Imprese e Territorio

Page 1

Poste Italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% - LO/VA

M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N FA R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

TERRE D’IMPRESA Attrattività, competitività, rilancio di aree dismesse e zone industriali

IL FUTURO È UNA SFIDA DI TERRITORI L’intervista al presidente di Regione Lombardia

RETE E RETI IMPARIAMO A SFRUTTARLE L’analisi del presidente Istat Giorgio Alleva

LE NOSTRE INCHIESTE

Sacconago, archeologia industriale, e città del futuro

FOCUS GIUSTIZIA

Accelerare si deve I numeri dell’eterna attesa

01


Faberlab HUB DI PRODUZIONE, STAMPA 3D, PROTOTIPAZIONE E DIVULGAZIONE TECNOLOGICA PER LE IMPRESE

SCOPRI DI PIÙ SU WWW.FABERLAB.ORG

Stampa 3D FaberLab è un’officina digitale specializzata in PROGETTAZIONE e STAMPA 3D per la realizzazione di oggetti personalizzati, piccole serie, plastici e modelli. >

Prototipazione Rapida FaberLab è convergenza di vecchie e nuove tecnologie (stampa 3D, laser cut, Arduino). Dall’idea al prototipo mettiamo a frutto la creatività d’impresa grazie alla nostra officina digitale.>

Tecnologia

Hub

FaberLab è dare forma alle idee, promuovere l’impollinazione del sapere digitale grazie alla condivisione delle competenze, all’accessibilità delle risorse e alla ricerca permanente e orizzontale. >

FaberLab è dare forma alle idee, promuovere l’impollinazione del sapere digitale grazie alla condivisione delle competenze, all’accessibilità delle risorse e alla ricerca permanente e orizzontale. >

Viale Europa 4/A | 21049 Tradate (VA) Telefono 0332 256481 | Email: info@faberlab.org | WWW.FABERLAB.ORG


editoriale

CAMBIAMENTI NEI FATTI LA POSTA IN GIOCO SONO IMPRESE E TERRITORI Facile da comprendere, molto meno da attuare, cambiamento è la parola che più di ogni altra accompagna la quotidianità di chi fa impresa. E il cambiamento – che in sé riassume speranze e paure, ambizioni e incognite – è ciò che ci aspettiamo ora. Una campagna elettorale lunga e ottantotto sfiancanti giorni di attesa per la formazione del Governo hanno riportato nuovamente lo spread sull’altalena complici (anche) i 2.300 miliardi di debito pubblico nazionale. Per questo quanto accaduto negli ultimi mesi è stata, per le imprese, l’ennesima conferma di quanto un cambiamento, oggi, non solo sia necessario ma addirittura ineluttabile. Quattrocento miliardi di titoli da rifinanziare sui mercati sono l’eloquente indicatore di conti pubblici tutt’altro che rassicuranti e di un mercato interno stagnante. E, al contempo, sono lo specchio della difficoltà a rintracciare nel Bilancio i fondi necessari a finanziare crescita e sviluppo, a ristrutturare una Pa mediamente non efficiente e a concentrare le energie su formazione e riqualificazione. Al Governo nato dopo ottantotto giorni di attesa chiediamo, ora, di tenere la barra dritta al centro nel definire politiche che assecondino richieste e speranze di quell’immenso tessuto di piccole e medie imprese artigiane e industriali rimaste sino ad oggi ai margini delle grandi scelte normative. E, al contempo, ci aspettiamo azioni di valoriz-

zazione del ruolo e delle identità territoriali. Il 2017 ha lanciato segnali di ripresa che il 2018 non ha pienamente consolidato e troppe parole sono già state spese per spiegarne le ragioni. Chi ha promesso di ascoltarci, passi dalle rassicurazioni ai fatti, dalle promesse alle leggi. La posta in gioco per le imprese e i territori è più che mai alta. Noi imprenditori siamo pronti a fare la nostra parte ma il crollo della fiducia (3,3 punti percentuali negli 88 giorni post elettorali), la marginalità politica sullo scacchiere internazionale e i chiari di luna dei dazi trumpiani restano elemento di estrema preoccupazione e freno agli investimenti e agli investitori. Anche per questo ci aspettiamo rapidità, e scelte di valore: amministrazioni pubbliche più efficienti, territori ai quali vengano offerte chance per risalire la china dell’attrattività, strade e ferrovie competitive, grandi opere portate a completamento, una tassazione adeguata e la semplificazione di normative più consone a un azzeccagarbugli che a una Pmi. Attendiamo che le politiche di sostegno al welfare aziendale e alla formazione permanente, anche in chiave digitale, trovino conferma e sviluppo. E auspichiamo il sostegno nei fatti ai territori esposti al vento della crisi. Aree di Confine, il progetto di legge maturato in risposta ai problemi del Luinese, ne è testimonianza. Iniziamo da qui. Sarebbe il segnale giusto.

SOMMARIO DAVIDE GALLI PRESIDENTE CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE

imprese e territorio | 3


SOMMARIO Il futuro è una sfida di territori

05

Sacconago Periferia a chi? Chi fa impresa non vuole finire nell’angolo

10

Vecchio e nuovo L’archeologia industriale del maestro Libeskind

14

Aree di confine Il progetto che vuole diventare legge

18

Slow giustizia I mille giorni dell’eterna attesa

22

L’ora flessibile Cristiano Cristiani e la Pmi senza cartellino: chi meno stressa più guadagna Piccole aziende crescano. Il manifesto firmato De Bortoli dodici anni dopo

Avanti con regola e concorrenti leali

I conti dell’innovazione Cambiare ha un prezzo che premia online

Nell’azienda c’è la storia dell’umanità, della creatività delle difficoltà e io la racconto 4 | imprese e territorio

26 30 34 36 40

03

Editoriale

08

Reti e performance L’unione fa condivisione

12

Aree dismesse: in Italia c’è chi le ha rilanciate. Ora tocca a noi

16

L’impresa al centro Studiamoci il caso

20

La Flat tax sarà dual? Ipotesi e aliquote di una rivoluzione per famiglie e Pmi

24

Fallimenti veloci Pagamenti lenti

28

Smart working per molti ma non per tutti. Per ora

32

Tutti, tutto, sempre. Blockchain

35

Ambrosetti Io, Varese e una concorrenza grande quanto il mondo

38

Se in azienda arriva Socrate

NEL PROSSIMO NUMERO Le regole del successo Uber, un modello da imitare Produzione: perché l’Italia deve fare di più Il futuro è semplice L’inchiesta: concorrenza sleale, quanto pesa sulle imprese? Comuni a confronto: punti deboli e punti di forza Innovazione: dove va l’economia?

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONI Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico - Confartigianato Imprese Varese Impaginazione - Geo Editoriale - www.geoeditoriale.it Interventi, contributi e grafica - A. Aliverti, N. Antonello, V. Bolis, D. Ielmini, G. Nicolussi, E. Marletta, A. Morlacchi, M. Lualdi, S. Caldirola Stampa Litografia Valli Tiratura, 9.000 copie - Chiuso l’8 giugno 2018


IL FUTURO È UNA SFIDA DI

TERRITORI SARA BARTOLINI

Innovazione e capitali per una Regione non (solo) Milanocentrica


Sindaco a Induno Olona prima e a Varese poi. Avvocato penalista, già presidente del consiglio regionale e vicepresidente vicario di Fiera Milano fino al 2017, Attilio Fontana è, e resta, uomo del territorio e del dialogo. Uno di quelli che al territorio e al confronto con gli attori che lo animano non si sottrae. Il nuovo presidente di Regione Lombardia è abituato ad ascoltare, capire, guardare e immaginare il futuro anche attraverso la lente dei territori e delle imprese. Nel corso della campagna elettorale, l’attuale numero uno di Palazzo Lombardia i chilometri li ha divorati. Uno dopo l’altro, come quelli macinati dopo l’elezione del 4 marzo. Sempre con un obiettivo: conoscere una regione attrattiva, «dove la crisi oggi pesa ogni giorno di meno» e l’attrattività nei confronti dei capitali – italiani e stranieri – cresce sempre di più. Una Lombardia policentrica, con Milano capitale di tante realtà locali competitive alle quali affidare un pezzetto della grande sfida per l’innovazione, la crescita e lo sviluppo. Presidente Attilio Fontana, in questi mesi ha incontrato una Lombardia fuori o dentro la crisi? I numeri dicono che si sta ripartendo in maniera grandiosa, con la disoccupazione scesa sotto il tasso del 2008 e il Pil salito al 4%. Ho incontrato una regione che mi pare stia veramente bene. E fra tre anni dove sarà quella Regione? Se non commetteremo errori, diventerà ancora più bella, forte e ricca di com’è oggi. E spiego il motivo: in questo momento da molte parti del mondo si guarda con entusiasmo e interesse a questo territorio. Io stesso l’ho toccato con mano ricevendo diversi fondi che intendono investire in Lombardia. C’è sempre più Milano in Lombardia: il futuro della Regione ruoterà attorno all’area metropolitana? No, è assolutamente necessario che si sviluppino e crescano, accanto a Milano, tutti i territori con le rispettive risorse ed eccellenze. Ce ne sono tante e il punto non è la loro collocazione, magari decentrata, ma riuscire a mettere chiunque nelle condizioni di raggiungerle facilmente attraverso collegamenti viabilistici, ferroviari e di rete. Territori protagonisti del futuro: lei è il presidente dei territori? Sì, ma il grado di protagonismo dipenderà dall’abilità di ciascuno. Un esempio: a Casirate d’Adda, in provincia di Bergamo, è stato realizzato un nuovo magazzino Amazon dove saranno impiegate quattrocento persone. Perché la scelta sia caduta su quel comune è presto detto: si è dimostrato bravo nell’agevolare l’iter, mettendo a disposizione il terreno, accelerando le procedure e ottenendo che la superstrada avesse uno svincolo davanti al magazzino. Questo intendo quando parlo di territori protagonisti. Anche le imprese mostrano una volontà crescente di tornare protagoniste dei territori e di rientrare nei centri di comuni e città. Gli


primopiano

enti pubblici sapranno accoglierle secondo una logica di reciproco sviluppo? Sarà importante creare le condizioni per rendere attrattivo un investimento, italiano o estero, su tutti i territori attraverso digitalizzazione, banda ultra larga, infrastrutture e collegamenti. Credo nella sussidiarietà e credo che ogni Comune debba essere messo nelle condizioni di svolgere il proprio lavoro al meglio. Solo a quel punto chi sarà più bravo lo potrà dimostrare e chi sarà meno bravo sarà anche meno attrattivo. Il principio è simile a quello in atto con le Province a proposito dei centri per l’impiego: vogliono continuare ad occuparsene perché l’hanno sempre fatto? Benissimo, si può fare, mi sono impegnato a trasferire le risorse ma alla fine il risultato dipenderà da ciascun Ente.

modelli di rigenerazione delle aree dismesse raccolti da Confartigianato Varese in una recente inchiesta: ci sono piani di intervento regionale a supporto della rinascita delle aree dismesse anche in chiave di manifattura urbana? Una volta chiusi i file più urgenti vorrei prevedere una sorta di piano di rigenerazione urbana dedicato alle aree dismesse. Un piano che non si accontenti di erogare benefici di carattere urbanistico ma preveda interventi con incentivi per far ripartire queste aree e a dare impulso all’edilizia. Mi piacerebbe inoltre avviare un confronto con le grandi fondazioni (fondazione Cariplo e Fondazione Fiera) affinché possano in futuro partecipare ad accordi di programma legati al rilancio delle aree simbolo di ciascuna provincia.

CREDO NELLA SUSSIDIARIETÀ E CREDO CHE OGNI COMUNE DEBBA ESSERE MESSO NELLE CONDIZIONI DI SVOLGERE IL PROPRIO LAVORO AL MEGLIO

Centri per l’impiego, formazione e buona occupazione: le tre parole chiave per le imprese che, spesso, cercano e non trovano le figure professionali più adatte alla propria attività o agli obiettivi di sviluppo. È pensabile un’inversione di rotta in tempi compatibili con i cambiamenti in atto? Stiamo mettendo a punto una formazione che va sempre di più nella direzione giusta e intercetta le esigenze del mercato del lavoro, tanto da aver già creato numerosi posti sicuri. Certo bisognerà costruire sempre più professionalità ascoltando e recependo i bisogni del mondo del lavoro.

