Imprese e territorio

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Bimestrale di informazione di Confartigianato Imprese Varese

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TRA LE FORME, SCEGLI LA PIÙ ELEMENTARE TRA LE PAROLE, SCEGLI LA PIÙ BREVE

semplice(mente) 2018


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EDITORIALE

MAURO COLOMBO

Direttore generale di Confartigianato Imprese Varese

NEL TEMPO DELLE STORIES BREVI

i fotogrammi racconteranno chi ha saputo cambiare

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alla fotografia alle stories: non è più nemmeno un film il nostro tempo. È nella rapidità in cui tutto nasce, e spesso muore, il paradigma dello sfarinamento di certezze e punti fermi che la politica, gli assetti internazionali, l’economia e la finanza hanno consegnato al secondo decennio di questo secolo. La rivoluzione 4.0 è la più veloce mai vista. La comunicazione digitale è la più fluida mai conosciuta. Il tempo è il più breve mai vissuto. Ed è in questo tempo che la piccola e media impresa è rimasta, strutturalmente, elemento di stabilità e continuità nel rinnovamento. Quel 99,4% di Pmi che costituisce la spina dorsale economica del Paese è lì a testimoniare che è sulle fondamenta che si dovrà costruire il futuro, ed è nella continuità che si potrà pianificare la vera innovazione. Paradosso per un Paese che di quelle piccole e medie imprese poco sa e meno ancora conosce. Cosa sono

editoriale

diventate? Con chi si misurano, di cosa hanno bisogno? In quali politiche si riconoscono e in quali scelte si identificano? Ma, soprattutto, in quali territori sono radicate? Quali legami mantengono e quali scollamenti avvertono? Nel tempo delle stories, le piccole e medie imprese sono fotogrammi: avanzano, cambiano, ma restano dove sono nate, cresciute e radicate. Strette tra la velocità del presente e l’indolenza di una macchina burocratica non pienamente capace di comprenderle e assecondarne lo sviluppo in un mercato libero e sano. La ricchezza di un territorio, la sua attrattività, la sua capacità d’assecondare le nuove sfide non potrà che poggiare, sempre di più, sulla solidità della piccola e media impresa artigiana e industriale, sulla tradizione di cui è portatrice e sull’innovazione di cui si sta facendo portavoce anche su scala internazionale. Dovranno, territori

e Paese, sapersi meritare questo valore. Dovranno rispondere, a carte scoperte, a richieste di semplificazione, rapidità, certezza delle norme e dei tempi della giustizia. Alle imprese, il compito – non semplice e sfidante – di restare valore vero, diffuso e pervasivo. Formazione, riqualificazione, innovazione, welfare, sicurezza, solidità, internazionalizzazione, valorizzazione delle nuove e giovani risorse: è investendo su sé stessa, e sul proprio capitale umano, che la piccola e media impresa potrà crescere in autorevolezza, forza, voce e riconoscibilità. Strappandosi di dosso polverosi stereotipi. Le stories porteranno con sé molto di questo tempo, divorandosi nelle 24 ore di un’esistenza breve, ricordi e persone. I fotogrammi resteranno a testimonianza di impegno e coraggio, ma dovranno raccontare la storia lunga di chi – per rimanere punto fermo in un tempo sfarinato – ha saputo anche cambiare.

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sommario

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Gli approfondimenti – anche video – ai temi trattati nel bimestrale si possono trovare sul sito

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NEL TEMPO DELLE STORIES BREVI i fotogrammi racconteranno chi ha saputo cambiare

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Editoriale

«VUOLE SAPERE SE PREGO?» Quando la semplicità è l'essenza di una parola

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L’analisi

FENOMENOLOGIA MONTALBANO ECONOMICS Un motore semplice per le Pmi

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Imprese e territori

LA PMI-ITALIA LO SCACCHIERE MONDO E un’isola felice chiamata Ue

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Confini e scenari

Tutti gli aggiornamenti sono inoltre disponibili sui nostri social

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IL TITANIC DEL CAPITALISMO cambierà rotta con le regole

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Scenari e prospettive

L’ALTRO CREDITO TRA REALTÀ, illusione e rivoluzione

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Rebus investimenti

NON C’È "PIR" PER LE PICCOLE Parola d’ordine: P2P lending

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Finanza alternativa

DEBITO D’ALTA QUOTA La soluzione è in famiglia

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L’economia di casa

LE MONTAGNE RUSSE INCOGNITA-BITCOIN Risorsa o grande bluff?

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L’economia senza euro

SMALL O BIG DATA? La differenza per il cliente è la variabile della qualità

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Parliamoci chiaro

HUMAN-CENTERED DATA L'informazione è un "service"

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Parliamoci chiaro

MRS STEM, GLI STEREOTIPI E LA LEGGE DEL MERCATO L’alta tecnologia è (anche) donna

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Cambiamo formazione

CHI VA PIANO DIVENTA LEADER L'over 30 fa la startup col botto

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Nuove imprese

RACCONTIAMO L’IMMENSO Raccontiamo noi stessi

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Esserci è essere

EXPO DIVENTA LA CITTÀ DEL FUTURO Innovazione modello open source

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Cosa cambia intorno a noi

QUALITÀ, RETE, COLLABORAZIONE E il prossimo passo è la semplificazione

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Fattore attrattività

PROSSIMA FERMATA TRENO Il business fa la cura del ferro

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Vicini a confronto

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Tra due spiegazioni, scegli la più chiara. Tra due forme, la più elementare. Tra due parole, la più breve. Eugenio d’Ors

riflettiamoci su

La nostra vita è un’opera d’arte. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo porci sfide difficili, scegliere obiettivi oltre la nostra portata e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare Zygmunt Bauman Ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare Josè Saramago

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Semplicemente anche un fatto da niente attraversato dalla corrente nello spazio e nel tempo nasce piccolo infinitamente poi diventa troppo importante Bluvertigo

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TRA LE FORME, SCEGLI LA PIÙ ELEMENTARE TRA LE PAROLE, SCEGLI LA PIÙ BREVE

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Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese Tel. 0332 256111 Fax 0332 256200 www.asarva.org asarva@asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AGLI ASSOCIATI ED ENTI VARI

Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile Mauro Colombo Presidente Davide Galli Caporedattore Davide Ielmini Impaginazione Geo Editoriale www.geoeditoriale.it

Interventi e contributi: A. Aliverti, N. Antonello, M. Bardazzi, T. Bassani, L. Becchetti, V. Bolis, R. T. Colonel, C. Cottarelli, E. Ferrari, M. Giorgino, D. Ielmini, M. Maffioli, D. Mammano, M. Mancino, E. Marletta, M. Michilli, V. E. Parsi, P. Provenzano, R. Puglisi, C. Ratti, O. Robotti, F. Rocchetti, D. Sciuto, M. Seminerio

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SEMPLICEMENTE 2018 L’Analisi

«VUOLE SAPERE SE PREGO?» Quando la semplicità è l'essenza di una parola

MICHELE MANCINO

vicedirettore VareseNews

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e c’è un’immagine che più di altre sintetizza con efficacia la postmodernità, questa è la società liquida, definizione elaborata dal sociologo Zygmunt Bauman, recentemente scomparso. La definizione di liquidità del nostro vivere quotidiano è un’espressione che ha colonizzato in modo democratico il vocabolario. Piace ai filosofi e agli operai, agli imprenditori e alle casalinghe. Persino il calcio è liquido, a sentire i commentatori sportivi che in quella definizione ci sguazzano con agio, senza sudditanze intellettuali. Il successo di questa definizione è dovuto alla sua semplicità e immediatezza. La liquidità è

un’immagine che riusciamo a trasformare subito in sensazione anche se ne perdiamo altrettanto facilmente i confini. Qualche

anno fa al Festival della Filosofia di Modena è intervenuto l’uomo che aveva bollato in modo indelebile questa epoca. Alla soglia dei novant’anni, Bauman rispondeva in modo lucido alle domande che un pubblico degno di una rock star gli poneva su qualsiasi argomento. Mentre autografava i suoi libri venne avvicinato da un ragazzo che gli chiese:

«Professore vorrei sapere qual è il suo rapporto con il trascendente e quanto condiziona il suo laicismo». Il sociologo restò in silenzio per qualche istante e con fare serio replicò: «Vuole sapere se prego?». In un mondo senza punti di riferimento, l’invito esplicito di Bauman è di ricercare la semplicità attraverso l’essenzialità delle parole. Questa sua grande capacità di sintesi non era solo il frutto di una sapienza maturata in una vita di studio, insegnamento e ricerca, ma anche il riflesso dell'accettazione di un'identità complessa e dai confini liquidi. Bauman era nato in Polonia, aveva origini ebraiche, visse in Israele e alla fine scelse l’Inghilterra come patria d’elezione, trovando nell’Europa contemporanea

Zygmunt Bauman

il luogo per condividere gli ideali universali di libertà, giustizia e democrazia.

Non perdere le parole quando tutto è incerto, effimero e poco definito, richiede una chiarezza di fondo, rispetto alla propria esistenza e alle ragioni del proprio agire. E l’artigiano che deve

spiegare cosa lo spinga a produrre in un mondo globalizzato e individualista, spesso si affida a misurate parole, dove il tradizionale saper fare si sovrappone al dirompente gesto creativo. Una tensione continua tra l’immaginato e il realizzato che Bauman sintetizza così: «La nostra vita è un’opera d’arte. Per viverla come esige l’arte della vita dobbiamo porci sfide difficili, scegliere obiettivi oltre la nostra portata e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare».

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SEMPLICEMENTE 2018 Imprese e territori

La risorsa chiave non è la singola impresa ma l’insieme che rende un territorio attrattivo con effetti positivi a cascata su tutti gli attori, dalle imprese ai cittadini

Piazza Risorgimento Gallarate

San Giovanni Busto Arsizio

FENOMENOLOGIA MONTALBANO ECONOMICS Un motore semplice per le Pmi Nell’era dell'industria 4.0 è ancora possibile parlare di semplicità? Leonardo Becchetti, docente di Economia politica e autore del blog “La felicità sostenibile” non ha dubbi: «La ricca semplicità dei territori è il valore che il mondo c’invidia e che può fare la differenza» PAOLA PROVENZANO giornalista

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i fronte alla sfida dell’industria 4.0 e al massiccio ruolo delle tecnologie c’è ancora spazio per una visione che mette al centro la semplicità e la declina in diversi modi. Ce lo ricorda Leonardo Becchetti, economista, docente di Economia politica all'università di Roma Tor Vergata e autore (su Repubblica.it) del blog “La felicità sostenibile”, in cui si affrontano temi di finanza etica ed economia civile e dove si declina il peso economico non esclusivamente a colpi di Pil, ma facendo la tara con il bene comune prodotto per la collettività.

L’Italia dei tre motori

Se domandiamo quali siano i fattori che permettono di vincere la sfida globale, Becchetti ci invita a considerare la ricca semplicità dei territori: un insieme di arte, storia e cultura, biodiversità naturale ed enogastronomica che rappresenta il fattore di attrazione delle nostre imprese per il resto del mondo. Lui in questo caso parla di “Montalbano Economics” per spiegare uno dei tre motori dell’economia italiana

Leonardo Becchetti


SEMPLICEMENTE 2018 Imprese e territori

In alto Corso Matteotti, Varese A sinistra: canottaggio sul lago Varese; a destra Palazzo Broletto (Gallarate)

emersi durante il progetto «Cercatori di lavOro» che ha portato all’individuazione di oltre 400 esperienze positive in tutta Italia. «L’idea di fondo che è emersa – spiega il docente - è che l’Italia ha tre polmoni, ovvero tre motori. Il primo motore è quello della manifattura di successo, quella tecnologica e di qualità che attira anche lavoro che però non sempre si riesce a trovare». Il secondo è il settore socio-assistenziale che diventa sempre più importante e rappresenta una quota anche molto importante del Pil. Da ultimo c’è quello che io chiamo la “Montalbano Economics”, quell’insieme di arte, storia e cultura, biodiversità naturale ed enogastronomica che rappresenta il fattore di attrazione dei nostri territori nel resto del mondo». Un ingrediente semplice e genuino, ma che è tuttavia ricchissimo per la capacità di generare risorse per tutti.

