fiducia e di responsabilità degli imprenditori. Prima di una valutazione quantitativa, cioè di quanti soldi il ministero dello Sviluppo economico ha destinato al sostegno della quarta rivoluzione industriale, ce n’è dunque una di tipo culturale che segna un’inversione di tendenza iniziata, appunto, con il Jobs Act. Imprese e imprenditori non sono più guardati con sospetto e diffidenza, ma sono i veri protagonisti dell’era digitale, risorsa fondamentale per il cambiamento in atto nel Paese. Un atto di fiducia: incentivi solo a chi investirà È partendo da questa considerazione, cioè dall’atto di fiducia che ne sta alla base, che si deve valutare il decreto, collegato alla manovra di bilancio, del ministro Carlo Calenda. I 20,4 miliardi di euro di incentivi previsti tra il 2017 e il 2019 - al netto degli 11,8 miliardi derivanti dal taglio dell’Ires - non saranno distribuiti a pioggia, ma solo a chi investirà. Tra tecnologie e innovazione, nel 2017 il ministero si attende almeno 11 miliardi di investimenti aggiuntivi, di cui almeno 8 sostenuti dagli iperammortamenti per i beni digitali e i restanti 3 miliardi dal superammortamento per i beni tradizionali. In

questo modo si dovrebbe recuperare almeno la metà degli investimenti persi a causa della crisi, vale a dire un quinto del totale. Con un ammortamento al 250% di un bene strumentale acquistato in nome della rivoluzione digitale, un terzo dell’investimento sarà coperto da minori tasse. E l’obbligo di una perizia tecnica scatterà solo se supera il milione di euro. Sotto quella cifra sarà sufficiente la certificazione del venditore. Al netto delle eccezioni, che non mancheranno, questa si può chiamare in un solo modo: fiducia. L’iperammortamento per la fabbrica del futuro Sono circa cinquanta le categorie di beni soggetti all’iperammortamento divise in quattro macroaree: automazione, qualità e ambiente, sistemi interattivi e software. Una stratificazione che rispecchia le diverse tecnologie che si incrociano nel processo produttivo dell’industria 4.0. Si va dalla stampa 3D a Internet delle cose (Iot), dai big data alla realtà aumentata, passando per la robotica collaborativa. Il tutto inserito in un ecosistema dove lo scambio di informazioni e dati tra l’area di lavorazione e quella di progettazione non solo è facilitato ma è continuo. «La fabbrica del futuro - spiega Annalisa Magone, presidente del centro di ricerca Torino Nord Ovest - unisce l’automazione a un modello che fa propri i tratti caratteristici della cultura digitale: sistemi knowledge-based, uso pervasivo di sensoristica, flessibilità e adattabili-

tà dei processi, passaggio dalla specializzazione verticale al processo orizzontale. Il che significa un aumento della complessità». Imprese e università: nasce il “polo” delle nuove competenze Occorrerà dunque uscire dallo schema individualista, tipico non solo degli imprenditori italiani, per elaborare un modello sistemico partendo dalla strada tracciata dalla manovra del ministero dello Sviluppo economico. Si tratta di una sfida in cui la ricerca universitaria giocherà un ruolo cruciale. I finanziamenti saranno indirizzati su quattro, al massimo cinque atenei che, attraverso una sana concorrenza, dimostreranno di essere in grado di costruire centri di competenza per collaborare insieme alle imprese. Investire sulle Pmi Nel 2011 con “Industria 4.0” i tedeschi sono stati i primi in Europa a spalancare le porte alla quarta rivoluzione industriale. Poi sono arrivati gli inglesi con il programma “High value manufacturing” e nel 2015 i francesi con “Industrie du futur”. Programmi molto diversi tra loro e ritagliati come un vestito sulle peculiarità dei singoli sistemi economici, ma tutti caratterizzati da consistenti flussi di investimenti. A sua volta l’Italia, se vuole tornare a crescere, dovrà fare lo stesso, cioè investire sulle pmi l


La quarta rivoluzione industriale genererà crescita e quindi anche nuova occupazione. Sarà però una crescita diversa e a geografia variabile rispetto al passato, soprattutto nei numeri. Saranno avvantaggiati quei luoghi dove si concentrerà il capitale umano con competenze specifiche e saperi innovativi. Sarà quindi una mobilità determinata dall’offerta dei singoli territori, dal loro grado di attrattività e dalla capacità di stimolare e valorizzare una domanda qualificata di lavoro, in cui prevalgono valore e conoscenza. La crescita nell’era della “Fabbrica 4.0” avverrà più facilmente nei luoghi dove si faranno investimenti mirati a innovare il tessuto produttivo e a migliorare il contesto in generale. Tramonta il mito del garage in grado di dare vita a epiche avventure imprenditoriali dove le famiglie concentrano energie e risorse per dar vita al loro prodotto, si afferma invece un modello dove ricerca, capitali, idee e competenze convergono in un’area grazie a condizioni strutturali favorevoli. La mobilità dei lavoratori ha come approdo finale quei territori in grado di offrire lavoro e ricchezza e con essi servizi di qualità, università di livello, infrastrutture fisiche e digitali adeguate Enrico Moretti, che insegna all’Università di Barkeley, è stato tra i primi studiosi italiani a indicare con chiarezza questo scenario e a raccontarlo nel libro “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori), dove si analizzano i fattori determinanti per lo sviluppo di alcune aree e per il declino di altre. Da Detroit a Seattle passando per San Francisco, ciò che

rende più o meno competitivo un territorio, soprattutto nei confronti di quelli limitrofi, è la sua capacità di attrarre nuovi investimenti, idee e lavoratori qualificati. In termini quantitativi è vero che le startup e le fabbriche intelligenti non danno occupazione alle masse ma le loro ricadute sul mercato del lavoro in termini generali sono interessanti: per ogni lavoratore qualificato impiegato nelle imprese innovative si generano cinque posti di lavoro nei servizi. L’esempio principale è naturalmente quello della Silicon Valley, dove nascono e fioriscono le startup più innovative in grado di dominare i mercati di tutto il mondo. Gli esempi però non sono solo Oltreoceano. Tra quelli europei più citati - almeno fino alla Brexit - c’è Londra che in soli dieci anni ha generato un saldo attivo di un milione di nuovi abitanti. In Italia è l’area metropolitana di Milanese a mantenere alta la sua attrattività, rafforzato dal patto di sviluppo siglato tra comune e governo che porterà nel capoluogo lombardo due miliardi e mezzo di euro per sostenere progetti infrastrutturali. Milano è l’hub di una regione che è allineata alle eccellenze europee. Nell’ultimo anno i brevetti richiesti sono cresciuti del 13%, la produttività media è di 90mila euro per addetto, ben al di sopra delle regioni europee più performanti, mentre l’export nel 2015 ha toccato quota 111 miliardi di euro, superando il picco prima della crisi. Il banco di prova è stato il dopo Expo che ha visto la città mantenere gli stessi flussi turistici del periodo dell'esposizione universale. Milan l'è on gran Milan l M.Man.


10 PRIMO PIANO | DOVE VA IL FUTURO

Al Via a misura di Pmi Nel 2017 cresceremo L'assessore alle Attività Produttive «Dalla Regione un piano di sostegno importante L'I4.0 è semplificazione, efficienza e flessibilità» Si chiama “Al Via - Agevolazioni lombarde per la valorizzazione degli investimenti aziendali”, è destinato a diventare «l'intervento più importate della legislatura per favorire la crescita delle imprese» ed è parte integrante di un più articolato «piano anti crisi dal valore di 300 milioni di euro finalizzato a sostenere investimenti strategici come l'acquisto di macchinari e immobili o per interventi strutturali e di riconversione e rilancio delle aree produttive». Mauro Parolini, assessore allo Sviluppo Economico di Regione Lombardia, ci crede: il 2017, anche grazie alla benzina iniettata dall’esecutivo di Palazzo Lombardia, sarà l’anno della ripresa. Come nasce “Al Via”? E perché? Si tratta di un progetto maturato dopo mesi di valutazioni e confronti, anche con il mondo economico, per comprendere quali fossero le esigenze effettive delle imprese lombarde, perlopiù di piccole o medie dimensioni. Avevamo un obiettivo: rispondere ai bisogni di tutti, e pensiamo di averlo raggiunto. La pubblicazione del bando è attesa per il mese di gennaio. Ma la finalità è già chiara: prevedete incentivi agli investimenti per lo sviluppo aziendale basati su programmi di ammodernamento e ampliamento produttivo. Perché ritenete che questo intervento potrà rispondere ai bisogni reali delle imprese? Anzitutto per la modalità di intervento, che prevede un mix di offerte finanziarie, ovvero una parte di finanziamenti a fondo perduto, una a tasso prossimo allo zero, e una parte a finanziamento non agevolato ma che, facendo media, produce di fatto un tasso agevolato. Il tutto attraverso forti dotazioni di garanzie. Anche l’importo minimo finanziabile, 50mila euro, crediamo sia alla portata delle Pmi mentre, per chiudere, aggiungo che l’ampiezza della gamma di spese finanziabili (dai macchinari, agli impianti agli immobili) consentirà grossi passi avanti, anche dal punto di vista tecnologico, a fronte di investimenti non per forza elevati. Assessore, lei ha annunciato di essere al lavoro, con i rappresentati dei settori produttivi, per seguire da vicino lo sviluppo del sistema lombardo su Manifattura 4.0 per «integrare i nostri incentivi e i programmi di sostegno al credito con gli aspetti positivi di natura fiscale contenuti nel piano dello Stato».

Crede davvero a un’Industria 4.0 a portata di Pmi? Il Piano Nazionale 4.0 punta soprattutto sulla leva fiscale, che ha il vantaggio di spalmarsi su molti anni, mentre Regione Lombardia - con fondi propri o europei - utilizza misure dirette, non fiscali, basate su bandi che vogliamo il più aperti possibile. Si tratta di misure complementari nonostante alle imprese ricordiamo sempre che, nell’accedere alle due misure, dovranno tenere conto dei vincoli europei sui limiti agli aiuti di Stato. Rivoluzione I4.0 ci siamo? Chiariamo prima di tutto cosa si intende per Industria 4.0, perché credo che neppure i tedeschi lo sappiano. Industria 4.0 è una direzione più che un sistema consolidato. Cosa c’è in quella direzione? Ci sono strumenti più adatti alle Pmi che alla grande industria, come la flessibilità e la possibilità di produrre pezzi unici anche in piccole serie. Sempre in quella direzione ci sono una maggiore efficienza e un metodo che, affidandosi a macchine digitalizzate, accentua il peso del protagonismo della persona, che andrà formata (nel caso dei giovani) o riqualificata (chi è già nel mondo del lavoro). Come potrà essere garantita la formazione continua? L’assessorato al Lavoro ha messo in campo molte iniziative per la formazione continua, che presto andranno a regime. Io ho aperto la strada nel comparto del turismo, con un grande piano formativo realizzato con Explora che, credo, andrà replicato in tutti i settori produttivi. Il 2017 sarà l’anno della ripresa? Sono tre anni e mezzo che ci stiamo lavoriamo e, dal punto di vista di Regione Lombardia, il 2017 sarà l’anno in cui andranno a regime tutte le iniziative. I segnali di ripresa, per quanto ci riguarda, sono consolidati e le imprese che hanno superato la fase più dura della crisi oggi sono più forti e competitive. Non mi chieda, però, se possiamo stare davvero tranquilli. Ci vorrà ancora un po’ l S. Bar.