Rilanciare le aree dismesse significa anche rilanciare l’economia: sarebbe possibile farlo attraverso appalti a chilometro zero? Finché ci sarà questo codice degli appalti sarà difficile. Oggi dovevo far partire le due diligence su tre società di proprietà della Regione. Abbiamo passato due ore a predisporre il bando di gara e alla fine ho chiesto: “quando iniziamo?”. E ho scoperto di non poter affidare l’incarico prima della fine di ottobre. Dove pensiamo di andare così? Cinque mesi per affidare un incarico ai quali aggiungere altri quattro mesi di attesa per la resa delle due diligence. Tutto questo non fa che rallentare gli iter, senza peraltro riuscire a bloccare chi è in malafede.

Presidente, quale futuro immagina per la provincia di Varese? Questa provincia deve operare in un’ottica di innovazione, ricerca e miglioramento tecnologico. Abbiamo grandi risorse e non possiamo disperderle. Il rilancio delle piccole e medie imprese, l’internazionalizzazione e la valorizzazione territoriale sono le chiavi per aprirsi al futuro. Cito un caso: stiamo seguendo un accordo di programma relativo a un intervento misto pubblico-privato per la creazione di un incubatore per startup. Alla base di questo accordo di programma c’è un territorio propositivo, capace di raccogliere istanze condivise tra Comuni, associazioni di categoria, privati… Un esempio da imitare: come Regione siamo pronti a fare la nostra parte ma non possiamo programmare in casa d’altri. Di una cosa, però, tutti devono essere consapevoli: se non si investe in innovazione e tecnologia siamo destinati a morire.

Aree dismesse e non solo: il futuro delle imprese e dei territori passa, lo ha detto lei, dalle infrastrutture. E su una in particolare, Pedemontana, gli occhi delle imprese sono puntati. Vogliamo vederla arrivare a destinazione e utilizzarla di più e meglio. Oggi, però, l’ostacolo è il costo troppo elevato del pedaggio. Porta buone o cattive notizie? Se riuscirò a superare un passaggio che spero di risolvere a breve, con Pedemontana galopperemo perché non ho problemi finanziari. Entro un mese saremo dentro o fuori. E se tutto andrà bene può darsi che i lavori riprenderanno subito oppure entro un anno, dopo un nuovo bando di gara. A quel punto si potranno promuovere anche incentivi e gratuità.

Milano e Varese: come può la nostra provincia evitare la marginalità? Varese deve giocarsi una sua sfida, non quella di Milano, di Human Technopole o di altre realtà. E poi si sa, Milano non è molto generosa nei confronti degli altri… Relazioni pubblico privato e sinergie di intenti sono alla base dei

Aree di confine: ha già dato il suo via libera al progetto di legge di Confartigianato Varese che punta ad aumentare il netto in busta ai lavoratori italiani che sceglieranno di rimanere nelle imprese entro i venti chilometri dal confine. L’obiettivo è chiaro: evitare la desertificazione del Luinese. Conferma il supporto? Il sostegno c’è e, al nuovo Governo, chiederò un’attenzione particolare per le zone di confine della Lombardia. imprese e territorio | 7


interviste

E PERFORMANCE L’UNIONE FA LA CONDIVISIONE

Giorgio Alleva - presidente Istat

RETI

L’analisi (in cifre e non solo) del presidente dell’Istat Giorgio Alleva: ricerca, tecnologie, innovazione e competenze passano dalle sinergie. Soprattutto per le Pmi

«Reti, per le imprese hanno un ruolo sempre più cruciale. E aumenta anche la consapevolezza della necessità di condivisione». È quanto emerge dal Rapporto Annuale 2018 dell’Istat, focalizzato proprio sul tema delle reti a tutti i livelli (di impresa e non solo), che il presidente dell’istituto nazionale di statistica Giorgio Alleva ha presentato quest’anno all’Insubria di Varese, scelta come sede della “riunione scientifica” della Società italiana di economia demografia e statistica (Sieds). «Sulle reti d’impresa qui in Lombardia c’è tanto da dire - le parole del presidente dell’Istat - sono state oggetto di diversi approfondimenti, tra cui un interessante raffronto tra Italia e Germania sull’interconnessione tra i settori produttivi. Innanzitutto per capire al centro di questo schema connettivo chi c’è, se settori capaci di propagare spinta all’innovazione o più tradizionali». Cosa avete scoperto? I due sistemi non sono tanto diversi a livello di interconnessioni, la differenza è che nei rapporti di interdipendenza e negli scambi la Germania ha al centro i settori ad alta intensità di conoscenza e innovazione, l’Italia invece settori più tradizionali. Questo non per scelta, ma un po’ per struttura del nostro sistema produttivo. Può pesare il fatto che da noi ci sia un maggior tasso di piccola impresa rispetto alla Germania? Senz’altro il fatto di avere una composizione strutturale con più piccola impresa e meno grandi o grandissime imprese spie-

8 | imprese e territorio

ga in modo importante questa differenza. Quindi fare rete potrebbe anche essere un modo per superare questo gap. Ma ad oggi si percepisce ancora una certa difficoltà nell’aggregazione. Invece è proprio la piccola impresa che può beneficiare della condivisione di risorse che la propria dimensione non facilita; penso alla ricerca, alle tecnologie, all’innovazione in generale. E quindi vediamo una crescita di questa consapevolezza anche da parte delle Pmi. Naturalmente quando fanno accordi con quelle più grandi, hanno un potere contrattuale diverso, quindi a volte tendono a fare rete con altre piccole imprese con beneficio in più per tutti. Nel Rapporto avete monitorato la diffusione delle reti di imprese. Cosa è emerso? Che le reti rappresentano una strategia sempre più importante: oltre il 50% dichiara rapporti di collaborazione formalizzata con altre imprese. Un dato in crescita. Nel 2017 si registra un più 9% rispetto al 2013 e un più 1,6% rispetto al 2015. Di che genere di “rapporti stabili” si tratta? Abbiamo valutato dai puri accordi commerciali agli accordi verticali cliente-fornitore fino alle reti più complesse, accordi orizzontali non limitati alle relazioni d’affari, in cui c’è condivisione di risorse tecnologiche, ricerca, competenze, a fronte di progetti e strategie comuni. Quest’ultimo aspetto riguarda oltre il 30% delle imprese, soprattutto al Nord. E c’è una crescente quota di


interviste

LE RETI DI IMPRESE IN PROVINCIA DI VARESE NELLE MAPPE ISTAT imprese che persegue questi accordi di tipo complesso, dunque una strategia di rete complessa. E abbiamo anche fatto un raffronto tra imprese che ce l’hanno oppure no, per capire se conviene.

I sistemi locali a controllo esogeno sono più frequenti nel Mezzogiorno, mentre in Lombardia ci sono due “macchie”, una caratterizzata da una prevalenza non forte di presenza esogena, e una caratterizzata da sistemi a bassa interconnessione, in cui prevalgono imprese monounità, tipicamente meno complesse e meno grandi, che rendono il sistema meno legato e meno interrelato.

L’esito di questo raffronto? A prescindere che questa rete complessa sia locale, nazionale o internazionale, in tutti e tre i casi porta un chiaro vantaggio di performance per l’impresa in rete. Quantificabile in un aumento di circa il 5% nel valore aggiunto per addetto ad ogni “livello” di estensione e complessità di rete. Un elemento importante collegato all’innovazione e alla trasformazione digitale. Questo anche nel lavoro autonomo, che per definizione è meno interrelato: ma le reti ci sono eccome, e sono in crescita. La condivisione di clienti, servizi, tecnologia, rappresenta un vantaggio. Emerge un processo di rafforzamento delle reti, perché le imprese vanno in rete se hanno vantaggi e aspettative di vantaggi. Cosa emerge a proposito di legami di comando e controllo delle imprese? Dato che abbiamo imprese che hanno quartier generali e tanti stabilimenti, abbiamo analizzato quali sistemi locali abbiano una prevalenza di centri decisionali e quali una forte presenza esogena, ovvero di imprese esterne che hanno sul territorio solo delle unità locali: oltre a Milano e Roma, è emersa una maggior concentrazione di centri decisionali nel Nord Est, è una dinamica in atto. In Lombardia ci sono a Milano e Sondrio, meno nella fascia pedemontana. Il tema di fondo è che la contiguità spaziale e i legami di comando e controllo favoriscono la trasmissione di know-how e conoscenza.

L’analisi dell’Istat si è concentrata anche sui “pattern geografici” della produttività... Abbiamo individuato i sistemi a produttività più elevata, da cui emergono due “sentieri”, uno più frammentato che parte da Milano verso il confine orientale, e uno più compatto da Milano verso la via Emilia. Sulla produttività dell’industria a livello locale presto saremo più precisi, grazie al “frame territoriale”, un nuovo sistema informativo con i dati delle principali variabili economiche a livello territoriale dettagliato, anche comunale, che consentirà di leggere meglio i pattern geografici del sistema produttivo».

+1,6%

COLLABORAZIONE FRA LE IMPRESE

Rapporti di collaborazione stabili rispetto al 2015

Nord-ovest

Nord-est

Centro

Mezzogiorno

60

50

52,4%

40

Imprese che dichiarano rapporti stabili con altre imprese

30

30%

10

0

+9,0%

Rapporti di collaborazione stabili rispetto al 2013

20

Quindi il fatto che in Lombardia questa dinamica sia praticamente limitata alla città metropolitana di Milano è un problema?

Per quanto riguarda i legami di comando e controllo, l’analisi dei sistemi locali per intensità della presenza di imprese esterne vede la provincia di Varese divisa in due. Anzi tre: le fasce più a nord e più a sud sono caratterizzate da una “presenza esogena”, seppur moderata, mentre quella centrale da una “bassa interdipendenza”. In soldoni, il nord e il sud della provincia hanno sistemi locali in cui prevale la presenza di imprese esterne, unità locali di imprese che hanno il loro centro decisionale altrove, mentre la fascia centrale della provincia, quella a più alto tasso di diffusione della piccola impresa, si caratterizza per una prevalenza di imprese “monounità”, in cui tipicamente il centro decisionale coincide con l’unità produttiva.

Imprese in reti complesse (servizi comuni, innovazione...) 2013

2015

2017 imprese e territorio | 9


INCHIESTE

SACCONAGO

PERIFERIA A CHI? CHI FA IMPRESA NON VUOLE FINIRE NELL’ANGOLO DAVIDE IELMINI

Una dietro l’altra, per chilometri. A perdita d’occhio. Il fuoco dell’invenzione, nella zona industriale di Sacconago, stimola e contagia l’innovazione. Seguendo le logiche dell’economia e dei mercati. Ma anche la forza produttiva che si basa su un’organizzazione del lavoro fondata su separazione, allineamento e coesione. Concetti appropriati per le aziende di Sacconago: che corrono da sole, regolano il loro percorso studiando anche le altre colleghe, e collaborano attraverso reti informali e secondo la convergenza verso obiettivi comuni. Eppure c’è qualcosa che manca. Di Centro Servizi si parla da anni: sarebbe facile mollare la presa per chiunque, ma non per gli imprenditori. Che del Centro non ne fanno una questione di principio ma di competitività. La realizzazione di una mensa è sempre stata al centro del dibattito eppure, in questi ultimi tempi, ci sono altre esigenze che stanno affiancando il centro cottura. A partire dai collegamenti stradali.

IL BUS NAVETTA CHE NON C’È Le aziende intervistate da Confartigianato Imprese Varese lamentano grosse difficoltà per raggiungere la zona. Contraddizione dei tempi moderni? Forse, ma non si può accettare l’esistenza di un polo produttivo che abbina qualità a quantità senza la certezza di un bus navetta (che parta dalle stazioni ferroviarie di Busto), o l’aggiunta di nuove fermate alle linee degli autobus, che rendano Sacconago una realtà attrattiva per chi cerca lavoro o per chi, al lavoro, ci vuole arrivare senza intralci. La povertà di infrastrutture, purtroppo, mette in serio pericolo anche l’attrattività occupazionale delle aziende: «Qui i giovani non ci vengono», dice un’imprenditrice, «perché la zona è, a tutti gli effetti, scomoda». Sen10 | imprese e territorio


INCHIESTE

za auto (che sono un costo, soprattutto per chi raggiunge Sacconago dall’hinterland milanese) non si va da nessuna parte. Servizi di trasporto moderni, funzionali e veloci fanno la differenza in un mondo globalizzato che scommette sul welfare dei lavoratori.

facciano di Sacconago una realtà ancora più efficiente e indipendente dal centro di Busto Arsizio.