Relazioni e ricerca di senso

Tra i fattori che permettono di vincere la sfida globale ai tempi dei big data, Becchetti mette anche altri aspetti. «La piccola impresa – dice l’economista – ha

sicuramente uno svantaggio per quanto riguarda il fattore del costo del lavoro, ma a ciò ha risposto creando nicchie di alta qualità tecnologica e rispondendo alla competizione globale puntando su unicità e specificità legate proprio ai territori di appartenenza». Sui territori viene fuori il peso delle relazioni, delle reti, della prossimità tra imprese che fa emergere la trama che racconta l’economia di casa nostra: la risorsa chiave insomma non è la singola impresa, ma quell’insieme locale che rende un territorio attrattivo con effetti positivi a cascata su tutti gli attori, a partire dalle imprese e fino a tutti i cittadini. E di fronte alla complessità dei nostri giorni, è anche questo un modo per richiamare la semplicità che sta alla base dell’agire come imprenditore, che non cerca solo il profitto per sé stesso.

Condivisione e progetto globale

«Oggi la tecnologia è ciò che ci permette di reinventare il modo di produrre rispetto a limiti spazio temporali – osserva il docente universitario - ma quello che permette di affrontare la concorrenza è l’unicità dei prodotti e la

Quello che permette di affrontare la concorrenza è l’unicità dei prodotti e la centralità del fattore umano, che viene sempre prima di qualsiasi tecnologia centralità del fattore umano, che viene sempre prima di qualsiasi tecnologia». «L’uomo – ricorda Becchetti - è prima di tutto cercatore di senso e lo è come imprenditore e come lavoratore allo stesso modo: per questo un passaggio fondamentale è la condivisione degli obiettivi e la partecipazione rispetto a un progetto più globale». Un modo per guardare al di là dei cancelli dell’impresa che ricorda quello che le piccole imprese hanno sempre fatto sul territorio, intessendo legami forti con i dipendenti e la comunità locale. Una ricetta ancora una volta semplice, che resiste anche in uno scenario complesso e si può affrontare senza perdere di vista da dove si viene.

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SEMPLICEMENTE 2018 Confini e scenari

LA PMI-ITALIA LO SCACCHIERE MONDO E un’isola felice chiamata Ue La prevedibile incertezza del commercio internazionale nell’analisi di Francesco Rocchetti, analista dell’Ispi: «Sarà l’anno della Cina. Trump? Il rischio è più nei dazi che nella tassazione». L'obiettivo è trovare inaspettate certezze in un clima di prevedibile incertezza

ANDREA ALIVERTI giornalista

L’

Italia sullo scacchiere geopolitico mondiale è come una piccola impresa nel mercato globale. Poche certezze, ma anche nuove opportunità. Il 2018? Sarà ancora l’anno della Cina». Parola di Francesco Rocchetti, analista dell’Ispi che si occupa di Geoeconomia e di previsioni per le imprese, soprattutto legate al commercio internazionale. «Nel corso di quest'anno il settore vivrà una fase che è possibile definire di “prevedibile incertezza”, nel corso del quale le aziende e gli operatori economici scommetteranno sul riemergere di “inaspettate certezze”».

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Da Trump alla Cina

Dalla riforma fiscale di Trump alla Brexit, passando per le tensioni sul fronte asiatico, il 2018 è foriero di preoccupazioni sullo scenario geoeconomico mondiale. In particolare, per capire su quali questioni dovranno rivolgere lo sguardo i nostri imprenditori,

ci siamo rivolti all’Ispi, l’Istituto di studi di Politica internazionale, il primo “think tank” italiano nel ranking mondiale dell’università della Pennsylvania e primo al mondo, nel 2017, tra i “Think tank to watch 2018”.

Quali saranno le questioni geopolitiche che nel 2018 potranno maggiormente influenzare l'economia del nostro Paese, in particolare il tessuto imprenditoriale delle piccole, medie e micro imprese artigiane che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con il contesto internazionale? La Cina sarà la protagonista di questo 2018. È un’economia ancora in forte crescita, che è stata capace di accrescere la propria influenza nello scacchiere geopolitico, soprattutto sui Paesi in via di sviluppo. Gli Stati Uniti, penalizzati da una politica estera ancora poco definita e in grande discontinuità con il passato, stanno progressivamente perdendo il ruolo egemonico che nel corso dell’ultimo secolo sono

«Non esistono quasi più mercati sicuri nei quali investire e la competizione per i loro prodotti è divenuta globale»

«I disordini in Medio Oriente non freneranno la crescita, a meno che i conflitti non si drammatizzino, portando a un rallentamento della produzione»

Francesco Rocchetti


SEMPLICEMENTE 2018 Confini e scenari

minaccia da tempo di imporre su prodotti di fabbricazione europea.

Più che la competitività delle aziende a stelle e strisce c’è da temere il protezionismo contro le esportazioni Made in Ue?

riusciti ad esercitare. Di fronte a questo scenario mutevole, i Paesi più piccoli, come spesso anche le imprese, si sentono smarriti. I Paesi perché i sistemi di alleanze validi per decenni oggi sono entrati in crisi, le imprese perché non esistono quasi più mercati sicuri nei quali investire e la competizione per i loro prodotti è divenuta ormai globale.

C’è da preoccuparsi?

Nel corso del 2018 come del resto negli ultimi anni, nonostante queste incertezze, l’Unione europea, forte del suo mercato interno di quasi 500 milioni di consumatori, rimane un’isola sicura e felice per chi vuole esportare e fare impresa. Inoltre gli accordi commerciali stretti negli ultimi anni (Corea del Sud, Vietnam, Canada, Giappone) hanno aperto nuove opportunità in mercati sviluppati e complementari a quello europeo.

Ma quali potranno essere gli effetti della riforma fiscale varata negli Stati Uniti da Trump? Pensa che questa politica potrà effettivamente indebolire le nostre esportazioni verso gli Stati Uniti?

Per coloro che guardano agli Stati Uniti con attenzione è necessario sapere che il primo effetto della riforma Trump sarà che le aziende Usa pagheranno effettivamente meno tasse e, di conseguenza, saranno più competitive sul mercato globale. Il rischio per le nostre aziende non viene però tanto dalla riforma fiscale appena approvata, quanto dai potenziali dazi che l’amministrazione Trump

Negli ultimi anni l’export italiano verso gli Stati Uniti è aumentato giungendo nel 2016 a 36 miliardi di euro e interessando soprattutto i settori dell’automotive e dei macchinari, confermando così un’ottima performance complessiva del comparto produttivo italiano. Anche il primo semestre del 2017 conferma il momento di crescita dell’export al di là dell’Atlantico, superando addirittura i risultati francesi. In generale, la crescita economica che sta investendo gli Stati Uniti e la quasi piena occupazione che ne è derivata (oggi il tasso di disoccupazione è del 4,1%) ha portato effetti positivi per le aziende che hanno deciso di investire in quel mercato. Proprio per questo, le possibili sanzioni annunciate da Trump spaventano molto gli operatori economici.

Si diceva della Cina: l’Asia però, tra Corea e Iran, è attraversata da tensioni...

I disordini in Medio Oriente, che vive ancora un periodo di turbolenza soprattutto per lo scontro tra Arabia Saudita e Iran, non freneranno la crescita economica mondiale, a meno che i conflitti non si drammatizzino, portando a un improvviso rallentamento della produzione petrolifera e al conseguente aumento del prezzo del greggio.

E la Brexit invece?

La questione Brexit non è destinata a concludersi a breve, anzi, si protrarrà fino al 2020. Appare chiaro che i prossimi mesi saranno cruciali per capire come l’Unione europea deciderà di regolare le proprie relazioni commerciali con il Regno Unito e quindi con quali limiti e quali vantaggi le aziende continentali avranno accesso al mercato britannico dopo che la separazione verrà formalizzata.

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SEMPLICEMENTE 2018 Scenari e prospettive

U

n’economia sul Titanic, con il ceto medio che sta per sparire. Ma possiamo schivare l’iceberg di un capitalismo finanziario fine a sé stesso». Questo il momento dell’economia globale secondo Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali all'università Cattolica, autore del libro “Titanic – Il naufragio dell’ordine liberale” per le edizioni Il Mulino.

«

Il “Titanic” del suo libro nasconde le preoccupazioni di fronte alle sfide del mondo globale?

Esatto. Ma spesso la rotta su cui siamo ci viene presentata come ineluttabile, a cui bisogna adattarsi o morire, quando invece in realtà si deve cambiare per evitare il naufragio.

Perché rischiamo il naufragio?

Quando si perde la relazione necessaria tra democrazia politica ed economia di mercato, sostituendola con schemi di oligarchizzazione - chi ha ha e chi non ha non ha - questo porta inevitabilmente all’insostenibilità del modello. Eppure nei decenni che ci hanno preceduto, spesso rimpianti, il modello è stato costruito tenendo bene in mente che il sistema economico deve essere compatibile con il sistema sociale. Non vuol dire adattarsi alla società della rendita, ma perseguire il bene del maggior numero di persone, o quantomeno non esserne incompatibile. Altrimenti il paradosso è che in nome del libero mercato, che più non è libero mercato ma capitalismo finanziario fine a sé stesso, si perde la dimensione della libertà economica. In realtà quel che conta è la rendita: i soldi si fanno con i soldi, non con l’inventiva né con il lavoro.

È anche un problema etico? È una questione di consapevolezza culturale. Come si fa ad avere un sistema in cui il passato, sostanzialmente si mangia il futuro?

Non la falsa rappresentazione dello scontro tra generazioni, ma questione di principi non equi. Le persone non sono arrabbiate perché a volte si vince e a volte si perde, ma perché le regole sembrano truccate. E chi ha certe posizioni può continuare a sbagliare, impunito, mentre la gran parte degli altri non può neanche giocare. E questo non è liberale.

Si sta perdendo il concetto di fondo di un capitalismo fondato sulle regole?

Esattamente. Il mercato è l’incontro tra l’ambizione innata degli individui di arricchirsi e migliorare la propria posizione e delle regole che consentono di ordinare questa voglia in modo che sia distruzione

IL TITANIC DEL CAPITALISMO cambierà rotta con le regole «Siamo tornati al livello di distribuzione della ricchezza, della rendita, del reddito e delle opportunità che avevamo all’inizio del ‘900, in Europa e negli Stati Uniti». L’analisi (negativa) di Vittorio Emanuele Parsi. E una via d’uscita al naufragio è rappresentata da «principi e regole che diano ordine»

«Non adattiamoci alla società della rendita, o, in nome di un mercato che ormai è capitalismo fine a sé stesso, si perderà la dimensione della libertà economica»


SEMPLICEMENTE 2018 Scenari e prospettive

un regime di concessione, come in Cina, Russia e nei Paesi del Golfo, dove chi governa possiede le risorse.

C’è una via d’uscita?

«Sta emergendo un capitalismo in cui la proprietà si concentra ed è ipertutelata o può essere sostituita da un regime di concessione, come in Cina» creatrice, come diceva Schumpeter. Ma se guardiamo i dati pubblicati al World Economic Forum di Davos, anche l’anno scorso c’è stato un ulteriore accrescimento della ricchezza dell’1% più ricco. Siamo tornati al livello di distribuzione della ricchezza, della rendita, del reddito e persino delle opportunità, che avevamo all’inizio del ‘900, in Europa e negli Stati Uniti. Vuol dire che ci siamo “fumati” il ‘900, con tutto ciò che ha prodotto, non solo le guerre ma anche una spinta in avanti dell’uguaglianza, della democrazia e il miglioramento radicale delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, tra cui anche gli artigiani. Perché molti imprenditori di oggi sono figli e nipoti di operai specializzati che hanno potuto diventare quello che sono diventati solo perché il ‘900 ha dato una spinta in quella direzione. E un secolo fa, di fronte ad analoghe condizioni, nacquero il comunismo e il fascismo: se non stiamo attenti, rigenereremo questa situazione.

Spariranno il ceto medio e la piccola impresa che ha creato benessere e ricchezza diffusa?

Per molti aspetti è già sparito per la trasformazione dell’economia. Se l’economia è in gran parte finanza non servono i consumatori, perché la

finanza di oggi è come quegli assegni di una volta, con fogli e fogli di girate: sotto non c’erano soldi, ma l’importante è che continuassero a girare. Per arricchirsi, i finanzieri di oggi non hanno bisogno che i ceti popolari guadagnino per comprare i loro prodotti, perché non c’è niente da comprare e non ci sono più i prodotti.