Mauro Parolini


di Davide Ielmini @mikrokosmo

foto di Giacomo Maestri

Sfida per tutti Come negli anni '80

La vera svolta sarà il prodotto realizzato a misura di cliente

Si fa presto a dire “Industria 4.0”: ma cosa è? Cosa c’è in questo grande contenitore dell’innovazione? Quali sono le misure? E, soprattutto, cosa ci potranno ricavare le piccole imprese? Ne abbiamo parlato con Luca De Biase, che di innovazione ne parla e ne scrive volentieri su Il Sole 24 Ore e su Nòva, che del Sole è la guida sull’innovazione tecnologica. Perché una guida ci vuole. Soprattutto alla luce del rapporto preparato dalla multinazionale di consulenza McKinsey sulla “quarta rivoluzione industriale” e sulle quattro direttrici che comporranno il grande cambiamento del futuro. La prima direttrice è quella della raccolta, dell’utilizzo e della conservazione dei dati (big data, open data, Internet of Things, machine-to-machine, cloud computing), la seconda è quella delle analytics (come ricavare valore dai dati), la terza si concentra sull’interazione tra uomo e macchina (interfacce touch e realtà aumentata) e la quarta è il grande mondo del digitale che comprende la manifattura additiva, la stampa 3D, la robotica, le comunicazioni, le interazioni machine-to-machine e le nuove tecnologie per immagazzinare e utilizzare l’energia in modo mirato, razionalizzando i costi e ottimizzando le prestazioni. De Biase, l’innovazione non è solo stampa 3D. Con Industria 4.0 le imprese devono preoccuparsi? Devono interessarsi e adeguarsi. Industria 4.0 è un concetto-cappello che tiene dentro di sé molte tecnologie e parte dall’idea che si debba realizzare una traslazione dell’esperienza di internet al mondo della produzione. Un’idea forte che è, a tutti gli effetti, una guida per il futuro del manifatturiero? Con Internet si possono fare tantissime cose e le sue possibilità sono illimitate. Con Internet si possono raccogliere molti dati, si possono cambiare le macchine con le quali si produce, si possono creare prodotti ai quali applicare dei sensori che registrano e misurano i tanti cambiamenti intorno a noi. Dalle temperature dell’ambiente ad altro. E poi ci sono gli algoritmi e l’intelligenza artificiale: il ventaglio si allarga. Internet da occasione a pericolo e viceversa? Senza dubbio Internet rende più pericoloso il rapporto con il resto del mondo, ma è per questo che la sua presenza e il suo utilizzo sottolinea e rimarca il bisogno della cyberg sicurezza. Questo mondo sta cambiando ed è impossibile non accorgersene. Un altro grande cambiamento della Storia? Simile a quello che abbiamo vissuto negli anni Ottanta. Non so se alcuni si ricordano, ma in quell’epoca i

concetti di “qualità” e “just in time” erano usciti con determinazione. Tutti dovevano ridurre il magazzino, rendere più veloci le relazioni tra clienti e fornitori, connettere fra loro le modalità produttive. Insomma, si doveva cambiare e lo si doveva fare in fretta. Adattarsi non fu facile… Alcuni non ce l’hanno fatta, mentre altri si sono adattati e sono riusciti ad affrontare i nuovi tempi. Ecco, questo tipo di cambiamento, quello che si potrà realizzare con Industria 4.0, sarà simile a quello degli anni Ottanta. Perché? Perché stiamo costruendo un ecosistema nel quale clienti, fornitori e aziende si connettono ad un livello che – diciamo così – si relaziona direttamente con l’elettronica. Dai sensori alle macchine innovative (robot e stampa 3D, ma non solo questi), dai big data all’intelligenza artificiale fino alla connessione di ogni genere. Da tutto questo otterremo prodotti nuovi e più customizzati, si conoscerà e controllerà la filiera produttiva in tutti i suoi passaggi (dalle materie prime, ai processi di lavorazione, alla realizzazione finale del prodotto), la distribuzione vivrà nuove e grandi evoluzioni (con una diversa complessità del deployment). E tutto questo sarà valido per l’industria e i servizi così come per l’agricoltura. In quello che è Industria 4.0 la Germania fa scuola: e noi? In questo campo, infatti, stiamo seguendo le indicazioni che vengono soprattutto dall’industria tedesca. E penso che tutto quello che è contenuto nel piano Industria 4.0 diventerà importante proprio per tutte quelle imprese che sono inserite nella filiera della subfornitura delle aziende tedesche. Lo sarà, inoltre, per quelle realtà produttive che hanno un capofila di mercato che ha un’attività forte verso l’estero. Sembra che Industria 4.0 sarà fondamentale per tutti: è così? Indubbiamente rappresenterà un salto di qualità culturale necessario per gli imprenditori-manager di qualsiasi impresa, seppur diversa per dimensioni e tipologie produttive. Piccole, medie, grandi: ognuno potrà beneficiarne. Un passo fondamentale per un Paese così manifatturiero come lo è l’Italia l

Luca De Biase


12 FOCUS | I NUMERI DEL 2017

speciale I CONTI DELL'ITALIA

Imprese, aprite le porte Restare soli non conviene Dal “nanismo” alle opportunità offerte dal capitale finanziario e umano proveniente dall’esterno Francesco Giavazzi, docente di Politica Economica alla Bocconi, analizza lo stato di salute del Paese. Partendo dalle Pmi I

n Italia solo il 30% delle imprese supera i 250 dipendenti, la maggioranza rientra nella categoria delle Mpmi. In una sua recente analisi pubblicata sul Corriere della Sera il nanismo è considerato uno dei fattori di frenata della produttività oraria delle aziende italiane nel confronto con quelle dei principali Paesi europei. È possibile pensare a una riconversione delle Mpmi attraverso processi di integrazione o reti d’impresa, vincendo l’attuale ritrosia della maggior parte degli imprenditori? Con quali strumenti? Come è possibile, in alternativa, alimentare la crescita dimensionale di imprese che, negli ultimi anni, hanno al contrario ridotto il numero di dipendenti a causa della crisi? Io penso che la difficoltà maggiore sia "la cultura" degli imprenditori italiani. L'illusione che sia meglio se l'azienda rimane "in famiglia", magari guidata da un figlio o da un nipote. E la preoccupazione di reclutare, e poi confrontarsi, con manager professionisti. O, peggio ancora, la preoccupazione di avere altri azionisti che possano fare domande talvolta imbarazzanti o anche solo mettere in dubbio le scelte del capo-famiglia. Insomma, nella cultura di molte imprese gli apporti esterni, siano essi di capitale finanziario o umano, raramente sono visti come occasioni per far crescere l'azienda. E senza queste aperture le imprese non si aggregano e non crescono.

La dimensione familiare di molte imprese, e il relativo passaggio generazionale nel management, è considerato nell’analisi uno dei fattori critici in termini di produttività. Il mantenimento del management in famiglia è però spesso una scelta obbligata, dettata dall’impossibilità di investire in manager d’elevato profilo: si può pensare a un’inversione di tendenza supportata dalla possibilità, per casse di previdenza obbligatorie e fondi pensione, di investire nell’economia reale? Il timore infatti, ad oggi, è che tali risorse finiranno perlopiù a sostegno di aziende di grosse dimensioni. È possibile pensare, come soluzione alternativa, a un ulteriore incremento degli incentivi alle assunzioni di apprendisti in alta formazione, per pianificare la crescita del futuro vertice aziendale? Il dato sulla prevalenza, in Italia, di imprese familiari con tutto il management interno è impressionante (vedi tabella a fianco). I manager esterni costano, ma il loro costo non è un parametro sufficiente per decidere se valga la pena assumerli. Quale valore apporta all'azienda un manager esterno? Lo stesso per i manager scelti all'interno della famiglia. E in entrambe le direzioni: pensate ad un ragazzo particolarmente brillante che potrebbe avere una carriera di successo in California. Quanto perde la famiglia nell'impiegarlo nella propria piccola azienda?

Piano nazionale Industria 4.0: un’iniezione di capitali finalizzata a colmare il ritardo italiano nel confronto con i maggiori Paesi europei (e non solo). Si tratta, a giudizio delle Mpmi, di un intervento positivo, che però rischia di escludere proprio le imprese di piccole dimensioni a causa della scelta del legislatore di agire con incentivi fiscali su investimenti già effettuati (o in procinto d’essere fatti). Ma chi, pur avendo strategia e know how, non dispone delle risorse sufficienti per anticipare le spese come potrà rimanere competitivo sul mercato ed entrare nella quarta rivoluzione industriale? Che cosa è il Piano Industria 4.0? Io penso che pochi imprenditori lo abbiano capito. Qualcuno dice sia l'internet of things. Forse, ma in questo caso quante imprese tocca? Io penso che il problema della crescita delle imprese e della crescita dell'economia tout court sia prima di tutto un problema di regole, non di sussidi che finanziano i progetti ideati in qualche ufficio regionale o minstreiale. L’equity crowdfunding esteso alle Pmi non innovative può considerarsi una soluzione sufficiente? Abbiamo bisogno di molta finanza alternativa, ma restiamo un paese banco-centrico. La prima cosa da fare è cambiare la testa delle banche l S. Bar.


Raramente gli apporti esterni sono visti come occasioni per far crescere l'azienda

% di aziende a conduzione familiare

Tra le imprese a conduzione familiare Il Ceo è un membro della famiglia

Tutti i dirigenti sono membri della famiglia

Francia

80.0

62,2

25,8

Germania

89,8

84,5

28,0

Italia

85,6

83,9

66,3

83

79,6

35,5

80,5

70,8

10,4

Spagna Inghilterra

fonte: The Ict Revolution and Italy’s Two Lost Decades, di Fabiano Schivardi e Tom Schmitz Università Bocconi (2016)


14 FOCUS | I NUMERI DEL 2017

speciale I CONTI DELL'ITALIA

Il buon Bilancio per le Pmi Ma l’incertezza rischia di mangiarselo Dario Di Vico, editorialista del Corriere, analizza le scelte del Governo «Le piccole imprese devono far sentire la propria voce alla politica La domanda del 2017: sarà un altro anno di selezione darwiniana?» L

egge di bilancio, per Dario Di Vico le buone notizie potrebbero non bastare: «I benefici potenziali dei provvedimenti ottenuti dalla piccola impresa rischiano di essere “mangiati” dalla situazione di incertezza generale. In questa fase, la rappresentanza del ceto medio deve far sentire la propria voce». Analizziamo insieme all’editorialista del “Corriere della Sera” Dario Di Vico, uno dei giornalisti economici italiani che più di tutti conosce e frequenta il mondo dei “piccoli”, delle Mpmi, gli esiti dell’approvazione della Legge di Bilancio, passata definitivamente al Senato nei giorni di transizione tra il referendum del 4 dicembre e il varo del nuovo governo Gentiloni.

Legge di Bilancio come tale sembra un’arma spuntata in una fase in cui gli elementi di incertezza sono con la lettera maiuscola. In questo momento, anche all’orecchio dell’imprenditore arrivano suoni completamente diversi. Indubbiamente la rappresentanza deve valorizzare i risultati che ha ottenuto, perché se facilitano l’impresa vanno rivendicati, spiegati agli iscritti e governati per far sì che in fase di implementazione le novità positive non vengano neutralizzate. C’è però un‘incertezza di itinerario che il sistema politico e il sistema economico presenta e che lo stesso imprenditore, che ha valutato positivamente quegli elementi, non può non percepire».

Tra Iri, regime per cassa, Industria 4.0 e semplificazioni, ci sono diverse misure giudicate positivamente dal mondo della piccola impresa. Stavolta il bicchiere è mezzo pieno? «Sì, ma c’è un problema più generale, tra il peso di queste misure e il fatto che la legge di bilancio non dirada gli elementi di incertezza generale. La “finanziaria” è un vestito di Arlecchino, con molti pezzi di tessuto che vengono incontro a richieste delle Mpmi, e indubbiamente rappresentano un miglioramento. Il problema è che la