SICUREZZA A RISCHIO TRA L’ERBA ALTA

È per questo che in gioco entrano la presenza di un benzinaio, un tabaccaio, un’agenzia postale e una filiale bancaria. In realtà su quest’ultima le voci perdono di aggregazione, perché ogni impresa ha la sua banca di riferimento o, addirittura, più di una. Però in questo caso si pensa a un servizio “neutrale”, un raccoglitore connesso in rete con diversi istituti di credito, che possa coordinare e soddisfare le esigenze di tutti. A tutto questo si aggiunge la dotazione di bagni e docce a disposizione degli autotrasportatori (vettori nazionali e internazionali) che gravitano sulla zona anche in orari particolarmente scomodi.

Cura dell’ambiente circostante e sicurezza delle strade (tanti sono gli incroci che portano alle imprese), sono altri due punti segnati in rosso nell’agenda degli imprenditori. Quella che potrebbe sembrare un’esigenza esclusivamente estetica è, a tutti gli effetti, un’attenzione al benessere collettivo. Aiuole, a Sacconago, ce ne sono così come c’è una buona porzione di verde circostante. Da un lato se ne fa una questione paesaggistica, certo, ma dall’altra anche salutare per tutti coloro che soffrono di allergie: tenere sott’occhio taglio dell’erba e potatura delle piante, «più e meglio di quanto si sia fatto fino ad oggi» dicono alcuni imprenditori, è un plusvalore sul quale non si può soprassedere. La questione sicurezza è aperta da tempo: i rettilinei invitano alla velocità, gli incidenti (anche mortali) non sono mancati, le gare fra auto sembra non siano così rare. Gli imprenditori hanno ben chiaro quello che andrebbe fatto: «La sicurezza chiede anche una vigilanza notturna più accurata», intervengono altre imprese. Perché in tanti chilometri quadrati non è difficile trovare angoli appartati dove può accadere di tutto. Ma, secondo il significato della parola, un Centro Servizi deve raccogliere anche altro. Se di cittadella produttiva si deve parlare, è indispensabile puntare a tutti quei servizi utili alle aziende. E che

DALLA BENZINA ALLA POSTA TUTTO A PORTATA DI IMPRESA

NON SOLO MENSA Ed eccoci alla zona mensa ad esclusiva disposizione delle unità imprenditoriali e pensata soprattutto per i loro collaboratori: «Vivere momenti di aggregazione e relax al di fuori del luogo di lavoro motiva e ricarica», sostengono alcuni imprenditori. Dall’idea iniziale, però, la progettualità si è fatta più articolata inglobando anche la richiesta di un piccolo ristorante di rappresentanza, di livello medio, adibito all’accoglienza dei clienti internazionali. Insomma, addio alla vecchia schiscetta con un servizio che proponga piatti a prezzi calmierati. Per evitare spostamenti – bar vicini alla zona industriale non ce ne sono – scomodi e onerosi. imprese e territorio | 11


inchieste

AREE DISMESSE: IN ITALIA C’È CHI LE HA RILANCIATE

GABRIELE NICOLUSSI

Sono in centro come in periferia. Semidistrutte o in buono stato. Sono le 268 aree dismesse (industriali e non) presenti in Provincia di Varese, che occupano un’area di circa 400 ettari. Preziosi chilometri quadrati macchiati da industrie, ospedali, palazzi e scuole in rovina. Numeri che si inseriscono nel Progetto Suoli promosso da Regione Lombardia. Si tratta di una co-pianificazione fra Regione e province finalizzata alla costruzione di una banca dati dei siti abbandonati. I dati sono ufficiosi, perché devono ancora essere validati dai Comuni, ma evidenziano un dato chiaro: più dello 0,3% dell’area provinciale è occupato da edifici abbandonati. Le domande sono sempre le stesse: come trovare i fondi per risanare i siti in rovina? Come ideare progetti vincenti per dar loro nuova vita? Ogni fazzoletto di territorio ha la propria storia e le proprie peculiarità. Però dei modelli da seguire esistono. Confartigianato Imprese Varese ha deciso di intraprendere un viaggio alla ricerca di chi, la riqualificazione, è riuscita a farla con successo. Abbiamo attraversato tutto il Nord Italia, certi del fatto che guardare quello che succede oltre i propri confini, aiuti a capire meglio ciò che succede a casa propria. Lo abbiamo fatto per dare al nostro territorio e ai suoi protagonisti degli spunti da seguire e delle best practice a cui fare riferimento, per poter diventare, finalmente, dei soggetti attivi in questo processo di rinascita. 1. LE ASSOCIAZIONI CULTURALI Una domanda viene spontanea: come fanno le associazioni culturali, che hanno spesso pochi fondi a disposizione, a diventare protagoniste della riqualificazione? La risposta è semplice: fanno leva sullo stretto

12 | imprese e territorio


inchieste

rapporto che hanno con il territorio. Esemplari in questo senso sono due casi, che abbiamo toccato con mano. Il primo a Ghiare di Berceto, piccola frazione in provincia di Parma, dove si sta riqualificando un’ex Fornace. Protagonista del cambiamento è Manifattura Urbana, associazione che da cinque anni organizza un workshop-cantiere con studenti universitari da tutta Europa. Un processo in cui territorio, università e istituzioni procedono a braccetto, con un obiettivo comune: ridare vita al vecchio cementificio e ripopolare il paese. Il secondo esempio è nella zona sud di Milano, in zona San Cristoforo. La location in questione sono gli ex stabilimenti della ditta di ceramiche Richard Ginori, riqualificati nei primi anni Duemila dopo decenni di degrado. Ora ospitano imprese e professionisti, che stanno ridando energia al quartiere. Lo fanno grazie all’associazione Around Richard, che unisce tutti i player in campo (residenti, aziende, liberi professionisti) per creare progettualità condivise e stimolare la rinascita della zona. 2. PLAYER PRIVATI Coraggio, voglia di rischiare e fondi a cui attingere, rendono i player privati i soggetti privilegiati della riqualificazione. Anche in questo caso, il rispetto del territorio e della sua storia sono fondamentali. Ne è un esempio Open Dream, grande progetto di rinascita della ex fabbrica Pagnossin, in provincia di Treviso. Si tratta di centomila metri quadrati, che sono stati comprati da Damaso Zanardo, leader nel campo della logistica, con un obiettivo: creare un grande polo turistico. Secondo l’imprenditore, il territorio non si meritava di veder svanire una parte così importante di storia (la Pagnossin dava lavoro a centinaia di per-

sone) e ha deciso quindi di non abbattere i vecchi forni, ma di indirizzarli a nuovi utilizzi, con l’aiuto anche delle università. Sono cinque invece le realtà che hanno riqualificato gli stabilimenti ex Ansaldo, 12mila metri quadrati nel cuore di Milano. Hanno preso in gestione l’area dal Comune e l’hanno indirizzata a uso culturale (una project house, una residenza, spazi per eventi, un’officina e un ristorante). Fondamentali nell’opera di riqualificazione e di ideazione delle progettualità, in questo caso, sono stati i bandi pubblici e gli aiuti offerti dallo stato (un esempio su tutti: l’artbonus). 3. PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Dovrebbero essere il vero motore della riqualificazione, anche se spesso, purtroppo, non è così. Il problema principale è la mancanza di fondi. Per trovare un esempio di rinascita promosso da una Pa abbiamo fatto rotta a nord, in una provincia, quella autonoma di Trento, che i soldi li ha ed è in grado di gestirli. A Rovereto ha ridato vita alla manifattura tabacchi (ora Progetto Manifattura, green innovation factory che ospita aziende nel campo dell’ecosostenibilità) e l’ex cotonificio Pirelli (che è diventato il Polo di Meccatronica). In entrambi i casi si è scommesso sui punti di forza del territorio: la green economy e la tecnologia, con l’idea che l’unione fa la forza. Le aziende incubate o insediate creano sinergie e business, tutte a beneficio della Provincia (indotto e tasse) e della sua immagine. È in previsione anche lo spostamento dei due istituti tecnici della zona nell’area antistante il Polo di Meccatronica, per creare un anello di congiunzione ideale tra scuola e impresa. imprese e territorio | 13


INCHIESTE

VECCHIO E NUOVO L’ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE DEL MAESTRO LIBESKIND

14 | imprese e territorio


INCHIESTE

«Vecchio e nuovo? Devono saper dialogare. Servono creatività ed immaginazione». La lezione di Daniel Libeskind, uno dei più grandi architetti al mondo, sul riutilizzo del patrimonio industriale dismesso, così ricco e spesso ancora privo di futuro nel nostro territorio. Nella sua “tappa” in provincia di Varese la grande “archistar” che viene dalla Polonia, naturalizzato americano, ha fatto sosta al Maga, il museo di arte di Gallarate, definendolo «un luogo fantastico con una grande cultura». Luogo in sé emblematico, visto che era un vecchio opificio trasformato in tempio della cultura. Perché Libeskind si è soffermato molto sul tema del riuso, in una città che vuole affrontare di petto la sfida del recupero delle tante aree dismesse ereditate da un passato da “città delle cento ciminiere”. Dando qualche preziosa dritta, in particolare per il riuso delle aree industriali. «Come agire? Prima di tutto, tenendo conto che essere in grado di riutilizzare un vecchio edificio è già un enorme passo per la sostenibilità - spiega Libeskind - ma bisogna anche aggiungere qualcosa, non è abbastanza riutilizzare. Bisogna mettere in dialogo con nuove funzioni di cui c’è bisogno e che non potevano essere garantite da un edificio che risale ad un secolo passato. Devono esserci entrambe le dimensioni». Il dialogo tra passato e futuro è dunque la chiave di volta per la riconversione. «Penso che si possano usare i vecchi edifici in tanti modi diversi - afferma l’architetto - cambiare funzioni, anche creare un contrasto, perché non puoi avere qualcosa di vecchio senza qualcosa di nuovo, altrimenti non sarebbe vecchio. C’è bisogno di entrambe le cose: quanto più radicale sarà il tuo studio, tanto più radicale sarà la nuova composizione architettonica e la nuova funzione dell’edificio». Ecco che il recupero del “vecchio” può diventare la porta per un “nuovo” più attrattivo: «Città da un passato industriale possono avere, naturalmente, una nuova attrattività sottolinea Libeskind - tutte le grandi città hanno riutilizzato aree che stavano morendo, mi viene in mente SoHo a New York. Gli edifici industriali dismessi possono diventare nuovi edifici per le persone, ma non da soli. Il segreto? È la creatività, è l’immaginazione, non si tratta solo di ristrutturare vecchi edifici, ma c’è bisogno di cambiare radicalmente il modo in cui le persone vedono quegli edifici. E questo richiede anche qualcosa di nuovo». Alla domanda su come consiglierebbe di intervenire a Gallarate, città che ha una casistica che si ripete di aree adatte per il riuso, come antichi opifici, ospedali, caserme, da riconvertire, Libeskind accet-

ta la sfida, partendo dal concetto di fondo: «La città rappresenta creatività, immaginazione umana - spiega l’archistar - non ha a che fare con gli edifici, ogni città ha delle memorie storiche. Non è bello costruire su una tabula rasa, più affascinante farlo dove c’è memoria». Questo perché, aggiunge Daniel Libeskind, «il vero terreno su cui costruire, per l’architettura, non è il terreno in sé, ma è la memoria che ogni luogo rappresenta. Bisogna applicare la creatività per creare un dialogo tra memoria e contemporaneo. In Italia tutte le città hanno molte strutture storiche, in cui si possono costruire dei luoghi. Come ho fatto io con il museo ebraico di Berlino. Disegnare su una cosa che non ha memoria non mi piace, in Italia si può fare in tantissimi luoghi, come Gallarate». La verticalità è uno degli spunti su cui Libeskind ama stupire: «Non è più possibile costruire luoghi ad alta densità, perché se usi tutto il verde che c’è in una città, poi il verde non c’è più. Così si progetta in verticale - sottolinea l’architetto polacco/americano - l’ho fatto io a Tolosa, in Francia, dove ho partecipato ad un concorso per costruire delle case vicino alla stazione ferroviaria. L’idea iniziale era quella di edificare delle abitazioni basse e “cicciottelle”, io ho proposto una cosa totalmente diversa che ha vinto la gara e probabilmente ora questo progetto si farà». Si chiama Occitanie Tower ed è un’elegante torre che si attorciglia su sé stessa, destinata a diventare un nuovo punto di riferimento nello skyline della città industriale francese. «È un esempio: bisogna cambiare attitudine, occorre enfatizzare il fatto che viviamo in guerra, anche perché i pesci muoiono per l’immondizia negli oceani e perché gli alberi non ci sono più. E allora, occorre cambiare strategia per rendere le città vivibili su tanti livelli. Il futuro dell’architettura è rendere i luoghi vivibili». Libeskind in Italia lo ha mostrato con il suo intervento su Citylife a Milano. Molti architetti riprendevano la linea della città e volevano ricostruirla così com’era - spiega l’architetto - la sfida era fare qualcosa di nuovo. Costruire con la natura, convivere in maniera diversa, dato che la mancanza di aria a Milano è un problema, e dare un polmone verde era importante. Ora i cittadini vivono senza smog, in mezzo al terzo parco per estensione della città, un luogo attrattivo: è l’esempio che la vita nel XXI secolo può essere diversa. Edifici sostenibili con tutte le strutture di cui si ha bisogno. Milano è una città che ha immaginazione: penso siano appropriate a Milano le tre torri di Citylife. Dobbiamo pensare a come gestire città del futuro: le città devono prendersi la loro storicità per poi competere e avviarsi al futuro».