Nel suo libro individua quattro iceberg che potrebbero far affondare il “Titanic”: quale il più pericoloso e quale si può ancora schivare? Nell’immediato, il più insidioso è rappresentato dal declino e dalla confusione di questo neo-egoismo e sovranismo americano molto rampante, associato all’emergere delle potenze autoritarie, come Russia e Cina. Pericoloso perché, vediamo Corea, Medio Oriente e Ucraina, può provocare tensioni che possono scappare di mano diventando devastanti. Quella più subdola, ma su cui possiamo intervenire, è la torsione del rapporto tra economia di mercato e democrazia politica. Sta emergendo un capitalismo in cui la proprietà o si concentra ed è ipertutelata, come negli Usa e in Europa, oppure può essere sostituita da

Dovremmo ricordarci che noi siamo l’Europa. A patto di smetterla di pensare che c’è crescita o c’è solidarietà, e che l’innovazione debba essere maggiormente remunerativa per chi ci mette i soldi piuttosto che pensare a una remunerazione ripartita tra chi porta capitale e chi porta lavoro. Impossibile da attuare? Ricordo che nell’Inghilterra vittoriana fu vietato il lavoro dei bambini sotto i 12 anni, lo sfruttamento delle donne e l’imbarbarimento della classe operaia, non perché ci fu qualcosa che rese antieconomiche queste pratiche, ma semplicemente nel nome di principi di giustizia. // Andrea Aliverti

Il libro "Il Titanic. Il naufragio dell'ordine liberale" di Vittorio Emanuele Parsi

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SEMPLICEMENTE 2018 Rebus investimenti

«Negli altri Paesi si coglie la congiuntura per risanare e fare riforme strutturali, in Italia si dice “andremo in Europa a battere i pugni per fare più deficit”»

L’ALTRO CREDITO TRA REALTÀ,

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redito, innovazione, Industria 4.0: ma sulle Pmi e sulla loro capacità di investimento pende la spada di Damocle di una situazione-Paese che potrebbe tornare a traballare. Ne parliamo con Mario Seminerio, investment manager e protagonista del talk “I conti della belva” su Radio24.

Come vede la situazione del credito per le Pmi?

Mi pare che in questo momento ci sia la tendenza da parte delle banche di liberarsi dei crediti in sofferenza, e questo in astratto dovrebbe liberare capacità di credito. Però, se andiamo a vedere le statistiche più aggiornate, si vede che il credito tende ad aumentare in maniera piuttosto visibile per le grandi imprese, mentre per le piccole e medie c’è ancora una situazione di stagnazione nell’erogazione del credito. Quindi bisogna capire se questa situazione deriva dal fatto che le Pmi chiedono meno fondi in prestito alle banche perché hanno migliorato la gestione dei loro flussi di autofinanziamento

Mario Seminerio, investment manager e voce de “I conti della belva” mette in guardia banche, tecnofinanza e imprese: «I nuovi intermediari del Fintech devono raggiungere gli imprenditori e far capire loro l’innovazione disponibile» interni, se quindi si sono efficientate, oppure se persiste, in generale, una condizione di restrizione e di standard creditizi abbastanza restrittivi nei confronti delle Pmi. È una domanda ancora senza risposta. Nel frattempo è arrivata Industria 4.0, che dovrebbe aiutare le Pmi, non solo ma soprattutto loro, ad un salto tecnologico, ad operare investimenti di innovazione di prodotto e di processo, quindi bisogna capire da dove arrivano quei fondi.

alla banca e a forme di credito tradizionale, e molto dipenderà dalla capacità dei nuovi intermediari del Fintech, ad esempio, di raggiungere gli imprenditori e far capire loro quella che è l’innovazione disponibile. È un passaggio culturale molto delicato, la cui gestione potrebbe determinare effetti favorevoli ma anche situazioni di disillusione abbastanza profonda.

Alternative al credito bancario per i piccoli ce ne sono? Il Fintech?

I dati sull’investimento italiano sono inequivocabilmente migliorati a livello aggregato: siamo sopra la tendenza storica ed è visibile un’accelerazione. Naturalmente non basta l’incentivo fiscale, che a volte determina disallocazione di risorse, nel senso che ci si fionda a comprare qualcosa che è fiscalmente agevolato salvo

Resta da capire come si sviluppa e in quali direzioni. Se parliamo di normali operazioni di smobilizzo fatture stanno nascendo numerose piattaforme online. In generale, la piccola e media impresa deve fare qualche sforzo di innovazione: di solito tende a restare legata

Vede incognite anche sul fronte di Industria 4.0?


SEMPLICEMENTE 2018 Rebus investimenti

CHI È MARIO SEMINERIO Nato a Milano, laureato con il massimo dei voti all'università Bocconi con una tesi sul cambiamento culturale nelle organizzazioni complesse. Dopo una breve esperienza al Centro ricerche sull’Organizzazione aziendale dell’università Bocconi, ha lavorato per istituzioni creditizie italiane e internazionali. È stato per oltre un decennio "portfolio manager" di fondi comuni d’investimento mobiliare e analista macroeconomico per una primaria Società di gestione del risparmio italiana, ed è attualmente "portfolio advisor". Ha frequentato corsi di specializzazione in finanza internazionalen e collaborato con l’Istituto "Bruno Leoni" realizzando papers sulla liberalizzazione dei mercati, sul confronto tra sistemi economici europei e sul sistema fiscale italiano. Giornalista pubblicista ed editorialista, co-conduce “I conti della belva” su Radio24 insieme al giornalista Oscar Giannino.

ILLUSIONE E RIVOLUZIONE poi scoprire che magari non si ha il personale né sufficienti competenze per gestire i processi, con rischi di malfunzionamenti all’interno dell’organizzazione.

prevedibile per il mercato interno, tanto che quando arriva il grande produttore o player online spiazza produzioni consolidate con i suoi listini e fa soccombere le aziende.

Nel mondo delle Pmi artigiane, intravede un divario tra chi è proiettato all’innovazione e chi resta ancorato alla tradizione?

Lei ha lanciato un monito a inizio anno: "C’è sempre il rischio che vada molto peggio, prima di andare meglio. In Italia, questo rischio è una certezza”. Cosa ci aspetta?

È importante valutare quanto sia la propensione all’innovazione dell’imprenditore. L’impresa è un organismo vivente, ha un ciclo di vita, in alcuni casi può essere colta da mortalità precoce. Ci sono imprese che operano con un forte orientamento all’esportazione e all’internazionalizzazione, che sono “costrette” ad innovare per riuscire a restare inserite nelle catene di fornitura, così come altre che lavorano in maniera piuttosto statica e

I partiti, senza che nessuno si distingua in maniera abbastanza visibile, stanno proponendo misure che sono autentiche assurdità. Quasi tutti orientati su più spesa pubblica e più deficit. Mentre negli altri Paesi si coglie la congiuntura favorevole, la migliore da 10 anni a questa parte, per risanare i conti pubblici, ridurre debito e deficit, ma anche per promuovere riforme strutturali, in Italia, pur

«Per adesso la congiuntura regge ma sono sufficienti un peggioramento, tensioni internazionali, un eccessivo apprezzamento del cambio dell’euro, per far sì che manchi poco a sentire grida di dolore»

con differenti sfumature, il messaggio pressoché univoco che arriva è che “andremo in Europa a battere i pugni per poter fare più deficit”, una frase che mi provoca l’orticaria. Perché in una fase espansiva significa porre le basi per disastri quando la congiuntura peggiorerà. È una politica prociclica che di solito produce danni che potrebbero essere molto gravi. E se i messaggi sono così desolanti avremo un risveglio duro. Per adesso la congiuntura regge ma è sufficiente un peggioramento, tensioni internazionali, un eccessivo apprezzamento del cambio dell’euro, per far sì che manchi poco a sentire grida di dolore. //Andrea Aliverti

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SEMPLICEMENTE 2018 Finanza alternativa

NON C’È PIR PER LE PICCOLE Parola d’ordine: P2P lending Piani individuali di risparmio? Per molti ma non certo per tutti. Secondo Marco Giorgino, docente di Finanza aziendale al Politecnico di Milano, non sono l’unico modo di svincolarsi dal banca-centrismo. Avanzano crowdfunding e peer-to-peer, ma attenzione ai tassi

P Marco Giorgino

Serve una progettualità che susciti l’interesse di chi va a investire sulle piattaforme: il risparmiatore non vede l’impresa, ma solo la descrizione del progetto

mi troppo “bancocentriche”: Pir “off limits” per le imprese artigiane, le alternative possibili sono le piattaforme di crowdfunding e “peer-to-peer lending”. «Utili per progetti di investimento che richiedono capitale straordinario. Ma occhio ai tassi». Parola di Marco Giorgino, docente di Finanza aziendale, Corporate e investment banking e risk management al Politecnico di Milano. In tema di “finanza alternativa” gli occhi sono tutti puntati sui Piani individuali di risparmio: con più di 10 miliardi di raccolta nel 2017 e una stima fino a 70 miliardi nel quinquennio 2017-2021, di cui, per struttura stessa dei Pir, almeno il 21% da destinare a Pmi nazionali, rappresentano «un grande potenziale che va trattato con attenzione e responsabilità», come ha scritto di recente lo stesso Giorgino.

Ma rientrano in questo discorso anche le Pmi?

È complicato, perché la forma giuridica è quella della Società per azioni e le dimensioni dell’arco da qualche milione di euro in su. Le imprese classificate come artigiane non sono contemplate dalla normativa sui Pir.

Un peccato, perché è il fenomeno del momento... La normativa potrebbe evolvere,

e di certo lo sviluppo di queste forme di investimento crea indotto che può riversarsi anche sulle Pmi dell’artigianato. Ma nell’ultima legge di Stabilità l’estensione dei Pir è stata limitata al settore immobiliare.

Eppure il motivo del successo dei Pir, la necessità di liberarsi dalla dipendenza dalla banca, vale a prescindere dalle soglie dimensionali. Quali soluzioni alternative al credito bancario?

Oltre all’autofinanziamento, soldi che ci mette l’imprenditore in prima persona, non c’è una strumentazione ad hoc. A meno di rivolgersi a forme innovative come il crowdfunding o il peer-to-peer lending, che possono essere una reale alternativa: in presenza di un progetto di investimento che richiede capitale straordinario, e quindi genera fabbisogno straordinario, le piattaforme di crowdfunding o P2P lending possono essere una soluzione. E si stanno diffondendo: passano anche progetti di dimensioni molto più contenute, da 200 o 300mila euro, con una barriera all’ingresso praticamente nulla dal punto di vista dimensionale.

Come cogliere queste opportunità?

Il punto è saper proporre una progettualità in grado di incontrare l’interesse di chi investe su queste piattaforme. Il risparmiatoreinvestitore non vede fisicamente l’impresa, ma si basa sulla descrizione


SEMPLICEMENTE 2018 Finanza alternativa

I NUMERI

Se un artigiano ha credito in banca, avrà un tasso competitivo, se non ha credito e va sulla piattaforma sconta maggiore incertezza perché l’investitore vuole più di quello di cui si accontenta la banca del progetto per cui i soldi vengono ricercati, e la piattaforma dovrebbe fare un lavoro di filtro e selezione.

Un’occasione più abbordabile per i “piccoli”? Nell’attuale fase di ripresa persiste il calo

del credito alle imprese di minore dimensione. Nonostante la presenza di condizioni favorevoli, come il basso livello dei tassi di interesse e la crescita economica trainata dall’aumento degli investimenti, la situazione di ristagno del credito non tende a smuoversi: a novembre 2017 i prestiti alle imprese sono cresciuti dello 0,3%, ma si tratta di un dato che combina l’aumento dello 0,6% dei prestiti alle imprese medio-grandi con il calo dell’1% netto del credito erogato alle piccole imprese fino a 20 addetti. Una tendenza più accentuata nell’artigianato, che persiste anche per le microimprese sane.

PEGGIO NEL CENTRO NORD

I “tempi che furono” sono finiti, le banche prestano meno, dopodiché meglio organizzarsi e attrezzarsi per avere soluzioni alternative. Se faccio l’esempio della necessità di acquistare un nuovo macchinario, anziché finanziarlo autonomamente può essere utile immaginare strade alternative. Sempre tenendo d’occhio i tassi.