Anche i potenziali benefici di quelle misure rischiano di essere “mangiati” dall’incertezza? «Anche da un riflesso psicologico della situazione, che può essere elemento demotivante e rischia di azzerare il valore effettivo dei singoli miglioramenti. È sempre complicato dire cosa dovrebbe fare un soggetto collettivo, però secondo me su questo secondo terreno non si sente abbastanza la voce della rappresentanza. Ho l’impressione che da questo punto di vista la rappresentanza stia evolvendo verso una tenden-

za microsindacale, e non lo dico con disprezzo, per carità, ci vuole anche quello, però in questo, le Pmi dove sono? I “piccoli” dovrebbero prendere posizione? «Trovare voce. In questo momento si nota un’assenza di voce. È l’occasione perduta di Rete Imprese Italia. Se oggi ci fosse una potente associazione del ceto medio, sarebbe un interlocutore. Perché poi i sindacati confederali saranno in crisi storica, ma nella stessa Legge di Bilancio hanno portato a casa una cosa importantissima, come l’accordo sulla flessibilità delle pensioni, che in termini di posta di bilancio vale quattro miliardi. Se si dice che le Pmi debbano avere voce è per ottenere qualcosa che definire strategico forse è complicato, però che vada al di là». Quindi ha ragione il presidente di Confartigianato Imprese Varese Davide Galli quando fa notare che il peso del welfare italiano continua ad essere sulle spalle delle Pmi ed è un problema che non si dà l’impressione di voler affrontare e risolvere? «Il cuore della questione è il peso della rappresentanza delle Pmi. In più, in una situazione di incertezza come questo 2017, che rischia di es-


di Andrea Aliverti La Provincia di Varese

sere dominato dall’attesa per le grandi scadenze elettorali, se pensiamo che si sta discutendo di un anacronistico referendum sull’articolo 18 che va contro le Pmi. È un’agenda che, se fossi un piccolo imprenditore, non mi sembrerebbe vada nella direzione di sostenere i miei sforzi. La domanda che si impone per il 2017 è se sarà un altro anno di selezione darwiniana tra le Pmi…». Il piano Industria 4.0 può dare un po’ di fiducia? «È una novità importante. Se non ci fosse stato il ministro Calenda a tirare fuori questo piano, probabilmente oggi ci sarebbe ancora una motivazione più bassa da parte dell’industria. Va chiarito però qual è il ruolo delle Pmi in questo piano». Sarà un piano troppo favorevole per la grande impresa? «È costitutivamente così, e secondo me non potrebbe essere il contrario. Però, dentro quel piano, ci sono degli elementi che possono essere “lavorati”. Chiariamoci, è difficile che si possa pensare di fare un piano Industria 4.0 per competere con la Germania a partire dalle Pmi, però non può essere vero il contrario». Deve dare opportunità anche alle Pmi? «C’è tutto il discorso delle filiere, sarebbe importante per le Pmi rapportarsi ai più importanti capofiliera italiani. E poi c’è tutto il discorso delle startup: se si affiliano a grandi imprese queste ultime possono dedurre le perdite, e questo è un elemento importante. C’è molto da lavorare, francamente finora ho visto poco. Non dico che vada contro alle Pmi, ma non mi sembra raccordato» l

Difficile fare un piano Industria 4.0 per competere con la Germania a partire dalle piccole aziende, però non può essere vero il contrario


16 NEWS DA CONFARTIGIANATO | VARESE AL VERTICE

Merletti: «Questa Italia è una canzone degli anni Sessanta Nel 2017 voglio il rock duro» Parla il presidente nazionale Giorgio Merletti rieletto alla carica della confederazione per altri quattro anni Dall'Italia ai nuovi Stati Uniti di Donald Trump «Aspettatevi diciotto mesi ad altissima intensità» I

l numero uno di Confartigianato mira dritto all’obiettivo: «Giro l’Italia e le imprese sono preoccupate. Burocrazia, credito, semplificazione: queste sono le solite cose. Bisogna risolverle, vero, ma come se si entrasse in campo: centrocampo, difesa e attacco. Tutti insieme, trovando una strategia comune. Parlarne non basta: è come se mi sintonizzassi su Radio Italia per ascoltare le canzoni degli anni Sessanta. È venuto il momento di pestare sulle tastiere e di passare al rock pesante». Il mercato deve rispondere Gioca d’attacco, Giorgio Merletti, e va di punta nella sua prima intervista lombarda rilasciata nella sede provinciale di Confartigianato Varese. La prima dopo l’esito del Referendum sulla Costituzione e dopo la sua rielezione a Presidente di Confartigianato Imprese che lo vedrà al timone della maggiore Confederazione italiana dell’artigianato e delle piccole imprese ancora per quattro anni, dal 2016 al 2020. E quando gira l’Italia, il Presidente stringe tante mani: «Mani importanti di gente che lavora e che affronta i mali del lavoro in difficoltà. Ma se il mercato riprende, certi dolori si sentono meno». Pensare a Confartigianato come ad una pedina sullo scacchiere internazionale può sembrare difficile, e invece «i problemi esterni diventano anche interni – incalza Merletti. Pensiamo alla gestione dei flussi migratori, al rapporto con l’Europa con quel Matteo Renzi che lì ha fatto

bene a puntare i piedi, all’occupazione che va giù e quel Jobs Act che è stato solo un sedativo per l’economia: l’imprenditore assume se ne ha bisogno, non se una risorsa costa meno». E’ per questo che il Presidente fa trasparire tanto impegno e un poco di serenità: «I conti di Confartigianato sono a posto, e questo non è poco. E abbiamo uno Statuto nuovo che considera le cose nuove che servono oggi alle imprese. Ma dobbiamo fare uno sforzo comune: convincere le aziende a fare sistema e a mettersi in rete. Per ora stiamo congelando l’aumento dell’Iva (che se dovrà passare sarà un vero bagno di sangue), ma dobbiamo ragionare tutti insieme su quello che si deve fare. Mi guardo intorno e ricordo le parole di mio padre: “L’economia va bene quando girano le gru”. Oggi, queste gru non le vedo. L’edilizia è ancora ferma, ma gli artigiani non sono imprenditori che accettano passivamente le situazioni: la gente vuole risposte». Dialogo politica-territori I piccoli imprenditori «ne hanno le tasche piene: purtroppo solo di problemi. La politica non si interfaccia più con la comunità ma delle piccole imprese se ne ricorda, eccome, quando c’è da votare. Confartigianato, invece, non salta sul carro di nessuno: i nostri imprenditori lavorano perché ci mettono del loro, non perché aspettano gli incentivi del governo». La ripresina, di cui i media parlano a volte con toni entusiastici, c’è e non c’è: «Diciamo che le imprese hanno smesso di imbiancare i muri.

Con questo voglio dire che il lavoro sta avanzando, lentamente ma viene avanti. Però, caspita, lo dovrebbe capire anche la politica del territorio: i piccoli imprenditori lavorano e danno da lavorare. Ma se tu mi porti Renzi solo nelle altre aziende, che idea dai dell’imprenditoria italiana?». L’esigenza di mettersi in rete nasce anche da qui: «Ci vogliono uno o più driver forti – incalza Merletti – e tutti gli altri devono seguire e collaborare. Questo vale per la politica quanto per Confartigianato e le imprese. Per costruire ipotesi credibili e dare risposte veloci: questo spetta tanto ai nostri sistemi (che in questi ultimi anni hanno dimostrato quanto i corpi intermedi fossero necessari per affrontare con concretezza alcune situazioni critiche) quanto alle aziende».


E’ per questo che il programma 2016-2020 del Presidente Giorgio Merletti parte da quei temi che fanno la differenza nella vita delle imprese. La digitalizzazione, per esempio, «nella quale Confartigianato Varese, con il suo Faberlab, è riconosciuta a livello nazionale. Ma dobbiamo insistere e lavorare sui territori, andare oltre la dimensione nazionale, regionale o provinciale perché produrre nelle valli del luinese non è come produrre a Gallarate. Dobbiamo portare le imprese in rete, ma ai governi che verranno dico: le imprese devono produrre in Italia. Devono ritornare qui». Tanti sono i fronti sui quali il numero uno di Confartigianato si interroga: «Il mondo sta cambiando rapidamente e la confederazione deve stare al passo: la tecnologia digitale è una partita aperta, ma dobbiamo prepararci per affrontare l’andamento demografico di una popolazione italiana sempre più anziana, capire se e quanto il modello di sviluppo delle economie occidentali potrà resistere così com’è, ricalibrare i nostri servizi anche in base alle nuove esigenze del Welfare: il futuro sta nell’abilità di adeguarsi». Cina, Germania, Francia e... Ecco perché la Confartigianato «si apre al mondo, cerca di tenere insieme locale e globale, si misura con i territori e guarda a quello che succede intorno a lei». Tanto per intenderci, l’artigianato 4.0 che si trova in un particolare momento politico e sociale: «Ci attendono diciotto mesi molto impegnativi – afferma il Presidente Merletti – con tante questioni calde: l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca e le sue posizioni sul Patto Transatlantico tra Europa e Stati Uniti (bloccarlo sarebbe un errore), il rapporto del mondo con la Cina (alla fine di quest’anno, le potenze mondiali del Wto dovranno decidere se l’Impero Celeste è automaticamente diventato economia di mercato), l’anno prossimo vanno a elezioni la Germania e la Francia (i populisti stanno affilando gli artigli). Abbiamo di che pensare». E tanto da fare l D. Iel.


18 FOCUS | COSA PESA SULLE IMPRESE

Silvio Aimetti, sindaco di Comerio

«Comuni, fate Rete Lo chiede il mercato» Silvio Aimetti, sindaco di Comerio, lancia un modello «Ho riunito più mondi per il futuro di Whirlpool È andata bene: la formula funzionerà per tutti» Pa a pagamento lento? «Io saldo in 14 giorni...» E

sponenti del mondo della cultura e dello sport, dell’università e dell’imprenditoria, delle istituzioni e del terzo settore: nessuno s’è tirato indietro quando, il 14 dicembre, il comune di Comerio ha chiamato tutti a raccolta per gettare le fondamenta dell’insediamento che in un futuro non lontano dovrà raccogliere il non semplice testimone da Whirlpool. Sindaco Silvio Aimetti, lei - che è anche imprenditore - ha inaugurato un modello di Rete che potrebbe trasformarsi nel fattore chiave per il rilancio, non solo economico, atteso nel 2017. Come c’è riuscito? Pensa sia replicabile? Muoversi per tempo per affrontare un problema, coinvolgere un intero territorio nella ricerca della soluzione, operare in sinergia per il mantenimento occupazionale e l’individuazione di nuove opportunità di business: questa è stata la mia scommessa e nessuno s’è rifiutato di scommettere con me. Penso sia un segnale importante, dal quale trarre un insegnamento: su temi concreti, seri e solidi fare squadra si può. Quindi dico: andiamo avanti, è la strada giusta. Confartigianato aveva parlato di Reti al convegno promosso con Pwc nel mese di luglio e Comerio dimostra che si può fare. Ma non sarà che, a fronte di questo, i confini tra comuni si faranno ingombranti? All’incontro era presente anche il sindaco di Varese perché ritengo che in futuro bisognerà ragionare in un’ottica più vasta di quella co-

munale. Pensi alle tassazioni locali e a quanta confusione creano alle imprese nel momento in cui variano da amministrazione ad amministrazione. Fare rete, e su questo le aziende ci stanno anticipando, e armonizzare, lo ripeto, è l’unico modo per pensare al futuro. Perché è tanto difficile fare Rete tra amministrazioni pubbliche? Forse dovremmo arrivare a unire i comuni per decreto... La complessità di molti processi decisionali, dal punto di vista non solo normativo, comporta tempi lunghi e un impiego di denaro più elevato rispetto a quello che potremmo mettere in capo se le procedure fossero condivise, anche in termini di professionalità. Le imprese, in questo senso, insegnano molto. Le aziende lo fanno perché lo chiede il mercato… … e anche le amministrazioni pubbliche hanno un mercato, sono i cittadini e le imprese, che chiedono una riduzione di tasse che i Comuni spesso non possono garantire proprio a causa di costi di mantenimento elevati. In questo senso credo che il percorso sia da considerarsi segnato. A proposito di Pa: uno dei problemi delle aziende è legato ai lunghi tempi di pagamento. L’unione, con contenimento dei costi e velocizzazione delle procedure, potrebbe oliare il meccanismo, almeno a livello comunale? Il mio Comune, e credo sia tra i pochi in Italia, paga entro 14 giorni e questo perché io l’ho

Lo Stato vi paga in ritardo? Fatecelo sapere La scelta, purtroppo, è ampia. Potremmo parlare di tasse, di burocrazia fiscale, di pubblica amministrazione che paga in ritardo. E il risultato sarebbe sempre lo stesso: la lentezza e la complessità dello Stato incidono negativamente sulla competitività delle imprese. Così Confartigianato Varese ha deciso di chiedere alle imprese come paga lo Stato e quando. Sui ritardi accumulati, sulle cifre che restano in sospeso, sulle difficoltà che nascono dai comportamenti scorretti. Serve un sondaggio per fare il punto della situazione – basta un click su: www.asarva.org (la notizia è “Lo Stato paga in ritardo: di quanto? Fatecelo sapere) - e servono tante risposte per fare arrivare la voce degli imprenditori nelle stanze giuste. Contiamo su di voi.