NON SI TRATTA SOLO DI RISTRUTTURARE VECCHI EDIFICI, MA DI CAMBIARE IL MODO IN CUI LE PERSONE VEDONO QUEGLI EDIFICI

imprese e territorio | 15


focusinchieste

L’IMPRESA AL CENTRO STUDIAMOCI IL CASO

Lucio Poma - Industria e Innovazione di Nomisma

NICOLA ANTONELLO

16 | imprese e territorio

Non più solo periferie: Lucio Poma (Nomisma) analizza il ritorno delle Pmi nelle città che investono sulla qualità della vita e dell’offerta

Varese è una città poco attrattiva: ci vive una percentuale altissima di anziani e bambini rispetto ai cittadini “attivi” (lavoratori). Altra città, altra situazione: Busto Arsizio era la Manchester d’Italia. Vi si producevano i filati con cui si vestiva mezza Italia. Ora di quel passato resta poco. Eppure, dopo la crisi, i dati dell’ultimo anno sono buoni. Come consolidarli? Qual è il futuro delle città attorno ai 50-100mila abitanti (e quindi anche Gallarate e Saronno) a due passi da Milano? Come devono svilupparsi per essere business-friendly con, accanto, un competitor come il capoluogo regionale, locomotiva d’Italia e d’Europa? L’abbiamo chiesto a Lucio Poma, responsabile scientifico dell’area Industria e Innovazione di Nomisma. «Le città – dice Poma - sono tornate a essere un attrattore di imprese, sviluppando nuove economie di scala, attraverso la conoscenza diffusa. Non esistono più i centri studi racchiusi su sé stessi, ma si genera una conoscenza collettiva, al servizio di chi la chiede. Qui in Emilia Romagna, in diciotto anni sono stati creati dieci Tecnopoli, centri di alta tecnologia. Mentre una volta si sarebbero costruiti in periferia, oggi sono stati voluti in mezzo alle città». In tal senso, per una città e per le Piccole e medie imprese sarà cruciale lo sviluppo come smart-city: «E non parlo – afferma ancora il dirigente di Nomisma - del semaforo e del traffico intelligente, ma si deve dare alle imprese dinamiche un ventaglio di possibilità, altrimenti migreranno». Come essere, dunque, attrattivi, soprattutto nelle realtà medio-piccole come nei centri del Varesotto? «Penso ai ricercatori. Ormai non sono più quelli di un tempo che vivevano un’esistenza da ere-


xxxx

mita in una grotta o in qualche scantinato. Si tratta di persone che si spostano con la famiglia in tutto il mondo e vanno a lavorare in certi luoghi, non soltanto per una scelta salariale, ma anche ambientale. Quindi decidono di spostarsi in una città che riesce a fornire una certa dinamica tipica della qualità della vita. Ciò diventa molto interessante per le città come quelle prealpine». Un cambiamento avvenuto anche per le imprese: «È finita la ricerca della città di vecchio stampo, scelta per un investimento perché ha il casello autostradale a due passi. Ora si decide di insediarsi su un territorio perché è dinamico e crea filiere molto più lunghe e orizzontali. Deve esserci, insomma, una piattaforma di pluri-saperi con le Pmi artigianali e industriali al centro di questa attrattività e quindi capaci di offrire prodotti e servizi di vasta gamma e di alta qualità». Sul fronte degli investimenti, Poma suggerisce alle città di dare priorità laddove ci sono co-finanziamenti, specialmente europei: «Fra le direttive principali – conclude il dirigente di Nomisma - mi focalizzerei sul digitale, l’energia, l’ambiente e quindi la sostenibilità. Bisogna per forza andare a caccia di investimenti pubblici e dove i soldi sono tanti. E quindi, ormai, bisogna guardare all’Unione Europea, partecipando con forza e idee, anche assieme ad altre città: in questo modo, oltre ad avere un peso maggiore, le nostre città medioevali e con le mura, possono aprirsi ad altre realtà e crescere sulla spinta e sull’esempio altrui. Per ora l’unica città che lo ha capito è Milano e questo le sta dando un vantaggio importante». imprese e territorio | 17


AREE DI

CONFINE Il progetto che vuole diventare legge

Il percorso, tutt’altro che semplice e per nulla scontato, è iniziato un anno fa, nel giugno 2017, dalla voce di alcune imprese e da una presa d’atto amara: il Luinese, l’area della provincia di Varese più vicina al confine ma anche più dissestata dal punto di vista infrastrutturale, stava perdendo pezzo dopo pezzo, una fetta rilevante della tradizione manifatturiera che ne aveva fatto la storia e la fortuna (anche economica). Dodici mesi dopo, quel percorso è diventato un progetto di legge (“Aree di Confine”) che ha fatto il giro di tutti i tavoli istituzionali della provincia di Varese e non solo, raccogliendo consenso, sostegno (dalle amministrazioni comunali di Luino, Arcisate, Lavena Ponte Tresa e Induno Olona, per esempio) e l’estensione territoriale (sul Comasco) indispensabile per ampliarne ulteriormente la portata e la significatività. Ma è dal basso, dalle imprese e dalla loro voglia di resistere, che tutto è cominciato. E da tre difficoltà strutturali. Da un lato la viabilità, tutt’altro 18 | imprese e territorio

che efficace. Senza contare orografia e collocazione geografica, che rendono il Luinese una meravigliosa enclave lontana dalle strade di scorrimento veloci. Un’oasi di pace, un incubo per il business: come lo spieghi al conducente di un mezzo pesante che per raggiungere alcune aziende della zona deve mettere in conto strade strette, limiti di velocità stringenti e talvolta anche limiti di peso invalicabili? E come paghi questi disagi? «Il solo fatto di dover salire fin qui – concordano le imprese – aumenta i costi di trasporto del 20-25% e, di riflesso, riduce la competitività delle imprese». E competitività significa sopravvivenza, sviluppo e lavoro. Altro nodo, altra storia: per le professionalità più elevate e meglio formate, il Canton Ticino è una calamita occupazionale difficile da disinnescare, complice un cuneo fiscale tanto diverso da rendere gli stipendi concessi oltreconfine inarrivabili per qualsiasi impresa dell’alto Varesotto, a meno di non disperdere tutti i margini di guadagno e di sviluppo.


inchieste

A ciò s’aggiunga che molte delle figure in fuga dall’Italia alla Svizzera sono state formate, cresciute e plasmate a immagine e somiglianza di imprese locali anche molto avanzate sul piano tecnologico e che, in zona, non tutte le professionalità in uscita possono essere sostituite dai giovani neo diplomati, a causa dell’assenza di alcuni indirizzi di studio specifici. Impossibile anche pensare che, a compensare la carenza del Luinese, possano essere le scuole presenti in altre aree della provincia: troppo decentrate le valli e l’alto lago per non indurre giovani e giovanissimi a puntare su imprese più vicine e meglio raggiungibili. In questo quadro resta il peso delle cifre: la crisi ha ridotto del 9,5% le imprese attive nel Luinese (2008-2016) mentre nel resto della provincia la flessione è stata del 5,8%. Lo stesso dicasi per il numero di addetti, in picchiata del 5,2% nel Nord della Provincia contro il 2,3% perso altrove. «Segnali che non potevamo non cogliere, anche a fronte di tre crisi aziendali consecutive maturate in meno di dodici mesi con conseguenze pesanti anche sull’indebolimento della filiera e sulle difficoltà di approvvigionamento, ad esempio, dei materiali per la produzione» spiega il presidente di Confartigianato Imprese Varese, Davide Galli. Due tavole rotonde, un incontro formale in Commissione Attività Produttive di Regione Lombardia, un vertice esteso a tutte le forze politiche nel mese di ottobre 2017 e un incontro tecnico a Roma per ricevere il via libera anche formale al documento. E, ancora, lettere e comunicazioni indirizzate a tutti i sindaci e a tutte le imprese del Luinese, numerosi faccia a faccia informali, una presa di posizione forte in campagna elettorale e numerose occasioni di confronto nel merito: tutto questo è, ed è stato, il progetto di legge di Confartigianato Imprese Varese. Un intervento che – in estrema sintesi – prevede un regime fiscale incentivante per i lavoratori residenti in Italia entro i venti chilometri dal confine e occupati in imprese con sede nel medesimo perimetro. In particolare, il reddito da lavoro dipendente prodotto nel territorio italiano, se il progetto diventasse legge dello Stato, andrebbe a concorrere alla formazione della base imponibile in una misura compresa dal 70 al 50%. Un modo per dare ossigeno alle imprese ma, soprattutto, aumentare il netto in busta a favore dei lavoratori e permettere loro di scegliere davvero l’impresa (e lo Stato) dove lavorare. «L’opzione di non puntare su benefici alle imprese ma di sostenere i lavoratori, che nelle nostre aziende rappresentano un capitale di incommensurabile valore, s’è dimostrata coerente con le istanze del territorio che, in effetti, non ci ha mai fatto mancare vicinanza e supporto». Come dimostrano non solo il via libera pubblico del presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, e la sensibilità raccolta in pressoché tutte le forze politiche. Ma anche l’approvazione nei consigli comunali di Luino, Lavena Ponte Tresa, Induno Olona e Arcisate di un ordine del giorno a sostegno del progetto di legge. «Non posso che ringraziare i sindaci e i rispettivi consigli comunali per l’appoggio e la scelta di farsi promotori dell’istanza di Confartigianato

Varese e delle sue imprese presso il Consiglio Regionale della Lombardia e i rappresentanti della provincia eletti in Parlamento affinché il progetto di legge possa trasformarsi in una proposta per le Camere e, auspicabilmente, in legge dello Stato» prosegue Galli. Il tempo a questo punto stringe Perché meno imprese significa meno lavoro e meno lavoro vuol dire impoverimento del territorio. Un impoverimento che rischia di essere irreversibile. «Gli sforzi, e gli investimenti anche economici messi in campo dalle imprese, ad oggi, non sono riusciti a colmare un gap oggettivo: si sono piuttosto tradotti in ulteriore contrazione della competitività e da questo punto di vista è nostro dovere intervenire». Così come è stato fatto anche per ampliare l’offerta formativa nel Luinese, con la proposta di istituzione di un Its con indirizzo meccanico ed elettronico di elevato profilo. E così come s’è cercato di fare mappando l’intera rete viabilistica locale e sottoponendo i nodi più critici all’attenzione di enti pubblici e rappresentanze politiche. Una strada lunga ma, non percorrerla, potrebbe significare il definitivo ripiegarsi su sé stesso dell’intero fattore manifatturiero. «Questo progetto – rileva in proposito il sindaco di Luino, Andrea Pellicini – è l’unica via d’uscita alla desertificazione di imprese manifatturiere è quella di detassare il costo del lavoro». Conferma Massimo Mastromarino, primo cittadino di Lavena Ponte Tresa: «Sottolineo il segnale fortissimo che emerge da questa scelta: Lavena Ponte Tresa è storicamente e per antonomasia il Comune di Confine e la decisione assunta dimostra quanto tale problematica sia effettivamente sentita sul territorio». «Con i frontalieri e con le imprese abbiamo affrontato più volte il tema della desertificazione economica e della fuga di professionalità: la preoccupazione, lo confermo, è grande – ammette anche il sindaco di Induno Olona, Marco Cavallin – Il problema resta il mantenimento sul territorio delle capacità professionali e imprenditoriali e, in questo progetto di legge, abbiamo individuato una possibilità concreta per rispondere alla legittima necessità di garantire un futuro ai nostri territori». «La scelta di farci parte attiva in questo progetto, su esplicito mandato del consiglio comunale, è dettata dalla consapevolezza che le scelte (o mancate scelte) di oggi, incideranno in maniera rilevante sul futuro dei territori» la presa d’atto di Angelo Pierobon, sindaco di Arcisate.