Cosa intende dire?

Se un artigiano ha credito in banca avrà un tasso competitivo. Se non ha credito e va sulla piattaforma sconta un’incertezza maggiore, perché l’investitore vuole avere ben

più di quello che si accontenta di avere la banca.

Anche la rete e l’aggregazione tra imprese può essere la chiave per accedere a strumenti più complessi come i Pir?

Sarebbe auspicabile. Le nostre imprese sono piccolissime e quando aumenta la scala iniziano a fare fatica. Ma è un aspetto più di tipo organizzativo e manageriale che non finanziario. La piccola dimensione in linea di massima penalizza sotto il profilo finanziario, ma dipende sempre dal contesto e dal tipo di posizionamento che l’azienda vuole avere. È penalizzante rispetto alla strategia di andare all’estero e di essere più visibili sui mercati, meno per chi sta nella sua nicchia e fa un prodotto di qualità su un mercato territoriale.

Le condizioni del credito per le piccole imprese sono peggiori nel Centro-Nord, dove i prestiti scendono dell’1,5% (in contrapposizione ad un +0,7% per le imprese medio-grandi), mentre al Sud le erogazioni di credito alle imprese con meno di 20 addetti rimangono in territorio positivo con un aumento dello 0,8% (qui invece a registrare il "segno meno", con un calo dello 0,2%, sono le medie e le grandi imprese).

VARESE IN LINEA Che il trend sia preoccupante lo confermano i raffronti anno su anno. A ottobre 2017 la dinamica dei finanziamenti alle imprese sotto i 20 addetti, secondo i dati dell’Osservatorio Mpi di Confartigianato Lombardia, ha segnato una variazione percentuale negativa di ben il 4,5% rispetto a dodici mesi prima. In Lombardia il “segno meno” è stato ancor più pesante: meno 4,7%. In linea con il dato nazionale invece la provincia di Varese (meno 4,5%), che risulta essere la quarta meno colpita dal calo dei finanziamenti, in una graduatoria che vede su un lato Milano stabile rispetto all’anno precedente, e su quello opposto Cremona e Bergamo che fanno registrare numeri choc (rispettivamente -9,1% e -8%).

PEGGIO L’ARTIGIANATO L’Osservatorio Mpi mostra una situazione ancor più allarmante per le imprese dell’artigianato. La dinamica dei finanziamenti concessi alle imprese artigiane, al lordo delle sofferenze, fa registrare - secondo un’elaborazione di dati Artigiancassa su fonte Banca d’Italia - una variazione percentuale negativa del 5,8% a giugno del 2017, rispetto a dodici mesi prima. Si tratta di un dato nazionale che però pareggia esattamente il dato della Lombardia. E se la dinamica dei finanziamenti frena soprattutto nelle regioni del Centro-Nord (Marche, Veneto e Friuli-Venezia Giulia guidano la “classifica” in territorio negativo), scorporando il dato nelle province lombarde si nota come la frenata sia lieve solo a Milano (-2,1%), mentre risulta essere sopra la media regionale e nazionale in provincia di Varese (-6,5%).

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SEMPLICEMENTE 2018 L’economia di casa

DEBITO D’ALTA QUOTA La soluzione è in famiglia Il suo nome è legato a doppio filo all’operazione "spending review" e, da allora, Carlo Cottarelli non smette di puntare sui conti dello Stato per far ripartire l’economia «Esistono diverse soluzioni ma solo una può funzionare davvero: non spendere»

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i solito si ha paura che i politici non mantengano le promesse elettorali, io invece ho paura che le mantengano...». Carlo Cottarelli, già commissario di governo per la “spending review” e attualmente direttore dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani da lui fondato all’università Cattolica di Milano, conclude così il suo intervento sul debito pubblico alla Villa Visconti Borromeo Arese Litta di Lainate. È ancora un problema che pende sulla testa dell’economia italiana, quello di un debito che continua a veleggiare oltre il 130% del Pil. "Tanto più se si considera che lo scudo del Quantitative easing, che ci aiuta tenendo bassi i tassi d’interesse, non durerà per sempre - ammette Cottarelli soprattutto quando alla Bce si insedierà qualcuno dal Nord Europa al posto di Mario Draghi. Ci saranno politiche meno favorevoli per i titoli di Stato, creando problemi per i conti pubblici. Ecco perché bisogna approfittare per riparare il tetto prima che cominci a piovere, intervenendo per mettere in sicurezza il debito prima che i tassi tornino a salire».

«Il nostro spread arrivò a 575 punti base perché gli investitori non si fidavano. Il rischio è di ricaderci: e se succede, per le imprese è difficile prendere a prestito il denaro, con il risultato che l'economia si blocca»

«

C’è il rischio di tornare sulle “montagne russe” dello spread?

Arrivò a un picco di 575 punti base perché gli investitori non si fidavano. Ce la siamo cavata allora ma il rischio è di ricaderci: e se succede, non solo per lo Stato diventa difficile prendere a prestito i soldi per ripagare il debito, ma anche per le imprese diventa difficile prendere a prestito il denaro, con il risultato che l'economia si blocca. Teniamo conto

Perché è così difficile trovare una soluzione? Carlo Cottarelli

che si trattò di una crisi non dovuta all'austerità, semmai a una mancanza di un po' di austerità negli anni precedenti che ci ha esposto ad attacchi speculativi.

Il debito pubblico rischia di compromettere la ripresa?

Il debito elevato rallenta la crescita soprattutto perché genera più incertezza e meno investimenti, visto che gli investitori si rifugiano in Paesi tranquilli dove non ci si aspettano crisi a breve termine. Di solito poi, quando c'è crisi, si spende di più per sostenere l’economia ma con un debito già elevato l’Italia non si è potuta permettere di aumentare il debito nei momenti di maggiore difficoltà. Abbiamo troppo debito: basti pensare che già quando è sopra l’80-90% del Pil genera effetti negativi.

Ridurre il debito con strumenti ortodossi vuol dire ridurre il deficit, aumentando le tasse o tagliando la spesa pubblica, il che non fa vincere elezioni ma nemmeno fa bene all'economia perché come effetto immediato potrebbe causare un rallentamento dell’economia dato che si tolgono soldi dalle tasche dei cittadini.

Che fare dunque?

Le scorciatoie non sono brillanti, come dichiarare bancarotta - che sarebbe una tassa sugli italiani - o come l’uscita dall'euro, perché per rendere credibile la rinata “lira” dovremmo stamparne poca ad evitare che diventi carta straccia e attuare politiche restrittive. Mutualizzare il debito in Europa è improponibile: tedeschi e finlandesi non si accollerebbero il peso del nostro debito, del resto nemmeno negli Usa esiste questo tipo di solidarietà, il governo federale non garantisce il debito dei singoli Stati. E vendere i “gioielli della Corona”, privatizzando, non può essere l’unica soluzione: negli ultimi anni le


SEMPLICEMENTE 2018 L’economia di casa

«Facendo scendere il debito di 3 punti percentuali l'anno si attenuerebbero i problemi di rischio crisi e ciò sarebbe un'assicurazione contro gli attacchi speculativi» privatizzazioni hanno fruttato appena lo 0,25% del Pil in media all'anno. Se ci sforzassimo molto, sestuplicando questo valore, ricaveremmo 15 punti in 10 anni.

Quale alternativa fattibile?

La strada maestra è semplice: non occorre tanta austerità, visto che l'Italia sta crescendo ad un tasso di 1,5 punti all'anno in termini reali. Se riusciamo a non spendere, congelando le maggiori entrate dovute alla crescita e resistendo alla tentazione di spenderle, entro 3 anni raggiungeremmo il pareggio di bilancio senza creare nuovo debito. Come fa una famiglia molto indebitata, che non va a spendersi l'aumento di stipendio ma lo accantona. Non si tratterebbe di austerità selvaggia. Ma negli ultimi 6 anni non è migliorata la posizione dei nostri conti pubblici, l’avanzo primario è rimasto costante, dal 2,3% del Pil del 2012 al 2% del Pil di quest'anno. Stabilizzare il debito non basta. Ma facendo scendere il debito di 3 punti percentuali all'anno, e velocizzando il processo con adeguati progetti di privatizzazione, verrebbero attenuati in maniera sufficiente tutti i problemi di rischio crisi. Sarebbe un'assicurazione contro gli attacchi speculativi. Invece che promettere mari e monti andrebbe avviato questo sentiero di riduzione debito.

«Spending e non solo: servono riforme per ridurre i costi produzione, a partire dalla burocrazia, che si stima costi circa 32 miliardi di euro alle sole Pmi, quasi come l'intero ammontare dell’imposta del profitto di tutte le imprese» E la sua spending review, è ancora attuale?

Le mie proposte di riduzione ammontavano a circa 32 miliardi: una parte è già stata attuata, per 7-8 miliardi sul lato degli acquisti di beni e servizi, oltre che con il blocco degli stipendi pubblici, anche se i tagli lineari sono uno strumento brutale. Ritengo un obiettivo ragionevole una spending review di altri 30 miliardi in tre anni. Ci sono sprechi ovvi, ma bisogna avere il coraggio di tagliare, perché a quel punto il governo invece di tagliare la spesa ha tagliato Cottarelli.

Una strada comunque c’è...

Dobbiamo muoverci più rapidamente sulla strada che abbiamo imboccato, considerato che i costi produzione

aumentano meno rapidamente che in Germania, visto che l’economia tedesca si sta surriscaldando, riducendo il gap dai 20-25 punti percentuali per unità di prodotto del 2008. Occorre fare anche altre cose: riforme per ridurre i costi produzione, a partire dalla burocrazia, che si stima costi circa 32 miliardi di euro alle sole piccole e medie imprese, quasi come l'intero ammontare dell’imposta del profitto di tutte le imprese, incluse quelle grandi, e poi ridurre i costi della giustizia e la tassazione sul lavoro. Il che consentirebbe di aumentare la capacità produttiva delle imprese. Ma perché la riduzione sia credibile, va accompagnata ad una riduzione della spesa pubblica, con il taglio delle spese inutili o di quelle che non ci possiamo permettere. // Andrea Aliverti

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SEMPLICEMENTE 2018 L’economia senza euro

C’è chi li ha trasformati in fortuna, chi li guarda con sospetto e chi li studia, come l'esperto Riccardo Puglisi: «È un algoritmo a governare il meccanismo. Alle Pmi dico che il loro business è ancora meglio della finanza» NICOLA ANTONELLO giornalista quotidiano La Prealpina

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ualcuno si è arricchito, qualcun altro ci ha rimesso un sacco di soldi. I Bitcoin sono l’avanguardia di una moneta "demonetizzata" oppure, visto che la prudenza degli investitori dovrebbe essere aumentata dopo i buchi ricevuti da Parmalat a Monte dei Paschi di Siena, passando dai bond argentini, si tratta dell’ennesimo nuovo prodotto per attirare capitali, salvo poi vederli crescere soltanto in talune tasche? Una risposta definitiva arriverà solo nel medio-lungo periodo ma, di certo, l’entrata in borsa della criptovaluta e il suo sdoganamento al “grande pubblico” sono andati di pari passo con una volatilità estrema. E in finanza “volatilità” è sinonimo di rischio e quindi di prudenza o, almeno, dovrebbe essere così per chi crede che la Borsa non sia un

Fluttuante e ancora misterioso, rimane un rischio: «Mai dimenticarsi di diversificare il capitale in tanti prodotti per evitare di mettere le uova in un unico paniere»

LE MONTAGNE RUSSE INCOGNITA-BITCOIN Risorsa o grande bluff?


SEMPLICEMENTE 2018 L’economia senza euro

surrogato del Casinò. Su Bitcoin e dintorni chiediamo un parere a uno dei massimi esperti italiani in materia, Riccardo Puglisi, professore associato di Economia all’università di Pavia. E anche da lui arrivano dubbi e giudizi sospesi, anche perché di certezze, oggettivamente, non ce ne sono: «È difficile sapere cosa succederà con il valore dei Bitcoin – afferma l’esperto - altrimenti avrei fatto i

soldi, uscendo ed entrando nel trading a seconda dell’andamento. Per essere sinceri, si deve dire che è impossibile sapere cosa accadrà. Si tratta di uno strumento molto volatile, il cui valore cambia tantissimo. Nel 2017 era arrivato anche a 19mila dollari, poi è sceso a 14mila dollari».

