Imprese e Teritorio

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M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N FA R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

INCHIESTE

D’IMPRESA

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DAI VITA AL TUO CREDITO

CHECK-UP FINANZIARIO E ACCESSO AL CREDITO 5 buone ragioni per cui è importante effettuare un’analisi finanziaria prima di chiedere un finanziamento

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editoriale

LA CERTEZZA È LA BENZINA DELL’IMPRENDITORIALITÀ Siamo in recessione tecnica: lo ha certificato laconicamente l’Istat a fine gennaio, registrando una contrazione pari allo 0,2% del Pil italiano nel quarto trimestre del 2018. Al netto delle responsabilità, che nelle diverse interpretazioni divergono in modo sensibile, è elemento inconfutabile un trend che non può lasciare indifferente il mondo dell’economia in generale, e quello della piccola impresa in particolare. Vale, tale considerazione, in special modo per la provincia di Varese che, dati alla mano del nostro Osservatorio per il Mercato del lavoro, nel 2018 ha chiuso con un calo occupazionale dell’1,6%, di per sé già superiore al poco confortante -0,5% rilevato a metà anno. Una convergenza negativa solo parzialmente compensata dalla ripresa dell’occupazione femminile, dall’inserimento di giovani nelle imprese e dalla progressiva avanzata dei settori servizi e chimico, gomma e plastica ma, di contro, depressa dai segni meno alle voci tessile ed edilizia. È dunque in chiaroscuro il 2019 nel quale si ritrovano ad operare le piccole e medie imprese, ancora una volta chiamate ad espri-

mere il meglio di sé per resistere, crescere, migliorare e rigenerarsi assecondando le richieste di mercati sempre più impegnativi. Non ci sottrarremo, noi imprenditori, alla chiamata di responsabilità né rinunceremo ad essere portatori di benessere, seppure stretti tra burocrazia, difficile accesso al credito e complessi adempimenti normativi. Continueremo a garantire resilienza al cambiamento e ad assumerci il rischio (elevato) di fare impresa. Ma lo faremo, questa volDAVIDE GALLI PRESIDENTE CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE

ta, rivendicando il diritto di operare sotto un cielo sgombero dalle nubi dell’incertezza: in quale Europa opereremo? Con quali collegamenti potremo mantenere un accettabile livello di competitività su scala globale? Con quali strumenti normativi dovremo interagire? In quali scenari potremo immaginarci di lavorare nel medio-lungo periodo? Nulla crea più sfiducia dell’incertezza e nulla più della sfiducia trasforma le folate di vento in tsunami.

SOMMARIO

imprese e territorio | 3


SOMMARIO Editoriale

Sfondare con lo storytelling

03 07

Arriva la democrazia del finanziamento. Ma sul rischio tutti dovranno fare i conti con i numeri

10

Fattore distretto e produttività Cosa si può fare per migliorare la competitività

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Non spenderemo di più Spenderemo meglio per lo sviluppo

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La ripresa non decolla Chi va a caccia del capro espiatorio?

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La vera rivoluzione per l’italia è la fibra

Più affidabile e in tempo reale Così la rete 5g entra in azienda

È il “saper essere” il nuovo valore d’impresa

Tanti i progetti, poche le risorse E si resta in coda

Occhio alla sicurezza Il pericolo può nascondersi anche in un tostapane 4 | imprese e territorio

26 30 34 38 42

05

Sfruttare e non subire Nuove regole per la globalizzazione

08

Darwin in banca

12

Serve più realtà nel credito Noi puntiamo sul valore delle nostre Pmi

16

Chi è champion vince in brevetti e fatturato

20

Nessuna regione “dona alle altre”. L’autonomia è disuguaglianza anche dei diritti

24

Pmi “costruttrici” di territorio La nuova urbanistica è aperta

28

Lo scatto di Milano farà avanzare anche la Lombardia?

32

Facciamo squadra O l’export del Made In resterà “small”

36

Nuovi valori: spunti di vista fuori dal coro tra solidarietà ed economia di “casa”

40

Nell’Italia che va sul web vincono il calcio e Marchionne Ma la fattura elettronica…

NEL PROSSIMO NUMERO Consigli pratici di cyber security Tecnologie: su cosa dobbiamo puntare? Dove e come investire E-Commerce, facciamo il punto Varese/Canton Ticino, questione di rapporti

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONE Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico - Confartigianato Imprese Varese Impaginazione - Geo Editoriale - www.geoeditoriale.it Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.600 copie - Chiuso l’8 febbraio 2019 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


PRIMOPIANO INTERVISTE

SFRUTTARE E NON SUBIRE NUOVE REGOLE PER LA

GLOBALIZZAZIONE imprese e territorio | 5


PRIMOPIANO

Parliamo con il ministro Gian Marco Centinaio delle politiche legate alla tutela del Made in Italy: «Servono una rete efficace e una voce comune per emergere tra i giganti del business» 6 | imprese e territorio

EMANUEL DI MARCO

«La globalizzazione non venga più vista come un elemento da subire, ma come un’opportunità per le nostre eccellenze». Ha le idee chiare il Ministro delle Politiche agricole alimentari, forestali e

del turismo, Gian Marco Centinaio, nel presentare l’attività del governo sul tema della difesa del Made in Italy: «Lavoriamo per far sì che le aziende italiane possano guardare con fiducia al mercato estero per trovare occasioni di business. Il mercato italiano, pur

avendo ancora qualche margine di crescita, risulta in diversi


Michele Geraci - sottosegretario al Mise

SFONDARE CON LO

STORYTELLING Nuove strategie in arrivo: il punto con il sottosegretario Michele Geraci

ambiti saturo, e guardare all’estero vuol dire anche poter sfruttare margini di sviluppo rilevanti. Basti pensare che sul fronte alimentare l’Italia esporta per 42 miliardi di euro, mentre la Germania - che non ha certo a disposizione l’incredibile varietà di prodotti del nostro Paese - esporta per 60 miliardi. Un dato che fa riflettere». E sugli ambiti di competenza del Mipaaft, Centinaio aggiunge: «Abbiamo a disposizione 90 milioni di euro per la promozione di food e turismo mentre per quanto riguarda la tutela il Ministero si affida al Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf), che opera a livello internazionale per affrontare il fenomeno dell’Italian Sounding». Ovvero la messa in vendita di prodotti non realmente Made in Italy ma aventi chiari riferimenti al Belpaese: «Un esempio semplice e recente ci ha visto bloccare un falso limoncello che presentava in bottiglia la bandiera italiana ma che non conteneva limone e non era di certo stato realizzato in Italia. Abbiamo circa ottocento persone a livello nazionale che ogni giorno lavorano, soprattutto sul web, per andare a scovare e bloccare prodotti contraffatti. E per il 2019, su questo fronte, abbiamo aggiunto altri 4 milioni di euro». Più in generale, con riferimento quindi alla tutela della manifattura

italiana costantemente alle prese con le sfide proposte da un mercato caratterizzato dalla presenza di giganti come la Cina, il ministro evidenzia: «Abbiamo indicato Michele Geraci, sottosegretario allo Sviluppo economico, come la persona che a livello governativo segue la promozione del Made in Italy in giro per il mondo, con una certa attenzione ovviamente proprio verso la Cina. Si sta cercando

di lavorare per fare rete con le imprese e i diversi enti, per presentarci all’estero con una voce sola e accrescere quindi la competitività del sistema». I dati Istat relativi allo scorso novembre evidenziano un aumento del 3,3% delle esportazioni verso la Cina rispetto a 12 mesi prima: «A eccezione dell’automotive tutti i settori presentano segno positivo. In sostanza, ci siamo dati una parola d’ordine: non subire più la globalizzazione ma cavalcarla. L’Italia ha le potenzialità e le eccellenze per poterlo fare».

L’obiettivo è quello di creare un vero e proprio storytelling, una narrazione del sistema Italia, per sostenere l’export. Lo afferma Michele Geraci, economista e Sottosegretario allo Sviluppo economico, a cui è stata assegnata la delega come responsabile del commercio internazionale e degli investimenti esteri. «Stiamo operando su due fronti, in particolare quello politico, cercando di negoziare le migliori condizioni di accesso ai mercati, e quello della promozione delle esportazioni. In tal senso abbiamo identificato, analizzando una combinazione di dimensioni e opportunità, alcuni Paesi verso cui indirizzeremo sforzi maggiori. Ad esempio l’India per l’agroalimentare e le macchine agricole, il Giappone per moda, food e beverage, la Cina per macchinari, food e furniture, e la Corea». Aree, affiancate a quelle consolidate, potenzialmente in grado di sviluppare ulteriormente l’export tricolore, «e stiamo pensando di realizzare una forma di storytelling, attraverso una sorta di piramide che, a partire da elementi storici e culturali, abbia al suo apice i prodotti del nostro manifatturiero. La narrazione, quindi, come leva per accrescere l’export». Un impegno rilevante, sottolinea Geraci, riguarda le Pmi: «Abbiamo attualmente 220mila piccole e medie imprese che esportano abitualmente. Vogliamo far crescere questo numero. Come? Identificandole e aggregandole». Con quali attività, nello specifico? «Nei mesi autunnali abbiamo svolto alcune missioni all’estero per individuare Paesi target, e ora stiamo girando l’Italia per individuare le realtà produttive che meglio possono adattarsi a quegli stessi Paesi. Si tratta di fare rete, anche con regioni, sindaci, associazioni, università e centri studi». E. D. M. imprese e territorio | 7


Matteo Rizzi – esperto di fintech

PRIMOPIANO / FOCUS CREDITO - 1

DARWIN IN BANCA DAVIDE IELMINI

8 | imprese e territorio

La rivoluzione del fintech ha appena iniziato a stupire riunendo passato e futuro


PRIMOPIANO / FOCUS CREDITO - 1

Una parola inglese – disruption – riassume meglio di altre le grandi rivoluzioni di oggi. Perché dagli anni della crisi ad oggi, si sono “rotte” le modalità che stavano alla base dei processi di produzione, dello sviluppo dei prodotti, dei modelli di business, delle nuove tecnologie. Del mercato del credito e della finanza. Disruptive è anche la frase con la quale Matteo Rizzi (@matteorizzi, www.matteorizzi.me), apre questa nostra chiacchierata: «La fintech sta alle banche come Darwin sta all’evoluzione: il business non si fa più come 50 anni fa». Parola di chi è stato nominato da Financial News tra i 40 manager più influenti al mondo in ambito Fintech. A lui chiediamo – notizia recente – quanto cambieranno gli equilibri con le licenze bancarie concesse a Facebook, Google e Amazon: c’è di che preoccuparsi? «Innanzitutto, dovremmo capire cosa si intende con “licenza bancaria” – commenta l’esperto - perché Amazon ha già qualche miliardo di dollari di prestiti fatti a Pmi, ma non solo. Tu acquisti su Amazon e puoi pagare a rate, oppure puoi chiedere un finanziamento. Facebook ha abilitato pagamenti su Messenger. Tutti questi colossi hanno app per i pagamenti su cellulare. La notizia fa scalpore ma è un po’ “outdated”, antiquata, e soprattutto opinabile nel suo impatto. Perché oggi c’è un ecosistema di attori che può tranquillamente fare concorrenza alle banche non solo sui pagamenti ma anche su factoring, gestione del risparmio, strumenti assicurativi, prestiti a corto termine, ecc. Addirittura, sul lato B2B e B2C, fanno già tutto quello che fanno le banche». È una rivoluzione inarrestabile. Un po’ come lo è stata quella di Uber. Il vecchio e il nuovo, per Rizzi, si possono mischiare. Proprio pensando ai tassisti, il consulente fintech ricorda quanto la app Mytaxi abbia trovato una soluzione tanto per i professionisti del settore quanto per i clienti: «Il lavoro quotidiano, per i tassisti, si è fatto più snello e agli utenti è stato offerto un servizio cento per cento smart». La parola chiave, in casa fintech, è questa: bisogna sganciarsi dai vecchi modelli economici. Al centro di tutto, però, ci deve stare una strategia precisa: «Le banche parlano tutte di digital transformation, spesso più di nome che di fatto. Gli inglesi direbbero che “è come mettere il rossetto al maiale”».

che da parte delle Pmi, che «nel mondo del credito alternativo sanno già dove andare e cosa cercare, ma devono avere fame di innovazione. Tutti, oggi, hanno bisogno di fintech: dal tesoriere della Fiat alla microimpresa», rimarca il consulente. Eccone un esempio: l’Osservatorio Crowdinvesting del Politecnico di Milano su portali autorizzati Consob, al 3 gennaio 2019, ha rilevato il balzo dell’equity crowdfunding in Italia. La raccolta fondi ha superato i 36 milioni di euro: un numero triplo rispetto al 2017. Complicato? «Potrebbero bastare dieci dita e un browser, ma non è così perché nella “cassetta degli attrezzi” del nuovo credito ce ne sono alcuni che vanno spiegati. Non puoi dire “provo con il cacciavite” e poi vediamo cosa accade…». Il consiglio che Rizzi offre a banche e confidi, in aggiunta a quelli raccontati dalla professoressa dell’Università Bocconi Anna Omarini (intervista alle pagine 10 e 11), è questo: guardare da vicino il mondo delle start up e diventare partner di queste realtà che sono veloci, «ti aprono la testa e ti fanno capire che all’interno della tua struttura non occupi tutte le intelligenze che ti servono per fare il grande salto. Proprio nel mondo del confidi, a portare le innovazioni più tremende sono state la ricchezza dei dati a disposizione e la velocità di calcolo. Dati non strutturali e non ufficiali che hanno una grande importanza. Dobbiamo poi ricordare che i tempi per una valutazione del credito si sono accorciati notevolmente, e che ci sono start up in grado di procedere ad analisi di dati geo-territoriali per consigliare la location cittadina più adatta per l’apertura di una nuova attività. Ecco perché anche i confidi devono diventare light».