È DAL BASSO, DALLE IMPRESE E DALLA LORO VOGLIA DI RESISTERE, CHE TUTTO È COMINCIATO. E DA TRE DIFFICOLTÀ STRUTTURALI

Ora Aree di Confine si allarga. E si prepara ad un nuovo percorso: quello per diventare legge.

imprese e territorio | 19


inchieste

NEL CONTRATTO DI GOVERNO, PER GARANTIRE LE COPERTURE, È STATA PREVISTA UNA SECONDA ALIQUOTA IRPEF AL 20% PER I REDDITI SUPERIORI AGLI 80MILA EURO ANDREA ALIVERTI

LA

FLAT TAX SARÀ DUAL? Ipotesi e aliquote di una rivoluzione per famiglie e Pmi

20 | imprese e territorio

Flat Tax: da tormentone della campagna elettorale a concreta rivoluzione fiscale per il ceto medio e le Pmi? Lo scopriremo presto, visto che la proposta, che faceva parte del programma elettorale del centrodestra, è al centro del “contratto di governo” che ha fatto nascere l’esecutivo del professor Giuseppe Conte, sorretto da una maggioranza Lega-Cinque Stelle. Ma che cos’è la Flat Tax? Letteralmente “tassa piatta”, è un sistema fiscale basato su un’aliquota unica, fissa e non progressiva. Nello scenario attuale, la tassazione per le persone fisiche è spalmata su cinque aliquote Irpef, al di là della “no tax area” fissata a ottomila euro (fino a 15mila euro, 23%; tra 15 e 28mila euro, 27%; tra 28 e 55mila, 38%; tra 55 e 75mila, 41%, oltre i 75mila euro, 43%), mentre quella del reddito d’impresa è già di per sé “flat” (recentemente scesa al 24%, anche se permane la componente Irap al 3,9%). L’ipotesi messa sul tavolo da Armando


Siri, l’ideologo leghista della Flat Tax (l’ha modellata sulle teorie di Alvin Rabushka, uno dei consiglieri economici della presidenza Reagan), prevede una tassazione “piatta” al 15 per cento per persone fisiche, calcolata «sul reddito familiare, quindi sulla somma degli stipendi del nucleo familiare», e imprese. Nel contratto di governo, per superare i problemi di coperture, è stata prevista una seconda aliquota Irpef al 20 per cento per i redditi superiori agli 80mila euro. «È la miglior risposta possibile alla stagnazione della nostra economia - afferma il neo senatore Siri - per una forte ripresa della domanda interna i consumatori devono avere soldi da spendere. Non ci perde nessuno e ci guadagnano in molti. Favorirà soprattutto il ceto medio, che in Italia paga di più e su cui pesa l’80% del welfare». Sulla costituzionalità della proposta, Siri non ha dubbi: la progressività dell’imposta verrà garantita dalle deduzioni, «una deduzione fissa di tremila euro che si applica a tutti i componenti del nucleo familiare, per redditi da zero a 35mila euro, una deduzione solo per i familiari a carico per redditi ricompresi tra 35 e 50mila euro, nessuna deduzione sopra i 50mila euro di reddito». Ci sono diverse perplessità sulla sostenibilità economica di questa iniziativa, a partire da quelle espresse da “Mr Spending Review” Carlo Cottarelli. La proposta leghista si sosterrebbe da un lato con lo choc positivo immediato per l’economia (7 miliardi in più di Iva, 1,5 miliardi per effetto della nuova occupazione creata, 28 miliardi da emersione del sommerso) garantito dalla nuova tassazione, dall’altro dalla copertura “una tantum” attraverso quella che Salvini ha chiamato la “pace fiscale”, ovvero un intervento di chiusura delle partite arretrate (950 miliardi di crediti vantati dallo Stato attraverso Equitalia) con il meccanismo del saldo e stralcio che dovrebbe far incassare 35 miliardi di euro il primo anno e 25 il secondo. Meno drastica l’ipotesi di tassazione “piatta” fatta da Forza Italia in campagna elettorale: l’aliquota “flat” in questo caso è prevista al 23%, sia per le

persone fisiche che per le imprese. «La tassazione Ires è già flat, si tratta semmai di abbassarla - spiega l’economista Emanuele Canegrati, che fa parte dello staff del gruppo di Forza Italia alla Camera dei Deputati e che ha teorizzato la Flat Tax già nel 2011, quando curò per conto della Fondazione Magna Carta un volume sul tema con il contributo dei professori Kurt Leube e Alvin Rabushka dello Hoover Institute della Stanford University in realtà non è l’Ires, ma la componente Irap, la vera stortura del sistema di tassazione sulle imprese. È molto più mal strutturata e distorsiva dell’Ires, in quanto è un’imposta che tassa fortemente il lavoro. Nel nostro programma contiamo quindi di intervenire soprattutto sull’Irap, andando verso l’obiettivo finale dell’abbattimento totale. Servono svariati miliardi per abolire l’Irap, è vero, ma occorre trovarli, perché è una tassa iniqua, che disincentiva l’imprenditore a fare impresa e soprattutto ad assumere». Un’altra proposta organica di Flat Tax introdotta in Italia è quella dell’Istituto Bruno Leoni, il think tank pro-libero mercato presieduto dal professor Nicola Rossi. «Proponiamo un’aliquota del 25% - spiega il direttore generale dell’IBL Alberto Mingardi - a quel livello non verrebbe fissata solo l’imposta sul reddito, ma anche altre, abolendo contestualmente non solo l’Irap per le imprese, ma anche Imu e Tasi. È chiaro che un Irpef al 15% sarebbe molto difficile da finanziare ma una Flat Tax al 25% riporterebbe sostanzialmente la pressione fiscale complessiva, nel Paese, ai livelli del primo anni 2000, non di inizio 900, collocandosi lievemente al di sotto (anziché regolarmente al di sopra) della media europea». Risparmi reali, anche se più contenuti rispetto alle altre ipotesi, anche per le imprese, sulle quali verrebbe applicata «una aliquota Ires al 25% e l’eliminazione dell’Irap - spiega Alberto Mingardi - in questo modo, nel complesso, la tassazione delle imprese passerebbe dal 28% circa (il 24% di Ires più il 3,9% di Irap, ndr) attuale al 25%». imprese e territorio | 21


inchieste

SLOW

GIUSTIZIA I MILLE GIORNI DELL’ETERNA ATTESA


inchieste

MARILENA LUALDI

L’ultimo verdetto (economico) è drammatico: i tempi lenti della giustizia costano alle imprese italiane un miliardo all’anno. Ci vogliono tre anni di attesa per le cause civili, per i fallimenti anche sette. Nella nostra provincia i cieli sono meno cupi. Ma il problema degli organici sottodimensionati pesa ovunque, quindi per le aziende che lavorano con tutta l’Italia e ormai il mondo intero, è solo una parziale consolazione. IL QUADRO ITALIANO Un recente grido d’allarme è stato lanciato a maggio all’assemblea nazionale di Rete Imprese Italia. Da una parte i numeri, implacabili: i processi civili in media durano 991 giorni. E ogni anno si aprono 500mila contenziosi. Dall’altra, l’atmosfera che si crea e che danneggia l’economia. Una giustizia lenta e incerta è un deterrente agli investimenti delle aziende. Gli stranieri esitano a scommettere sul nostro Paese, le imprese vivono tutte le difficoltà nel pianificare le loro attività. Secondo un recente studio Cer-Eures le indagini a lento, la burocrazia e le inefficienze del sistema insieme presentano un conto di 40 miliardi, tradotto in Pil 2,5 punti. E ciò comporta la perdita di 130mila posti di lavoro. Bussare al Tar è ormai prassi consolidata. Ci sono i grandi casi, come l’Ilva, ma la miriade di sofferenze dei piccoli imprenditori hanno effetti poco calcolabili. Il raffronto con il resto d’Europa – a partire dai nostri competitor - è disarmante. I giorni necessari da noi per avere una sentenza civile sono il doppio di quelli in Spagna (510). Peggio guardando Germania (429) e Francia (395). Analizzando le regioni, il Piemonte contrappone i suoi 543 giorni ai 1.813 della Campania. Tra le Province, se Treviso reca confortanti 422 giorni, Napoli ne mostra 6.236. Un processo “alla tedesca” farebbe guadagnare mille euro di reddito pro capite. Un altro dato parla chiaro: il tempo medio di definizione dei ricorsi per gli appalti può essere quantificato in 149 giorni per il Tar (dato 2016), in appello si arriva a 225.

ci onorari del 16,7%. Nel personale amministrativo si viaggia sempre sul 25% (49 presenze sulle 65 necessarie). Si sta lavorando sull’aiuto offerto dalla digitalizzazione, con effetto benefico sui pendenti. Il Sistema informatico del contenzioso civile distrettuale evidenzia infatti un loro calo del 14,6%, dai 5.548 del 2014 ai 4.740 del 30 giugno 2017. Sul versante di esecuzioni mobiliari, immobiliari, contenziosi e fallimenti, non è cambiato praticamente nulla, visto che compare una variazione negativa dello 0,1%: dai 3.007 pendenti del 2014 si è arrivati a quota 3.004. Il penale invece vede un balzo del 58%: da 10.325 a 16.327. A Busto Arsizio, la situazione è migliore: nella relazione della presidenza del tribunale lo scorso anno, la pianta organica mostra 34 unità di cui 29 effettive (24 sono giudici). Successivamente, con cinque magistrati in uscita e tre in entrata, si è saliti a quota 30, con una scopertura del 15%. Sul fronte del personale amministrativo, però, i posti vacanti vanno al 43,5%, con 70 posti effettivi sui 130 in pianta organica. Per quanto riguarda i flussi del tribunale civile, in particolare per l’ordinario, tra il primo luglio 2016 e il 30 giugno 2017, si è partiti con 5.541 pendenti, ne sono sopravvenuti 12.502 e ne sono stati esauriti 12.701, con un finale che si attesta a quota 5.342. Le esecuzioni immobiliari, inizialmente 2.561, sono salite a 2.715; quelle mobiliari, scese da 1.010 a 702. Ancora, i fallimenti erano 873 e sono giunti a 910 (esauriti 118, sopraggiunti 155). Proprio in ambito civile si sottolinea la caratteristica del territorio, non immenso, ma con elevata densità demografica e di imprese, senza scordare la presenza di Malpensa: questo comporta contenziosi pesanti. Molto si è cercato di puntare sulla mediazione e lo scorso anno, su 725 tentativi avviati sono stati raggiunti 105 accordi. Uno sguardo nel penale: il dibattimento collegiale, ha visto calare i pendenti da 76 ai 51, quello monocratico aumentare da 1.186 a 1.259. Busto ha istituito dal 2016 unità di lavoro e programmi per ridurre l’arretrato e garantire un migliore funzionamento. In particolare, nel contenzioso civile un gruppo per tagliare le pendenze sopra i tre anni. Anche la tecnologia è stata arruolata in aiuto. Il processo civile telematico ha riscontrato il 62% delle sentenze (il 99% nel lavoro).