Un processo rischioso

Una fluttuazione impressionante, «come tutti i prodotti del genere – aggiunge il docente universitario Se si è stati bravi o fortunati, si può guadagnare. Tuttavia il processo è molto rischioso». Insomma, più che una moneta, sembra un derivato: «Non è ancora chiaro – spiega ancora Puglisi – se il Bitcoin possa diventare qualcosa di simile a una moneta tradizionale, come viene concepita in origine e cioè un mezzo di scambio al posto del baratto. A oggi, però, capendo quanto vale, non può misurare il valore delle cose, degli oggetti e quindi non può essere considerata una moneta vera e propria». Tradotto: un chilo di pane, si sa, può costare 3-4 euro circa. In Bitcoin il valore potrebbe cambiare in modo impressionante di ora in ora. Ecco perché, per certi addetti ai lavori, è difficile classificarlo come una moneta. Basti ricordare come fluttuazioni del 5-10% dell’euro possano cambiare l’intero sistema economico di uno Stato, figuriamoci quando, come nel caso dei Bitcoin, si è letteralmente sulle montagne russe. Ecco perché «nonostante il boom mediatico dell’ultimo periodo – dice ancora l’esperto – vengono comprati soltanto da esperti. Per tutti gli altri il consiglio è sempre lo stesso: diversificare il capitale in tanti prodotti per evitare di mettere le uova in un unico paniere. Inoltre, muoversi da soli è sbagliatissimo, perché anch’io, come economista, rischio una perdita. Figuriamoci chi, invece, mastica poco di finanza. Poi, chiaramente, conta molto la propensione al rischio di ciascuno».

Domanda e offerta

Creata nel 2009 da un anonimo inventore, noto con lo pseudonimo

«Muoversi da soli è sbagliatissimo, anch’io, come economista, rischio una perdita, figuriamoci chi non ha esperienza nel settore»

di Satoshi Nakamoto, a differenza della maggior parte delle valute tradizionali, Bitcoin non fa uso di un ente centrale né di meccanismi finanziari sofisticati. Il valore è determinato unicamente dalla leva domanda e offerta: utilizza un database distribuito tra i nodi della rete che tengono traccia delle transazioni, ma sfrutta la crittografia per gestire gli aspetti funzionali, come la generazione di nuova moneta e l'attribuzione della proprietà dei Bitcoin. «Al posto della banca – conclude Puglisi – c’è un algoritmo che controlla il meccanismo e, anche per questo motivo, meglio rimanerne lontani. Mi riferisco alle famiglie, alle piccole e medie imprese e agli artigiani: si concentrino sul loro business e non a fare soldi con la finanza». In sintesi, per ora quella di Bitcoin appare come la classica coperta corta. Da una parte, se non raggiungerà una sufficiente stabilità, e dunque non sarà una moneta vera e propria, rimarrà esposto alle onde della speculazione, e potrebbe anche perdere (o accumulare) eccessivo valore in tempi brevissimi, dimostrandosi una bolla. Se, invece, dovesse raggiungere la maturità e diventare moneta vera e propria, a quel punto potrebbe diventare del tutto inappetibile. Tradotto: se Bitcoin diventa stabile come l’Euro, perché abbandonare l’originale per un “salto nel buio” fra crittografie e algoritmi?

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SEMPLICEMENTE 2018 Parliamoci chiaro

SMALL O BIG DATA? La differenza per il cliente è la variabile della qualità Si parla soprattutto di “big” ma è sugli “small” che una Pmi può fare la sua fortuna, spiega Renata Trinca Colonel, docente di Decision sciences e business analytics: «Forniscono elementi e dettagli utili a costruire attività strategiche snelle e significative» DAVID MAMMANO

giornalista VareseNews

Renata Trinca Colonel

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ig data, ne parlano tutti. Ma quanto? E, soprattutto, cosa sono e cosa li differenzia dai cosiddetti “small data”. Andiamo con ordine. E iniziamo col dire che, stando alle analisi di Google, “big data” è un tema in “impennata” (termine con cui il motore di ricerca indica un aumento considerevole nel numero di ricerche effettuate) in buona parte delle regioni italiane. Ed è spesso associato ad altre parole chiave di ricerca come “dati",

“analytics", “business intelligence” e “data mining". E qui sta il punto perché il rischio, spesso, è quello di mescolare elementi e temi tra loro diversissimi, ingenerando confusione in chi, incuriosito dalla dimensione dei dati quale strumento per misurare e implementare strategie aziendali migliori, prova a inseguire trend ed esempi che poco si adattano o non sono funzionali alla propria realtà. Occorre quindi fissare alcuni paletti per approcciarsi con la giusta consapevolezza alle reali potenzialità espresse dall’utilizzo dei dati, anche perché, in alcune situazioni,


SEMPLICEMENTE 2018 Parliamoci chiaro

Se le aziende si focalizzano solo sulla dimensione quantitativa dei dati, si allontanano dal consumatore e soprattutto dalla comprensione dei suoi reali bisogni è forse più interessante focalizzarsi sulla dimensione degli small data. Di che cosa stiamo parlando? Sostanzialmente, di un quantità di dati la cui dimensione è organizzabile e comprensibile da un essere umano.

cambiamento culturale che porti ad analizzare quello che già c’è in un’azienda», analizza Trinca Colonel. «Nella cultura italiana manca decisamente una dimensione di accurata analisi dei dati. Non occorre investire in big data, talvolta è sufficiente anche una semplice reportistica ben fatta, completa di metriche e key performance indicators».

Il cliente al centro di tutto

Quello degli small data è un trend di cui forse si sente parlare poco. O, comunque, meno rispetto ai big data. Nel 2016, l’esperto di marketing e branding Martin Lindstrom ha pubblicato un testo (“Small data. I piccoli indizi che svelano i grandi trend”) nel quale esprime la necessità di non porre l’attenzione soltanto sulla dimensione “big” dei dati, ma anche su quella dei tanti piccoli segnali che possono derivare dalle emozioni, dalle sensazioni, dalle percezioni e dai desideri dei propri clienti. Il rischio da evitare, secondo Lindstrom, è proprio questo: se le aziende si focalizzano soltanto sulla dimensione quantitativa dei dati, si allontanano dal consumatore e dalla comprensione dei suoi reali bisogni. Secondo Renata Trinca Colonel, professoressa di Decision sciences e business analytics della School of management dell’università Bocconi, gli small data non indicano tanto una dimensione scarsa di dati, quanto in realtà una dimensione qualitativa. «Nel mondo della ricerca è tipica una contrapposizione tra i metodi qualitativi e quantitativi di analisi. Gli small data sono i dati qualitativi e un esempio possono essere i dati

Utilizzarli a supporto delle decisioni comportamentali. Nel linguaggio comune e in ambito manageriale, con small data tendiamo poi a indicare tutto quello che non è big. Anche se in realtà si parla tantissimo di big data, spesso sono molto poche le aziende che dispongono effettivamente di questo set di dati». E se è vero che una delle principali funzioni dei dati all’interno di un’azienda è quella di aiutare le persone a compiere scelte e impostare strategie migliori, contemplare anche la dimensione qualitativa consente di estrapolare elementi interessanti e dettagli funzionali a costruire attività strategiche più snelle e significative, soprattutto per le piccole e medie realtà imprenditoriali che caratterizzano il nostro Paese.

Partiamo da analytics e metriche

Da dove partire? «Occorre un investimento sulla parte di analytics e delle metriche di analisi dei dati ma in generale e, ancora prima, un

In generale, l’utilizzo dei dati nella gestione dei processi aziendali sta diventando una prassi e gli investimenti sono significativi. Secondo Trinca Colonel, le aziende hanno da sempre grandi quantità di dati; quello che occorre stimolare è un approccio indirizzato all’utilizzo di questi dati sempre di più a supporto delle decisioni. In alcuni casi, il punto di arrivo sarà la dimensione dei big data. Per gli altri, gli small data consentiranno un approccio più snello al decision making. Cosa aspettarsi dal futuro? Come spesso accade, la migliore risposta sta in una condizione di equilibrio e integrazione: dove disponibili, i big data potranno continuare a fornire quantità molto grandi di informazioni da poter utilizzare per predire orientamenti e trend. Gli small data, invece, saranno le utili prove ed evidenze di cosa veramente siamo, come persone, aziende e organizzazioni, e quali sono i reali bisogni e le esigenze delle comunità di persone che cercano i nostri prodotti o servizi.

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SEMPLICEMENTE 2018 Parliamoci chiaro

HUMAN-CENTERED DATA L'informazione è un "service" Cosa devono davvero conoscere le piccole e medie imprese? «All’interno della moda dei dati è necessario trovare quelli da sfruttare a fini strategici» risponde Elena Ferrari, docente di Informatica al Dipartimento di Scienze teoriche applicate dell’Insubria

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ire che i dati sono il petrolio del nostro tempo non è una novità. Tuttavia, vale la pena fare qualche distinzione e chiedersi: di quali dati abbiamo veramente bisogno? Viviamo nell’era dei big data, dove tutto è registrato. Una condizione che ha portato Luciano Floridi, professore di Filosofia ed etica dell’informazione alla prestigiosa università di Oxford, a definire la nostra epoca l’era dell’iperstoria. Un numero sempre maggiore di persone e cose è connesso alla rete, e produce dati. I dati acquisiscono volumi enormi, sono sempre più eterogenei e vengono raccolti con sempre maggiore velocità. Ma cosa succede se al centro dei processi decisionali e delle strategie mettiamo l’uomo? Quale cambiamento di mentalità incorre, insomma, se l’approccio all’utilizzo dei dati è di tipo “humancentered”? Secondo Elena Ferrari, professoressa di informatica al Dipartimento di Scienze teoriche applicate dell’università dell’Insubria, la risposta si trova negli small data: «Viviamo nell’era dei big data, un’era in cui è facile acquisire con vari tipi di device informazioni di varia natura. Tuttavia, quello che interessa

alle Pmi, ma anche al cittadino, sono gli small data, ovvero porzioni di big data utilizzabili nella definizione delle strategie. All’interno della moda dei dati che possiamo ottenere, infatti, è necessario trovare quelli da sfruttare a fini strategici».

Valore aggiunto al servizio dell’impresa

Cosa vuol dire tutto questo? Per chi fa impresa, di qualsiasi dimensione, avere la giusta consapevolezza rispetto al modo in cui si raccolgono e analizzano i dati, che non possono essere collezionati all’infinito in attesa di essere sfruttati. Occorre, secondo Ferrari, una capacità di elaborazione tale per cui i significati espressi dai dati possano essere integrati nell’elaborazione costante delle strategie. Figure come i data scientist, professionisti in grado di interpretare i dati, devono essere in grado di generare valore aggiunto al servizio dell’impresa, e non possono farlo se non sono dotati di strumenti in grado di lavorare sulla dimensione “small” dei dati. È possibile utilizzare gli small data in vari livelli dell’ecosistema dell’azienda. «Un primo, importante livello è quello delle decisioni

«Gli small data sono utili per prendere decisioni sugli investimenti e fare previsioni. Inoltre possono essere usati per migliorare e ottimizzare i processi interni»

strategiche», ricorda Ferrari. «Gli small data sono utili per prendere decisioni sugli investimenti, fare previsioni e possono essere usati per migliorare e ottimizzare processi interni». Grazie agli small data è possibile compiere scelte migliori rispetto all’allocazione delle risorse interne, secondo ottiche di ottimizzazione. Oltre alle posizioni apicali, anche la logistica può trarre benefici dall’utilizzo di questi dati.

Elena Ferrari


SEMPLICEMENTE 2018 Parliamoci chiaro

«In generale gli small data possono essere utilizzati in chiave di ottimizzazione dei processi e ciò può coinvolgere tutti in rapporto alle dimensioni di un’azienda. Se l'azienda è piccola, la percentuale di sfruttamento è limitata, ma in aziende di grandi dimensioni è un aspetto che riguarda il top management e, a cascata, tutti gli altri livelli».