GLI ISTITUTI DI CREDITO PARLANO DI UNA DIGITAL TRANSFORMATION SPESSO PIÙ DI NOME CHE DI FATTO. GLI INGLESI DIREBBERO CHE «È COME METTERE IL ROSSETTO AL MAIALE»

L’Italia è lenta ma non è cieca; l’apprensione nei confronti dei modi alternativi che stanno invadendo il campo del credito c’è, ma spesso si riassume in una sola frase, da parte delle istituzioni finanziarie: «Vorrei, ma non posso». In fondo è solo una questione di cultura. An-

Analisi del tessuto imprenditoriale, dei fatturati dei possibili competitor, del numero di loro collaboratori e dei relativi stipendi sono variabili che bisogna conoscere. Ma queste analisi non sono da tutti. Prosegue Rizzi: «Oggi una banca non riesce a prestare, a un fioraio, diecimila euro tre settimane prima della festa di San Valentino. Perché per quel prestito, la spesa in carta supererebbe il guadagno. E perché non possiede i dati che servirebbero per valutare l’andamento di quell’attività. Il credito alternativo ha fatto nascere le prime startup (adesso miliardarie) in Usa. In Cina saranno decine di migliaia. Tutte, nel mondo, fanno concorrenza alle banche. Questo lavoro le start up lo fanno meglio di altri, con più informazioni e a costi inferiori. Ecco perché è importante allearsi con loro: hanno un approccio smart agli algoritmi e aumentano l’efficienza di chi ci lavora insieme».

imprese e territorio | 9


PRIMOPIANO / FOCUS CREDITO - 2

ARRIVA LA

DEMOCRAZIA DEL FINANZIAMENTO. MA SUL RISCHIO TUTTI DOVRANNO FARE I CONTI CON I

NUMERI 10 | imprese e territorio


PRIMOPIANO / FOCUS CREDITO - 2

«Come dovranno cambiare le banche? Erogando nuovo credito. Ma bisognerà capire quanto ne verrà erogato e come. Le imprese ne hanno bisogno per macinare fatturato, esportare e rinnovarsi tecnologicamente. E le banche dovranno fare la loro parte». A dirlo è Anna Omarini, ricercatore di Economia degli Intermediari finanziari al Dipartimento di Finanza dell’Università Bocconi e docente senior alla Sda Bocconi School of Management di Milano. Con lei parliamo di fintech e banche. Partendo da alcuni dati: entro il 2023 gli investimenti alternativi raggiungeranno i 19mila miliardi di dollari; in Europa il 68% delle Pmi si dimostra ottimista nell’approccio di un istituto bancario per ottenere quanto serve, mentre in Italia la percentuale scende al 58%. Professoressa, la financial technology come strumento parallelo a quelli bancari? È un mercato per certi aspetti parallelo, che offre prodotti nuovi alle imprese e rende più accessibile il credito a certe tipologie di aziende, a partire dalle Pmi. Per esempio, con piattaforme Peer-to-peer, dove si mettono in relazione soggetti interessati a prestare denaro con soggetti che lo chiedono. Però le tipologie di raccolta fondi sono molteplici: dall’anticipo fatture ai finanziamenti a breve termine. Più di un terzo delle prime 100 società di fintech a livello mondiale, ha sviluppato il proprio core business nel Peer-to-peer lending e nei servizi di pagamento digitali. Quali i vantaggi del fintech? Principalmente sono tre: il credito viene erogato in tempi più brevi rispetto a quelli delle banche (in alcuni casi anche in poche ore), si mettono in relazione fra loro realtà che prima non si conoscevano, si accolgo-

ANNA OMARINI (BOCCONI): «GLI ISTITUTI DI CREDITO CONTINUANO A ESSERE IL PARTNER IDEALE MA I NUOVI COMPETITOR DIMOSTRANO INTERESSANTI TASSI DI CRESCITA» no segmenti di mercato che non verrebbero accettati dalle banche. È la democratizzazione del credito. Però anche le società fintech ragionano sul rischio del soggetto che chiede credito. E riusciranno a restare sul mercato se sapranno gestire questo rischio. Diciamo anche, però, che la maggior parte delle realtà fintech sono state fondate o sono composte principalmente da due aree di competenza: bancaria e informatica. La prima riconosce i limiti del credito tradizionale con particolare riguardo alle Pmi, mentre l’altra attribuisce valore maggiore ai dati tradizionali e non. Comunque, un’azienda con una rischiosità particolarmente elevata avrà sempre problemi. Financial technology come competitor o come partner delle banche? Dipende dalla lungimiranza degli istituti di credito, e dal fatto che anche l’economicità degli strumenti fintech va considerata caso per caso. Il prezzo non sempre fa la differenza perché l’imprenditore deve considerare il valore che può ottenere, la facilità con la quale può accedere a questi strumenti e la possibilità di integrare le opportunità offerte dalle fintech con altri servizi per entrare nella logica – anche marginalmente - della diversificazione dei prodotti. Tanto diversifico le fonti di finanziamento e tanto maggiore sarà la loro stabilità in azienda. Comunque la finanza tecnologica ha reso il mercato più attento, più effervescente e più orientato all’innovazione. Gli istituti di credito continuano a essere il partner ide-

ale, tuttavia i nuovi competitor dimostrano già interessanti tassi di crescita e potranno sviluppare il proprio business non solo in concorrenza ma anche in partnership con le banche. Però lei dice che le banche «si dovranno aprire»: in che senso? Il 13 gennaio 2018 l’Italia ha recepito la direttiva europea 2015/2366 sui pagamenti elettronici, conosciuta come PSD2 (Payment Services Directive 2), che dovrà essere attuata entro la metà del 2019. Con questa i clienti delle banche potranno decidere a chi dare accesso alle informazioni del loro conto corrente e nel gioco entrano con forza le fintech. Le banche, pertanto, si dovranno attrezzare prendendo in considerazione anche le opportunità derivanti dall’open banking sino a trasformare la propria attività in “bank as a platform”. Un approccio al banking differente, e integrato in un network, che fonda la propria proposta su facilità, semplicità, accessibilità e trasparenza. Ma anche un modo per superare il concetto di banca tradizionale, perché qui si ragiona sul concetto di piattaforma. Quindi gli istituti di credito come si dovranno comportare? Il nuovo non deve spaventare, ma per affrontarlo con consapevolezza le banche dovranno partire dai reali bisogni delle imprese. Poi procedere con un’analisi interna, e provare a simulare alcuni scenari, per rendersi conto delle opportunità più idonee alla propria realtà e ai clienti in portafoglio. In tutto questo i costi non dovranno prevalere sulla scelta, perché customer experience e prossimità nei bisogni del mercato saranno i fattori che guideranno i modelli di banking e di credito nel prossimo futuro. Davide Ielmini imprese e territorio | 11


PRIMOPIANO / FOCUS CREDITO - 3

SERVE PIÙ REALTÀ NEL CREDITO

NOI PUNTIAMO SUL

Andrea Bianchi – direttore generale di ConfidiSystema!

VALORE DELLE NOSTRE PMI

12 | imprese e territorio

Il programma di sviluppo del dg di ConfidiSystema!, Andrea Bianchi: «Vogliamo diventare un hub della finanza appositamente rivolto alle Pmi, per poterne soddisfare i bisogni più diversi e mirati. E per portare la mobilità finanziaria verso l’economia reale»

Se in questi ultimi anni le banche sono state chiamate a una riorganizzazione tanto interna quanto rivolta al portfolio prodotti, anche i confidi non hanno mancato l’appuntamento con una trasformazione richiesta dai tempi e da una imprenditoria che ha dovuto rispondere alle diverse richieste dei mercati con strumenti diversi: più agili, più flessibili, più personalizzati. Andrea Bianchi, direttore generale di ConfidiSystema!, non ha dubbi: «Il credit crunch non è finito; i prestiti si contraggono più marcatamente per le imprese di minori dimensioni; la banca commerciale, da sempre conosciuta come soggetto volto alla raccolta di denaro per poi reinvestirlo sul territorio, è un modello che sta cambiando. Più dedicato alla gestione dei patrimoni che all’attività creditizia. Però non manca la liquidità: se è vero che il credito verso le imprese scende, è altrettanto vero che il risparmio continua a crescere. Nell’ulti-


cato. Quello che conta è poter intercettare il vero valore delle imprese: quello che nasce dall’appartenenza al territorio. Ma c’è dell’altro… Cosa? Da un lato ci auguriamo che le banche ritornino ad essere espansive e a concedere più finanziamenti (e con queste il nostro rapporto sarà sempre più di partenariato, perché diamo loro una mano condividendone i rischi); dall’altro dobbiamo far crescere nelle imprese la consapevolezza che le modalità di dialogo con un istituto di credito sono meno complicate di quanto lo possano essere quelle con i mercati finanziari. Nelle aziende, la gestione della finanza deve diventare un’attività tipica e in questa sfida ci sentiamo, all’interno dei sistemi associativi, direttamente coinvolti.

mo anno ne sono stati accumulati 4.300 miliardi di euro. Ma bisogna ammettere che questo risparmio sta andando in strutture poco abituate a investire nell’economia reale». Come avvicinare l’economia reale alla finanza? Il denaro deve essere investito nelle aziende – il soggetto principe dell’attività del confidi - attraverso strumenti di finanziamento immediato. È per questo che vogliamo creare sintonia tra l’economia reale e il risparmio facendo leva su canali, anche alternativi, che siano in grado di integrare l’offerta di credito delle banche. Come? Valorizzando il nostro ruolo di garante: non più e solo partner delle banche ma anche protagonista del mondo che cambia partecipando a Fondi di Investimento Alternativi

(Fia) per investire nelle imprese. Per stare ancora dalla loro parte. Certo si tratta ancora di una frontiera da esplorare, ma ci sono spazi da conquistare: la nostra missione è quella di sostenere l’accesso alla finanza alla luce di una sempre crescente difficoltà, da parte delle banche, di concedere maggiori crediti. Prodotti anche appartenenti al fintech? La tecnologia deve aiutare la finanza d’impresa per abbatterne i costi e aumentarne l’efficienza. Ma il nostro sistema imprenditoriale è a tal punto tipico, che non possiamo non considerare la sua componente territoriale. Il fintech può essere uno strumento e un metodo valido, e ne stiamo sperimentando alcune funzioni (con l’adesione ai fondi di alcune società di financial technology), però la nostra sensazione è che, per ora, possa restare confinato alle esigenze di specifiche fasce di mer-

Le imprese chiedono velocità di erogazione e linee di finanziamento sempre più su misura. Quali gli strumenti a loro favore? ConfidiSystema! sta utilizzando la propria finanza di proprietà per la sottoscrizione di minibond e per “Finanza Subito”, il prodotto con il quale l’impresa può ottenere un prefinanziamento di importo pari al 90% di quello richiesto alla propria banca e garantito dal confidi. E questo nell’arco di circa due settimane. Inoltre, c’è Fei-Innovfin, un plafond di 26 milioni di euro per le Pmi che investono nella produzione, nello sviluppo e nell’implementazione di prodotti, processi, servizi, metodi di produzione o di distribuzione innovativi. Infine, abbiamo sottoscritto parte delle quote dedicate da “October”, piattaforma di lending, al mondo dei confidi. Di cosa si tratta? Come ho anticipato, siamo entrati nel mondo fintech collaborando con alcune società che ne fanno parte. E questo perché vogliamo proporci come un “hub della finanza” appositamente rivolto alle Pmi, per poterne soddisfare i bisogni più diversi e mirati. Per portare la mobilità finanziaria verso l’economia reale. D. Iel. imprese e territorio | 13


PERCENTUALE AZIENDE CHAMPION NEI DISTRETTI, DIVISIONE REGIONALE VENETO

CONFRONTO DISTRETTI ITALIANI E TEDESCHI Propensione all’export (export in % valore aggiunto)

12,1%

FRIULI VENEZIA GIULIA PIEMONTE

GERMANIA

10,6%

LOMBARDIA

39,2%

LOMBARDIA

10,3%

MEDIA ITALIA

40,1%

VARESE

11,2%

35,5%

ITALIA

9,1%

28,6%

VOCAZIONE MANIFATTURIERA

NUMERO IMPRESE CHAMPION NEI DISTRETTI PER MACRO-AREE

(valore aggiunto manifatturiero in % valore aggiunto totale)