sempre detto, “le fatture si pagano velocemente”. Sono un imprenditore, oltre che un sindaco, so quanto sia importante per le Pmi la puntualità dei pagamenti, sia da parte delle Pa che tra aziende stesse. A tal proposito bisognerebbe arrivare a fare un patto tra imprenditori, per garantire i saldi entro i termini di legge, ovvero a trenta giorni. Cosa occorre alle Pmi per uscire davvero dalle criticità congiunturali? La riduzione del cuneo fiscale è fondamentale: per erogare uno stipendio netto di 1.500, l’azienda paga 38mila euro. E questo ricarico certo non aiuta l’imprenditore ad assumere né a dare aumenti, che pure sosterrebbero l’economia, tanto più che talvolta le aziende sono costrette a chiedere aiuto al sistema bancario anche solo per saldare i propri conti, ponendo garanzie sempre più difficili da garantire… Lei, qualche anno fa, aveva lanciato le Zone di Fiducia e dell’Innovazione: di che si tratta? Sono ancora percorribili? Si tratta di una sorta di patto che i Comuni potrebbero siglare con le imprese in un’ottica meritocratica. Ad esempio, alle aziende in regola, virtuose, sicure e attente alla formazione, potremmo garantire alcune premialità. Penso che potremmo tornare a riflettere su questa ipotesi, unendo enti locali e associazioni di categoria. Perché, lo ripeto, fare Rete sarà la chiave di tutto l


Nell’ultimo anno il costo medio dell’elettricità è lievitato in media del 25%, arrivando a incidere pesantemente sulle piccole e medie imprese E dal prossimo anno cambierà (quasi) tutto D

Cara energia, ma quanto mi costi? Le piccole rischiano il conto più alto

iceva Alexis de Tocqueville: «Il mondo appartiene a quelli che hanno la maggiore energia». Oggi, più di un secolo e mezzo dopo, a giudicare dalle bollette, l’illustre visconte potrebbe vedersi costretto a fare una considerazione aggiuntiva: «Il mondo appartiene a chi ha la maggiore energia… al miglior prezzo». Nell’ultimo anno il costo medio dell’elettricità è infatti lievitato mediamente del 25%, arrivando a incidere in modo particolare sulle piccole e medie imprese, di certo maggiormente penalizzate rispetto alle 2.950 industrie energivore per le quali è in arrivo il via libera allo “sconto” varato dal Governo nel 2013 ed esteso anche all’intero 2016. Una batosta che potrebbe rafforzarsi in prospettiva: gli addetti ai lavori non escludono ulteriori ritocchi al rialzo sul conto per le taglie “small” a partire dal gennaio 2007. Quando, peraltro, si chiuderà l’era del “mercato di maggior tutela” e andrà a regime il primo atto del mercato libero dell’energia (affiancato, per dodici mesi, dalla neonata offerta della Tutela Simile, per la quale è possibile appoggiarsi agli esperti di Confartigianato Imprese Varese). Uno svantaggio ingombrante per le Pmi, costrette a competere su mercati complicati e indeboliti dalla crisi, assai poco disponibili ad accogliere rincari sui prodotti finali. Quelli, per intenderci, che acquistano famiglie e consumatori. Va ancor peggio ai terzisti, per i quali i margini di trattativa sul costo del prodotto sono addirittura impensabili. Che fare? Per rimanere sul mercato, ad ogni impennata dell’elettricità tocca limare su altri capitoli. l

Sarà un dicembre bollente Ecco le precauzioni salva bollette Telefonate di venditori sempre più aggressivi, offerte tutte da valutare e l’inevitabile rischio di finire, in perfetta buonafede, nelle maglie di qualche fregatura. Il tutto in vista dell’ormai prossima “rottamazione” del “mercato di maggior tutela”. Il primo gennaio 2017 segnerà infatti l’ingresso dell’Italia nel mercato libero dell’energia anche se, per un anno, sarà ancora possibile fruire dell’offerta della tutela semplice. Fatto sta che si tratta di una vera e propria rivoluzione che riguarderà sette milioni di piccole imprese e 29 milioni di famiglie, oggi servite dall’operatore tradizionale ma, un domani, costrette a valutare e scegliere un nuovo contratto di energia elettrica. Un’opportunità per molti fornitori che si stanno preparando, anche a colpi di costosi spot, ad agganciare sempre maggiori fette di mercato. Ma in un mercato che rischia di essere selvaggio, è bene iniziare a prendere qualche precauzione: tanto per cominciare non dite sì ad una offerta telefonica e non fornite i dati presenti in bolletta al primo sconosciuto che bussa alla vostra porta (ad esempio il codice Pod energia e il Pdr per il gas). Insomma, è bene fare attenzione e, soprattutto, affidarsi a interlocutori noti e certificati. Confartigianato, ad esempio, è stata riconosciuta dall’Autorità dell’Energia come “facilitatore”, ovvero come soggetto adatto ad accompagnare i consumatori sul mercato libero dell’energia.


20 FOCUS | IL VALORE DELL'OROLOGIO

di Paola Provenzano Giornalista @Paolaprove

Tempo sprecato per colpa dei "file" «La svolta? Provate con Eisenhower…»

I consigli del mental coach Gianluca Tescione per riorganizzare le scadenze e azzerare le inefficienze «Gestire male le lancette significa buttare via denaro» uando si dice che il tempo è denaro non è solo per una questione di saggezza popolare: parola di Gianluca Tescione, mental coach che sulla gestione del tempo ha le idee molto chiare e le riassume così: «Il problema più grande per molte persone sul lavoro è che non sono loro a possedere un’agenda, ma è l’agenda che possiede loro». In poche parole, quello che viene proposto, è un ribaltamento di prospettiva in cui il primo passo è proprio cominciare a pensare e poi ad agire in modo differente. Il nostro peggior nemico quando ci troviamo nella condizione di sentirci schiacciati dalla mancanza di tempo? «Sicuramente oggi il peggior nemico – spiega Tescione – è la cattiva abitudine di aprire sempre nuovi micro cicli sul lavoro. Mentre stiamo facendo un lavoro ne cominciamo un altro, convinti che sia più urgente, e poi magari ne iniziamo un terzo ancora più pressante per noi in quel frangente. Ci troviamo così alla fine con tante finestre aperte, senza averne chiusa nessuna: questi micro cicli ci fanno disperdere energie mentali e anche fisiche causando stress e affaticamento. Quando si lavora in questo modo si finisce per lavorare male ed essere inefficienti. Quindi la cattiva gestione del tempo diventa anche una questione economica. Buttare via del tempo per inefficienza equivale a buttare via denaro, e questo gli imprenditori devono averlo bene in mente». Le conseguenze della mancata gestione del tempo? I riflessi sono importanti anche sulla sfera privata della vita di ciascuno, sulle relazioni familiari e affettive per non parlare della salute.

«Quello che salta – continua Tescione – è un po’ tutto l’ecosistema e l’equilibrio». Basti pensare che la cattiva gestione del tempo sul lavoro compromette anche il nostro tempo libero e il tempo che dedichiamo agli affetti, alla persona cara, ai figli. «L’idea di non poter sottrarre tempo agli impegni di lavoro per stare con le persone amate è sbagliata, eppure è quella che prevale soprattutto tra gli imprenditori. Sono proprio le persone che lavorano in proprio a fare più fatica nel prendere del tempo per sé. Ma se la sfera affettiva viene sacrificata si finisce per lavorare anche peggio. E da tutto ciò deriva anche un peggioramento dello stato di salute. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel giro di una quindicina di anni, si è abbassata l’età a rischio per le malattie cardio vascolari correlate allo stress passando dai 50 ai 40 anni. E in parte ciò dipende proprio dai ritmi di vita frenetici». Che fare di fronte a ciò? «Ci sono strumenti – spiega Tescione – che possono essere usati per imparare a gestire il proprio tempo. Si va dalla to do list alla cosiddetta matrice di Eisenhower, che ci aiuta a mettere ordine tra cose importanti e urgenti. E poi c’è lo schema spazio tempo per organizzare la nostra settimana ed infine lo uno strumento di controllo definito in sigla Pdca (Plan Do Check Act)». Strumenti che possono essere fatti propri con alcune accortezze e che possono davvero migliorare efficienza e qualità del lavoro e della vita. Ma la rivoluzione del tempo, in contesti comunque complessi e pieni di interazioni, come possono essere anche aziende di piccole e medie dimensioni, può funzionare? t

Q


«Quello che ho visto finora sul campo – dice Tescione – seguendo l’attivazione del cambiamento in alcune realtà aziendali è confortante: quando la spinta a cambiare la propria gestione del tempo arriva dall’alto si riesce ad ottenere il coinvolgimento anche dei lavoratori e, con un po’ di pazienza e costanza, le cose migliorano per tutti» l

Gianluca Tescione

Tre ore su 168 Quando l’hobby dell’imprenditore è "compresso"

La metà dei dirigenti fatica a ricavarsi spazi per passioni e vita privata Colpa di code, cavilli e Fisco E con gli anni si peggiora: lo conferma il nostro sondaggio

Una cosa è certa: seppur oberati dalla burocrazia, stretti fra le urgenze quotidiane, sommersi dai problemi gli imprenditori sanno che il loro tempo libero (chi per allenarsi in palestra, chi per farsi un giro, chi per stare in famiglia oppure tutte queste cose insieme) è importante. E va difeso. Su un campione di 150 imprenditori intervistati da Confartigianato Imprese Varese, il 52% riesce a dedicare più di tre ore alla settimana al proprio hobby. Stiamo parlando di tre ore su sette giorni: vi sembra tanto? Non scherziamo con il tempo: ne abbiamo sempre troppo poco. E quello che c’è passa in fretta.

Bastasse questo, e invece in questi ultimi sette/otto anni – circa quelli che iniziano con la grande crisi economica nel 2009 – i ritmi lavorativi sono cambiati di netto, a tal punto che a volte si fa fatica a capire la differenza tra urgenza e priorità. Il 50% dei 150 imprenditori di Confartigianato Varese afferma, infatti, che in una giornata deve gestire più di tre priorità.

Vogliamo parlare di quante ore le imprese buttano in timbri, code, autorizzazioni? Tempo a volte sottratto alla progettualità, allo sviluppo, all’avanzamento dei progetti. Lo stesso campione – che ha risposto al questionario “Come gestisci il tuo tempo in azienda?” – offre una guida interessante: il 67% degli imprenditori spende più di tre ore alla settimana per ottemperare agli obblighi di legge in fatto di carte e permessi. Una coda lunga che è fatta dalle complessità delle procedure amministrative: un vero problema per l’86% dei piccoli imprenditori italiani (e “solo” per il 62% di quelli europei) raggiunti da Eurobarometro. Nel dettaglio, l’Italia si colloca al terzo posto dietro a Grecia (95%) e Francia (89%). Le statistiche si fanno, spesso, per confortarci dei nostri mali: si guarda sempre a chi sta peggio di noi, quando l’obiettivo dovrebbe essere quello di raggiungere i primi in classifica. Senza semplificazione, la partita è chiusa. In attesa dei tagli necessari per far marciare meglio le imprese, rincariamo la dose: in Italia, a fronte di una più elevata tassazione di impresa (pari al 64,8% dei profitti commerciali), si registra anche una più onerosa burocrazia fiscale. GUARDA LA NOSTRA INTERVISTA SUL CANALE YOUTUBE

Per gli adempimenti fiscali, infatti, una impresa italiana impiega 269 ore all’anno, 92 ore in più della media Ocse più) e superiore alle 218 ore della Germania, alle 158 ore della Spagna e alle 137 ore della Francia e alle 110 ore del Regno Unito.