Coinvolgete i dipendenti nei processi di utilizzo dei dati o i cambiamenti sembreranno calati dall’alto, senza giustificazioni precise

Buone prassi da incentivare

Secondo Ferrari, l’approccio all’uso degli small data crea un circolo virtuoso che consente di identificare le buone prassi e incentiva a utilizzarle grazie a strumenti di monitoring e verifica. L’obiettivo deve essere quello di migliorare continuamente e il miglioramento passa dal monitoraggio e dall’analisi. Anche nel caso di realtà piccole e fortemente artigiane, i processi di miglioramento della qualità si basano su dati tangibili e migliorabili nel tempo. La vera chiave di successo, ricorda Ferrari, passa dal fondamentale coinvolgimento dei dipendenti in tutti i processi di utilizzo dei dati, perché altrimenti il rischio

è quello ,di percepire decisioni o cambiamenti come calati dall’alto senza giustificazioni precise.

Posizionamento di mercato e benessere

Gli small data non vengono usati solamente per migliorare i sistemi produttivi e i processi dell’azienda, ma sono utili anche a migliorare il proprio posizionamento nel mercato o dimensioni come il benessere dei dipendenti dell’azienda, misurare il sentiment della propria comunità di clienti-utenti e la brand reputation dell’azienda. Questo può essere ancora più strategico se il mercato

è rappresentato da una nicchia ben definibile di persone. Ma dove si trovano questi dati? E soprattutto, come è possibile misurarli? «Oggi la tecnologia offre strumenti e piattaforme abbastanza sofisticate che consentono di analizzare small data utili all’azienda. Questi tool sono di facile utilizzo e anche persone che hanno poche competenze in data science possono applicarsi nel loro utilizzo», segnala Ferrari. «In questo senso, mi sento di incoraggiare qualsiasi realtà a non lasciarsi spaventare e ad adottare un approccio curioso e ottimista». // David Mammano

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SEMPLICEMENTE 2018 Cambiamo formazione

MRS STEM, GLI STEREOTIPI E LA LEGGE DEL MERCATO L’alta tecnologia è (anche) donna

Donatella Sciuto è prorettrice del Politecnico di Milano e parla con i numeri: «Nei prossimi anni le assunzioni di professionisti negli ambiti della tecnologia, della scienza, dell’ingegneria e della matematica arriveranno a picchi del 36,9%» VALENTINA BOLIS giornalista

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na cosa è certa: non ci sono mai ricette facili»: la prorettrice del Politecnico di Milano, Donatella Sciuto, sa bene che per le donne la strada non è mai stata facile in molti campi, specialmente nelle materie scientifiche. Eppure, sa anche che «vale la pena provarci per abbattere gli stereotipi culturali che scoraggiano l’universo femminile, sin dall’infanzia, ad attivarsi per intraprendere una carriera nell’ambito della meccanica,

«

ingegneria, matematica». Sciuto proprio dal prestigioso ateneo milanese – che ogni anno prepara 42 mila iscritti (33% donne) e in particolare 29mila ingegneria (22.5% donne) – ha mosso i primi passi laureandosi nel 1984. Lei era in quel 2% di "quote rosa" del suo corso «quando ancora il Politecnico non aveva i bagni per le donne». Poi nel 1985 il dottorato con borsa di studio negli States e il ritorno in Italia nel 1988 nonostante avesse ricevuto proprio in America «proposte interessanti di lavoro, sicuramente molto ben remunerate». Le lusinghe americane non l’hanno conquistata e, senza scoraggiarsi,

ha deciso di tornare nel nostro Paese per portare da noi, in Lombardia, «le tante competenze acquisite all’estero».

Aumentare la competitività

Le cosiddette materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) indicano i corsi di studio e le scelte educative che incrementano la competitività in campo scientifico e tecnologico. Le ultime stime indicano che nei prossimi anni, mentre l’occupazione crescerà del 3%, le assunzioni di professionisti in questi ambiti aumenteranno del 14,9% e raggiungeranno nel campo dell’ingegneria addirittura punte del 36,9%. I ritmi dell’Italia sono anche superiori anche alle medie europee. In questa faccenda però la vera questione riguarda le donne. C’è un gap tutto da colmare, dove le ragazze dapprima in ambito familiare, poi in quello scolastico e sociale sono disincentivate a percorrere le strade della meccanica e dell’ingegneria.


SEMPLICEMENTE 2018 Cambiamo formazione

«Servono certamente azioni per sensibilizzare e incoraggiare le ragazze alla scelta consapevole di lauree Stem, anche e soprattutto a sostegno loro e delle imprese»

Grande domanda, ottimi stipendi

«C’è una grande domanda di laureati in questi settori, sono competenze specifiche che in media ricevono offerte di lavoro con stipendi più alti. La mentalità ingegneristica può aprire molte porte nell’ambito della ricerca, ma anche in ambito aziendale, manageriale e nella creazione delle start up. Le prospettive di carriera sono sorprendenti». Eppure, dai dati emersi sembra che queste competenze, che nel mondo del lavoro sono così tanto richieste, non trovino riscontro tra i giovani e in particolare tra le ragazze. Eppure, nonostante il 79% delle donne trovi lavoro al termine degli studi, solo una

donna su cinque sceglie di studiare ingegneria. Al contrario degli uomini, che sono più del doppio. «Nel nostro ateneo – sottolinea la prorettrice Sciuto – le donne rappresentano circa un terzo degli iscritti, ma il picco maggiore riguarda le facoltà di architettura e design, dove la presenza femminile raggiunge rispettivamente il 50 e 60%. Il dato crolla invece al 20% per ingegneria».

Scegliete ciò che vi piace fare

Il Politecnico di Milano ha avviato percorsi per favorire la presenza femminile nell’approccio a questi settori che stanno raccogliendo grande successo, in un contesto caratterizzato da una costante e

«Le prospettive di carriera sono sorprendenti eppure dai dati sembra che queste competenze, che nel mondo del lavoro sono richieste, non trovino riscontro tra i giovani e in particolare tra le ragazze»

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sempre più rapida trasformazione tecnologia, soprattutto in ambito aziendale. Dal progetto "Le ragazze possono: dal dire al fare" realizzato nell'ambito dell'iniziativa della Regione Lombardia "Progettare la Parità in Lombardia", all’adesione al progetto "Inspiring girls" promosso da Valore D, associazione di 160 imprese che promuovono il talento e la leadership femminile, al coinvolgimento delle ragazze delle scuole secondarie di secondo grado con gli Open day del Politecnico di Milano, a cura della Fondazione Polimi. «Servono certamente azioni per sensibilizzare e incoraggiare le ragazze alla scelta consapevole di lauree Stem – prosegue Sciuto – ma deve soprattutto cambiare l’approccio al mondo del lavoro. Non è solo una questione di genere. L’aspetto fondamentale riguarda la capacità di suscitare nei nostri giovani il saper scegliere il proprio futuro rispetto a ciò che a loro piace davvero fare e questo vale per le ragazze ma anche per i ragazzi».

Donatella Sciuto


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SEMPLICEMENTE 2018 Nuove imprese

CHI VA PIANO DIVENTA LEADER L'over 30 fa la start up col botto Odile Robotti, amministratrice unica di Learning Edge, s’è messa in proprio a 40 anni. «Ero strutturata a pronta: chi immagina startupper giovani sbaglia. La genialità da sola non basta». Le “old-preneurs” diventano fenomeni

di volontariato MilanoAltruista e dell’associazione di promozione sociale ItaliaAltruista. L’idea di Learning Edge (una società di formazione manageriale e di consulenza nell’ambito delle risorse umane che opera sul mercato italiano da oltre dieci anni) ha preso avvio dopo il lavoro nella direzione di McKinsey e poi in Ibm Italia, dove è stata responsabile commerciale di alcuni grandi clienti e team leader di progetti di sviluppo applicativo.

Un salto psicologico

Le donne arrivano a un certo punto della loro carriera e scappano dalle aziende. Questo spinge molte di loro a trovare strade alternative: è liberatorio ma è al contempo una rinuncia al lavoro organizzato

U

na scalata più lenta, ma destinata a un esito certo e stabile. L’immagine che evoca è quella della lepre e della tartaruga. Nella corsa all’interno del panorama imprenditoriale le donne hanno una crescita meno rapida rispetto agli uomini ma alla lunga questa crescita si rivela più solida. Ne è convinta Odile Robotti, amministratrice unica di Learning Edge, professoressa a contratto all’università Vita-Salute San Raffaele e presidentessa dell’organizzazione

«Il lavoro non è mai stato solo un dovere per me, ma è tuttora il mio hobby preferito. All’inizio è stato molto faticoso perché nella fase di start up ho dovuto affrontare tutto da sola ed è stato anche un grande salto dal punto di vista psicologico, perché quando l’esperienza aumenta, aumenta anche il carico di lavoro. Quando ho fatto questa scelta avevo 40 anni ed ero già molto strutturata e questo serve moltissimo. L’immagine dello startupper giovane è un mito da sfatare. La start up guidata da giovani, alla luce della mia esperienza, funziona solo se chi la avvia è geniale oppure se è dotato di persone mature intorno a sé che lo aiutano a crescere». Negli ultimi anni, le cosiddette “oldpreneurs” sono cresciute in modo esponenziale, con un aumento del 67% dal 2007. Il dato ancor più sorprendente riguarda le over 60 titolari di nuovi business che, sono cresciute del 132%, e rappresentano il dato più significativo.

L’alternativa all’azienda è la tua azienda

«C’è un fenomeno che non viene raccontato: le donne arrivano ad un certo punto della loro carriera e scappano dalle aziende. Questo spinge molte di loro a trovare strade alternative e questo è molto liberatorio, ma è anche una rinuncia al lavoro organizzato». Robotti è convinta che old-preneurs


SEMPLICEMENTE 2018 Nuove imprese

siano «più mature e competenti. Le donne partono certamente più tardi, ma su cammini che hanno una maggiore sicurezza di successo». L’ostacolo maggiore secondo Robotti è rappresentato nel reperimento di finanziamenti: «Questo aspetto non è spiegabile se si pensa all’affidabilità maggiore delle donne nell’accesso e nella restituzione del credito, ma è giustificato dal fatto che il mondo dei venture capitalist è maschile e particolarmente spregiudicato. Nella mia vita non ho incontrato situazioni di particolare difficoltà. In genere, il rischio maggiore è determinato dalla mancanza di capitale, ma a 40 anni avevo messo da parte sufficienti risorse per partire».

Far dialogare le generazioni

Alle donne non mancano sicuramente spirito di iniziativa, imprenditorialità e nemmeno la capacità di fare squadra: «La collaborazione femminile esiste ed esiste anche una capacità di prendersi cura delle situazioni che riguardano chi ci sta attorno. Per questo tra i miei progetti futuri sto sviluppando modalità innovative di collaborazione e dialogo intergenerazionale». «Pensiamo ai millennials, di cui nessuno si occupa, ma che sono portatori di valori importantissimi per la crescita economica del nostro Paese. Bisogna riconciliare la capacità delle differenti generazioni di tornare a parlarsi. E questo anche a vantaggio delle giovani donne». // Valentina Bolis Odile Robotti

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RETRIBUZIONI E INCARICHI DISUGUAGLIANZE SENZA TEMPO L’analisi di Mirta Michilli: tra le tendenze da invertire ci sono stipendi differenti, difficoltà a scalare le posizioni in azienda e le varie politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro Il divario di genere fra uomini e donne in Italia si è allargato negli ultimi anni. In particolare, sul versante del lavoro e delle retribuzioni le distanze continuano ad essere profonde. Il World Economic Forum, nella classifica globale stilata per il 2017, certifica come l’Italia abbia perso 32 posizioni crollando all'80esimo posto su un totale di 144 Paesi presi in esame per educazione, salute, lavoro aspettativa di vita, fino all'acquisizione di potere in campo politico tra uomini e donne. Ma il problema più stringente è legato al divario salariale. Ne è convinta Mirta Michilli, direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale di Roma che da 15 anni è attiva in Italia sul fronte della promozione e della diffusione delle competenze digitali su target diversi. Mirta Michilli