I GIORNI NECESSARI IN ITALIA PER AVERE UNA SENTENZA CIVILE SONO IL DOPPIO DI QUELLI SPAGNOLI (510) VA PEGGIO RISPETTO A GERMANIA (429) E FRANCIA (395)

LE SFIDE NEI NOSTRI TERRITORI Ma qual è la situazione nei nostri territori? Nel tribunale di Varese la scopertura – per i magistrati togati – è del 25%, per i giudi-

imprese e territorio | 23


inchieste

FALLIMENTI VELOCI

PAGAMENTI LENTI Sergio Martelli - presidente Ordine degli avvocati di Varese

MARILENA LUALDI

24 | imprese e territorio

Sui fallimenti il nodo non si scioglie: «Anche se arriva una risposta giudiziale veloce, l’esecuzione è tutta un’altra storia» dice il presidente dell’Ordine degli avvocati, Sergio Martelli

Un modo per combattere le carenze e le lentezze che affliggono la giustizia, è senz’altro quello di fare rete. E nel nostro territorio ci si sta provando, anche con il mondo degli avvocati. Sergio Martelli, presidente dell’Ordine varesino (circa 260 legali), rimarca punti che si sforzano di dare sollievo: «Ad esempio, l’organismo di conciliazione, per cui una serie di cause, come quelle condominiali o i pagamenti sotto i 50mila euro, passano obbligatoriamente dalla fase della mediazione e negoziazione assistita, prima della fase giudiziale». Un servizio, per alleviare un peso sui tribunali dagli organici risicati, che consente di risolvere tra il 15 e il 20% delle questioni, prima che approdino alla giustizia. Istituire quest’obbligo di fase conciliativa per un’ampia serie di controversie (tra cui l’affitto di aziende) ha costituito una svolta epocale. Ciò non toglie i problemi che continuano a gravare: «Varese - sottolinea l’avvocato Martelli – come altri tribunali ha principalmente quello della carenza di personale, cancelleria in testa». Per le imprese, e non solo, c’è poi un’ombra particolarmente insistente: «Anche se arriva una risposta giudiziale veloce, l’esecuzione è tutta un’altra storia. Puoi ottenere il decreto ingiuntivo che condanna a pagare, ma poi incontri un soggetto insolvente, che difficilmente ha beni alla luce del sole». Si affaccia peraltro un’ulteriore minaccia, che ha visto anche avvocati e magistrati convocare i politici per reagire: «La legge delega


Walter Picco Bellazzi - Ordine degli avvocati di Busto A.

inchieste

CARENZA DI PERSONALE E DIFFICOLTÀ, MA ANCHE ORGANISMI DI CONCILIAZIONE: SI FA DI TUTTO PER SOSTENERE AL MEGLIO LE PMI

del vecchio Governo toglie la materia fallimentare a tribunali come Varese». Con tanto di possibilità di essere accorpati a Monza e ciò che ne consegue: perché dietro un fallimento ci sono aziende, famiglie, drammi e disagi che si accentuerebbero. «Soprattutto le piccole imprese – rileva Martelli – tessuto storico della nostra provincia, hanno necessità di un giudice sul territorio. Inoltre, se questa decisione venisse portata a compimento, si danneggerebbero le professionalità maturate». Martelli chiede a gran voce più attenzione dalla politica nei confronti della giustizia: «Il tribunale è come un ospedale, dev’essere al servizio delle persone. A Milano, pur con la coperta corta, hanno mezzi economici rilevanti. Nei tribunali di provincia arrivano solo le briciole». L’amarezza è acuita da quanto si vede nella vicina Svizzera, che poi non a caso attira le aziende italiane: «Lì ci sono mezzi, personali, grande organizzazione, tutto un altro mondo. Anche un senso di unità più forte». A Busto Arsizio, come si diceva, le cose vanno meglio. Con una serie di avvertenze. Le mette in luce Walter Picco Bellazzi, nell’Or-

dine degli avvocati bustesi (circa 1.400): «Questo tribunale funziona molto bene e le sentenze arrivano velocemente. Il problema si presenta alla fine: quando bisogna recuperare i soldi. Un blocco totale, in nove casi su dieci. I pignoramenti sono negativi, perché gli ufficiali giudiziari non trovano nulla da pignorare, bisogna operare presso terzi, conti correnti, pensioni e via dicendo». La difficoltà di portare a casa i soldi non è solo italiana, ma anche questa non è una consolazione. In America, ad esempio, si usano sistemi più incisivi. La carenza di personale amministrativo crea disagio anche a Busto e Bellazzi non è un fan entusiasta del processo telematico: «Avrà alleviato il lavoro in tribunale, ma lo fa produrre di più agli avvocati, con danno economico, compreso il fatto di doversi munire delle infrastrutture necessarie». Qualche riflessione sui tempi: «La causa più lunga che ho affrontato? Otto anni, a Reggio Calabria. Poi una questione a sé è il concordato, si legalizza il debito. Mi sono capitati una serie di clienti che rischiano il fallimento perché altre società vanno in concordato: ciò significa il 10% del pagamento tra sei anni. Chi ha un solo cliente, o pochi, poi, è a rischio: se questo salta, salta anche lui». imprese e territorio | 25


Cristiano Cristiani - Tranfor Fontanafredda

storie di impresa

L’ORA FLESSIBILE ANDREA ALIVERTI 26 | imprese e territorio

Cristiano Cristiani e la Pmi senza cartellino: chi meno stressa più guadagna


storie di impresa

Nella sua impresa artigiana specializzata in lavorazioni metalliche e pressofusione, la Tranfor di Fontanafredda in provincia di Pordenone, gli operai non hanno orari di lavoro fissi, ma possono uscire prima a prendere i figli o fare la spesa: basta un preavviso di 48 ore per organizzarsi in fabbrica. Lui è Cristiano Cristiani, 43 anni, e ha rilevato la Tranfor due anni fa. Grazie a un software di gestione interno, che misura il tempo utile per ciascuna lavorazione e quantifica i giorni necessari a produrre i pezzi ordinati, in Tranfor si riesce a modulare il lavoro degli operai rispettando i tempi di consegna di ogni commessa. Un approccio flessibile che porta benefici alla produttività, se è vero che con questo sistema i tempi di lavorazione si sono ridotti del 20%. Insomma, la rivoluzione di un manager applicata in una piccola impresa artigianale.

ro in orario, contenti e con la voglia di fare? La mia idea è semplice. Ce la sintetizza? In quattro punti. Primo, creare un gruppo che sia tale. Deve esserci un leader. Non ci devono essere gerarchie. Tutti devono essere coinvolti allo stesso modo nelle decisioni. Chi lavora su un macchinario tutto il giorno è il primo che deve essere interpellato se vogliamo avere dei miglioramenti. I suggerimenti che arrivano direttamente dal personale, saranno di sicuro messi in atto, con il miglioramento dell’efficienza produttiva. Questo sistema “esclude” in maniera naturale chi non vuole essere coinvolto, mettendolo di fronte ad una scelta: o partecipa attivamente o si adatta a scelte fatte da altri ma, avendo diritto e dovere di dire la sua, non ha motivo alcuno di lamentarsi ecc. Una riunione quotidiana di dieci minuti e la possibilità di dare suggerimenti inserendoli in una “cassetta dei miglioramenti” (regolarmente aperta e controllata) garantisce il miglioramento continuo “vero”. È fondamentale dare la possibilità a tutti di dire la propria e di vedere applicare al processo produttivo le modifiche suggerite e poi discusse e concordate all’unisono.

SPESSO SI FANNO LAVORI NON AMATI, I RAPPORTI CON I COLLEGHI SONO PESSIMI O L’INFRASTRUTTURA È “VECCHIA”. QUESTI FATTORI GENERANO UN CLIMA “NEGATIVO”

Come ha gestito il passaggio, fase che spesso rappresenta uno scoglio decisivo per la crescita delle Pmi dell’artigianato, da una gestione familiare ad una gestione manageriale di una piccola realtà di nove dipendenti? Faccio da tempo il consulente in ambito riorganizzativo. Quando c’è stata l’occasione di acquisire una realtà produttiva è stata una novità, certo, ma ho applicato gli stessi criteri e principi che teorizzo, con buoni risultati, presso le aziende clienti. Controllo sulla produzione con tempi e lavorazioni certi, contabilità analitica per centri di costo per valorizzare le aree e i settori positivi e risolvere le inefficienze di quelli negativi, massima attenzione e coinvolgimento degli operatori come sicura fonte di “ricchezza” aziendale, selezione e inserimento di personale con la “mente aperta” competente sulle attività svolte e in grado di coordinare e gestire delle persone. Le aziende artigiane nella stragrande maggioranza dei casi hanno bisogno di leader e non di capi, cosa che invece accade raramente.... Ha creato una sorta di “welfare aziendale” artigianale (nel senso di “fatto in casa”)? Il sistema che abbiamo realizzato nasce dalla verifica e dalla comprensione delle condizioni reali presenti in azienda, unite al mio modo personale di intendere l’azienda stessa. Nella società moderna il “lavoro” è sempre presente nelle discussioni, a più livelli. Non si può prescindere dal lavorare per vivere, si discute di quanto si debba lavorare per garantirsi una pensione, su quale sia il lavoro migliore, quello meglio pagato, si definiscono “classi” di lavori ai quali si tende o ai quali ci si ispira. Ma la verità è un’altra: spesso le persone fanno un lavoro che non amano, che non hanno “scelto”, che non garantisce sbocchi o futuro economico, che è ripetitivo. Spesso anche i rapporti con i colleghi sono pessimi, oppure l’infrastruttura è “vecchia”, non accogliente. Questi fattori, inconsciamente, generano frustrazione o comunque sentimenti “negativi” che, inevitabilmente, portano inefficienza. Come fare a cambiare questa situazione? Come far sì che i dipendenti vengano al lavo-

E poi? Secondo, lasciare libertà di gestione del tempo. Se un collaboratore sa che l’attività che dovrà svolgere lo impegnerà per sette ore, può gestire il suo tempo iniziando prima o finendo dopo. Se il suo lavoro non è richiesto da altri nella fase successiva la libertà concessa è anche garanzia di lavoro eseguito. Terzo, la qualità. Tutti i lavori devono portare a prodotti conformi. Banale? Noi andiamo oltre: tutti i lavori devono portare chi li esegue a dare costantemente suggerimenti per migliorare il tempo di esecuzione, la facilità di esecuzione, l’aumento della sicurezza e la riduzione dei difetti. Le riunioni quotidiane servono anche a questo. La riduzione di uno dei quattro fattori indicati è utilizzata come parametro per gestire i premi di produzione. Quarto e ultimo, la formazione. Ne abbiamo fatta e ne facciamo costantemente. È indispensabile. Chi dice che non c’è tempo perché bisogna lavorare non è un imprenditore. Il sistema di organizzazione che ha elaborato per la sua realtà aziendale è facilmente esportabile e declinabile ad altre realtà simili? Ha pensato in qualche modo di diffondere (per non dire “vendere”) questo modello? Questo sistema è il frutto della mia esperienza sul campo maturata fino ad ora, unita alle idee in cui credo fortemente. È sicuramente esportabile o vendibile; quanto facilmente dipende da quanto lo si vuole attuare. Servono apertura mentale, personale adeguatamente formato (noi abbiamo fatto formazione continua e non abbiamo mai smesso, come già detto), un sistema software per la gestione dei dati (sistema che ho realizzato io nel tempo, applicato in moltissime realtà) e un imprenditore che non abbia paura di fare il leader. imprese e territorio | 27


storie di impresa

SMART WORKING

PER MOLTI MA NON PER TUTTI. PER ORA

Fiorella Crespi - Osservatorio Smart Working Politecnico

Smart working, come viene applicato in Italia? E a che punto siamo? Ne parliamo con Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working e dell’Osservatorio Hr Innovation Practice del Politescnico di Milano.