La pianificazione è difficoltosa, così il 71% del campione le dedica meno di tre ore al giorno e il 19% più di tre. Per alcuni, gestire un problema quotidiano potrebbe poi essere già preoccupante, ma a decidere sono i clienti. E, come ha sottolineato il 90% del campione, «i problemi dei clienti sono problemi nostri. E siamo pagati per risolverli». Ma in quanto tempo si risolvono i problemi? Il 34% dei 150 utilizza più di tre ore al giorno per risolverli. Le urgenze sono tante, ma non sempre si tratta di impegni improrogabili: il 50% degli intervistati non segnala alcuna urgenza, mentre il 49% è al di sotto delle tre giornaliere. E c’è chi, con piglio filosofico, ci dorme sopra: ma quando si parla di impresa, questo è un modo di dire. Una soluzione a tutto la si trova. A volte, anche con effetto nel brevissimo periodo, le imprese si affidano alla formazione: il 62% dei 150 imprenditori intervistati da Confartigianato Varese, dicono di dedicare più di tre ore alla settimana «all’apprendimento di cose nuove utili al mio lavoro». Solo il 10% afferma di non avere tempo per acquisire altre informazioni che potrebbero servire al miglioramento. Però, anche in questo caso, la formazione è indiretta: ci si confronta con i colleghi, si ascolta, si condividono le idee. Insomma non ci si chiude in sé stessi, ma si va nelle officine e magari si chiedono consigli e ci si dà qualche dritta. Per poi trovare il tempo per aggiornarsi su quello che conta l


22 GIOVANI IN AZIENDA | LE NUOVE COMPETENZE

Rivoluzione Ovosonico «Non ho mai inseguito quello che esiste già I nuovi mercati? Createveli» Massimo Guarini, guru della start-up, ha rivoluzionato la produzione di videogiochi I suoi consigli ai giovani: «Convivete con l’incertezza e pensate in grande La forza di chi ce la fa è la capacità di trasformare anche la crisi in opportunità» L

a Silicon Valley? Possiamo ricrearla anche a Varese. È ora di ricominciare a pensare in grande». A “lezione” di startup e di innovazione da Massimo Guarini, il fondatore di Ovosonico, una delle più belle storie di innovazione emerse in questi anni sul nostro territorio. «L’innovazione? Non cercate di servire un mercato già esistente, createne di nuovi». Ovosonico è uno studio indipendente di produzione di videogiochi fondato nel 2012 da Massimo Guarini, direttore creativo di fama internazionale, noto per aver lavorato a fianco di autori leggendari quali Goichi Suda e Shinji Mikami. Situato in una splendida villa adagiata sulle sponde del lago di Varese, Ovosonico ha fatto il suo debutto internazionale con l’affascinante e pluripremiato “Murasaki Baby”, pubblicato da Sony Computer Entertainment Europe, specializzandosi nell’ideazione e creazione di giochi emozionali unici ed originali, caratterizzati da una forte componente artistica e senso di autorialità. Da settembre 2015 Ovosonico ha avviato un’importante partnership con Digital Bros Spa, multinazionale italiana attiva a livello internazionale nello sviluppo, edizione e distribuzione

di contenuti di Digital Entertainment attraverso le controllate 505 Games e 505 Mobile e quotata al segmento Star di Borsa Italiana. Com’è nata Ovosonico e qual è il suo principale fattore, o segreto, di successo? «Ovosonico è nata dal desiderio personale di voler creare nuovi mercati all’interno del mainstream videoludico internazionale, producendo prodotti ed esperienze apprezzabili anche da un pubblico generalista non interessato alle tematiche adolescenziali normalmente proposte dai videogiochi. Abbiamo da subito puntato al mercato globale attraverso la partnership con Sony Computer Entertainment Europe, e di recente abbiamo consolidato l’azienda tramite la partnership con il gruppo Digital Bros Spa». Il modello di innovazione introdotto da Ovosonico cosa può insegnare a chi cerca di ripensare vecchi modelli di business oggi in crisi? «Tramite i suoi prodotti, Ovosonico vuole raggiungere un’audience più adulta, dal potenziale di acquisto maggiore, che non si interessa ai videogiochi principalmente perché non trova proposte che trattino argomenti stimolanti al


Oggi sono decisivi il coraggio e la voglia di mettersi in gioco

pari di cinema e musica. Pixar ha sdoganato l’animazione digitale riuscendo a parlare ad un pubblico demograficamente variegato. Noi vogliamo sdoganare il videogioco da semplice passatempo per ragazzini e contribuire ad evolverlo in una forma di intrattenimento matura capace di parlare a tutti tramite il linguaggio universale delle emozioni. Un consiglio? Non cercate di servire un mercato già esistente. Createne di nuovi».

In base alla sua esperienza, quali competenze deve avere un giovane che volesse avviare un'impresa, per competere nel mondo di oggi? «Il coraggio. La voglia di mettersi in gioco, in discussione. La perseveranza. La capacita di saper reagire velocemente a qualsiasi cambiamento, imparando ad apprezzare le opportunità che da esso possono scaturire. Parlare poco, fare tanto. Imparare a convivere con l’incertezza trasformandola costantemente in opportunità.

Il modo migliore di avviare un’impresa? Avviarla. Il resto si impara».

Ovosonico si è stabilita a Varese. Vuol dire che la "provincia" può ancora rilanciarsi nel mondo globale se ci sono le idee giuste? «Assolutamente si. Ma le idee giuste non bastano. Occorrono soprattutto le persone e la mentalità giusta per portare queste idee a diventare realtà. Dobbiamo tornare a sognare in grande, ad inseguire obiettivi ambiziosi, alla faccia della paura e del cinismo imperante che stanno condannando l’Italia alla staticità assoluta, all’assistenzialismo come rimedio di ogni male. Ovosonico si è stabilita a Varese, e intendiamo lavorare con le amministrazioni locali e le associazioni di settore per trasformare questo territorio nella nuova Silicon Valley italiana» l A. Ali.

Il modo migliore di avviare un’impresa è quello di avviarla Il resto si impara


24 GIOVANI IN AZIENDA | LE NUOVE COMPETENZE

Marco Porcaro, fondatore e Ceo di Cortilia racconta la nascita di un progetto speciale Per ripensare in chiave moderna i vecchi modelli di business

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ipensare in chiave contemporanea i “vecchi” modelli di business». L’esempio di Cortilia, “il primo mercato agricolo on line”, nelle parole di Marco Porcaro, fondatore e Ceo di questa startup che di recente ha allargato il proprio bacino anche alla provincia di Varese. «Nata commercialmente nel 2012, Cortilia è una realtà italiana che unisce il mio percorso professionale alla passione per il cibo fresco e genuino - racconta Marco Porcaro - Pur essendomi sempre occupato di progetti in ambito digitale, le mie radici sono infatti nella terra e risalgono alla tradizione contadina dei miei nonni. È dall’idea di unire due mondi all’apparenza così lontani che è nata Cortilia». Qual è il vostro punto di forza? «Il principale ingrediente del nostro successo è l’attenzione verso il cliente: da un lato, infatti, puntiamo a offrirgli prodotti di altissima qualità, provenienti da aziende agricole selezionate, dall’altro cerchiamo di facilitargli la vita grazie a un sistema di consegne a domicilio nato proprio per andare incontro ai ritmi moderni». È un esempio che può essere seguito per innovare modelli di business in crisi? «Da quando abbiamo iniziato, il mercato in cui operiamo è cambiato tantissimo e continua a

evolversi velocemente anche oggi. I consumatori, ogni giorno più consapevoli ed esigenti, attraggono un numero sempre maggiore di player verso il business dell’e-grocery: quello che abbiamo cercato di fare è stato puntare su valori tradizionale come l’artigianalità e la genuinità dei prodotti, coniugandoli con i mezzi tecnologici attualmente a disposizione. I modelli “vecchi” non vanno quindi abbandonati, ma solo ripensati in chiave contemporanea». Cortilia valorizza la piccola impresa ridandole centralità e opportunità di rispondere alle esigenze di un mondo che cambia. È un segnale che il “piccolo” ha ancora futuro? «Il nostro obiettivo è proprio quello di dare voce ai piccoli produttori, offrendo loro il canale per raggiungere un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Per noi un agricoltore non è un semplice fornitore, ma il cuore pulsante della nostra realtà. L’impegno di Cortilia, con e per il territorio, è proprio questo: valorizzare l’economia agricola, espressa dal lavoro di tanti “contadini artigiani”, che nella quotidianità sostengono il tessuto culturale e rurale del Paese. Per l’utente finale questo è un importante valore aggiunto, che gli dà la certezza di portare sulla propria tavola solo il meglio della campagna».

Marco Porcaro

«Il mercato agricolo viaggia online Merito del nonno e del digitale» Le mie radici sono nella terra e nella tradizione contadina

Se le diciamo “startup”, cosa ci risponde? «Sempre! Cortilia cerca sempre di confrontarsi con nuove dinamiche e nuove sfide». Ad un giovane, quali competenze suggerirebbe di implementare per affrontare il mercato? «Oggi più che mai, la ricetta per il successo è data dalla capacità di “pensare globale”, guardando a iniziative che possano avere successo anche fuori dai confini di casa nostra e che possano soddisfare le richieste del mercato. Inoltre, nonostante possa sembrare scontato, è importante non perdere mai entusiasmo e passione per affrontare senza arrendersi le difficoltà che inevitabilmente si incontreranno lungo il cammino» l A. Ali.


La lezione di Carbonelli «Usate i social come un info-point» Cosa lega una tazzina di caffè a una lattina di Coca Cola? Un nome: Luca Carbonelli, trentaquattro anni, napoletano. Produttore di caffè. Per la cronaca, l’imprenditore che ha salvato l’impresa di famiglia – la Torrefazione Carbonelli – dalla chiusura. Dando al brand di famiglia, in un settore di nicchia, la stessa riconoscibilità della Coca Cola. Oggi i Carbonelli sono uno fra i punti di riferimento, non solo in Italia, per chiunque ami il buon caffè. La bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua. Una bevanda, però, che vive di concorrenza, frizioni economiche, tensioni competitive. La spinta al cambiamento non è semplice e non può essere immediata, ma Luca si ripete «conosci te stesso, individua la tua virtù, falla esplodere». Al Faberlab di Tradate, in occasione del primo dei tre workshop sull’uso del web e dei social per rilanciare la propria attività imprenditoriale (per il progetto Giovani di Valore promosso da Fondazione Cariplo e Welfare in Azione), il rito del caffè si è consumato in rete.

Il re del caffè napoletano, ai futuri imprenditori parla chiaro «Abbandonate i vecchi schemi, rivoluzionate»

Perché Carbonelli, responsabile Sales & Marketing per l’azienda di famiglia, ha lavorato così tanto e duramente sul web da essere entrato tra le Eccellenze digitali di Google. «L’uso migliore che si può fare dei social è considerarli come un info point sulla tua attività dove la comunicazione del prodotto deve capire le esigenze degli utenti. Un primo consiglio per chi voglia trasformare i social in leve di business è questo: non impegnatevi nelle solite azioni da manuale ma impegnatevi per essere su tutti i social, per rispondere agli stimoli dei clienti, per raccontare in modo trasparente anche i vostri errori e limiti. Perché dare valore ai propri difetti può essere un valore per il proprio prodotto. Alla Carbonelli, dove il web è considerato un hub, si rinnova una volta all’anno e lo stile e i contenuti devono essere sempre originali, ci siamo liberati dalla zavorra stupida del segreto imprenditoriale e abbiamo aperto le porte a tutti, perché il brand non va mai a dormire». È così che dal 2006, anno in cui la Torrefazione ha iniziato con le vendite su eBay, il fatturato dell’azienda si è decuplicato, si è data una spinta alle assunzioni. «Tutto questo ha trainato anche quello che è off line e più tradizionale. L’importante è essere sempre aggiornati sulle nuove tecnologie, essere pronti ad utilizzarle e soprattutto non cedere sul fronte della formazione» l


26 ARTIGIANI DEL FOOD | L'INTERVISTA di Enrico Marletta Giornalista La Provincia

Oscar Farinetti, 64 anni, creatore e anima di Eataly, racconta gli inizi nel piccolo supermercato di papà E la scelta di puntare sull’eccellenza del cibo «Il chilometro zero radicale? Per me è una cavolata»

Io, un commesso che sapeva sognare «La meritocrazia? Guardate Wall Street» G

ianni, l’ottimismo è il profumo della vita e là dentro c’è». Sì, certo, uno spot. Fortunato, passato alla storia, ma solo uno spot. Eppure, nelle parole di Tonino Guerra, c’è tutta la visione del mondo e del fare impresa di Oscar Farinetti. Uno che non sta simpatico a tutti ma che di strada, a 64 anni, ne ha parecchia alle spalle. E che strada se è vero che è riuscito a trasformare Unieuro da piccola società di supermercati ad azienda leader nel commercio dell’elettronica. Tredici anni fa la scelta di vendere e con il ricavato di oltre un miliardo di euro la creazione di Eataly, catena di distribuzione dell’eccellenza enogastronomica italiana. Farinetti si è raccontato giovedì 10 novembre alla Festa delle Imprese, nel salone della Camera di commercio di Como, organizzata dal giornale La Provincia. Due ore di incontro per parlare di sé, dei suoi progetti, delle prospettive del made in Italy, del rilancio di un Paese, l’Italia, che nonostante tutti i guai che attraversa, continua a ritenere meraviglioso. Una storia straordinaria cominciata in un piccolo supermercato come commesso… «Mio papà mi aveva messo a vendere lavatrici nel suo ipermercato. Il reparto non gli piaceva ma io ce la mettevo tutta, immaginavo le lavatrici

come delle scatole magiche in cui mettevi biancheria sporca e come per incanto usciva pulita. Sognavo e volevo far sognare i clienti. Volevo vendere magia e non si può nemmeno immaginare cosa dicessi del frigorifero o della televisione. Dico questo perché penso che ciascuno di noi possa mettere un po’ di poesia in ciò che fa. Noi italiani dovremmo imparare a mettere un po’ di poesia vicino ai nostri prodotti». I suoi figli sono tutti in azienda. Pensa sia un bene che i figli proseguano l’attività del genitore? «A volte sì. Ci sono miei colleghi imprenditori che dimostrano di voler più bene a sé stessi o alla company che non ai figli e che godono quando magari qualche collaboratore dice: "Ai tuoi tempi". Mio papà mi ha insegnato a voler bene più alle persone che alle cose, io sono contentissimo che i miei figli abbiano continuano il mio lavoro. È una soddisfazione. Chi non lo vorrebbe. L’importante è che a loro piaccia veramente e che siano all'altezza di farlo, altrimenti si rovina la vita sia ai figli che al genitore. Non c'è niente di male del resto ad avere un figlio artista, musicista, sarei stato contento ugualmente. L'unica cosa che non mi sarebbe piaciuta è avere un figlio che godendo del patrimonio di famiglia non avesse fatto nulla».