NEI CDA È INTERVENUTA LA LEGGE «Le disparità salariali tra uomini e donne nel nostro Paese sono ancora molto forti: a parità di inquadramento professionale e formazione, le donne sono sempre un passo indietro agli uomini e questo non ha ragion d’essere». Per Michilli se le donne hanno aumentato la loro presenza nelle posizioni di vertice delle società quotate in Borsa è solo grazie ad un intervento normativo. Michilli cita la legge Golfo Mosca del 2011 che «ha avuto certamente un effetto positivo» come, ad esempio, per l'equilibrio di genere nei Cda ma «il tema vero resta comunque legato al divario retributivo». SCORAGGIATE CON GRINTA «C’è ancora molto lavoro da fare, le giovani donne sono molto scoraggiate perché pur essendosi duramente formate attraverso percorsi d’istruzione solidi anche nelle materie Stem, alla fine non riescono ad ottenere le gratificazioni economiche degli uomini». Il problema però non riveste solo il tema della remunerazione, ma anche la carenza di servizi, «un sistema di welfare che non aiuta le donne che vogliono distinguersi e politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro». Questo fenomeno è anche un deterrente per la scelta dei percorsi formativi: «Il settore dell’informatica è un settore in crescita e i laureati e le laureate in queste materie hanno maggiori possibilità di inserimento nel mondo lavorativo. Io ho sempre lavorato, soprattutto a stretto contatto con le pubbliche amministrazioni, per annullare le disparità tecnologiche ancora troppo presenti nel nostro Paese. È un impegno sfidante in cui le donne possono davvero giocare un ruolo da leader». // Valentina Bolis


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SEMPLICEMENTE 2018 Esserci è essere

A tu per tu con Marco Bardazzi, alla guida della comunicazione del colosso Eni che, con il suo storytelling fatto di uomini, storie e quotidianità, ha cambiato la comunicazione Anche per le Pmi

«Le persone sono bombardate da miliardi di contenuti, l’unico modo per superare questo assordante rumore di fondo è quello di produrre contenuti di grande qualità»

RACCONTIAMO L’IMMENSO

Raccontiamo noi stessi


SEMPLICEMENTE 2018 Esserci è essere

TOMASO BASSANI

giornalista VareseNews

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a qualche anno il colosso Eni ha scelto di rivoluzionare il proprio modo di raccontarsi facendo partire una nuova esperienza di comunicazione aziendale che è diventata un po’ il faro di tutte quelle realtà, grandi o piccole, che scelgono di investire sulla comunicazione. Stiamo parlando di un vero e proprio colosso: Eni è una supermajor globale del settore Oil & Gas con 33mila dipendenti e attività in 73 paesi del mondo, ed era evidente che i suoi passi anche in questo ambito non sarebbero passati inosservati, ma l’operazione che è stata fatta ha aperto riflessioni a più ampio raggio che il semplice giro di manager ed imprenditori. Innanzitutto, perché alla direzione della comunicazione esterna non ha scelto un tipico profilo di comunicatore d’impresa ma un giornalista esperto e navigato. È Marco Bardazzi, con una carriera trentennale nel giornalismo, dieci anni negli Stati Uniti come corrispondente dell’agenzia Ansa, caporedattore centrale e digital editor alla Stampa di Torino nel momento in cui ha deciso di accettare l’incarico nel 2015. A tre anni da allora e sulla scorta di moltissime attività Bardazzi traccia un bilancio di quello che hanno fatto e che, sostanzialmente, sta tutto racchiuso nella parola storytelling. «Quello che abbiamo fatto in Eni parte dalla convinzione che tutte le aziende abbiano una storia, uomini, prodotti e attività che meritano di essere raccontate. Ed è proprio quello che abbiamo fatto: abbiamo raccontato questa immensa azienda attraverso le storie delle persone che ci lavorano, le storie delle sue scoperte, dei luoghi dove opera. Oggi per un’azienda raccontare queste storie è diventato possibile ed è anche l’opportunità migliore che abbiamo per comunicare chi siamo».

Cosa fa nel concreto la comunicazione di Eni?

In generale perseguiamo tutte le strategie tipiche della comunicazione d’azienda ma negli ultimi anni stiamo lavorando molto sulla content strategy

«Agli imprenditori dico che raccontarsi fa sempre bene. L’importante è entrare nell’ottica di raccontarsi in prima persona, condividere, dialogare e aprirsi» della quale lo storytelling è una parte molto importante. E per realizzare questo racconto ci occupiamo dell’elaborazione di infografiche, di audio podcast, di video, di utilizzo dei social network, di speciali web: oggi le aziende hanno una possibilità sterminata di distribuire il proprio racconto in prima persona grazie alla loro audience e alla community che le circonda.

Qual è la sfida principale delle imprese che scelgono di raccontarsi?

Scegliendo di sviluppare una content strategy si entra in un mondo nel quale il vero problema diventa l’attrazione dell’attenzione. Oggi le persone sono bombardate da miliardi di contenuti, a tutte le ore e in tutti i luoghi. L’unico modo per riuscire a superare questo assordante rumore di fondo è quello produrre contenuti con qualità. Non bisogna puntare solo puntare sulla viralità del proprio messaggio ma sulla qualità, costruire un’immagine di sé che sia credibile e autorevole. Se Eni dicesse di essere una realtà esperta di moda trasmettendo un messaggio in questo senso sarebbe davvero poco credibile. Invece, quando Eni dice di avere una storia di 60 anni dal punto di vista della ricerca e distribuzione di energia ci teniamo ad essere percepiti come un attore veramente competente nel mondo dell’energia. Lo storytelling si inserisce in questo contesto più ampio: creare contenuti di qualità, che possano essere “data driven” con maggiore consapevolezza del pubblico a cui ci rivolgiamo. Per questo noi siamo anche molto sereni nel produrre contenuti più lenti, approfonditi e di qualità.

Marco Bardazzi

Eni è un colosso e in quanto tale dispone di esperienze e risorse. Per le piccole e medie imprese, invece, possono valere questi discorsi?

Sono convinto che tutte le aziende abbiano delle storie da raccontare. Non tutte hanno l’esigenza di farlo ma chi lo trova importante per il proprio modo di operare oggi ha davvero la possibilità di farlo anche con risorse molto contenute. Noi in Eni abbiamo una struttura di media production interna perché la nostra struttura lo permette ma oggi per le Pmi non occorre avere tutte queste risorse in casa. Anche noi ad esempio ci appoggiamo ai talenti che ci sono fuori. Abbiamo realizzato un racconto bellissimo sul più grande giacimento di gas naturale del Mediterraneo e abbiamo realizzato un video con una piccola realtà di videomaker del Mozambico. In questo caso il video è stato pensato al nostro interno e noi abbiamo deciso cosa fare dopo di che abbiamo fatto realizzare il video a loro. Abbiamo raccontato la nostra storia attraverso dei veri talenti africani. Questo per dire che non è indispensabile avere risorse in casa, le cose cambiano così velocemente che difficilmente si può avere tutto al proprio interno. Meglio avere le persone chiave nel proprio team e poi cercare al di fuori di realizzare i progetti.

Quindi quale consiglio per un imprenditore di una Pmi?

Raccontarsi fa sempre bene ed è importante anche per la piccola e media impresa. Ci sono storie di persone, prodotti, servizi, passioni. L’importante è entrare nell’ottica di raccontarsi in prima persona. Di condividere. Di dialogare e aprirsi. Non è detto che sia necessario e utile per tutte le aziende ma oggi è sicuramente alla portata di tutti, certo meglio se con l’aiuto della figura di un comunicatore per impostare una strategia.

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SEMPLICEMENTE 2018 Cosa cambia intorno a noi

EXPO DIVENTA LA CITTÀ DEL FUTURO

Innovazione modello open source

«I centri urbani, da sempre, sono i motori dell’innovazione» spiega Carlo Ratti, partner e fondatore della Cra, che ha vinto il concorso internazionale per la trasformazione del sito dell’esposizione universale e si prepara a una rivoluzione ENRICO MARLETTA

giornalista La Provincia

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na città dell’innovazione uffici, centri di ricerca, facoltà universitarie, residenze e spazi culturali, aree per l’agricoltura urbana, nonché il primo quartiere al mondo progettato per veicoli a guida autonoma. Sarà questo il volto che assumerà l’area di Expo 2015; questo è infatti, in estrema sintesi, il contenuto del progetto messo a punto dallo studio di design e innovazione Carlo Ratti Associati (Cra) che ha lavorato per conto del gruppo australiano di real estate Lendlease. Il progetto si è aggiudicato il concorso internazionale per la trasformazione del sito: il masterplan prevede lo sviluppo di un Parco della

Scienza, del Sapere e dell’Innovazione esteso su oltre un milione di metri quadrati. Il progetto punta a stabilire nuovi standard per i processi di trasformazione urbana, pianificando lo sviluppo di un quartiere verde, con spazi pubblici pieni di vita, nel quale l’innovazione si realizza secondo un approccio open source - aperto e inclusivo: gli edifici dell’area potranno ad esempio essere riconfigurati e cambiare la propria destinazione a seconda dei bisogni di chi li abita.

Sperimentare nuovi modi di lavorare, abitare e muoversi

«Sin dalla loro nascita, circa 10mila anni fa, le città sono sempre stati i maggiori motori dell’innovazione. E proprio l’innovazione è al centro del nostro progetto, tramite il quale l’ex sito di Expo 2015 diventerà un luogo nel quale

sperimentare nuovi modi di lavorare, di fare ricerca, di abitare, di stare insieme e di muoversi. Una città-giardino con la quale immaginare un futuro modellato e rimodellato sui bisogni dei suoi abitanti. Siamo felici di poter prendere parte a questo laboratorio sulla Milano di domani» dice Carlo Ratti, partner e fondatore di Carlo Ratti Associati nonché direttore al Mit di Boston del Senseable City Lab. Nel nuovo quartiere, il Decumano, il lungo asse stradale che abbiamo percorso più e più volte nei mesi di Expo, diventerà un parco lineare lungo oltre 1500 metri, uno tra i maggiori d’Europa, intorno al quale si dispiegherà la vita quotidiana della città. Una città nuova, ma quale sarà il futuro delle nostre città? «Le città del futuro – dice Carlo Ratti - non saranno troppo diverse da quelle di oggi, non nell’aspetto fisico, perlomeno. Possiamo immaginare


SEMPLICEMENTE 2018 Cosa cambia intorno a noi

«Uno degli aspetti più importanti è legato a come i cittadini, acquisendo maggior consapevolezza dei problemi della città, possano promuoverne il cambiamento»

Carlo Ratti

qualità ambientale, e la nascita di nuove opportunità di impresa e di lavoro.

Smart city? No, meglio senseable city: la città umana

i più arditi prodigi tecnologici o architettonici, ma nelle nostre case avremo sempre bisogno di piani orizzontali per muoverci, di facciate per proteggerci dagli elementi, di finestre come interfacce verso il mondo esterno, o di muri verticali per suddividere gli spazi interni. A riprova di questo fatto, basti pensare che le città del 2018 non differiscono così tanto da quelle d’epoca romana o medievale (tanto che i centri storici nei quali ancora abitiamo, a Roma come a Spalato, spesso risalgono proprio a quei tempi passati)».

Cambia l’esperienza della città

«Quello che invece cambierà sarà il nostro

modo di fare esperienza della città. Spostarsi, gestire le risorse energetiche, incontrarsi, fare acquisti, lavorare, comunicare: tutte queste attività quotidiane potrebbero essere molto diverse da come sono oggi. Pensiamo a una giornata tipo degli anni Novanta, senza telefoni cellulari e con Internet a singhiozzo: che differenza rispetto al presente. Nel futuro prossimo andremo incontro a molti altri cambiamenti di questa portata». L’area Expo come detto, sarà il primo quartiere al mondo progettato per auto che si guidano da sole. Attraverso un graduale programma di conversione degli spazi, le strade del Parco della Scienza, del Sapere e dell’Innovazione arriveranno ad accogliere vetture a guida autonoma, in anticipo su quanto accadrà in sempre più metropoli nel futuro prossimo. Nel nuovo scenario, condividere un veicolo diventerà sempre più frequente: sarà così possibile diminuire il numero complessivo di automobili in circolazione, pur continuando a soddisfare la domanda di mobilità. Le conseguenze saranno una riduzione del traffico, un miglioramento della

«La Senseable City sarà una città più umana tanto “capace di sentire” quanto “sensibile” rispetto ai bisogni di tutti i suoi cittadini»

Smart city o senseable city come è denominato il Lab del Mit? «Non mi piace molto il termine "smart city", che dà l'idea di una tecnologia fine a sé stessa. Preferisco usare un termine diverso: “Senseable City”, ovvero una città più umana, tanto “capace di sentire” quanto “sensibile” rispetto ai bisogni dei suoi cittadini – dice Ratti Tuttavia, al di là delle etichette, direi che la città intelligente è il risultato dell’ingresso dell’Internet delle Cose (in inglese Internet of Things) nelle nostre vite e nelle nostre città. Tutto questo ci permette di trovare soluzioni nuove per vecchi problemi dalla mobilità al consumo energetico, dall’inquinamento allo smaltimento dei rifiuti -. Credo che uno degli aspetti più importanti sia legato alle dinamiche di cambio di comportamento, come i cittadini stessi, avendo acquisito maggior consapevolezza dei problemi della città, possano promuoverne il cambiamento».