VARESE

MODA 403 imprese, di cui 145 filiera pelle

28,8%

GERMANIA

20,3%22,8%

LOMBARDIA

AGROALIMENTARE

226 imprese,

ITALIA

16%

di cui 82 vitivinicolo

METALMECCANICA 588 imprese, di cui 301 meccanica

INTERMEDI

167 imprese, di cui 125 gomma e plastica SISTEMA CASA 163 imprese, di cui 108 mobili

ALTRI 85 imprese

PERCENTUALE EVOLUZIONE FATTURATO periodo 2008 – 2016

+50,2%

PRIMI 10 DISTRETTI PER NUMERO DI IMPRESE CHAMPION

34

+10,2%

MECCANICA STRUMENTALE

32 MECCANICA STRUMENTALE

+5,9%

94 METALMECCANICA

Varese

AZIENDE CHAMPION

Lecco

MEDIA DISTRETTI

AREE NON DISTRETTUALI

Bergamo

81

123

MATERIE PLASTICHE

METALLI

Treviso, Vicenza, Padova

Brescia

57

33

MECCANICA STRUMENTALE

LEGNO E ARREDAMENTO

INDICE DI DIVERSIFICAZIONE DEI PRODOTTI

Vicenza

Brianza

53

30

35

TESSILE E ABBIGLIAMENTO

PELLETTERIA E CALZATURE

CONCIA E CALZATURE

Prato

Firenze

Santa Croce sull’Arno

279,4 156,7 149,7 129,6


FATTORE DISTRETTO E PRODUTTIVITÀ COSA SI PUÒ FARE PER MIGLIORARE LA COMPETITIVITÀ

Stefania Trenti - responsabile Industry Research della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo

ApprofondimentI

Uno studio di Intesa Sanpaolo delinea pregi e difetti di un campione di 17mila imprese italiane. Si parte dal gap con la Germania e si arriva alle dimensioni (piccole) che talvolta frenano l’export e le sinergie

Il manifatturiero in Lombardia e nella provincia di Varese tiene duro. Lo abbiamo visto nei grafici relativi allo studio di Intesa Sanpaolo (pag. precedente) su un campione di 17mila imprese italiane. Uno studio che evidenzia, settore per settore, come il modello dei distretti manifatturieri funzioni ancora molto bene. Numeri favorevoli quindi, che celano però anche qualche ombra. Prima fra tutte la produttività, che in Italia stenta ancora a crescere. Abbiamo incontrato Stefania Trenti, Responsabile Industry Research della Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo, che ha curato lo studio e con la quale abbiamo cercato di analizzare la situazione nel dettaglio. Partiamo dalla produttività: cosa frena la crescita delle imprese italiane? Il vero spread nei confronti della Germania è proprio quello relativo alla produttività. Dietro a questa stagnazione emerge sicuramente un tema di sistema Paese, in termini di burocrazia, mancata efficienza del sistema giudiziario, limiti nel modello di formazione, incapacità di trovare un rinnovamento anche a livello generazionale. Le nostre imprese sono penalizzate anche perché sono specializzate nei settori più tradizionali, che sono quelli con meno valore aggiunto per addetto. Ma questa è una delle nostre caratteristiche e dobbiamo farci i conti. Una parte però di questo gap di produttività deriva anche dalla dimensione delle aziende.

Molte imprese rimangono piccole. Perché secondo lei? Il Made in Italy è fatto di tantissime nicchie. La cosa straordinaria è che l’Italia, nell’export, ha la maggiore diversificazione di prodotti al mondo. Il doppio della Germania, quasi tre volte la Cina. Questo perché ha un tessuto produttivo fatto di piccole realtà che lavorano in campi molto specifici. Da un lato è la ragione del loro successo, ma dall’altro evidentemente rappresenta un vincolo alla crescita, perché una volta saturata la propria nicchia di mercato, diventa difficile immaginare di crescere ulteriormente. Uno dei modi con cui lo si può fare, è aprire un’altra nicchia, diversificare il proprio prodotto. Questo viene fatto, lo vediamo nei distretti, grazie alla creazione di gruppi o all’acquisizione di imprese che magari erano non propriamente concorrenti, ma che lavoravano su settori e prodotti correlati, ma diversificati.

UNA CARATTERISTICA DELL’IMPRENDITORIA DI VARESE È QUELLA DI ESSERE DI ANTICA DATA: UN NUMERO MOLTO ELEVATO DI AZIENDE HA FATTO PASSAGGI GENERAZIONALI SUPERANDONE ANCHE LE CRITICITÀ

C’è una difficoltà diffusa, da parte degli imprenditori italiani, ad aprire le proprie porte a capitali esterni… Alcune di queste imprese, che chiamiamo champion, devono parte dei loro successi al fatto di appartenere a gruppi più grandi, che permettono per esempio di andare all’estero con più facilità. C’è poi un discorso di servizi integrati di gruppo, per cui le aziende mantengono la propria autonomia, che fa di loro dei casi unici, ma al tempo stesso possono godere dei vantaggi di una dimensione più grande. Si imprese e territorio | 15


xxxx

CHI È

CHAMPION VINCE IN BREVETTI E FATTURATO

tratta comunque di aziende che hanno un buon livello di patrimonializzazione. Che sia aperto oppure no, il capitale ci deve essere e questo dimostra il commitment della proprietà nei confronti del proprio business. Sono aziende in cui l’imprenditore ha investito in maniera considerevole. La Lombardia, secondo la vostra ricerca, è in cima alla classifica per percentuale di imprese virtuose. Cosa la caratterizza? L’elemento interessante è che in Lombardia le imprese virtuose sono presenti anche in settori dove il contesto di mercato non è stato favorevole. Mi riferisco in particolare al settore del tessile-abbigliamento, sottoposto alla sfida dei Paesi emergenti, Cina in primis. Un’altra delle caratteristiche dell’imprenditoria lombarda e in particolare della provincia di Varese, è quella di essere di antica data. Riscontriamo un numero elevato di aziende che hanno fatto il passaggio generazionale e che spesso arrivano addirittura alla terza generazione. È un elemento positivo, perché queste transizioni sono molto delicate e possono provocare delle discontinuità. Effettivamente a Varese gli imprenditori sono riusciti ad affrontare questo difficile momento con successo, dando continuità alla propria attività. Gabriele Nicolussi 16 | imprese e territorio

Sono 1.632 (9% del totale) le aziende champion del settore manifatturiero presenti nei distretti italiani. Lo dice uno studio di Intesa Sanpaolo, che ha analizzato a partire dal 2012 un campione di 17mila aziende, tutte con un fatturato superiore ai 400mila euro. I campioni si differenziano per una crescita del fatturato superiore al 15%, un aumento di addetti tra il 2012 e il 2016 e, sempre per il 2016, un patrimonio netto superiore al 10% e un margine Ebitda (gli utili prima degli interessi, delle imposte, del deprezzamento e degli ammortamenti) non inferiore all’8%. Le aziende virtuose dei distretti spiazzano le altre anche per numero di brevetti (+65,1%), numero di partecipate estere (+24,6%), percentuale di imprese che fa


APPROFONDIMENTI

export (+19,9%) o che appartiene a gruppi (+17%). Tra le regioni a più alta concentrazione di champion, la Lombardia si piazza al quarto posto (10,3%), superata da Piemonte (10,6%), Friuli Venezia Giulia (11,2%) e Veneto (12,1%). La media italiana, al quinto posto, si ferma invece al 9,1%. Se mettiamo a confronto i distretti italiani con quelli tedeschi, Varese vince la media della Germania sia per la propensione all’export (40,1% di valore aggiunto rispetto al 39,2% tedesco) sia per vocazione manifatturiera (28,8% contro 22,8%). Guardando a questi valori, Lombardia e Italia rimangono invece fanalini di coda rispetto ai competitor tedeschi, rispettivamente con

SE METTIAMO A CONFRONTO I DISTRETTI ITALIANI CON QUELLI TEDESCHI VARESE SUPERA LA MEDIA DELLA GERMANIA PER PROPENSIONE ALL’EXPORT 35,5% - 28,6% (export) e 20,3% - 16% (vocazione manifatturiera). Sempre parlando di distretti, nel nostro Paese domina quello della metalmeccanica (588 imprese), ma si difendono bene anche la moda (403) e l’agroalimentare (226). La Lombardia occupa i gradini più alti del podio con Brescia (123 imprese champion nel comparto dei metalli) e Lecco (94 nella metalmeccanica). Anche Varese fa la sua par-

te, piazzandosi al settimo posto con la meccanica strumentale (34 imprese) e al 23esimo per articoli in gomma e materie plastiche (21). La ricerca evidenzia quindi quanto i distretti siano e rimangano un punto di forza nel sistema Paese. Lo dimostra anche lo studio dell’evoluzione del fatturato che arriva, per il periodo 2008-2016, a un +50,2% nelle aziende champion, scende a +10,2% nella media dei distretti e si ferma a +5,9% nelle aree non distrettuali. Ultimo dato: la diversificazione dei prodotti esportati. In questo l’Italia sbaraglia tutti, con un indice pari a 279,4 punti, quasi il doppio degli Stati Uniti (156,7) e quasi 150 punti più della Cina (129,6). G. Ni. imprese e territorio | 17


inchiesta regionalismo - 1

NON SPENDEREMO DI PIÙ SPENDEREMO MEGLIO PER LO

SVILUPPO VALERIO ONIDA*

Il tema del “regionalismo differenziato”, cioè della attribuzione a singole Regioni di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, su iniziativa delle stesse e con legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta, previa intesa con lo Stato, è sul tappeto da quando, nel 2001, fu approvata la riforma costituzionale del titolo V. L’idea era quella di consentire a singole Regioni ordinarie (le cinque speciali hanno il loro statuto approvato con legge costituzionale), che intendessero e si ritenessero in grado di esercitare efficacemente forme di autonomia ulteriori rispetto a quelle definite in via generale dalla Costituzione, di raggiungere accordi in tal senso. Il presupposto è che non tutte le Regioni ordinarie 18 | imprese e territorio

sono uguali, per dimensioni, tradizioni, cultura autonomistica, adeguatezza e solidità di strutture, capacità e volontà di rapportarsi con specifiche esigenze e richieste di autogoverno provenienti dai rispettivi territori e dagli enti locali che ne fanno parte. Questo tipo di istanze appare tanto più sollecitato dallo sviluppo, negli anni successivi alla riforma del 2001 e ancora oggi, di politiche legislative, amministrative e finanziarie di crescente centralizzazione (e quindi di restrizione degli spazi reali di autonomia), che hanno dato e danno agli ambiti di autonomia delle Regioni, anche sulla base (e magari col pretesto) delle difficoltà economiche e finanziarie, una interpretazione sempre più restrittiva.

Tuttavia fino ad oggi questa strada non era stata intrapresa con decisione da nessuno. I referendum consultivi celebrati in Veneto e in Lombardia nell’ottobre del 2017 hanno sollecitato un percorso attuativo che oggi sembra sul punto di essere avviato. Ma grava su questo percorso un equivoco di fondo. Da talune parti si immagina e si prospetta l’idea che l’attuazione della autonomia differenziata si traduca in una alterazione degli equilibri attuali nella distribuzione delle risorse finanziarie pubbliche fra i diversi territori regionali, modificando il cosiddetto “residuo fiscale” delle singole Regioni, cioè la differenza fra la quota di entrate fiscali riscosse nel territorio di quella Regione e la


inchiesta regionalismo - 1

quota di spesa pubblica complessiva (statale, regionale, locale) erogata in quel medesimo territorio. Cioè le Regioni più ricche (prevalentemente del Nord) in cui il residuo è positivo (nel loro territorio la spesa pubblica è inferiore alle entrate riscosse) verrebbero avvantaggiate da una riduzione di tale differenza, mentre le Regioni più povere (prevalentemente del Sud), il cui residuo è negativo (la spesa pubblica nel loro territorio supera le entrate in esso riscosse) ne subirebbero uno svantaggio vedendo ridotta tale differenza. Il presupposto – desiderato o temuto, a seconda dei punti di vista - è cioè quello che l’autonomia differenziata si traduca in una minore redistribuzione di risorse dai territori più ricchi a quelli più poveri, rispetto a ciò che l’attuale struttura del prelievo e della spesa pubblica determina. Non è così. Attribuire a una Regione nuove forme di autonomia, cioè nuove funzioni, comporta naturalmente la necessità di attribuire ad essa anche le risorse corrispondenti per esercitare tali funzioni. Ma questo non significa affatto che in quella Regione la spesa pubblica complessiva (dello Stato e della Regione) aumenterà a scapito della spesa pubblica nelle altre Regioni. Se oggi la spesa pubblica in quella Regione è pari a 100, di cui, poniamo, 60 effettuata dallo Stato e 40 dalla Regione, l’attuazione della autonomia differenziata con lo spostamento di nuove funzioni dallo Stato alla Regione comporterà che la spesa dello Stato in quella Regione diminuisca da 60 a 50 per effetto della perdita di alcune funzioni, e corrispondentemente la spesa della stessa Regione nel proprio territorio aumenti da 40 a 50 per effetto dell’acquisto delle nuove funzioni: ma il totale di 100 resta invariato, e dunque restano invariati la distribuzione della spesa pubblica e il rapporto fra spesa pubblica ed entrate riscosse nel relativo territorio.