Lei ha dichiarato: «Sono contro la meritocrazia perché a Wall Street hanno mandato tutti i migliori e guarda un po' cosa hanno combinato». Cosa intendeva dire? «Partiamo dal fatto che nessuno di noi decide dove nascere, quando nascere e in che famiglia nascere. Quando parlo ai giovani imprenditori di solito chiedo sempre quanti figli di... ci sono ed è circa il 90%. Il problema della meritocrazia è che si dovrebbe portare tutti allo stesso livello di partenza con strutture scolastiche formidabili. È un'utopia realizzabile. Leonardo Da Vinci ha immaginato che avremmo volato e tutti gli davano del pazzo. Però per il momento quello che suggerisco io sul tema della meritocrazia è di tenere conto anche del percorso di ogni persona, da dove arriva... e non solo del puro risultato di valore aggiunto che ti dà nel lavoro». Sul made in Italy ha detto in più di un'occasione che molto spesso è un mito… «Dipende sempre da come vivi le cose. C'è questa stranezza di noi italiani che ci lamentiamo, ci lamentiamo, ma poi tutto quello che è italiano è più buono. L'altro giorno ero ad Istanbul nel nostro Eataly perché parlavo con degli agricoltori turchi molto bravi. Sapete che loro hanno il 70% del mercato mondiale della nocciola? Ne


C’è poca consapevolezza della ricchezza del made in Italy… «Abbiamo una scarsa conoscenza del cibo, non approfondiamo. Meno del 25% degli italiani sa la differenza tra il grano tenero e il grano duro. Quando mi sono permesso di dire in tv che sul grano duro in Italia si può migliorare fortissimamente la qualità e spesso sono costretto ad andare a comprare del grano all'estero per avere più proteine, più glutine e meno ceneri, è successo un putiferio. Volevo semplicemente dire che noi siamo un puntino nel mondo abbiamo questa biodiversità pazzesca, che grano dobbiamo seminare? Colture antiche, biologico, biodinamico e farlo meraviglioso. Io faccio fatica a

trovare grano biodinamico biologico pagandolo sei volte in più rispetto a quello normale. Perché c'è pigrizia nell'agricoltura, perché logicamente non puoi più usare diserbanti, devi lavorare... mi sono permesso di dire tutto questo ed è scoppiato il finimondo». E il chilometro zero? «È una furbizia, cioè non ha senso che vada a comprare le mele che arrivano da lontano, non ha senso mangiare le arance in estate perché vengono dall'altra parte del pianeta, ma la cosa più stupida è fermare la libera circolazione delle merci nel mondo. Per esempio, quando ho voglia di mangiarmi il prosciutto Pata Negra spagnolo che è buonissimo, me le mangio; quando ho voglia di bere una bollicina francese me la bevo; assurdo penzare di impedire lo scambio delle eccellenze nel mondo... e del resto se io devo vendere Barbaresco e Barolo ai cinesi, non posso pensare di non comperare nulla da. Ma perché? Il chilometro zero vissuto in maniera radicale è una cavolata come tutto ciò che è radicale. È una cavolata tutto ciò che non è moderazione, è una cavolata questo modo di pensare e scarsa propensione ad accettare il compromesso che è l'unica cosa perfetta che può fare l'uomo» l

Oscar Farinetti

producono veramente tante e sono anche buone. Ma comunque non v'è dubbio che la tonda gentile di Alba e la tonda di Avellino sono un'altra cosa. La nocciola italiana è la numero uno a livello mondiale, costa anche il quadruplo, gliel'ho detto e si sono arrabbiati perché loro sono convinti di avere la nocciola più buona. Ciò vuol dire che ognuno è convinto di avere il meglio e noi italiani che già abbiamo la maggioranza delle cose più buone del mondo tendiamo al "tutto".

Volevo vendere magia e non si poteva immaginare cosa dicessi di frigoriferi e televisioni


28 IMPRESE E TERRITORIO NEWS | UNA NUOVA STORIA

Da dipendenti a imprenditori «Chi lo dice che il posto fisso è una garanzia per il futuro?» L'Impresa delle Meraviglie diventa Imprese e Territorio news E il viaggio ricomincia con la sfida della Mcg A Jerago si producono componenti per valvole ... e sogni U

n’impresa che chiude è un pezzo di economia in meno. E’ per questo che, anche se tra mille difficoltà, l’azienda si tramanda. Non per individualismo o semplice istinto di sopravvivenza, ma perché quello che si è fatto non deve andare perso. Per tutti. Così la pensano Elena Ghiringhelli e Marco Caravà della MCG di Jerago con Orago. Piccola impresa impegnata nella produzione di accessori per il funzionamento e la manutenzione di valvole per impianti petrolchimici. Dipendenti che sono diventati titolari. Con fatica, certo, ma con un obiettivo: tenersi stretto il posto di lavoro, per loro e per gli altri. E, quando possibile, assumere. La storia risale al 1998: un titolare che si ammala, la malattia che ha la meglio, la moglie che cerca di resistere ma non ce la fa, i figli giovani che non se la sentono. Perché fare l’imprenditore non è cosa facile. Due persone, due dipendenti come tanti altri, ma mossi da cosa? Prima di tutto dalla necessità, poi dalla passione, in parte dalla paura. Con una provocazione in testa: il lavoro da dipendenti non ci sembrava più sicuro, meglio fare l’imprenditore. Infatti negli anni successivi da dipendenti saremmo stati probabilmente “casso integrati” viste le numerose aziende interessate dalla crisi economica del 2008 e le nostre famiglie ne avrebbero molto risentito, così padroni di noi stessi abbiamo almeno avuto la possibilità di

mettercela tutta, di provarci a modo nostro a superare il difficile momento. Come si diventa titolari dell’azienda nella quale si lavorava? Nella quale, ci teniamo a dirlo, si lavora ancora adesso. Agli inizi abbiamo sottoscritto un contratto di affitto di azienda: per tre anni siamo andati avanti così pagando anche l’affitto del capannone. Poi le cose cambiavano di giorno in giorno e ci siamo buttati. Non avevamo nulla da perdere, vero, ma in due abbiamo cinque figli e non si scherza. Bene o male, da quel 2001 (quando nasce la Meccanica Caravà Ghiringhelli) siamo riusciti a mantenere il lavoro e a darlo. Oggi, con noi, ci sono quattro collaboratori a tempo pieno e un part-time. Come “vi siete buttati”? Marco – A 40 anni, in quel 2001, ho cambiato vita ma la fatica maggiore l’ha fatta mia moglie: dopo un po’ di resistenza, però, ha accettato (sorride, ndr). In parte la capisco perché prima portavo a casa lo stipendio tutti i mesi, ora è diverso: tutti i sabato mattina sono in azienda e a volte anche la domenica. Però la casa attaccata dall’officina non la voglio, bisogna anche saper staccare per recuperare energie. E cos’altro? In quel 2001 abbiamo chiesto subito alla banca se potevano accordarci le stesse condizioni

ed affidamenti garantiti al nostro titolare: problemi non ce ne sono stati. Oggi questo sarebbe impossibile. Poi, da impresa nel settore dei tubi freno per le automobili, ci siamo reinventati il lavoro sfruttando la nostra esperienza nelle filettature e studiando alcuni particolari per le aziende produttrici di valvole per il petrolchimico. Il lavoro è particolare e complesso soprattutto in relazione ai materiali speciali da lavorare non ci sono inoltre norme internazionali che regolano la costruzione di questi particolari. Tutti i giorni ci si rimette in gioco per capire come soddisfare le richieste dei nostri esigenti clienti. Non proprio un salto nel vuoto, ma una bella prova di equilibrismo: come è andata? Elena – Più volte ci siamo trovati davanti alle macchine, ci siamo guardati chiedendoci se ce l’avremmo fatta. Da dove cominciamo? Un tempo il lavoro arrivava, a volte non si sapeva nemmeno da dove, ma c’era. Oggi il lavoro bisogna andare a prenderselo, giro sul web, studio il mercato, cerco i contatti giusti, frequento le fiere del settore, mi oriento tra le imprese di valvole che potrebbero essere interessate. Quasi tutte sono italiane ma molte anche estere. Con quali risultati? Ad oggi direi buoni. Negli ultimi cinque anni il fatturato è sempre aumentato, a volte anche del 30%.


«Senza lavoro ero infelice Oggi ho la serenità E peso 60 chili in meno»

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LA MCG IN PILLOLE Da titolari, come vivete la vostra giornata? Elena – Sono sempre di corsa eppure sempre in ritardo c’è sempre qualcuno o qualcosa da fare che mi aspetta. Al di fuori della produzione, ho il compito di gestire tutto: dai preventivi alla contabilità ai rapporti con le banche e poi ci sono la famiglia e la casa da mandare avanti. Marco – Quando ancora c’era il vecchio titolare, le macchine a controllo numerico le ho sempre seguite e gestite solo io. L’officina è la mia passione, ed è sempre stato così: se mi cercate, io sono lì. Con la voglia di fare un passo in più: quale? Elena - Mio padre faceva l’imbianchino, tra fratelli e sorelle eravamo in sette e abbiamo studiato tutti. Mio padre solo con il suo modesto lavoro è riuscito anche ha costruirci una casa. Bei tempi andati ma sicuramente ci ha trasmesso la “voglia di fare”. Tra i nostri figli, forse, qualcuno seguirà i nostri passi. Camilla, figlia di Marco, studia lingue e in azienda segue la corrispondenza con i clienti all’estero, mentre Luca – uno dei miei tre – studia ingegneria meccanica al Politecnico di Milano e lavora con il cad-cam. Le cose sono già state messe in chiaro: prima di entrare alla MCG, meglio che facciano le loro esperienze nel mondo ed in aziende anche grosse. Abbiamo bisogno di idee nuove: questo, se vorranno, sarà il loro compito l D. Iel.