28 | imprese e territorio

Di cosa si occupa nello specifico il vostro osservatorio? Che metodo di lavoro utilizzate? L’Osservatorio Smart Working è uno degli oltre 30 Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano. Gli Osservatori Digital Innovation, nati nel 1999, hanno la mission di produrre e diffondere conoscenza sulle opportunità e gli impatti che le tecnologie digitali hanno su imprese, pubbliche amministrazioni e cittadini, tramite modelli interpretativi basati su evidenze empiriche e spazi di confronto indipendenti, pre-competitivi e duraturi nel tempo, che aggregano la domanda e l’offerta di Innovazione Digitale in Italia. L’Osservatorio Smart Working, nato nel 2012, ha l’obiettivo di promuovere e diffondere la cultura dello Smart Working sviluppando model-

li di riferimento e metodologie a supporto di Manager e Policy Maker. Attraverso diversi momenti e con modalità differenti coinvolgiamo referenti di aziende e per comprendere quantitativamente le dimensioni del fenomeno, i motivi della diffusione, i principali ostacoli e i benefici ottenibili. Facciamo poi approfondimenti sui progetti intervistando i responsabili delle iniziative e chiedendo in che modo è stato portato avanti il progetto. Quali sono gli ultimi dati nazionali e lombardi sul tema dello smart working? In Italia il fenomeno dello smart working è in forte ascesa negli ultimi anni, soprattutto nelle grandi aziende. Secondo le ultime rilevazioni dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, oltre la metà delle aziende coinvolte ha già lanciato - o sta per lanciare tali iniziative e il 36% del campione ha già dei progetti strutturati. Il 50% di questi progetti sono stati sviluppati in Lombardia e, in particolare, Milano si configura come la “capitale” del fenomeno in Italia: è infatti qui


storie di impresa

VALENTINA BOLIS

che si concentra il 44% del totale delle iniziative strutturate di smart working rilevate dall’Osservatorio. Molte sono anche le iniziative di promozione e di sensibilizzazione sviluppate dal Comune di Milano a partire dalla “Giornata del Lavoro Agile”, giunta alla sua quinta edizione. Le motivazioni del successo sono nei benefici ottenibili dall’introduzione di queste pratiche che si sono dimostrate rilevanti tra cui il miglioramento della produttività, che si può stimare nell’ordine del 15%, e l’ottimizzazione degli spazi fisici con riduzione dei costi di gestione intorno al 30%. A questi vanno poi aggiunti i benefici per la persona in termini di maggior motivazione e riduzione dei costi e dei tempi di trasferimento casa ufficio. In Italia il fenomeno è in crescita? Decisamente sì, soprattutto nelle grandi aziende, che per prime si sono mosse. Ma ci si aspetta un crescente interesse e un incremento delle sperimentazioni soprattutto nelle Pa e nelle Pmi, anche a fronte dell’approvazione della legge sul lavoro agile avve-

nuta in via definitiva un anno fa. Più o meno avanti rispetto ad altri paesi? Bisogna fare attenzione, se si parla di telelavoro le classifiche più recenti (seppure datate) danno l’Italia indietro rispetto agli altri Paesi europei. Per lo smart working non ci sono classifiche paragonabili, ma sulla base di una ricerca di approfondimento ad hoc fatta lo scorso anno emerge come l’Italia non sia così indietro.

CI SI ASPETTA UN CRESCENTE INTERESSE E UN INCREMENTO DELLE SPERIMENTAZIONI SOPRATTUTTO NELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI E NELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE

Quali benefici attraverso lo smart working? Lo smart working ha una serie di benefici a più livelli che rende l’iniziativa di interesse per diversi motivi. È uno strumento che permette di ottenere risultati «a somma positiva» per aziende, lavoratori e società nel suo complesso. In particolare i benefici ottenibili da parte delle aziende si sono dimostrati rilevanti e si possono misurare in termini di miglioramento della produttività, che si può stimare nell’ordine del 15%, riduzione dell’assenteismo, diminuzione dei costi in relazione all’ottimizzazione degli spazi fisici, pari a circa il 30% e miglioramento della capacità di attrarre talenti. Anche per le persone i benefici sono concreti e si possono misurare in termini di riduzione dei tempi e costi di trasferimento, miglioramento del work-life balance, e aumento della motivazione e della soddisfazione. Infine per la società e l’ambiente lo smart working consente di produrre benefici misurabili ad esempio in termini di riduzione delle emissioni di CO2, riduzione del traffico, migliore utilizzo dei trasporti pubblici. imprese e territorio | 29


APPRONDIMENTI

PICCOLE AZIENDE CRESCANO. IL MANIFESTO FIRMATO DE BORTOLI DODICI ANNI DOPO ANDREA ALIVERTI

Nel luglio del 2006, quando era direttore de Il Sole 24 Ore, Ferruccio de Bortoli pubblicò un “Manifesto in favore della piccola impresa” in cui rimarcava il valore della cultura d’impresa e la necessità di sostenerla politicamente a cominciare «dalle piccole unità che sono il 90 per cento del totale». Riletto ad una dozzina d’anni di distanza, fa un certo effetto. Perché quel manifesto? In quel momento - eravamo ancora lontani dalla crisi del 2008 - c’era grande attenzione alla necessità che il tessuto economico delle imprese italiane potesse rinnovarsi e dare maggior consistenza alla ripresa economica. Tema ancora attuale? È vero che abbiamo troppe piccole imprese, anzi troppe microimprese, individuali e familiari, e questo rappresenta da un lato un elemento di forza e dall’altro di debolezza del nostro sistema produttivo. Perché abbiamo bisogno di far sì che le piccole imprese possano crescere, quindi superare le loro difficoltà, dato che sempre più la competizione è fatta a livello globale, dove contano dimensione, efficienza, capacità di investire nella ricerca e gli elementi legati al rafforzamento del capitale. Quindi in questo manifesto c’era la con-

30 | imprese e territorio


APPRONDIMENTI

statazione che dal punto di vista strutturale dobbiamo fare in modo che le piccole imprese crescano. Non come riedizione del “piccolo è bello” del Censis di Giuseppe De Rita di diversi anni prima, l’analisi che cercavo di fare era sintetizzabile in: piccolo è bello se si cresce, piccolo non è bello se si è condannati al nanismo. Ma c’è un altro elemento di quel manifesto che ritengo di straordinaria attualità, e riguarda l’aspetto sociale.

Ma il valore della cultura d’impresa, 12 anni dopo, è ancora un “vaso di coccio”? Le start-up di cui si parla molto in questo momento sono per loro natura piccole imprese, individuali, familiari, fatte da amici. C’è una ipervalutazione, a volte persino romantica e di moda, delle start-up a fronte dell’idea che le piccole imprese nei settori tradizionali siano un residuo del passato. In realtà, in alcune attività tecnologicamente avanzate, come la filiera del grafene o di nuovi materiali o medicinali, piuttosto che la chimica fine e la meccanica strumentale, le piccole imprese sono terreno di sperimentazione, e credo che una maggiore attenzione e sostegno, non soltanto economico, possa rappresentare una risposta alla disoccupazione giovanile.

OGGI SI PENSA A GRANDI PROGRAMMI IRREALIZZABILI E SI TRASCURA L’IDEA CHE SI POSSANO METTERE LE PICCOLE IMPRESE IN CONDIZIONE DI OPERARE AL MEGLIO

La funzione sociale della piccola impresa? Al di là del suo straordinario ruolo economico, ne esercita, a maggior ragione oggi, uno sociale di integrazione, da non sottovalutare. Era l’epoca in cui cominciavamo ad affrontare il tema dell’immigrazione e della necessità di costruire una società multietnica ordinata per favorire l’integrazione. Constatavo all’epoca che le piccole imprese sono le cellule di socialità nelle quali questi immigrati cominciano ad avere non soltanto un lavoro, ma un contatto con il Paese, con le sue istituzioni, con le sue regole, con i suoi valori. Forse questa è una delle ragioni per la quale avendo tante piccole imprese noi abbiamo dei livelli di integrazione nei comprensori e nelle comunità molto più elevati rispetto ad altri Paesi. Un immigrato che trova lavoro in una piccola impresa comincia a diventare cittadino del nostro Paese al di là della retribuzione che ottiene. E nella misura in cui le piccole imprese sono soggetti sociali che svolgono un ruolo di educazione civica e di accompagnamento alla cittadinanza, sono fondamentali non solo dal punto di vista economico ma anche da quello della fluidità sociale. Pensiamo a tanti esempi di buona integrazione, dai sikh che mungono le vacche nella pianura padana, ai rumeni che si occupano dei filari di Barolo, ai macedoni che fanno gli agricoltori nel Nord Est. Vuol dire che le piccole imprese sono i terminali sensibili della socialità italiana, sono portatrici di valori, e quindi svolgono sostanzialmente un ruolo sussidiario del sistema scolastico e civile. Proprio per questo vanno sostenute. Che tipo di sostegno serve alla piccola impresa? Sotto il profilo dell’accesso al credito, della possibilità di fare rete, di inserirsi in filiere produttive. Abbiamo un elemento di flessibilità economica che dobbiamo sorreggere e garantire, ma nello stesso tempo abbiamo uno strumento di socialità che dobbiamo implementare.

Un’altra funzione sociale? Sono le piccole imprese che possono potenzialmente diventare grandi. E dobbiamo fare in modo di far appassionare i giovani alle loro idee, farli provare, anche fallire, perché ci devono riprovare, vanno messi in condizione di non perseguire la riduzione del rischio ma di sperimentare un’attività in proprio. Nel 2006 scrisse che la piccola impresa è «forte a Pordenone o a Varese, debole in qualsiasi commissione parlamentare o tavolo concertativo romano». È ancora così? Vedo grande confusione sotto il cielo della politica. Ci si attesta su grandi programmi irrealizzabili mentre si trascura l’idea che si possa dare spazio, non soltanto fiscale, alle piccole imprese affinché siano in condizione di operare al meglio. Hanno bisogno di certezze, credo anche di essere maggiormente protette sotto il profilo della sicurezza, specialmente nella fase concorsuale e dei fallimenti, ma anche da infiltrazioni della malavita e dalla bramosia della voglia di guadagnare di professionisti senza scrupoli, riscoprendo il ruolo delle associazioni e dei corpi intermedi come propugnatori di idee che possono favorire la crescita delle piccole imprese. Investire nella piccola impresa vuol dire fare manutenzione dei legami sociali, perché il dividendo sociale di quell’investimento riguarda tutti i cittadini, nessuno escluso. imprese e territorio | 31


APPRONDIMENTI

TUTTI, TUTTO, SEMPRE

Valeria Portale - Ing. responsabile dell’Osservatorio Blockchain del Politecnico di Milano

BLOCK

32 | imprese e territorio

Cosa fa? Dove ci porterà questa nuova tecnologia? La disponibilità di maggiori informazioni sui prodotti ne certifica la qualità e tracciare la filiera consente di individuare e risolvere subito eventuali errori, riducendo i danni economici

Immaginiamo che sia possibile, per chiunque e in qualsiasi momento, collegarsi alle diverse fasi di produzione e distribuzione di un prodotto, verificando parametri quali la conformità, la qualità, il costo, e lo stato della compravendita. Immaginiamo che i soggetti coinvolti in una transazione possano vedere la reciproca disponibilità economica, senza l’intermediazione di una banca, in totale trasparenza, e con la rapidità di un clic. Non è fantascienza, ma un orizzonte già in parte possibile con le tecnologie blockchain, nome con cui si indicano i “registri elettronici distribuiti, accessibili in rete a tutti”. «I sistemi blockchain, fino ad oggi, sono stati usati principalmente per Bitcoin e altre criptovalute, ma le applicazioni possono essere molteplici e interessano anche le Pmi» spiega Valeria Portale, ingegnere responsabile dell’osservatorio blockchain del Politecnico di Milano. L’osservatorio del Politecnico sta studiando lo sviluppo dei blockchain in diversi settori. Nel trasporto merci, per esempio, ogni movimento dei container viene registrato in tempo reale su una “piattaforma blockchain”, mostrando l’avanzamento, errori o incidenti. Nel settore dei beni di lusso, un registro decentralizzato che fornisce informazioni sulla filiera di produzione mette gli acquirenti al riparo di truffe e falsificazioni. Idem nell’agroalimentare, dove, semplicemente inquadrando il QR Code, è possibile recuperare le informazioni su un alimento tracciato su blockchain e capire se è davvero “made in Italy”. «Per il manifatturiero – continua Portale – siamo all’inizio dello sviluppo della tecnologia. Non esistono ancora soluzioni che permettano a diversi attori di avere accesso per gestire gli


APPRONDIMENTI

KCHAIN ADRIANA MORLACCHI

interventi sugli impianti». I vantaggi delle blockchain sono notevoli: «La disponibilità di maggiori informazioni sui prodotti ne certifica la qualità – continua Portale – Tracciare la filiera consente di individuare e risolvere subito eventuali errori, riducendo i danni economici». Tutto questo è possibile a fronte di un investimento organizzativo: «Le tecnologie blockchain possono essere implementate solo se si trova un accordo tra tutti gli anelli della filiera. Mettere in rete le informazioni sui prodotti spaventa le aziende forti, di contro apre alle piccole aziende possibilità di concorrenza. In Italia siamo all’inizio, ma abbiamo molti sviluppatori che stanno lavorando su questi fronti. Dovrà comunque trascorrere ancora qualche lustro prima di vedere applicazioni implementate su larga scala».

puntano a rendere la filiera più snella e trasparente per combattere la contraffazione e proteggere il “Made in”. Nel 2017 abbiamo studiato il potenziale di una soluzione per la tracciatura dei componenti automotive in collaborazione con la Scuola Sant’Anna di Pisa e altre aziende. Il livello di contraffazione in quel settore, così come in altri già citati, è del 10%, molto alto. Ma si può andare ben oltre la lotta alla contraffazione, concentrandosi su ecosistemi nuovi o più ampi».