ATTRIBUIRE NUOVE FORME DI AUTONOMIA, CIOÈ NUOVE FUNZIONI, AD UNA REGIONE COMPORTA LA NECESSITÀ DI ATTRIBUIRE AD ESSA ANCHE LE RISORSE CORRISPONDENTI MA QUESTO NON SIGNIFICA CHE IN QUELLA REGIONE LA SPESA PUBBLICA COMPLESSIVA FINIRÀ PER AUMENTARE In altri termini, funzioni di governo e quindi di spesa passano dallo Stato alla Regione, ma l’entità della spesa nel rispettivo territorio non cambia. E allora quale “vantaggio” avrà la popolazione della Regione dall’attuazione delle nuove forme di autonomia? Non di avere più risorse pubbliche a disposizione, ma di vedere queste risorse amministrate e spese in maggior misura dalla Regione e in minor misura dallo Stato. La Regione dunque si candida non a spendere “di più”, ma a spendere “meglio” una parte delle stesse risorse che oggi lo Stato destina al territorio di quella Regione. Poi naturalmente potrebbe avvenire che la Regione, divenuta titolare delle nuove funzioni, realizzi una distribuzione della spesa fra i diversi settori parzialmente di-

versa da quella in atto in base all’esercizio di quelle funzioni da parte dello Stato: per esempio sposti risorse da settori già di propria competenza ai nuovi settori in cui acquista competenza, o viceversa (per esempio ritenendo che in un dato settore lo Stato, oggi competente, realizzi degli sprechi, mentre la Regione potrebbe esercitare gli stessi compiti spendendo di meno). O anche potrebbe accadere che la Regione, acquistata una nuova competenza, decida di destinarvi nuove risorse provenienti da nuove o maggiori entrate di cui essa possa disporre, ma sempre prelevate a carico dei propri cittadini (esercitando in modo diverso i poteri di prelievo tributario autonomo – per la verità oggi scarsissimi, se non pressoché inesistenti – che la legislazione fiscale le consente). Ma in ogni caso non vi sarebbe un euro in meno nella quota di entrate fiscali riscosse nel territorio della Regione, che già oggi vengono di fatto destinate ad essere spese nel territorio di altre Regioni, per effetto della redistribuzione che si compie in favore dei territori meno ricchi (il residuo fiscale delle Regioni più ricche), o che già oggi vanno ad alimentare compiti dello Stato indivisibili e non localizzabili sul territorio (come le spese di funzionamento degli organi centrali). Così intesa, in conformità alla Costituzione, l’autonomia differenziata non sarebbe una forma di nuovo egoismo delle Regioni del Nord nei confronti di quelle meno ricche del Sud, ma una chance di sviluppo sul territorio di energie e di potenzialità autonomistiche oggi impedite od ostacolate da una distribuzione di compiti fra centro e periferia largamente a favore del primo.

* Giurista e accademico già presidente della Corte Costituzionale imprese e territorio | 19


incHIESTA REGIONALISMO - 2

NESSUNA REGIONE “DONA ALLE ALTRE”

L’AUTONOMIA È DISUGUAGLIANZA

Adriano Giannola – economista e presidente Svimez

ANCHE DEI DIRITTI

20 | imprese e territorio

«È possibile che, senza riforme costituzionali, inizi un percorso verso un sistema confederale nel quale alcune regioni si fanno Stato, cristallizzando diritti di cittadinanza diversi in aree del Paese diverse... sempre che di Paese si possa continuare a parlare». Ad affermarlo, con riferimento alle richieste di autonomia avanzate da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, è Adriano Giannola, economista e dal 2010 presidente della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. «Le tre regioni del Nord, pur con differenziazioni, hanno stilato un lungo elenco di richieste su materie concorrenti - evidenzia Giannola - tra le quali la sanità e perfino alcune di legislazione esclusiva dello Stato, quali le norme generali sull’istruzione, con l’obiettivo di trasformare beni pubblici “nazionali” in beni pubblici “locali”. Per tutte chiedono di assumere funzioni finora esercitate dallo Stato. Ma il trasferimento di competenze non può pregiudicare il potere legislativo esclusivo dello Stato di decidere in materia. In definitiva, prima di devolvere funzioni e competenze è oggi più che mai cogente e prioritaria l’applicazione delle norme di legge in materia dei livelli essenziali».


incHIESTA REGIONALISMo - 2

La pretesa di trattenere il gettito fiscale generato sui territori, inoltre, viene considerata «un’argomentazione del tutto infondata, inconsistente e pericolosa. Essa continua a far capolino in reiterate dichiarazioni dei presidenti di alcune regioni per i quali obiettivo dell’autonomia rafforzata è anche quello di ottenere la “restituzione ai territori” di risorse cospicue che sarebbero indebitamente loro sottratte. Questa pretesa si basa su una maldestra contabilizzazione del dare e dell’avere tra Stato e Regioni».

Il presidente della Svimez quindi spiega: «I residui fiscali regionali che si chiede di ridurre altro non sono che l’avanzo primario regionalizzato che poco o nulla ha a che fare con il territorio, essendo il risultato in regime di imposta progressivo del processo perequativo, competenza esclusiva dello Stato centrale, tra contribuenti ricchi e poveri, residenti e non nello stesso territorio». Proprio sul tema dei residui fiscali, uno studio realizzato dallo stesso Giannola e dal professor Gaetano Stornaiuolo della

OGGI È PIÙ CHE MAI COGENTE E PRIORITARIA L’APPLICAZIONE DELLE NORME DI LEGGE IN MATERIA DI LIVELLI ESSENZIALI

Federico II di Napoli fornisce una diversa lettura degli stessi: «Ciascuna regione al suo interno ha una quota di popolazione che pur in misura diversa, “dona” e “riceve”. In concreto, grazie all’azione perequativa dello Stato, i ricchi della Lombardia “garantiscono i diritti” dei cittadini delle fasce di reddito più basse della propria regione così come di cittadini di altre regioni. Allo stesso modo, ovviamente in misura diversa, i ricchi della Campania, “garantiscono” i poveri della propria o di altre regioni». «La conseguenza è evidente: non esiste nessuna regione “donante” ma una redistribuzione tra cittadini grazie al fatto che lo Stato titolare del potere impositivo raccoglie le imposte erariali, il cui gettito è più consistente nel Centro-Nord per effetto dei divari di reddito e della progressività del sistema fiscale. Ciò consente di finanziare programmi e politiche di spesa in misura non drammaticamente differente in tutto il territorio nazionale». E ancora: «Il controllo del proprio residuo fiscale in questa vicenda diviene il cavallo di battaglia dei proponenti. Questa pretesa sconta un errore di omissione contabile dovuto al fatto che nel saldo tra entrate e spese pubbliche si omette di includere quella componente di spesa che nel corso degli ultimi venti anni è progressivamente divenuta la più rilevante: l’onere per gli interessi da corrispondere ai titolari del debito pubblico». Il riferimento è a famiglie e imprese, banche, intermediari, assicurazioni, residenti esteri: «Questa posta contabile rappresenta una spesa per lo Stato e un’entrata per i titolari. Ai fini contabili, dunque, il saldo da considerare, non è quello del semplice residuo fiscale ma il residuo fiscale “aumentato” per gli interessi: il residuo fiscale-finanziario. In attesa che maturi la consapevolezza che è un dovere istituzionale fornire il quadro esauriente sul dare e l’avere, magari nella prospettiva di assegnare la “giusta” quota di debito pubblico al futuro sistema di confederazione regionale, è interessante sapere che una prudenziale stima del residuo fiscale-finanziario 2014 per la Lombardia non raggiunge i 13 miliardi, decisamente più contenuto rispetto al residuo fiscale cui si fa riferimento computato in oltre 40 miliardi». E. D. M. imprese e territorio | 21


Approfondimenti

LA RIPRESA NON DECOLLA CHI VA A CACCIA DEL

Massimiliano Valerii – direttore generale del Censis

CAPRO ES «Vedo due ricette in particolare: maggiori investimenti pubblici ricordo che nel decennio di crisi questi si sono ridotti del 32,5%, una cifra enorme e la riduzione del costo del lavoro. Se avessi dovuto scrivere io la legge di Bilancio, mi sarei giocato tutto, anche in deficit, su queste due voci»

IL VALORE DELL’EXPORT HA ACUITO IL GENE “EGOISTA” FISIOLOGICO, L’INTERESSE SI È SPOSTATO PIÙ SU UNA LOGICA DI FILIERA VERTICALE CHE DI RAPPRESENTANZA ORIZZONTALE 22 | imprese e territorio

«La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani». Non lascia indifferenti un passaggio - tratto dal capitolo “La società italiana al 2018” - del 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Si fa riferimento a «una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria, dopo e oltre il rancore, diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». È in questo contesto si trovano, quotidianamente, a operare le imprese. A fornire ulteriori chiavi di lettura è il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii. Nel rapporto si parla di investimenti in formazione in continuo calo: «Investe poco lo Stato, si ritrae anche il cittadino». E sempre meno giovani investono sulla formazione professionale di qualità o sulle lauree Stem: perché? Prima di tutto possiamo parlare di un problema strutturale di natura politica, le risorse pubbliche destinate a istruzione e formazione, in termini di incidenza sul Pil, ci collocano al quartultimo posto in Europa. Ma c’è anche un problema storico, che viene da lontano, legato a un’offerta di formazione per così dire terziaria, di livello universitario, che in Italia si caratterizza in termini esclusivamente di tipo accademico tradizionale a differenza di altri Paesi europei, penso a Germania ma non solo, dove esistono percorsi di formazione terziaria di tipo professionalizzante. Quando si parla dell’antico scollamento tra formazione universitaria e mondo del lavoro, il problema lo possiamo rinvenire qui. È evidente poi che, come conseguenza, dal punto di vista dei giovani l’investimento personale nella formazione non venga più percepito come tale, ed è difficile dar loro torto. Quello che una volta, nell’immaginario collettivo, era una sorta di biglietto da visita per scalare i piani della società, oggi non è più garanzia di un processo di ascesa sociale. Effettuando un confronto con gli altri Paesi europei, in Italia risulta non solamente la differenza retributiva minima tra chi è più formato e chi è meno formato, ma anche la crescita rilevante dell’overeducation, cioè il fatto che i giovani si trovino a ricoprire posti di lavoro per i quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore. A proposito di giovani, riscontriamo che tra il 2007 e il 2017 gli occupati di età compresa tra 25 e 34 anni si sono ridotti del 27,3%, mentre nel-


Approfondimenti

PIATORIO? lo stesso lasso temporale gli occupati tra i 55 e i 64 anni sono aumentati del 72,8%. Quanto, in tutto questo, hanno inciso la crisi e le difficoltà della piccola e media impresa? Va evidenziato che nell’ultimo decennio abbiamo perso 1 milione e 400 mila giovani occupati, anche a causa del declino demografico, ma c’è stato parallelamente un incremento di lavoratori dall’età più avanzata per effetto delle disposizioni in materia pensionistica. Questi due fattori, per le piccole e medie imprese, vogliono dire una perdita netta in termini di creatività e di nuove competenze, elementi che hanno nei giovani i fisiologici portatori. Tutto ciò si traduce in un impatto negativo che si lega anche alla bassa produttività del Paese. Tra l’altro l’attuale giovane generazione, rispetto a quelle precedenti, risulta la più formata - non c’era mai stata una tale incidenza di laureati - e la più aperta alla globalità, pensiamo anche solo alla conoscenza delle lingue straniere. E in più i giovani di oggi hanno competenze pressoché esclusive, e mi riferisco a quelle digitali. Capacità che hanno influito negativamente sulle imprese ma anche sulla pubblica amministrazione. Quali solo le possibili soluzioni? Quando abbiamo presentato il rapporto, ho affermato che la soluzione può essere riassunta in una parola. Anzi, tre: lavoro, lavoro, lavoro. E si crea lavoro creando crescita. Vedo due ricette, in particolare: maggiori investimenti pubblici - ricordo che nel decennio di crisi questi si sono ridotti del 32,5%, una cifra enorme - e la riduzione del costo del lavoro. Se avessi dovuto scrivere io la legge di Bilancio mi sarei giocato tutto, anche in deficit, su queste due voci. Qui entra in gioco il famoso Cuneo fiscale, di cui si parla molto ma che non si è mai riusciti a ridurre. Chiaramente, per le imprese il costo del lavoro è una delle questioni che incidono maggiormente. Ancora con riferimento al rapporto, si legge di un’Italia «sempre più disgregata, impaurita, incattivita, impoverita, e anagraficamente vecchia». Questo vale anche per le imprese? Il tessuto economico è quindi disgregato? Al centro c’è una fotografia generale della società italiana, un clima pesantemente condizionato dalla delusione per una ripresa che si era manifestata lo scorso anno e che quest’anno ci è letteralmente scomparsa sotto gli occhi. Se parliamo poi di disgregazione riferita al sistema di imprese, mi rendo conto che oggi sia difficile tenere insieme un sistema in cui condividere identità e interessi. In questi dieci anni c’è stato un processo strutturale