RAGIONE SOCIALE: MCG SNC DI CARAVÀ MARCO & C. TITOLARI: MARCO CARAVÀ E ELENA GHIRINGHELLI DIPENDENTI: 4 A TEMPO INDETERMINATO PIÙ 1 IN PART TIME SETTORE: MINUTERIA METALLICA CERTIFICAZIONE: SISTEMI DI GESTIONE PER LA QUALITÀ ISO 9001 LAVORAZIONI: COMPONENTI PER LE VALVOLE DEGLI IMPIANTI PETROLCHIMICI. VALVOLE DI RITEGNO, DI SFIATO O DRENAGGIO, DI SICUREZZA, INGRASSATORI E TAPPI MATERIALI: ACCIAIO INOX AISI 316, INCONEL 625 ESTERO: SPAGNA FIERE: VALVE WORLD EXPO A DUESSELDORF (GERMANI). FIERA INTERNAZIONALE DI VALVOLE PER SETTORI INDUSTRIALI INDIRIZZO: VIA GIOBERTI 6, JERAGO CON ORAGO CONTATTI: TEL. 0331.217542 AMMINISTRAZIONE@MCGSNC.COM INFO@MCGSNC.COM

Quanto conta il benessere aziendale, il clima di collaborazione tra titolari e dipendenti, il fatto di sentirsi al sicuro dalla crisi economica ma anche da quelle personali? Chiedetelo a Igor Carpentino (41 anni), Flavio Manfrin (50) e Stefano Giamberini (30). Da quando sono entrati a far parte della Mcg di Jerago con Orago, la loro vita è cambiata. In meglio. Tutti e tre sono arrivati da situazioni di instabilità lavorativa: chi dalla piena incertezza del lavoro saltuario, chi dalle liste di mobilità e chi dalla cassa integrazione. La storia la si conosce: imprese in difficoltà, lo stop delle commesse, ambienti lavorativi a volte difficili, la fatica di uscire la sera dall’azienda senza sapere se, il giorno dopo, il posto ci sarebbe stato ancora. Igor se l’è vista brutta: tre figli, la moglie disoccupata, la ricerca spossante di un impiego. Per sbarcare il lunario fa di tutto e, assecondando la sua grande passione per la pesca sportiva, vende esche di ogni tipo di negozio in negozio. Ma non basta. Alla Mcg ci arriva con un contratto part-time poi trasformato nel 2012 in tempo indeterminato: pesa 146 Kg. Oggi ha ritrovato una serenità che passa direttamente dalla stabilità del suo lavoro: ha perso i 60 Kg. di troppo, è in forma fisicamente e spiritualmente, «è un uomo che si mette in gioco e tende sempre a risolvere i problemi: abbiamo apprezzato i suoi sforzi ed è un collaboratore valido», fanno sapere i titolari. La storia di Flavio è diversa, ma ha un lieto fine. Nei suoi precedenti lavori era in balia di sé stesso. Nessuna comunicazione da parte dell’azienda, richiesta di disponibilità assoluta e pochi – se non inesistenti – i preavvisi per i cambi di turno: «Alla notizia della sua assunzione, qui in Mcg, si è quasi commosso. E ci ha detto “mi sembra di tornare a casa”», incalza Elena Ghiringhelli. Stefano Giamberini è il più giovane della squadra: terminata la scuola secondaria entra in un’azienda meccanica. Tutto bene fino a quando il lavoro rallenta, arriva la cassa integrazione, si chiude. Dalla meccanica passa ad un’impresa farmaceutica e il lavoro è quasi “a chiamata”. Stefano resiste, ma poi tutto si fa più complicato. Arriva così alla Mcg, e lì decidono di metterlo alla prova: «Lo iscriviamo ad un corso di formazione per la programmazione delle macchine a controllo numerico, perché in un’azienda non si devono mai lasciare spazi vuoti», conclude Elena. E così è stato: ora alla Mcg tutte le macchine possono funzionare tranquillamente, perché la formazione è una parola che si mette in pratica l


30 FABERNEWS43 | FILO DIRETTO CON L'INNOVAZIONE

Il cioccolato in 3D è unico Buosi personalizza gusti e prezzi della dolcezza S

olo per uso orale». Se questa non la si racconta con i giusti toni, si rischia di restare con l’amaro in bocca. E invece Denis Buosi, creativo del cioccolato più raffinato, ancora ci ride sopra. Un signore anziano, di bell’aspetto, esuberante gliele ordinò per anni e in gran numero: supposte di cioccolato bianco per divertire e coccolare i propri clienti. A Buosi venivano forniti blister e scatolette; lui ci fondeva il cioccolato e poi via nella “farmacia della gola”. Dove la dolcezza fa dimenticare qualsiasi cosa. Quei tempi sono lontani, ma non la richiesta da parte dei clienti di personalizzare questa delibatezza amata tanto da Maria Antonietta moglie di Luigi XVI quanto da Voltaire, Wolfgang Amadeus Mozart, Alessandro Manzoni e Papa Pio V. Il cioccolato che, oggi, si fa anche in 3D perché personalizzarlo è una moda che non conosce tempo. Anzi, firmare una tavoletta o un cioccolatino è una prassi seguita tanto dal titolare d’azienda quanto dall’innamorato. Buosi lo sa bene, perché da almeno dieci anni lavora arrovellandosi il cervello in questa nicchia dove tutto deve essere fatto su misura. E, possibilmente, ad un prezzo che non renda indigesto il cioccolato. Per l’appunto, la stampa 3D: «Quando ho letto di Faberlab mi sono appassionato, perché ho bisogno di un luogo dove poter chiedere e capire come risolvere questo problema: prodotto ben fatto (come sempre), cu-

stomizzato (come sempre) ma realizzato in minor tempo e soprattutto a costi inferiori». Insomma, dello stampino in alluminio e del sottovuoto in plastica (per alimenti, ovvio) Denis Buosi non ne può più. Lo fa perché è la sua passione, «ma oggi al cliente si invia il rendering e il colaggio del cioccolato (gestendo bene le temperature) si può realizzare direttamente con una stampante 3D. Assurdo? No, pratico». Buosi è nato in pasticceria (il padre Ermes la fondò nel 1958 con la moglie Rosi), è cresciuto come garzone, frequenta la scuola professionale di pasticceria e poi eccolo con le mani in pasta. Meglio ancora, nel cioccolato. L’innovazione lo ha sempre affascinato, e delle nuove tecnologie vuole conoscere tutto perché è convinto che il mondo non stia mai fermo. E’ per questo che negli anni ha frequentato i corsi di perfezionamento nelle migliori scuole italiane e europee. Ma la stampa 3D lì, non gliela hanno insegnata. E allora Faberlab fa al caso suo: «Facciamo un prodotto di alto livello e risparmiare sulle materie prime è inaccettabile per un’impresa come la nostra. Sui processi di produzione, invece, un discorsetto con Faberlab lo vorremmo fare, per ottenere un risultato veloce che nulla tolga alla bontà del cioccolato. Perché una cosa è produrre mille cioccolatini e un’altra farne solo cento e per di più personalizzati».

E’ il caso di dirlo: ce n’è per tutti i gusti, perché da quando Denis Buosi si è dedicato a questa nicchia di mercato («potrei seguire solo questa lavorando a pieno regime»), ha realizzato non solo cioccolatini più o meno tradizionali (sempre rigorosamente con loghi e iniziali) ma anche scatole piene zeppe di ingranaggi di cioccolato. Anche questa, in fondo, è Industria 4.0 l D. Iel.

Negozio - Buosi Cioccolaterie Piazza Beccaria, 6 - Varese Tel: 0332/241227 Negozio di Venegono Superiore Via Baracca, 18 Tel: 0331/857492 Laboratorio cioccolateria e B Academy di Vedano Olona Via Adua, 63 Tel: 0332/400149 info@buosi.it GUARDA LA NOSTRA INTERVISTA SUL CANALE YOUTUBE


31 VERSIONE BETA | OFFICINA DELLE IDEE

Daniele Radici, ingegnere e Lego Seriousplay facilitator smonta il modello tradizionale di business plan. E con i Lego…

Il mercato rompa gli schemi Come Uber U

n foglio di carta suddiviso in nove blocchi (il Business Model Canvas), post it colorati, gli immortali Lego – che ci avvicinano anche visivamente al concetto di tridimensionalità del mercato - e un gruppo di lavoro determinato. Per disegnare il futuro della propria azienda, ripensarlo e pianificarne il percorso non occorrono complicati business plan o infiniti diagrammi di Gantt. Bastano pochi oggetti e una forte propensione alla rottura con il passato. Perché il mercato nel quale molte imprese sono nate e cresciute – quello nel quale era scontato pianificare, per ogni azione, una precisa conseguenza – ha ormai fatto spazio a un contesto nuovo, complesso, mutevole, tridimensionale. Un contesto governato da meccanismi difficili da dominare o comprendere in tutte loro variabili e, quindi, impossibili da affrontare con la vecchia regola del “pianifica, pianifica, pianifica e poi agisci”. Su una piazza così, fortemente esposta al rischio stress, si può sopravvivere adattando sé stessi all’imprevedibilità, attraverso il sistema del “plan-do, plan-do, plan-do”, che prevede avanzamenti per piccoli passi, prototipazione e la misurazione delle reazioni degli acquirenti a quanto proposto dall’impresa.

Non conta il contenuto ma l’approccio Daniele Radici, 36 anni, ingegnere, innovation&strategy specialist e Lego Seriousplay facilitator, a questo modello crede fino in fondo e con questo modello aiuta le imprese a utilizzare un modo nuovo per disegnare il business. Nel corso di un worshop organizzato al Faberlab nell’ambito del progetto Giovani di Valore-Officina delle Idee, Radici ha smontato e rimontato convinzioni e abitudini, partendo da un assunto: «Il valore del Business Model Canvas non è il contenuto, ma l’approccio». E da alcune domande: sappiamo comunicare in modo chiaro il valore della nostra azienda? Sappiamo quali sono i punti critici nella catena di valore? Sappiamo raccontare il meccanismo di funzionamento del nostro prodotto? Sappiamo chi sono i clienti del nostro prodotto/ servizio? Sappiamo parlare in modo mirato con prospect e clienti? Per rispondere torniamo al foglio di carta diviso in nove parti che consente di rappresentare visivamente il modo in cui un’azienda crea, distribuisce e cattura valore. La fase piu’ critica: il customer segment Nel Business Model Canvas, ha spiegato Radici, sono rappresentati i nove elementi costitutivi di un’azienda. «La fase più critica è il customer segment perché la tendenza è vendere tutto a

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tutti». Un’apparente semplificazione che nasconde il rischio di “non raggiungere nessuno”. Dunque, ad ogni segmento di mercato identificato con un post it è bene che ne corrisponda uno abbinato al corrispettivo valore offerto dall’azienda a quel target di clientela. «Una volta definito il modello di business, posso correlarvi modelli evolutivi e, infine, validarlo. Solo al termine di questi passaggi si può tradurre in realtà il progetto (o il cambiamento), controllarne le evoluzioni e correggerne eventuali criticità (plan-do-check-act)». Azioni rapide e reazioni adeguate Azioni e reazioni rapide, dunque. E una mentalità propensa a «cambiare il modo di lavorare producendo nuove idee o prodotti». Perché quel che nessuno ha mai fatto non è detto che non si possa fare: che dire degli Oculus, della stampante 3D a scaffale, degli smartwatches o di Uber? «Uber non ha inventato il taxi, il noleggio a conducente o il servizio a chiamata. Ha cambiato il modo di vivere l’esperienza del “ho bisogno di qualcuno che mi porti da qualche parte e ho bisogno di sapere quanto pagherò”». Ha cambiato value proposition, customer segment e canale. Così si smonta un modello, per rimontarlo come un Lego che piace al mercato l S. Bar.


32 FOCUS SERVIZI E AGENDA | AREALAVORO

« arealavoro

Regole condivise per crescere insieme Pause, telefonate, auto aziendali: mettere tutto per iscritto serve a tutti E aumenta il benessere aziendale

Imprevedibile non vuol dire impossibile. Nelle imprese possono accadere piccoli o grandi problemi, ma tutti si possono risolvere. Come? Comunicando in modo chiaro, diretto e condiviso quelle regole che offrono certezze sia all’imprenditore che ai dipendenti. In sintesi, si deve parlare di “benessere organizzativo”. E un regolamento su misura per l’impresa va proprio in questa direzione: definire e condividere tutte quelle azioni che servono a promuovere e tutelare il benessere fisico, sociale e psicologico di tutti i lavoratori. Una non corretta gestione delle risorse, infatti, può portare a insoddisfazione, demotivazione e diminuzione della produttività. Tutto si può gestire, se comunicato in modo chiaro Dotarsi di un regolamento, infatti, significa gestire gli imprevisti ma anche definire la quotidianità secondo un metodo che da un lato rafforza i valori, la missione e l’etica aziendale e dall’altro dice come comportarsi di fronte a tutto quello che assicura e può aumentare il benessere dei dipendenti e gli affari dell’azienda. Fumare in officina, usare il cellulare deliberatamente durante l’orario di lavoro, trattare il pc come se fosse il proprio, starsene a casa senza alcun preavviso: i temi ai quali un regolamento offre risposte certe sono tanti. Ma il bello è che un regolamento si trasforma in guida sicura che non definisce solo tempi e modi di lavoro e di comportamento all’interno dell’azienda, ma anche pone le fondamenta di un clima positivo che inserisce nuova linfa per una maggiore collaborazione per la condivisione e il raggiungimento degli obiettivi. Insomma si fa squadra. E la si fa con in modo efficace che non toglie di mezzo gli imprevisti (questo è ovvio) ma che offre gli strumenti giusti per affrontarli senza spreco di risorse. Gli step per un buon regolamento In realtà la prima domanda che si dovrebbe

porre un imprenditore è questa: come faccio a lamentarmi per cose che non vengono fatte se non sono state dette in modo chiaro? In effetti non si può. Ecco gli step che bisogna seguire per definire un regolamento aziendale che funzioni: stabilire le regole fondamentali, coinvolgere i dipendenti, affidarsi a professionisti seri e preparati che si confrontano con l’imprenditore per la stesura del regolamento, stesura finale, lettura ai collaboratori e affissione nella bacheca dell’azienda. Quello che facciamo per le imprese Anticipare le domande, e organizzare le risposte in un regolamento a misura di azienda che richiami al contratto nazionale di lavoro, può essere infatti la soluzione alla quale ricorrere prima di deteriorare una buona convivenza o erodere i fatturati. D’altro canto, un regolamento somiglia un po’ alle regole non scritte di una casa: chi vi abita le stabilisce, gli ospiti vi si adeguano. Per queste ragioni sono sempre di più le imprese che si rivolgono all’Area Lavoro di Confartigianato Varese per costruire, con il supporto dei suoi professionisti, un regolamento aziendale che possa mappare la situazione in azienda ed essere migliorato – o ridefinito – a seconda dei differenti contesti entro i quali si muove negli anni l’attività. Evitare le sanzioni, e crescere Puntare sull’aspetto sanzionatorio nei confronti dei dipendenti non è mai una buona prassi, anche se in alcuni casi può sembrare inevitabile. Un regolamento efficace punta, piuttosto, alla crescita professionale dei propri collaboratori. Un passo preceduto, solitamente, dall’analisi del clima nell’impresa e dal suo potenziale. Stare al passo con il mercato, infatti, significa avere tra le mani un’azienda sana, dipendenti motivati e nessun malessere generato da una convivenza non perfettamente regolamentata l