La salute dipende dalla vitalità degli spazi

Seguendo il principio che la salute di un quartiere dipende in buona parte dalla vitalità dei suoi spazi pubblici, il progetto propone di costituire un Common ground uno spazio a livello stradale alto due piani, che si snoda attraverso tutte le aree del masterplan - su cui vanno ad alternarsi piazze e aree pedonali, orti e giardini, negozi, laboratori ed edifici a corte, in uno scambio continuo tra ambienti aperti e chiusi, pubblici o più raccolti. Quale città oggi si avvicina di più al modello di città dell’innovazione? «Singapore sta esplorando nuovi approcci alla mobilità, Copenaghen alla sostenibilità, Boston alla partecipazione della cittadinanza – dice Ratti - Anche Milano, dove siamo impegnati con il nostro studio per la rinascita dell'ex sito di Expo, offre molti spunti».

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SEMPLICEMENTE 2018 Fattore attrattività

QUALITÀ, RETE, COLLABORAZIONE E il prossimo passo è la semplificazione

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iornalista professionista, laurea con lode in Lettere moderne all'università Cattolica di Milano e una solida esperienza nelle istituzioni alle spalle, dall’ottobre 2017 Manuela Maffioli guida l’assessorato a Cultura, identità e commercio del Comune di Busto Arsizio. Una città a fortissima vocazione manifatturiera e imprenditoriale per la quale ha scelto tre parole chiave: qualità, rete e collaborazione.

A tu per tu con Manuela Maffioli, che guida l’assessorato a Cultura, identità e commercio del comune di Busto Arsizio e accoglie la sfida delle imprese: «Rapidità, immediatezza, trasparenza e dialogo, le Pa devono e possono rispondere alle richieste del mondo economico» Ascolto e vicinanza: difficile ma non impossibile?

Assessore, c’è un quarto termine caro alle imprese, ed è semplicità (che, in sé, racchiude anche il concetto di semplificazione). È un valore che ritiene applicabile alla pubblica amministrazione?

Molto opportunamente avete deciso di dedicare questo numero del vostro magazine alla semplicità, è una scelta di assoluta attualità perché "semplicità" è tra i termini più ricorrenti nell’interlocuzione con il mondo imprenditoriale, con il sistema economico della città, della provincia e finanche lombardo. Figura tra le primissime e urgenti necessità sia da parte dei singoli artigiani, imprenditori, sia delle associazioni di categoria che ne rappresentano, puntualmente, gli interessi. Lo ritengo quindi doverosamente applicabile anche, e a maggior ragione, alla Pubblica amministrazione.

Come declinare concretamente il principio della semplicità al rapporto tra imprese e Pa?

Il concetto di semplicità può essere declinato in modi diversi: semplicità intesa come intelligibilità, di pratiche e documenti, norme e disposizioni; semplicità nell’accezione di rapidità, dei procedimenti e dei processi amministrativi. Semplicità declinata come immediatezza, chiarezza e

Manuela Maffioli

trasparenza, nel rapporto anche comunicativo con il Pubblico, che passa attraverso sportelli dedicati, quindi attraverso le persone.

Ritiene possibile colmare le attuali innegabili distanze tra amministrazione pubblica e imprese?

Certo, attraverso la semplicità del dialogo e del confronto con i vertici della Pubblica amministrazione, nel nostro caso con sindaco e assessore alla partita, che deve poter essere diretto e costruttivo, non mediato né di pura interlocuzione, possibile, anzi auspicabile, anche direttamente con i singoli operatori del settore. Se, infatti, da un lato, e precisamente sul fronte normativo e legislativo, spesso gli enti locali hanno margini d’azione nulli o scarsi, molto possono invece fare nella facilitazione del dialogo, del confronto, dell’ascolto e della vicinanza, nella concreta declinazione di supporto nella soluzione dei problemi.

È un metodo, quello dell’ascolto e della concretezza nelle soluzioni in tempi rapidi, che mi appartiene e su cui poggia la mia azione amministrativa: per questo incontro con frequenza associazioni di categoria, singoli artigiani, imprenditori e commercianti e, sull’altro versante, le associazioni culturali. Unico modus operandi in grado di darmi sempre il polso della situazione, di seguirne l’evoluzione e di confortare gli stakeholder rispetto a una vicinanza “vera” dell’amministrazione.

Semplicità è anche semplificazione. E semplificazione, per le imprese, significa competitività. Come può l’ente pubblico sostenere la ripresa attraverso interventi concreti in tal senso? Vicinanza e ascolto mi hanno portato a conoscere bene tali problematiche, sulle quali stiamo intervenendo attraverso azioni mirate sul fronte burocratico: è infatti in corso un serio approfondimento relativo agli adempimenti necessari, per esempio, per avviare un’attività, nel cui ambito l’amministrazione individuerà i margini di intervento per ridurre i tempi, semplificare la compilazione e, in generale alleggerire l’iter, per favorire nuovi insediamenti produttivi in città e incrementare la nostra capacità di fare economia, come il nostro passato ci ha insegnato siamo in grado di fare a livelli di eccellenza.


SEMPLICEMENTE 2018 Vicini a confronto

DAVIDE IELMINI

Confartigianato Imprese Varese

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ue modi diversi di guardare al mondo: la Svizzera sempre più connessa su rotaia; l’Italia che sposta su treno solo l’8% delle merci ma è pronta a un’inversione di tendenza. Entro il 2030, l’obiettivo fissato dal Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti è del 30%. Ma anche lo spostamento delle persone diventa fondamentale. La nuova tratta Arcisate – Stabio, che collega il territorio varesino con Lugano e Bellinzona, è solo l’ultima opera, in ordine di tempo, sulla quale hanno scommesso le istituzioni elvetiche. E sulla quale

dovranno scommettere quelle italiane. Remigio Ratti, già professore di Economia all’Università della Svizzera Italiana a Lugano, da quarant’anni si dedica allo studio dei trasporti. A tal punto che nel 1998 aveva presentato una mozione al Parlamento di Berna per dare il via al lungo iter che avrebbe portato alla realizzazione di quella che è oggi l’Arcisate – Stabio. Anche se, dice, «ci vorranno mesi per andare a regime e cogliere i molteplici aspetti di questo collegamento dal duplice significato: metro transfrontaliera Como (Lugano) Mendrisio – Varese (Malpensa) e allacciamento all’asse del San Gottardo. L’idea, insomma, è quella di arrivare ad un grande spazio metropolitano transfrontaliero.

Professore, la Svizzera sta investendo parecchio sulle ferrovie: perché? Nel 1992, con un referendum, il popolo svizzero aveva già deciso: la ferrovia doveva diventare il mezzo di trasporto più adatto per tutti e tutto. Di mezzo c’era la protezione del territorio e dell’ambiente dal traffico di transito.

Cosa si è fatto?

Le gallerie ferroviarie sono diventate fondamentali e così la Svizzera ha iniziato a finanziarle: nel giugno del 2007 è stata inaugurata quella del Loetschberg (lunga 34,6 chilometri), nel 2016 è stata aperta la galleria di base del San Gottardo (57 chilometri) mentre ora si sta realizzando

PROSSIMA FERMATA TRENO Il business fa la cura del ferro In Italia solo l’8% delle merci ha abbandonato la gomma. La Svizzera è un altro mondo, perché ferrovia è competitività. Lo sostiene anche l’esperto ticinese Remigio Ratti: «Infrastrutture necessarie per rilanciare imprese e aiutare le città a ripensare il loro sviluppo in termini di qualità»

L’Italia deve fare un salto e arrivare a un sistema di mobilità integrata: è un problema che devono affrontare, insieme, Lombardia, Liguria e Piemonte

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SEMPLICEMENTE 2018 Vicini a confronto

beneficeranno di condizioni di accessibilità interessanti, perché le infrastrutture della mobilità sono condizioni necessarie per rilanciare e agevolare le imprese. In sintesi, le stazioni facilitano la mobilità delle merci e delle persone, ma aiutano anche le città a ripensare il loro sviluppo anche in termini di qualità urbana. Il mio invito è di andare in questa direzione.

L’Italia come si sta muovendo?

Sul territorio del comune di Induno Olona ci sono aree dismesse libere che si presterebbero allo sviluppo economico-imprenditoriale in accordo con i ticinesi quella del Monte Ceneri (15,4 chilometri) che entrerà in funzione nel 2020. I fondi messi a disposizione dalla Confederazione sono stati di 20 miliardi di franchi.

Una questione di strategia territoriale: non è un caso che a ridosso delle stazioni si siano sviluppate grosse aree industriali?

Non è una strategia legata all’Arcisate – Stabio. Diciamo che le contingenze hanno portato le imprese italiane e non, ad avvicinarsi alla frontiera per agevolare il passaggio della manodopera da territorio italiano. Le stazioni sono anche un effetto del frontalierato. Poi più la regione Lombardia ha accusato la crisi economica e più è aumentata questa domanda di localizzazione manifatturiera vicina alla frontiera, soprattutto verso il Sotto Ceneri. La linea Mendrisio – Varese potrebbe affrontare meglio il problema della mobilità di 60mila frontalieri. Come si dice in Canton Ticino si tratta di sfruttare la “rendita di posizione, o “rendita di frontiera”.

È per questo che negli anni Settanta i Piani regolatori intorno alle stazioni sono stati presi di assalto? I Piani regolatori svizzeri prevedevano zone di insediamento residenziale e artigianaleimprenditoriale: negli ultimi quindici anni si sono occupati tutti gli spazi disponibili, a tal punto che oggi non ce ne sono quasi più. È il famoso “problema dei capannoni”: ogni fazzoletto di territorio, dove è possibile, vede una casa e un’azienda, in alternanza.

La Svizzera, però, è stata lungimirante: una ferrovia vicina alle imprese significa competitività? Le rispondo da economista: il punto sul quale concentrarsi è come sviluppare la competitività della Regio Insubrica transfrontaliera, che presenta punti di forza sul lato italiano e su quello svizzero. Anche perché la rete ferroviaria Ticino – Lombardia (Tilo) va in questa direzione: migliorare l’attrattiva e la competitività del Cantone Ticino. E proprio i comparti produttivi e i quartieri delle stazioni

L’Italia è in ritardo di almeno trent’anni. È per questo che deve fare un salto in termini di capacità ed efficienza, non solo però delle sue ferrovie ma anche per arrivare a un sistema di mobilità integrata. È un problema che devono affrontare insieme la Lombardia, la Liguria e il Piemonte perché di mezzo non c’è solo lo spostamento su ferro ma anche i porti, il raddoppio della capacità del Canale di Suez e i rapporti commerciali con la Cina e gli investimenti che questa mette sul piatto.

Ultima domanda: la Arcisate – Stabio potrà essere un valore per il territorio?

La Varese turistica, ma non solo quella, si deve porre il problema di come collegarsi al Gottardo attraverso questa metro transfrontaliera dall’aggancio internazionale. La città dovrebbe chiedersi: a cosa può servire questa ferrovia? Cosa offre agli italiani ma anche ai ticinesi e a chi arriva dal Gottardo? Questa tratta vi apre le porte dell’Europa. E potrebbe risolvere anche il problema dell’elevato numero dei frontalieri. Sul territorio di Induno Olona, per esempio, ci sono diverse aree dismesse libere che si presterebbero allo sviluppo economicoimprenditoriale in accordo con i ticinesi. Se un imprenditore svizzero o un imprenditore delocalizzato in Svizzera non ha più possibilità di svilupparsi, lo può fare nella parte italiana a condizione che la banca svizzera possa fare da banca a queste imprese.


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