È nelle Pmi che nascono micro comunità positive in cui imprenditore e operai, titolare e collaboratori lavorano insieme per i medesimi obiettivi. Si tratta di esempi virtuosi EMANUEL DI MARCO

molto importante, legato alla grossa forza dell’export. Le nostre migliori filiere produttive hanno continuato a produrre fatturati positivi non attraverso la domanda interna, ma con l’export. È quindi evidente che se un’impresa si aggancia ai flussi internazionali risulta meno interessata a fare rappresentanza con le altre realtà dello stesso settore. Il valore dell’export, paradossalmente, in questi anni ha acuito il gene “egoista” fisiologico delle imprese. L’interesse si è spostato più su una logica di filiera verticale che di rappresentanza orizzontale. Come invertire questa tendenza? Sicuramente rafforzando il mercato interno. Non dimentichiamo che i consumi nel terzo trimestre dell’anno hanno avuto una crescita pari a zero, e il potere di acquisto delle famiglie risulta ancora di oltre sei punti percentuali sotto quello del 2008. Riattivare la domanda interna ridarebbe strutturalmente spazio a una riaggregazione di interessi orizzontale. Anche l’impresa risulta “incattivita” o resta un elemento di propositività da sfruttare meglio nel contesto nazionale? Senza dubbio la seconda ipotesi. La crisi ha prodotto una selezione quasi darwiniana, fungendo di fatto da setaccio, e le realtà rimaste sono quelle migliori. Con riferimento alle piccole e micro imprese, queste possono sicuramente essere la risposta alla rabbia descritta nel rapporto. È in questi luoghi, infatti, che nascono micro comunità positive in cui imprenditore e operai, titolare e collaboratori lavorano insieme per i medesimi obiettivi. Si tratta quindi di esempi più che virtuosi. Anche se comprendo la delusione degli stessi imprenditori, che deriva dal non aver visto risposte di sistema agli sforzi fatti in questi anni per ristrutturarsi, ad esempio sulla scia degli incentivi per il 4.0. Se le aziende si sono rinnovate, lo stesso non si può dire del sistema. imprese e territorio | 23


approfondimenti

PMI “COSTRUTTRICI” DI TERRITORIO LA NUOVA URBANISTICA È

APERTA

Pietro Foroni – assessore al Territorio e protezione civile di Regione Lombardia

LAURA BOTTER

24 | imprese e territorio

Foroni (Regione Lombardia): «Sensibilizzeremo le amministrazioni comunali, perché il lavoro che si fa all’interno dell’accordo di programma o della convenzione urbanistica preveda un’attenzione specifica alle Pmi locali»

Parti del territorio già urbanizzato, con successiva perdita o decadimento delle proprie funzioni, possono maturare qualità e potenzialità che diventano risorse nell’ottica di interventi di rigenerazione del patrimonio esistente. In poche parole, ripensare l’utilizzo di uno stabile, un isolato o una porzione di città contribuisce ad arrestare il consumo di suolo. In questo senso la Regione Lombardia sta operando per agevolare perché si recuperi o riqualifichi il patrimonio edilizio preesistente, in particolare nelle periferie più degradate. L’obiettivo è il totale azzeramento del consumo di suolo grazie ad azioni tese a rendere più conveniente e più facile il recupero di aree dismesse e la ristrutturazione e il recupero di vecchi edifici. Una rigenerazione che sia pensata e sviluppata all’interno dei Pgt e conveniente, che conseguentemente non separi i centri urbani dalle periferie, che sia frutto di un corretto e fertile partenariato tra pubblico e privato. Se i grandi player industriali o commerciali riescono ad agire su grandi aree, anche dismesse, c’è spazio per le piccole e medie imprese? Secondo l’assessore al Territorio del Pirellone, Pietro Foroni, è possibile, e tutto parte dalla legge contro il consumo di suolo del 2014, a cui ha fatto seguito meno di un mese fa l’approvazione dell’Integrazione del piano territoriale regionale. Qui sono indicati gli indirizzi per le Province e i Comuni per attuare la rigenerazione, ma questa, per diventare una realtà concreta, deve passare attraverso la condivisione d’intenti con gli enti locali che ben conoscono i loro territori, e la formazione dei tecnici e dei portatori d’interesse. Come questa idea può davvero coinvolgere piccole e medie imprese? Creando un circolo virtuoso. Quando parliamo di rigenerazione urbana dobbiamo allargare il discorso a un concetto ampio. Non riguarda solo la grande


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area dismessa, sulla quale hanno messo gli occhi grandi fondi di investimento internazionale o altri, coinvolge anche immobili di piccole dimensione. Realtà che fanno parte delle nostre città e paesi, quindi quelle situazioni residenziali che meritano un recupero. Questo è un contesto in cui la Pmi - parliamo del settore edilizio - può avere terreno più facile, perché si tratta di realtà confacenti alla propria “mission” e alle proprie caratteristiche. Per quanto riguarda la rigenerazione urbana relativa ad aree più ampie, che può sfuggire ad una attenzione o verifica delle Pmi, “toccherà” molto anche alle amministrazioni. Questo tipo di recupero può procedere attraverso accordi di programma o partecipazioni da parte delle amministrazioni locali. E l’amministrazione regionale? Voglio ricordare il contenuto della delibera regionale che abbiamo approvato durante la riunione di Giunta dell’11 giugno 2018 dal titolo: “Interventi di incentivazione per il recupero…”. Si tratta di un primo strumento di analisi e messa a conoscenza di quanto già esiste ed è poco conosciuto, e di previsione di sviluppo futuro. È chiaro che, per quanto riguarda il ruolo di Regione Lombardia, porremo la questione del lavoro locale. Che poi è lavoro della Pmi. Su questo cercheremo di sensibilizzare anche le amministrazioni, perché il lavoro che si ha all’interno dell’accordo di programma o della convenzione urbanistica preveda un’attenzione specifica alla Pmi locale. Ci sono eventuali fondi o incentivi indirizzati in questo senso? Più che fondi ci saranno incentivi. La rigenerazione urbana è l’altra faccia della medaglia della lotta al consumo di suolo. Nel momento stesso in cui, come Regione, andiamo ad agire nel concetto alla lotta del consumo, l’altra faccia è

la rigenerazione urbana. Per renderla più appetibile deve passare un concetto semplice: è più vantaggioso per un operatore o un privato, recuperare l’esistente anziché costruire ex novo. All’interno della legislazione regionale vigente ci sono già delle possibilità. Faccio riferimento alla possibilità, da parte delle amministrazioni comunali, di abbattere del 50% gli oneri di urbanizzazione e di prevedere discrezionalmente aumenti di volumetria. Riduzione di oneri e aumento di volumetria sono discrezionali: lo resteranno? Nelle nostre previsioni, per andare verso una programmazione di rigenerazione urbana generalizzata, non ci saranno discrezionalità bensì qualcosa di cogente, obbligatorio. Se la programmazione di Regione mira a recuperare l’esistente, metteremo in campo strumenti normativi che portino le amministrazioni e il settore produttivo a procedere in quella direzione. C’è un progetto indirizzato? Assolutamente sì. Le modifiche legislative che stiamo studiando sono mirate e le porteremo all’attenzione di tutti gli stakeholder, perché vogliamo che ci siano modifiche e una programmazione ragionata e condivisa. Prima di portare un provvedimento alla deliberazione, si dovranno svolgere tutte le verifiche dirette e/o le sperimentazioni necessarie, ci saranno tutti i giusti confronti con tutte categorie interessate a questa situazione. Il progetto sarà legato ad aree specifiche o sarà a “tappeto”? La volontà è di procedere a tappeto. Poi all’interno di questo processo tutte le amministrazioni locali potranno individuare aree specifiche di rigenerazione e prevedere aree di sperimentazione. imprese e territorio | 25


inchiesta - 1

LA VERA RIVOLUZIONE PER L’ITALIA È LA

FIBRA

Mario Martinelli – ordinario di Comunicazioni ottiche al Politecnico di Milano e fondatore del CoreCom

TOMASO BASSANI

26 | imprese e territorio

«Fin dagli anni ‘90 abbiamo avuto quella che definiremmo un’ottima rete autostradale ma delle pessime strade metropolitane. La nostra spina dorsale ha quindi un’enorme capacità di trasmissione che viene strozzata man mano che si avvicina ai terminali delle nostre abitazioni e delle aziende»

Nell’arco di pochi anni le infrastrutture di telecomunicazione subiranno una vera e propria rivoluzione. Con il piano di investimento sulla rete in fibra ottica di Open Fiber e lo sviluppo dello standard 5G, la quinta generazione della rete mobile, anche l’Italia potrà contare su una rete capillare di connessione che garantirà una diffusione fino ad ora impensabile di banda larga ed ultra larga. «Tra un paio d’anni, in quanto ad infrastrutture di comunicazione digitale, l’Italia sarà un Paese all’avanguardia». Oggi siamo talmente abituati a dipingere il nostro Paese come il fanalino di coda per livello di connessione che le parole del professore Mario Martinelli suonano come un paradosso. «Eppure - spiega - con l’operazione di Open Fiber e il 5G l’Italia non solo recupererà tutto il gap che si è creato negli anni ma sarà anche più avanti degli altri». Martinelli mastica questi temi come il pane: è professore ordinario di Comunicazioni ottiche al Politecnico di Milano e fondatore del CoreCom, consorzio di ricerca fra l’università e Pirelli Cavi, creato con la missione di svolgere ricerca avanzata nel domino della elaborazione e commutazione ottica per le future reti di telecomunicazione. Per spiegare quello che sta avvenendo il professore prende a prestito la metafora dei collegamenti stradali: «Quando affrontiamo il tema delle infrastrutture di comunicazione dobbiamo sapere che il nostro Paese fin dagli anni ‘90 ha avuto quella che, con la metafora delle strade, definiremmo un’ottima rete autostradale ma delle pessime strade metropolitane, statali e provinciali. In sostanza la nostra spina dorsale ha un’enorme capacità di trasmissione che poi viene strozzata man mano che si avvicina ai terminali delle nostre abitazioni e aziende». Questo avviene a causa di un programma di sviluppo che in parte si è fermato anni fa e in parte è stato condizionato dai progressi della trasmissione con la cablatura in rame che hanno ritardato la sostituzione della parte finale della rete in fibra ottica. Ora, però, siamo alla svolta: «Con Open Fiber, la società del Gruppo Enel e della Cassa Depositi e Prestiti, si sta procedendo a collegare


in fibra ottica le grandi dorsali di comunicazione fino ai terminali più remoti costruendo una rete nazionale di grande valore che sostituirà quella attuale in rame». Cosa cambia esattamente con l’arrivo capillare della rete in fibra ottica? In termini di infrastruttura colmiamo un ritardo storico con una rete che sarà tra le più avanzate d’Europa. Non vorrei entrare troppo nel tecnico ma dico solo che ad oggi non si conoscono i limiti della capacità di trasmissione della fibra e dunque l’infrastruttura nascente pone le basi di uno sviluppo futuro e illimitato. Con quali tempi ne vedremo i frutti? La costruzione della rete ha degli orizzonti temporali molto stretti e nel giro di pochi anni sarà completata. Nel frattempo, dovrà esserci anche una ristrutturazione dei terminali, dei server, ecc. Anche se va detto che l’infrastruttura si rivolge al mercato all’ingrosso dei provider autorizzati e dunque dipenderà molto da come questi decideranno di sfruttarla.

Qualche esempio? Ad esempio con la rete in fibra il protocollo di trasmissione del 5G garantirà una comunicazione wireless a latenza controllata e questo abiliterà una serie di servizi come il monitoraggio, la misura, il controllo di mezzi a guida automatica. Sto parlando di mezzi di produzione o automobili a guida autonoma, per esempio. E nel mondo delle imprese? Nel mondo della produzione se la terza rivoluzione industriale è stata quella che ha portato il computer in tutti i sistemi di processo e controllo la quarta rivoluzione, la famosa industry 4.0 che sta cominciando ora, è quella che introduce la comunicazione: tutte le macchine ora possono parlare tra di loro all’interno e all’esterno dell’ecosistema aziendale. Questo significa controllare i flussi di approvvigionamento, la logistica e il processo di produzione. Con le nuove capacità di connessione tutto il nostro modo di produrre verrà riplasmato perché la capacità di comunicazione abbatterà lo spazio e le distanze. L’impatto nella manifattura e nei servizi in questo senso sarà rivoluzionario.

CON LE NUOVE TECNOLOGIE DI CONNESSIONE IL NOSTRO MODO DI PRODURRE VERRÀ RIPLASMATO, PERCHÉ LA CAPACITÀ DI COMUNICAZIONE ABBATTERÀ SPAZIO E DISTANZE

Ci sarà un’enorme capacità di trasmissione ma saremo pronti a sfruttarla? Intendiamoci, nella stragrande maggioranza dei casi la nostra rete attuale, per quanto arretrata, è più che sufficiente. Però sarà la grande capacità e capillarità della nuova rete ad aprire orizzonti nuovi. Il segnale di trasmissione video già oggi si è preso la più grande fetta di consumo, ma se pensiamo all’internet of things e al 5G possiamo dire che grazie alla rete in fibra si porranno le basi per lo sviluppo di servizi rivoluzionari.