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Il regolamento risponde a tutto E sei tranquillo Un regolamento aziendale si deve adattare, e bene, alle necessità dell’azienda. Le domande che si pone un imprenditore, ma anche i suoi collaboratori, sono tantissime ed è bene che per ognuna ci sia una risposta concisa e semplice che non lasci spazio a interpretazioni soggettive. Qui sotto ne trovate alcune, anche se l’elenco potrebbe essere lungo perché la gestione quotidiana di un’azienda è complicata: » Cosa non viene fatto nei modi e nei termini che ci aspettiamo? » Quali sono i comportamenti che creano difficoltà nelle relazioni con l’azienda? » Quali sono le lamentele che più frequentemente vengono riportate tra i colleghi? » Quale è il comportamento che deve essere tenuto in azienda con i responsabili, colleghi, clienti e fornitori? » Quali sono le regole per orario di lavoro, pause, ritardi o recuperi? » Come devono essere richiesti i giorni di ferie e i permessi personali? » E’ prevista la timbratura delle presenze? E con quali modalità? » Cosa fare per comunicare eventi di malattia, infortunio, maternità? » Come devono essere gestiti gli straordinari? » Come utilizzare gli strumenti/automezzi messi a disposizione dall’azienda? » Come si utilizzano i mezzi di protezione individuali e collettivi in materia di sicurezza? In conclusione, la stesura del regolamento aziendale è un passo fondamentale che deve essere gestito nei minimi particolari e con professionalità. Perché offre all’imprenditore le leve giuste per intervenire prontamente sulle incomprensioni interne richiamando al rispetto delle regole note, condivise e sottoscritte da tutti l

Comunicare in modo chiaro? Parlane con l’esperto Mettiamo che l’imprenditore chieda al dipendente il favore di acquistare il componente mancante di un macchinario. Può darsi che il dipendente faccia quanto richiesto, effettuando però un acquisto sbagliato. O che opponga un rifiuto, non ritenendo la mansione tra quelle di propria competenza. Di chi è la responsabilità del cortocircuito? «Facciamo una premessa: quanto più la comunicazione è chiara, tanto meno è soggetta a interpretazioni disparate. Lo stesso discorso vale per un’impresa» spiega Claudia Chiuppi, avvocato giuslavorista dell’AreaLavoro di Confartigianato Varese. «Il contratto nazionale di lavoro non può contemplare soluzioni per ogni singolo episodio ma, ponendo il contratto come base, si può costruire in ogni impresa un regolamento che riassuma comportamenti fondamentali per il benessere interno». Definendo condotte per l’utilizzo della strumentazione fornita ai dipendenti, organizzazione degli orari di lavoro, dress code, gestione del rapporto con i clienti, valorizzazione delle competenze dei dipendenti…». E non si dimentichi che il regolamento aziendale può veicolare il welfare aziendale. Una volta steso, il regolamento viene illustrato a tutti i collaboratori, reso pubblico e sottoscritto, affinché diventi un patto al quale attenersi, a garanzia di tutte le parti. Nel tempo, poi, non va sottovalutata l’importanza di un “tagliando”, per adeguare quanto scritto ai cambiamenti del mercato, a nuove assunzioni, o a un’eventuale riconversione produttiva. Benessere aziendale e regole chiare, riassunte nel quadro del regolamento aziendale, sono il filo conduttore degli info-meeting di “AreaLavoro academy”, innovativo contest scelto da Confartigianato Varese per dialogare con le imprese e cercare – con incontri informali e riservati a un numero ristretto di imprenditori – idee, soluzioni e suggerimenti organizzativi e di business.

Claudia Chiuppi AreaLavoro claudia.chiuppi@asarva.org T 0332 256275


Credito: c’è ancora tempo per chiedere i contributi della Camera di Commercio

Gps sui veicoli aziendali Serve l’accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato

Il credito non basta mai e una buona consulenza finanziaria può risolvere quei problemi, grossi o piccoli, che spesso ostacolano l’impresa nel suo pieno sviluppo. Una buona notizia: il contributo della Camera di Commercio di Varese per la consulenza finanziaria alle imprese è stato prorogato.

Il GPS sull’auto aziendale è considerato un controllo a distanza del lavoratore e quindi può essere installato solo previo accordo con la rappresentanza sindacale o, in assenza, se c’è l’autorizzazione da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Lo ha precisato lo stesso Ispettorato in una recente Circolare (n.2/2016). La mancata osservanza è sanzionata penalmente.

La domanda per ottenerlo (al netto di Iva si parla di un importo di 650 euro) potrà infatti essere presentata fino al 30 aprile 2017 (era al 31 dicembre 2016), mentre la nuova data di scadenza per la rendicontazione è fissata al 30 giugno 2017. Ricordiamo che, attraverso la consulenza finanziaria, le imprese acquisiscono o migliorano quelle competenze che le aiutano a presentarsi meglio alle banche, mettendo sul piatto le proprie professionalità e la loro buona salute finanziaria. Noi possiamo aiutarvi con consulenze mirate in azienda.

In particolare l’Ispettorato precisa che le apparecchiature di geolocalizzazione satellitare come GPS e navigatori satellitari, installate sui mezzi aziendali rappresentano “di norma” un elemento aggiunto rispetto agli stessi e per questo possono essere installate solo dopo l’accordo o l’autorizzazione. Solo in pochissimi casi queste apparecchiature possono essere considerate “strumenti di lavoro” e, in quanto tali, non soggetti ad accordo o autorizzazione ministeriale. Per tutte le informazioni contattare i consulenti paghe e lavoro nelle nostre sedi Tel. 0332 256111 - asarva@asarva.org

Per tutte le informazioni contattare Dorina Zanetti Tel. 0332 256208 – dornia.zanetti@asarva.org

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Cassa integrazione in deroga: ultima possibilità per le imprese lombarde

Disabili: obbligo di assunzione dal 1° gennaio 2017

Con la fine del 2016 la Cassa Integrazione in Deroga (CIGD) sarebbe dovuta terminare definitivamente, lasciando spazio ai Fondi di solidarietà bilaterali. Grazie però a una disposizione che ha in parte modificato alcune norme del Jobs Act e alla disponibilità delle risorse non ancora esaurite, con un apposito accordo le Parti sociali hanno aperto un ulteriore accesso al trattamento. Possono ancora richiedere la Cassa Integrazione in Deroga: » le aziende fino a 5 dipendenti, che non possano accedere a CIGO o CIGS a condizione che il periodo di CIGD abbia inizio nel 2016, sarà possibile arrivare ad un periodo massimo di 6 mesi comprensivo dei periodi richiesti/ autorizzati nel 2016, protraendo il trattamento anche nel 2017; » le aziende con dipendenti oltre le 5 unità che abbiano già utilizzato un massimo di 91 giorni di CIGD nel 2016 e siano escluse dalla possibilità di accesso ai trattamenti di CIGO/ CIGS: è possibile richiedere un periodo aggiuntivo, fruibile entro il 30 dicembre 2016. Anche altre aziende, in situazioni particolari, possono accedere alla CIGD, come quelle con matricola INPS sospesa o cessata o che avevano presentato la richiesta in ritardo.

Dal 1° gennaio 2017 l’obbligo di assunzione di persone con disabilità decorre, per le ditte che raggiungano un organico di 15 dipendenti, con effetto immediato. In precedenza, una volta raggiunto il limite previsto, l’obbligo insorgeva soltanto al momento di nuove assunzioni. Quindi le imprese saranno costrette ad adempiere all’obbligo entro 60 giorni.

Per tutte le informazioni contattare i consulenti paghe e lavoro nelle nostre sedi Tel. 0332 256111 - asarva@asarva.org

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E’ stata anche appesantita la misura delle sanzioni amministrative. Passati 60 giorni dall’obbligo, per ogni giorno lavorativo durante il quale la quota di riserva risulti non coperta, il datore è tenuto a versare una somma pari a € 153,20 al giorno per ciascun lavoratore disabile che risulta non occupato nella medesima giornata. Sempre per la stessa violazione, trova applicazione la procedura di diffida che prevede, alternativamente, in relazione alla quota d’obbligo non coperta la presentazione della richiesta di assunzione in caso di chiamata diretta o la stipulazione del contratto di lavoro, se la persona con disabilità viene avviata dagli uffici. In queste ipotesi la sanzione è ridotta a un quarto.


SOCIAL

CORNER

di Giovanni Fortunato Videomaker

DIETRO LE QUINTE: METTERCI LA FACCIA FUNZIONA

Il “dietro le quinte” funziona, piace e dà sicurezza. Pensiamo al settore food: vedere chi produce ciò che mangeremo rassicura e rende più immediato l’acquisto. Quindi mettete da parte ogni timore, mostrate la quotidianità della vostra impresa, i piccoli successi, i passi avanti e l’autenticità delle persone che ci lavorano.

LA LEGGE DEI SETTE SECONDI

Quanto deve durare un video? Internet è veloce e i video devono esserlo altrettanto. Condensare tutto in un massimo di tre/ quattro minuti è fondamentale, per questo che consiglio di preparare uno scritto prima di girare, per focalizzare i messaggi e la loro efficacia. Attenzione poi alla “legge dei sette secondi”: i primi due/tre secondi di un video vengono visti da tutti. Arrivare a sette è più arduo di quel che si immagini. Superata la muraglia, però, la possibilità che venga visto fino alla fine diventa elevatissima.

ORIZZONTALE O VERTICALE?

Come effettuare le inquadrature? In orizzontale o in verticale? Ogni social ha la sua regola. Per Snapchat e Instagram stories le riprese devono essere verticali mentre Facebook e Youtube prediligono l’inquadratura orizzontale. Inoltre, per questioni di fisica lo sguardo tende a cadere perlopiù sulla destra o sulla sinistra dello schermo anziché nella parte centrale.

SENZA VIDEO

LA RETE CI FA SCOMPARIRE QUANTO MI COSTI?

Per cominciare, e magari fare qualche prova, non è necessario acquistare attrezzature milionarie: uno smartphone di buona qualità può essere sufficiente. L’importante è che l’immagine sia stabile e, con uno smartphone, non sempre è possibile. Sul mercato è però facile trovare apparecchi relativamente poco costosi (200-300 euro) che possono soccorrere la mano tremolante. Anche una buona Reflex può essere lo strumento giusto per lo sbarco visual.

MEGLIO UNICI CHE BRUTTE COPIE

QUANDO LA CRITICA FA VENDERE

Il video è in Rete, la soddisfazione è alle stelle ma che succede se arriva qualche critica? Nulla, la critica sui social non è sempre negativa e aumenta i feed. Non è detto che far discutere, dividere e far parlare di sé, sia un male per il brand.

Oggi sono di tendenza i video emozionali e tutti credono che solo con quelli potranno colpire pubblico e clienti. Non è così: un video emozionale può non essere adatto a tutte le aziende e, sul mercato, rischia di essere la brutta copia d’un video altrui. Meglio sperimentare, cercare strade alternative e lasciarsi guidare dai consigli di amici, consulenti o professionisti del settore.


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