Ma sarà un processo automatico? Ovviamente no. La rivoluzione ci sarà solo se le imprese, comprese le medie e piccole, si faranno avanti. Si tratta di aggiornare le proprie dinamiche produttive ed eliminare lo spazio e il tempo, e questo richiede un cambiamento di paradigma e di mentalità. Vanno rivisti il modo in cui si fanno gli investimenti ed è una sfida che deve nascere all’interno delle Pmi, perché la tecnologia è neutra e sono gli operatori che devono saperne raccogliere le potenzialità e trasformarla in nuovi servizi e in nuovo valore aggiunto. imprese e territorio | 27


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LO SCATTO DI MILANO FARÀ AVANZARE ANCHE LA

LOMBARDIA? Fabrizio Sala – vice presidente e assessore per la Ricerca e l’innovazione di Regione Lombardia

GABRIELE NICOLUSSI

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È come passare dall’andare a piedi al circolare in auto ma occupando molto meno spazio. Regione, istituzioni e Governo dovranno lavorare per avvicinare tutti alla città metropolitana

Ambulanze connesse in tempo reale con i centri di gestione delle emergenze, videosorveglianza tramite droni, realtà virtuale al servizio di cittadini e turisti, robotica collaborativa, automobili a guida autonoma. Sono solo alcune delle applicazioni che si potranno sfruttare grazie all’introduzione della rete 5G, che ha portato Milano (e di conseguenza anche la Lombardia) all’avanguardia a livello europeo. A dicembre 2018, dopo un anno di sperimentazione, la città meneghina ha acceso la prima rete di quinta generazione in Italia che copre ad oggi l’80% della popolazione. Un’innovazione che avrà un grande impatto nei prossimi anni, sia sulla vita quotidiana sia sulla produttività delle imprese. Maggior sicurezza nelle strade, sanità più efficiente, aziende più digitali e competitive. Con un limite, però, da non sottovalutare: la necessità di vivere e lavorare nell’area metropolitana di Milano. «Siamo i primi in Europa – spiega Fabrizio Sala, vicepresidente di Regione Lombardia - su un’infrastruttura non banale, ma fondamentale per il futuro, che nella fase sperimentale ha reso quest’area della Lombardia attrattiva verso tutto il mondo. È come passare dall’andare a piedi ad andare in auto, ma occupando molto meno spazio. Regione, istituzioni e governo dovranno lavorare insieme perché, pensando ad esempio ai mezzi di soccorso in 5G, noi non possiamo avere territori con ambulanze di serie A e ambulanze di serie B. Tutti devono essere messi in condizione


Aldo Bisio – amministratore delegato di Vodafone Italia

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di poter partecipare a questa grande rivoluzione». Questa sarà una grande rivoluzione anche per le Pmi. Lo assicura Aldo Bisio, ad di Vodafone Italia, che del progetto milanese (promosso dal Mise e che coinvolge 38 partner industriali e istituzionali) è il capofila. Bisio ricorda che «tutti questi servizi si stanno sviluppando come servizi forniti senza il bisogno di fare investimenti infrastrutturali (da parte delle aziende, ndr). Saranno un sistema “application as a service, service as a service”. Si svilupperà un ecosistema dove le imprese non dovranno realizzare infrastrutture, ma investire in intelligenza artificiale. Troveranno tutto disponibile e pagheranno a fruizione. Da questo punto di vista è una buona notizia, perché è un fattore abilitante per la competitività, cosa che per un Paese esportatore come il nostro è molto, molto importante». La rete 5G fornirà alle aziende gli strumenti per diventare dei catalizzatori di innovazione e per conquistare nuove fette di mercato. Si tratta di un vero salto in avanti rispetto al passato. Per quanto riguarda la velocità, per esempio, se la re-

LA RETE 5G FORNIRÀ ALLE AZIENDE GLI STRUMENTI PER DIVENTARE DEI CATALIZZATORI DI INNOVAZIONE E CONQUISTARE NUOVE FETTE DI MERCATO. SI TRATTA DI UN VERO SALTO IN AVANTI RISPETTO AL PASSATO

te 4G è in grado di trasmettere 1 gigabit di dati al secondo, il 5G ne trasmette 10, ovvero dieci volte quello che adesso la fibra riesce a portare nelle nostre case. «Il 5G – continua Bisio - è nato soprattutto per l’internet of things. Se fino ad adesso un sito riusciva a reggere fino a 20mila sensori, con un 5G riuscirà a reggerne più di un milione». Se pensiamo alla manifattura e a Impresa 4.0, dove velocità di trasmissione dei dati e mondo della sensoristica sono fondamentali, capiamo come avere o non avere il 5G faccia la differenza. Va da sé che un territorio con un’infrastruttura di questo tipo (a fine 2019 saranno 5 le città italiane con il 5G) sarà più competitivo e attrattivo verso aziende e professionisti rispetto ai territori limitrofi, che questa infrastruttura ancora non ce l’hanno. Territori che non devono però rassegnarsi alla situazione, ma impegnarsi a creare progettualità (che coinvolgano anche centri di ricerca, università, istituzioni, scuole) che ne rendano necessaria la costruzione. E riempire così il divario che porta ad avere “ambulanze di serie A e ambulanze di serie B”. imprese e territorio | 29


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IN TE «La rete 5G dal punto vista delle caratteristiche rappresenta un salto netto rispetto al passato. È più rivoluzionario rispetto al 4G o al 3G perché cambia il modo con cui la tecnologia viene messa al servizio delle applicazioni». Non ha dubbi Antonio Capone, professore e vice decano della Scuola di Ingegneria industriale e dell’informazione del Politecnico di Milano e delegato del rettore per il progetto 5G di Vodafone sull’area metropolitana di Milano. Lo abbiamo interpellato per farci spiegare nel dettaglio perché questa tecnologia è così innovativa e come le nostre imprese possano utilizzarla. «Tutte le reti fino al 4G – spiega Capone – hanno puntato sulla prestazione dal punto di vista della velocità e della capacità. Il 4G ha può scaricare più dati e lo fa più velocemente rispetto al 3G, che a sua volta è migliore del 2G e così via. La rete di quinta generazione è anche questo, ma non solo. Sono state delineate altre tre dimensioni su cui si differenzia in modo sostanziale». La prima è il ritardo, ovvero il tempo che ci metto a ricevere una risposta dal momento in cui ho mandato l’informazione. «Non è la velocità con cui scarico i file (i bit al secondo) – specifica Capone - ma il tempo di percorrenza della rete, che con il 5G si aggira sotto il millisecondo. Questa variabile è fondamentale in applicazioni industriali che si basano 30 | imprese e territorio


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PIÙ AFFIDABILE E

EMPO REALE Antonio Capone – vice decano della Scuola di Ingegneria industriale e dell’informazione del PoliMi

COSÌ LA RETE 5G ENTRA IN AZIENDA

IL ROBOT OPERA IN BASE A SENSORI CHE RECEPISCONO L’AMBIENTE E CHE SONO IN RETE: IN QUESTO LA CONNETTIVITÀ È FONDAMENTALE

su meccanismi di controllo remoto che necessitano di reattività in tempo reale». Poi c’è l’affidabilità, cioè la sicurezza che la rete ci sia sempre. Fino adesso, come dicevamo, è sempre prevalsa l’importanza della velocità, mentre si è dato quasi per scontato che ogni tanto possa non esserci la connettività (il cosiddetto “qui non prende Internet”). Con la nuova tecnologia questo si andrà a superare, rendendo possibili applicazioni, come per esempio l’allarmistica, in cui la presenza sicura della rete è fondamentale. «C’è poi un terzo elemento, che è di tipo architetturale: la rete 5G diventa anche una piattaforma di computing, perché avrà piccoli datacenter dove mettere le proprie applicazioni». È come il cloud, solo che l’azienda non dovrà più costruirsi la propria rete di telecomunicazione privata (per esempio la fibra o un’infrastruttura dedicata), perché questo sarà fatto direttamente dall’operatore che le fornisce il servizio, che verrà pagato a consumo. Tutte queste caratteristiche permettono applicazioni prima impensabili. Un esempio è la robotica collaborativa, che si differenzia da quella tradizionale perché prevede l’interazione tra operatore e macchina. «Il robot – spiega Capone – non lavora più da solo, ma opera in base a sensori che recepiscono l’ambiente circostante e che devono essere connessi in rete. In questo la connettività è fonda-

mentale, soprattutto nell’infrastruttura». Un caso esemplare è YuMi, realizzato da Vodafone con ABB, e-Novia e il Politecnico di Milano. È il primo robot collaborativo al mondo a due bracci e lavora fianco a fianco con un operatore, assemblando valvole. C’è poi il campo della logistica, con veicoli autonomi o semi-autonomi, e la possibilità di creare processi produttivi flessibili su piccoli volumi. «Stiamo parlando di catene di produzione in cui la sensoristica è sia a bordo dell’oggetto sia sui macchinari, che modificano le proprie azioni in base alle varie riconfigurazioni». Potrei fare, per esempio, molte variabili di uno stesso giocattolo, usando la stessa catena di produzione configurata via-via in base alle esigenze e abbattendo il costo fisso della standardizzazione del prodotto. Il ventaglio delle possibilità si amplia a dismisura. E qui ci sarà il vero scarto tra le imprese. «Alcune aziende – termina Capone – faranno grandi progressi perché saranno in grado di immaginarsi delle trasformazioni più profonde e lanceranno servizi nuovi, fatti su misura per loro. Le altre si dovranno invece affidare a intermediari, come system integrator e operatori, che forniranno loro modalità standardizzate». Bisogna assicurarsi di essere nel primo gruppo di imprese, per arrivare prima degli altri dove nessuno è arrivato mai. Gabriele Nicolussi imprese e territorio | 31


FACCIAMO SQUADRA

O l’export del Made in Italy resterà “small” GABRIELE NICOLUSSI

Stati Uniti e Cina. Sono sempre loro le due super-economie mondiali con le quali l’Italia e le nostre Pmi devono fare i conti. Da un lato il protezionismo di Trump, che “droga” il mercato provocando stagnazione. Dall’altro l’inesorabile ascesa cinese. Tra i due colossi è guerra aperta. Una guerra che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, potrebbe nel lungo periodo abbassare di un punto percentuale il Pil degli USA e di 0,6 quello della Cina. Un rallentamento, questo, che si riscontra anche per l’export del Made in Italy delle Pmi, che nel 2018 è cresciuto meno che nell’anno precedente (+2% rispetto al +5,6% del 2017). Come devono affrontare quindi le nostre aziende questo periodo di cambiamento? 32 | imprese e territorio

Quali sono le sfide da superare? Lo abbiamo chiesto ad Alan Friedman, giornalista e scrittore esperto di economia. L’Europa e l’Italia, in questo scenario, come devono comportarsi? L’Europa dovrebbe vedere nella Cina una grande opportunità, così come l’Italia. Non devono temerla, ma riuscire a fare business lì. Bisogna vendere prodotti di qualità in Cina dall’Italia, perché la qualità è unica in questo Paese. Sono gli artigiani che fanno funzionare il lusso italiano nel mondo e dovrebbero quindi puntare molto sull’export. Sono del parere che per farlo debbano raggrupparsi di più, perché piccolo non è più bello. In che senso? Nel senso che gli artigiani devono entrare nella massa critica, unirsi


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Parla Alan Friedman, l’economista americano affezionato all’Italia: «La ricetta migliore è dare più sgravi e incentivi per le assunzioni e detassare i contributi per le donne, gli over 50 e i giovani. L’Italia potrebbe essere un Paese con un’economia forte anche se ci fosse più meritocrazia»

nel commercio e nel marketing. I piccoli non possono vendere in Cina, devono raggrupparsi e fare squadra. E questa è una cosa molto difficile da fare in Italia. I vari distretti, come quello della moda o del mobile, dovrebbero per esempio fare iniziative congiunte, marketing congiunti, missioni congiunte in sudest asiatico. Bisogna farlo settore per settore. Il Made in Italy è una carta vincente, ma resta il fatto che la concorrenza, soprattutto cinese, è sempre maggiore e sta tagliando le gambe a molti artigiani. Ho una nota di ottimismo per gli artigiani per due motivi. Innanzitutto, hanno saputo lavorare sempre, durante qualsiasi governo che ci sia stato, e quindi anche oggi, si tira avanti nonostante gli errori del governo di turno. In secondo luogo, sono il cuore del Made in Italy e definiscono il Dna di quella formula che ha conquistato il mondo. Lo ripeto: la soluzione è l’internazionalizzazione. Fare squadra per fare internazionalizzazione. Il suo ultimo libro si intitola 10 cose da sapere sull’economia italiana prima che sia troppo tardi. Tra queste, quali sono le più importanti per le Pmi? Se devo isolarne alcune, direi innanzitutto: perché l’Italia non cresce di più e come farà per crescere di più? Poi capire come mai non riesca a creare posti di lavoro. E ancora: avrò mai una pensione? Capire Quota 100 e come funzionano le pensioni è fondamentale. Infine, tentare di capire l’Europa e il suo cambiamento.

A proposito di cambiamento: lei è molto critico sulle politiche economiche dell’attuale governo. Il problema è che Italia è la più grande economia d’Europa che non abbia ancora fatto quelle riforme strutturali del mercato del lavoro, del fisco e della burocrazia, che le altre grandi economie hanno fatto 20 – 30 anni fa. Mi riferisco alla Thatcher in Inghilterra o a Schroeder in Germania. In Italia l’unico che ci ha provato negli ultimi 30 anni è stato Renzi. Anche Gentiloni, con Calenda e il suo Industria 4.0, aveva fatto una buona politica. Sono critico con il governo giallo-verde perché vuole fare delle controriforme e smantellare ciò che poteva aiutare le Pmi ad aumentare competitività e produttività. Cosa dovrebbe fare il governo secondo lei per aiutare l’economia italiana? Dovrebbe aiutare le imprese a cercare posti di lavoro, perché sono le imprese che creano il lavoro. La ricetta migliore è dare più sgravi e incentivi per le assunzioni e detassare i contributi per le donne, gli over 50 e i giovani. L’Italia potrebbe essere un Paese con un’economia forte anche se ci fosse più meritocrazia e fosse più facile licenziare i pigri e gli incompetenti. Sono anche profondamente convinto che dovrebbero esserci premi salariali più sviluppati e articolati. Per me il migliore welfare è premiare chi ha contribuito a creare valore per l’impresa condividendo qualche quota, che sia del profitto o un bonus basato sui target. Dovrebbe esserci più flessibilità nel premiare chi aiuta la produttività. Perché la vera sfida dell’Italia è proprio questa: la produttività. imprese e territorio | 33


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“SAPER ESSERE” È IL

IL NUOVO VALORE D’IMPRESA

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Questa nuova dimensione riguarda i lavoratori a tutti i livelli e non solo i “piani alti”: penso per esempio a un impiego di segreteria che, magari a causa di una riduzione del personale, porta la persona a svolgere un lavoro più complesso o di regia. Il problema è che non sempre viene riconosciuto appieno questo nuovo status

Serafino Negrelli – docente di Sociologia economica all’Università di Milano Bicocca

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Competenze che mutano e un mercato del lavoro di complessa descrizione possono trovare un punto d’unione virtuoso? A fornire una serie di spunti di riflessione è il professor Serafino Negrelli, docente di Sociologia economica dell’Università di Milano-Bicocca, che nel libro “Sociologia del lavoro” (edizioni Laterza) si è soffermato sull’importante passaggio dal “saper fare” al “saper essere”, dinamica che richiama concetti quali partecipazione, stile, relazioni sociali, riconoscimento. Professore oggi ha ancora valore il contratto a tempo indeterminato oppure la crescita di competenze comporta anche una voglia di miglioramento che si può spesso concretizzare in un cambio di azienda? Quest’ultima affermazione dovrebbe essere la tendenza attuale, in termini generali la direzione è quella. Ma va sottolineato che a questo cambio di prospettiva paiono in alcuni casi tenerci maggiormente i lavoratori rispetto agli imprenditori. La dimensione del “saper essere”, a mio parere, riguarda i lavoratori a tutti i livelli e non solamente ai “piani alti”, penso ad esempio a un impiego di segreteria, che magari a causa di una riduzione del personale porta la persona a svolgere un lavoro più complesso, magari anche di regia. Il problema

è che non sempre viene riconosciuto questo nuovo status, sia a livello di contratto che di retribuzione. Inoltre nutro dei dubbi sul fatto che il tempo indeterminato non sia più considerato un valore, soprattutto in una fase come questa. Mi attengo, in questo senso, a basi statistiche: i dati Istat ci dicono che il lavoro a tempo indeterminato resta prevalente e riguarda circa l’80% degli attivi. Il tempo determinato, quindi inferiore in termini percentuali, serve all’imprenditore, per esempio, per conoscere meglio il lavoratore prima di stabilizzarlo, ma si tratta di un processo divenuto meno facile, e soprattutto più lungo, rispetto al passato. Alla luce di quanto sopra, come stanno cambiando o sono cambiate le aziende? Come approcciarsi a queste nuove dinamiche? Occorre analizzare anche il quadro normativo. Il Jobs Act ha cercato di percorrere una strada di tempo indeterminato a tutele crescenti, però non è andato a penalizzare in qualche modo il tempo determinato. Con l’effetto che, una volta terminati gli incentivi, le imprese non hanno più percorso questa strada. Anche se spesso, quando l’azienda ne risulta soddisfatta, sostanzialmente decide di tenere con sé il lavoratore che ha contribuito a “coltivare” per un certo lasso temporale. Su questi temi c’è un eccessivo dibattuto ideologico, mentre servirebbe un maggiore pragmatismo. Come è mutato il rapporto tra imprenditore e dipendente-collaboratore, con riferimento alle piccole e medie imprese? In queste realtà esiste chiaramente un contatto più diretto tra le diverse componenti rispetto alla grande azienda, anche in termini di un rapporto di fiducia tra le parti che però sta cambiando anche in questo ambito. Anche la piccola, ma soprattutto la media impresa utilizza contratti a tempo determinato, l’insicurezza lavorativa è perciò cresciuta anche qui. Tutto ciò determina un atteggiamento più strumentale da parte del lavoratore, dinamica in corso non da ieri, ma cresciuta nel tempo. Come detto, con il “saper essere” che in alcune circostanze non viene riconosciuto come dovrebbe, anche il lavoratore assume una posizione diversa, considerando maggiormente l’aspetto retributivo rispetto ad altri elementi. In sostanza, il rapporto di fiducia è venuto un po’ a incrinarsi perché è mutato il contesto in cui si opera quotidianamente. Ma è quindi possibile oggi, per un imprenditore, programmare il futuro della propria azienda dal punto di vista della gestione dipendenti? Esiste un quadro plausibile del domani dell’occupazione? Si tratta di una domanda particolarmente complessa, soprattutto a fronte di un quadro incerto come quello attuale, che rende imprevedibile il futuro dell’imprenditore, anche di quello più piccolo. La speranza è che la situazione possa volgere verso una migliore definizione, anche se - almeno nel breve periodo - non sono particolarmente ottimista. Stiamo vivendo un’incertezza che per il Paese rappresenta un problema molto grave. E. D. M. imprese e territorio | 35


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NUOVI VALORI: SPUNTI DI VISTA FUORI DAL CORO TRA SOLIDARIETÀ ED ECONOMIA DI “CASA” MARILENA LUALDI 36 | imprese e territorio

A dieci anni dall’esplosione della crisi economica, più che una consapevolezza dei valori da ricostruire c’è una tensione tra ciò che si intuisce come necessario e una direzione ancora difficile da mettere a fuoco. Monsignor Franco Agnesi, vicario generale di Milano, conosce bene la realtà di Varese e il mondo delle imprese e del lavoro. Con lui iniziamo la riflessione sulla necessità di un nuovo capitalismo, sostenibile e non rapace, innescata recentemente dal saggio di Mariana Mazzucato, “Il valore di tutto” (edito da Laterza). Una riflessione su cosa sia oggi il valore, chi lo produce e come imprimere una maggiore equità. LA VISIONE E LO SFORZO Un terreno già fertile con il tessuto del nostro territorio, costellato da piccole aziende: «Quello che ho colto in questa provincia – spiega monsignor Agnesi – è l’inventiva dell’imprenditore e il suo coraggio, lo stare insieme con la solidarietà di chi lavora con lui. Quando c’è questo, c’è maggiore possibilità di affrontare insieme le fatiche. Che è un po’ l’aspetto della prossimità, del buon vicinato. Il potersi fidare l’uno dell’altro». E serve più che mai, oggi, proprio perché si intravede quella contraddizione dei nostri tempi. «Da una parte – rileva Agnesi – c’è la sensazione che da soli non si vada da nessuna parte. Che la crescita esponenziale sia stata un bluff e così separare nettamente la finanza dal lavoro. Oggi ci stiamo rendendo conto che così diventa tutto più difficile». Eppure, questa strada non è in discesa: «Già, perché dall’altra parte non si riesce a intuire quale via percorrere. Si va a chiedere a qualcun altro. C’è una forma di bisogno di solidarietà, di sicurezza e di un cammino comune, e si delega a un capo».


Mentre occorre fare fatica, mettersi insieme con pazienza e portare ciascuno il proprio contributo, aggiunge. E se c’è qualcuno che produce ricchezza e qualcun altro se ne approfitta, comprendiamo che tutto è connesso, ma troviamo più arduo collegarci con gli altri. Più facile individuare nemici esterni: «Dovremmo dire in positivo su cosa lottare e camminare. Arrivare a quell’ecologia integrale di cui parla Papa Francesco». Non è tabù il profitto: «Che è investire di nuovo, trasformarsi. La sfida è governarlo insieme e far vedere che le cose durano, mostrare che c’è un vantaggio di speranza». Speranza che anche nel nostro territorio ha ragione di essere. Insieme, anche nei luoghi associativi, occasione per immaginare il futuro. Sulla linea del discorso a Milano rivolto dall’arcivescovo Mario Delpini nel giorno di Sant’Ambrogio, “Autorizzati a pensare” per un bene comune. LA BUONA ECONOMIA Ridare una missione all’economia: si può e si deve anche secondo Eliana Minelli, professoressa associata di Organizzazione aziendale alla Liuc di Castellanza: «Si tratta di un discorso tanto nuovo quanto antico. La buona economia è l’economia della casa. Significare dare uno sguardo alle esigenze di tutti, e non nell’immediato soltanto. Di qui la sostenibilità». Se ci sono interpretazioni scorrette, ne derivano gli effetti perversi. Rinnovare sempre, con lo sguardo a tutti, è essenziale perché nessuno rimanga privo di risorse. Al contrario, un atteggiamento predatorio condanna a non avere futuro. Lo stesso discorso vale per la finanza, che può sostenere le iniziative imprenditoriali o mirare al breve periodo, tradendo le proprie finalità. «Dev’esserci il giusto profitto – sottolinea Minelli - anzi è un dovere non andare in perdita». In caso contrario: «Non rinnova i mezzi di produzio-

Luca Corazzini – ordinario di Economia politica all’Università Ca’ Foscari

Eliana Minelli – docente di Organizzazione aziendale

Franco Agnesi – vicario episcopale di Milano

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ne, non genera opportunità di lavoro, e se va in crisi crea fallimento e ruba risorse alla collettività. Quello esagerato è diabolico, ossia divide». Ecco perché la via oggi è l’alleanza, non la contrapposizione tra lavoro e capitale. Sta avvenendo? «No – risponde la professoressa Minelli – Ma molti imprenditori la praticano, meno consapevolmente, e ci vuole una forza lavoro che veda la bontà del progetto e sostenga la realizzazione della visione. E poi ce l’ha insegnato la crisi: le aziende innovano meno di quanto dovrebbero. Abbiamo un tasso di mortalità elevatissimo, poco investimento nel personale, meno ancora nella formazione continua. Una cultura che vede il fallimento in modo penalizzate. Come se ne esce? Studiando». LE ISTITUZIONI VALORIZZINO LE IMPRESE Se anche qualcosa sta migliorando dopo la crisi del 2008, non sono tutte rose. Luca Corazzini, ordinario di Economia politica all’Università Ca’ Foscari, lo rimarca: «Importante è sentirsi parte di un gruppo, ma in questi anni l’attenzione è stata più concentrata sugli aspetti di implementazione. Si è capito che ci sono elementi sociali preziosi, come riconoscerli meno. Così oggi è diffusa la pratica di bilancio sociale, tra i vari stakeholder bisogna darvi importanza. Tuttavia non basta». Che cosa serve per accelerare il percorso verso un capitalismo sostenibile? «C’è bisogno di ripensare il modello di impresa e portare avanti questi elementi di eticità e responsabilità sociale – osserva - non solo dal lato degli imprenditori ma anche da quello delle istituzioni. Che devono valorizzare le attività imprenditoriali». Troppi elementi devono preoccupare: tra questi la sfiducia ormai estremamente bassa persino sulle organizzazioni non governative. Da scardinare per evitare un altro danno di quest’epoca: «Stiamo perdendo lo spirito di cooperazione». imprese e territorio | 37


TANTI I PROGETTI, POCHE LE RISORSE

E SI RESTA IN

CODA ANDREA ALIVERTI

Un territorio rimasto ancora “impiccato” alla vecchia Autolaghi, la A8 perennemente intasata nelle ore di punta del mattino e della sera e fonte di disagi e di lunghe code per i pendolari e per tutti coloro che per ragioni di lavoro sono diretti a Milano. Perché è soprattutto tra Busto Arsizio e Legnano che, soprattutto nelle ore mattutine, si concentra il grosso del congestionamento. Più di dieci anni fa uno studio sull’area vasta attorno a Busto Arsizio, commissionato al Centro di ricerca sulla Mobilità e i trasporti dell’università Liuc, segnalò che la quota di spostamenti interni alla conurbazione compresa tra Gallarate, Busto e 38 | imprese e territorio

Legnano era addirittura superiore a quelli che da quest’area erano diretti alla metropoli milanese. Così la A8 tra Gallarate e Legnano venne identificata come un tratto autostradale che, di fatto, si era tramutato in una sorta di strada urbana a scorrimento veloce, visto che in assenza di alternative viene utilizzata anche da tipologie di utenti che non dovrebbero servirsi di un’autostrada per gli spostamenti interurbani. Alternative però, allora come oggi, non ce ne sono, perché tutti i progetti palesati nei decenni si sono scontrati con l’assenza di risorse.

Al netto della vicenda di Pedemontana, che fino a quando non verrà completata non potrà rappresentare una vera alternativa competitiva alla A8 per chi è diretto a Nord-Est, è la ferrovia la vera incompiuta di questo territorio. L’iter per il potenziamento della tratta Rho-Gallarate, un’opera da oltre 700 milioni di euro (402 milioni per realizzare il terzo e quarto binario tra Rho e Parabiago, più altri 321 milioni per il terzo binario tra Parabiago e Gallarate) già fermata dai ricorsi nel 2014, è ripartito, con il progetto definitivo che è in attesa del pronunciamento del Consiglio superiore dei Lavori pubblici. Ma si tratta di un’opera di una


inchiesta Infrastrutture / BUSTO ARSIZIO E DINTORNI

LA QUOTA DI SPOSTAMENTI INTERNI ALLA CONURBAZIONE COMPRESA TRA GALLARATE, BUSTO E LEGNANO È SUPERIORE A QUELLI CHE DA QUEST’AREA SONO DIRETTI ALLA METROPOLI MILANESE

complessità tale da richiedere svariati anni per vedere la luce: eppure appare indispensabile per incrementare l’offerta sulla linea per Milano in modo tale da ovviare ai problemi di sovraffollamento che oggi rendono meno appetibile di quanto potrebbe essere l’opzione treno come alternativa alle code sulla A8. L’altro sogno proibito dell’Alto Milanese è rappresentato, anche qui ormai da diversi lustri, dal “Sempione-bis”, la variante alla statale 33 che corre tra Busto, Castellanza e Legnano per arrivare fino a Milano, tra semafori e congestionamenti. Un traccia-

to stradale di 29,5 chilometri a carreggiata unica con una corsia per senso di marcia, che partirebbe da Samarate, intersecandosi con la variante alla SS341 (altra opera ancora da realizzare) e passando da Busto Arsizio, Villa Cortese, Canegrate e Nerviano arriverebbe fino a Rho, dove la SS33 è già a due corsie per senso di marcia fino alla tangenziale ovest. Peccato solo che dei 402 milioni necessari ne siano a disposizione appena 42, e che il progetto preliminare di uno stralcio funzionale da avviare con i finanziamenti disponibili è fermo dal 2013 al Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti per l’approvazione del Cipe.

Ma nella conta delle “incompiute” non ci sono solo queste opere faraoniche. Dalla A8 si diramano piccoli grandi disagi quotidiani per chi si mette in strada, cercando di entrare o uscire dall’autostrada. Emblematico è il caso della SP2 che dallo svincolo di Busto Arsizio va verso la città: tutto il tratto fino allo svincolo dei Cinque Ponti è a due corsie, tranne il primo pezzo fino alla rotonda di MalpensaFiere, una corsia quasi costantemente a passo d’uomo. Ma anche la SP21 a Gorla Minore è da sempre in condizioni critiche: nell’ambito di Pedemontana si sperava in una variante che però non è arrivata. E poi c’è il caso della SP527 dall’uscita di Castellanza a Busto Arsizio, teoricamente l’accesso prioritario per i mezzi pesanti diretti alla zona industriale di Sacconago: ma il fatto che la strada sia lungo il confine tra le province di Varese e Milano ha fatto sì che non ci si accordasse mai per realizzare due rotatorie al posto dei semafori che conducono alle zone centrali di Legnano e Castellanza e che provocano l’inevitabile intasamento fino all’ex Esselunga di Castellanza, dove invece si sono riuscite a realizzare due rotatorie. Così l’unico accesso esente da code per la zona industriale di Sacconago è quello da ovest, dalla tangenziale di Magnago, che dalla Boffalora-Malpensa sbuca di fronte al termovalorizzatore Accam di Borsano. E ancora, la SP20 tra Cassano Magnago e Busto Arsizio, con il semaforo del carcere che appesantisce le code: in questo caso la recente legge di Bilancio di Regione Lombardia ha aperto uno spiraglio grazie all’inserimento di un capitolo da 4,2 milioni di euro che, per i prossimi quattro anni, a partire dal 2020, andrà a finanziare l’ultimo lotto della tangenziale di Cassano Magnago. imprese e territorio | 39


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NELL’ITALIA CHE VA SUL WEB VINCONO IL CALCIO E MARCHIONNE

MA LA FATTURA ELETTRONICA…

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LE PAROLE DEL 2018 E DEL 2019. SORPRESA: L’ECONOMIA NON FA LA CENERENTOLA. ECCO I TERMINI PIÙ RICERCATI ONLINE: UNA MAPPA PER LE IMPRESE CHE USANO I SOCIAL

ADRIANA MORLACCHI

I motori di ricerca spesso sanno molte più cose di noi di quante ne possiamo immaginare e tutto sulla base delle informazioni che siamo noi stessi a fornirgli, cioè cosa cerchiamo sul web. Allo stesso modo, i motori di ricerca possono aiutarci a capire le novità e le nuove tecnologie che entreranno in modo sempre più incisivo nelle piccole e medie imprese nel 2019. Stefano Salustri, esperto in marketing digitale e digital strategist, ha approfondito il report che Google pubblica ogni anno, che si intitola “Un anno di ricerche”. Nel documento vengono riportate le parole chiave più ricercate dagli utenti di tutto il mondo. Nel 2018 in Italia le top 3 ricerche sono state: Mondiali, Sergio Marchionne e Cristiano Ronaldo. Molte ricerche, invece, riguardano l’economia, la finanza, i nuovi mercati, e possono fornire qualche previsione sull’anno che ci aspetta. «Spulciando più nel dettaglio nelle ricerche digitate dagli italiani nel 2018 e analizzando diverse categorie è possibile anche fare una previsione su quali saranno gli argomenti di tendenza per questo 2019 – spiega Salustri - Nell’ambito dell’economia e della finanza un tema molto caldo è quello della fatturazione elettronica entrata in vigore dal primo gennaio 2019. Gli italiani cercano aggiornamenti su “proroga fatturazione elettronica”, “codice univoco”, “fatturazione elettronica per carburanti” e “fatturazione elettronica per regime forfettario”». «Sempre nell’ambito economico altri temi caldi sono la pace fiscale, il reddito di cittadinanza e le pensioni – continua il professionista - Il tema della riforma economica e delle pensioni ha fatto crescere le ricerche legate a servizi online, come Inps servizi online che ha visto una forte impennata a fine maggio che prosegue tutt’ora».

Ma non solo. «Sempre in ambito servizi questa volta è Amazon al centro delle ricerche degli italiani con Merch by Amazon, la piattaforma di stampa online che è recentemente sbarcata in Europa (per ora in Germania e in Inghilterra) e che permette di vendere magliette (t-shirt) personalizzate direttamente su Amazon, che si occupa sia della realizzazione che della spedizione – dice Salustri - Amazon è al centro delle ricerche degli italiani anche con Amazon Echo ed Alexa, che insieme a Google Home rappresentano il mondo degli assistenti vocali per la casa. Gli smart speaker dotati di intelligenza artificiale rappresentano un trend in crescita, quello della domotica e dell’intelligenza artificiale, che vedrà un ulteriore impennata nel 2019». Le ricerche tradiscono un interesse crescente per tutto quanto è “social”. «Rimanendo in ambito tecnologia, ma passando al mondo dei social network, la novità del 2018 è stata Instagram che l’anno scorso ha visto consolidare la propria crescita anche grazie al lancio di nuovi servizi come “Instagram stories”, termine molto cercato nel 2018, insieme però a “Come eliminare un profilo Instagram” – conclude Salustri - Un altro trend in crescita e che si sviluppa ulteriormente nel 2019 è quello delle piattaforme di live streaming. Tra le principali ricerche degli italiani di sono Twitch, Periscope e YouTube Live. Sempre in ambito di servizi di streaming e contenuti tv il 2018 è stato l’anno delle piattaforme di streaming con Netflix che fa da padrone in termini di ricerche rispetto a tutti i concorrenti». Infine, «passando alla Digital innovation, il 2019 vedrà una crescita dei servizi di pagamento smart (i cosiddetti Digital wallet che a seconda delle tipologie offrono diverse soluzioni di pagamento) come ad esempio Google Pay, Apple Pay e Amazon Pay». imprese e territorio | 41


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MARILENA LUALDI

OCCHIO ALLA

SICUREZZA Il pericolo può nascondersi anche in un tostapane

La sicurezza passa dalla conoscenza. E tutti possono aspirarvi, anche il piccolo imprenditore tempestato dalle mille incombenze. Rudy Bandiera, divulgatore digitale, scrittore, consulente e TEDx speaker, sa dare istruzioni preziose su come difendersi in azienda, attraversando un mondo sempre più connesso ed esposto. Il primo passo? «Rendersi conto – risponde– che bisogna approcciarsi a quello che non si conosce con molta attenzione. Chiedete sempre a chi ne sa di più». Il primo pericolo arriva via mail. Niente letture superficiali e tenere d’occhio alcune regole di base: «La tua banca non ti chiederà mai di inserire dati personali. Al minimo dubbio, consultate il sito della polizia postale e se pensate di aver subìto un tentativo di frode, segnatelo. Ribadisco, ci sono dati che la banca non chiederà mai, come il numero della carta di credito». Altri terreni rischiosi, meno visibili: «Quando navighiamo su sito che non conosciamo bene, si possono attivare dei loop sul browser, si apre un pop up che ci avvisa che abbiamo preso un virus. Ecco, con un Ad blocker possiamo inserire dei piccoli tool che servono a bloccare queste intrusioni sul nostro computer». Poi la protezione passa da una password. 42 | imprese e territorio

«Ne serve una estremamente complessa, magari legata alle situazioni comuni per ricordarla solo noi. Ad esempio, scegliamo la parola televisore, ma abbiniamoci le cifre dell’autostrada più frequentata e la data di nascita della mamma». Se invece si ritiene più opportuno utilizzare password differenziate, «esistono programmini per gestirle, gratuiti o a pochi euro. In questo modo si possono reperire le parole per accedere ai siti da qualunque dispositivo, pc o telefono». Non può “bucare” qualcuno quel programma e soffiarcele? La sicurezza ai giorni nostri sembra così relativa, ma Bandiera sottolinea: «Bisogna capire come agiscono gli hacker. Compiono pochi tentativi su un individuo». Insomma, l’immagine di un “violatore di siti” che si dedichi a un soggetto per settimane intere, è quanto meno mitizzata. C’è anche Safeincloud che con pochi euro consente di avere tutto a disposizione, sbloccandolo con un’impronta digitale o una masterpassword. Largo però agli altri dubbi. Con i documenti sul cloud siamo davvero al sicuro? «Tutti i servizi di cloud - afferma Bandiera - sono sicuri nella misura in cui li rendiamo tali. Anche qui una password semplice li rende fragili. Però come avviene anche sui social o in Dropbox, il sistema di sicurezza è defini-

to in due passaggi. Quindi parola d’accesso e sms sul telefono che dovrai inserire in un passaggio successivo. Insomma, se anche uno ti ruba la password, dovrebbe averti rubato anche il telefono». Ecco il consiglio: abilitare il doppio passaggio di sicurezza dove possibile. Intanto, nelle case ma anche negli uffici entra la domotica. Possiamo accendere riscaldamento o climatizzatore, come altri dispositivi in remoto. Ci si espone a falle nella sicurezza? «Con l’internet delle cose – spiega Rudy Bandiera – nei prossimi anni arriveremo a una rivoluzione strabiliante. Rendiamoci conto che all’aumentare degli oggetti connessi diminuisce il grado di sicurezza». Due anni fa, un attacco hacker è stato inferto attraverso tostapane, frigoriferi e caldaie. Ma per un motivo semplice: «In origine, non erano stati protetti in maniera adeguata, nessuno pensava che gli hacker sarebbero passati da lì. Invece loro scelgono ciò che è meno protetto». Insomma, tra poco non avremo più le chiavi in tasca e rischiamo di sentirci sicuri più o meno di quando avevamo la porta di legno? «Tutto quello che è nuovo, per natura, è spaventoso. Ma la casa intelligente creerà ambienti più confortevoli e semplici da usare. Certo, è più vulnerabile». Dalla retina all’impronta digitale, accederemo così. Con un’avvertenza di fondo: «Riusciamo a ottenere sistemi sicuri e semplici, però stiamo pagando un prezzo altissimo: i nostri dati personali».


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