PORTERÀ UN ALTISSIMO VALORE AGGIUNTO E, COME PER TUTTE LE INNOVAZIONI, ESSERE TRA I PRIMI AD ADOTTARLE PORTERÀ VANTAGGI NOTEVOLI SUL PIANO COMPETITIVO

IBM, azienda statunitense tra le migliori al mondo nel settore informatico, è all’avanguardia per l’implementazione dei sistemi blockchain. «Gli ambiti di applicazione possono coinvolgere tutti quegli ecosistemi di attori che lavorano all’interno di una filiera. Più questa è complessa, geograficamente distribuita e di difficile gestione, e più può essere opportuno adottare blockchain – spiega Carlo Ferrarini, responsabile blockchain per Ibm». «Pensiamo ai produttori di componenti, in primis elettronica e automotive: abbiamo iniziato a collaborare con Bosh già nel 2016. Nel lusso abbiamo collaborato con Everledger per la certificazione dei diamanti. E poi in ambito chimico e farmaceutico. La maggior parte degli scenari di adozione concreta sono nell’ambito di collaborazione business-to-business». «Gli sforzi del mercato in questo momento

«È importante fare un’analisi caso per caso dello scenario in cui ci collochiamo – continua Ferrarini - Gartner stima il valore aggiunto portato da blockchain in 176 miliardi di dollari al 2025. Un anno fa il termine blockchain era poco conosciuto dai non addetti ai lavori, mentre oggi aver utilizzato questa tecnologia fa notizia e porta a grande visibilità. Come per tutte le innovazioni, essere tra i primi ad adottare una nuova tecnologia porta vantaggi notevoli sul piano competitivo. Il fattore principale di sviluppo sta nella capacità di far leva su un ecosistema, un consorzio in cui blockchain è un abilitatore tecnologico che, se adottato correttamente, accende un circolo virtuoso in cui più l’ecosistema cresce, più si trae beneficio nel far parte della rete». «Ci sono vari temi da indirizzare, dalla rivisitazione dei processi esistenti alle tematiche di data privacy ad altri aspetti legali. Come dicevamo è un tema di reinvenzione dei processi e dell’ecosistema, non si tratta solo di tecnologia – conclude Ferrarini – Ibm ha adottato un approccio “agile”, che permetta di realizzare rapidamente dei prototipi e di toccare con mano le potenzialità di blockchain». imprese e territorio | 33


approfondimenti

Giovanni Pitruzzella - Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato

AVANTI CON REGOLA E CONCORRENTI LEALI

34 | imprese e territorio

A tu per tu con Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Regole sì, ma poche e chiare

«I nuovi sistemi blockchain sono sicuramente una novità che, come tutte le innovazioni, va vista come qualcosa che può giovare ai consumatori e all’impresa. Ma bisogna stare attenti: si tratta di un settore completamente nuovo dove possono esserci dei rischi. Occorre non bloccare le innovazioni, ma eventualmente creare dei controlli e delle regole che tengano conto del nuovo». Così Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, a margine della seconda Rassegna di diritto pubblico dell’economia organizzata da Upel. Le nuove tecnologie blockchain sono registri elettronici accessibili in rete. Tra i vantaggi vi è la possibilità di mappare ogni fase di produzione, certificando la provenienza di manufatti e generi alimentari. «Il made in Italy è un vettore fondamentale della crescita economica del nostro Paese – continua Pitruzzella – Come da sempre sosteniamo noi dell’Antitrust, il Governo e il Parlamento, indipendentemente dal colore politico, dovrebbero mettere in campo tutte le misure per sostenere il made in Italy, soprattutto contro le forme di contraffazione. L’Antitrust ha chiuso tantissimi siti che vendevano prodotti contraffatti. Ma occorrerebbero strumenti ancora più efficaci, perché il made in Italy è un elemento che produce crescita, quindi posti di lavoro, e rafforza l’identità del nostro Paese nel mondo». Pitruzzella ha parlato anche della concorrenza sleale, un tema caro alle imprese che, in due casi su tre, devono competere con chi non rispetta le regole e che, di conseguenza, può offrire prodotti e servizi a prezzi più bassi. Nel dettaglio, come messo in luce da una elaborazione dell’ufficio studi di Confartigianato, alla fine del 2017 erano 858.347 le imprese artigiane - pari al 64,7% dell’artigianato nazionale – a risultare maggiormente esposte alla concorrenza sleale. «La concorrenza deve essere un valore. Deve giovare all’impresa e deve servire a fare sì che la competizione avvenga sulla bravura e sul merito – continua Pitruzzella - Dobbiamo però anche proteggere il nostro sistema economico, specialmente a livello locale, da certe forme direi spregiudicate di concorrenza che possono venire da altre parti del mondo». Ad oggi non ci sono ancora novità per il settore: «Aspettiamo il nuovo Governo e il nuovo Parlamento: devono esserci pochissime regole, certe e chiare – ribadisce Pitruzzella - Fare ogni tre mesi una nuova riforma e cambiare le leggi fa sì che il diritto diventi inconoscibile».


Oggi esiste un gap tra quello che occorrerebbe e quello che invece è: se va avanti così, l’Italia si condanna ad essere un Paese arretrato

AMBROSETTI

IO, VARESE E UNA CONCORRENZA GRANDE COME IL MONDO

«All’Italia servono leader globali. E, soprattutto, c’è bisogno di ridurre il gap tra quello che occorrerebbe e quello che è. Io? Potevo essere un buon ministro degli esteri». Parola di Alfredo Ambrosetti, grande varesino, fondatore del Workshop di Cernobbio e di quella “The European House Ambrosetti” (Teha) che è l’unica società di consulenza italiana nominata tra i migliori Think Tank privati e indipendenti del “Global Go To Think Tanks Report” dell’Università della Pennsylvania. Alla libreria Feltrinelli di Varese, dove presenta la sua biografia “La mia storia” («L’ho fatta per i miei nipotini» confessa) si parla di tutto, a cominciare da un termine: “glocal”. Termine perfetto per un uomo come lui, che Varese non l’ha mai lasciata ma ha lavorato un’intera vita in un’ottica di sprovincializzazione: «Sì - ammette - ho lavorato molto nella costruzione della leadership e nella creazione di una classe dirigente che fosse all’altezza delle sfide internazionali, non solo nell’economia». Una classe dirigente di cui Ambrosetti conosce alla perfezione pregi e difetti: «In Italia un leader è portato ad essere leader in Italia e non nei rapporti internazionali. Ma oggi la concorrenza è con tutti nel mondo, vale per i Comuni, le Regioni, il Paese. Con internet, potendo vendere online qualsiasi prodotto, con i voli low cost che portano ovunque, la concorrenza è diventata grande come il mondo. L’esempio è la stessa Varese, che era la Città Giardino quando le distanze pesavano, perché le famiglie più ricche di Milano passavano le loro vacanze in agosto non ai Caraibi come fanno oggi, ma a Varese. Allora infatti la grande concorrente di Varese era Como». Quella Como che, gra-

Alfredo Ambrosetti - Fondatore Teha

approfondimenti

zie all’attrattività di Villa d’Este di Cernobbio, è stata scelta nel 1975 come sede del celebre “Forum Ambrosetti”. «Leader - prosegue il consulente - significa essere capaci di essere manager globali, cosa non facile nel Paese dei salotti buoni dove si lotta per essere primi in Italia, a differenza di altri Paesi che hanno sviluppato le multinazionali». Ambrosetti sostiene di avere «idee precise» anche su quello che servirebbe oggi all’Italia per crescere e stare al passo con i tempi, ma riscontra «un enorme gap tra quello che ho imparato nella vita con le intuizioni e cercando di dare servizi tempestivi e quella che oggi è la visione del mondo del Paese». «È un gap tra quello che occorrerebbe e quello che invece è: se va avanti così, il Paese si condanna ad essere arretrato». Del resto, la storia di Alfredo Ambrosetti è quella di un anticipatore dei tempi. Quando inventò i “patti di famiglia” per superare lo scoglio del passaggio generazionale (dove in modo certosino operava, tra l’altro, per «creare la convinzione che non è necessario che ci sia un membro della famiglia a capo dell’azienda, perché se non è il migliore è un vantaggio per i competitor - rivela Ambrosetti - la mia più grande soddisfazione è quando mi dicono che ho salvato l’armonia della famiglia e ho salvato l’azienda») e l’“aggiornamento permanente”, esportato persino negli Usa. «Mi chiedevo come può un italiano, varesino, senza raccomandazioni, far capire agli americani cosa è l’aggiornamento permanente? Quando decisi di dire basta, i clienti erano così contenti che nominarono una task force per convincermi a continuare...». imprese e territorio | 35


approfondimenti

Il caso di Tesla è emblematico: la società di Elon Musk, secondo Bloomberg, potrebbe fallire il 6 agosto 2018 alle 2.17 di New York. Forse, non succederà ma la previsione richiama il dibattito su innovazione e redditività. La possibilità di non calibrare gli investimenti in maniera corretta è concreta soprattutto in una fase di cambiamento come l’attuale. «Per tutte le società apripista, accanto al costo della tecnologia, c’è quello veramente decisivo di educare il mercato» dice Luca La Mesa, docente universitario, imprenditore e consulente top nel campo del marketing digitale. Sue, tra l’altro, le strategie di comunicazione social di grandi player dello sport come Francesco Totti (collaborando al progetto della As Roma per il rinnovo del ventesimo anno di carriera del capitano) e di Francesca Piccinini, capitano della nazionale di pallavolo durante i Mondiali di Pallavolo del 2014. «Gli americani usano il concetto di “disruptive innovation” quando si riferiscono alle società apripista quale può essere Tesla - continua La Mesa – Si tratta di aziende che, attraverso la tecnologia, determinano un cambiamento molto importante in un periodo di tempo relativamente breve. La loro non è un’innovazione graduale e progressiva ma direi quasi dirompente; ecco, in situazioni come queste può capitare che il mercato non sia maturo per premiare chi arriva primo, l’attesa in questo caso è un costo che la società apripista deve mettere in conto». Ovviamente, si tratta di un rischio di cui le aziende che investono nell’innovazione hanno ben presente. Come gestire l’incertezza? Come calibrare gli investimenti nel cambiamento? «In termini generali possiamo dire che, vista la difficoltà di prevedere l’evoluzione della tecnologia, incubatori e fondi di investimento tendono a diversificare gli investimenti – dice La Mesa – Vengono finanziate magari decine di startup nella speranza che il successo di una, due, tre possano ripagare i costi di tutte le altre. Tutti i grandi investitori hanno il desiderio di allocare risorse sulle tecnologie che si affermeranno nell’arco xxx | imprese e territorio


approfondimenti

I CONTI DELL’

INNOVAZIONE Luca La Mesa - marketing digitale

CAMBIARE HA UN PREZZO CHE PREMIA ONLINE

C’È UNA STRAORDINARIA REATTIVITÀ DELLE PERSONE RISPETTO A OGNI NEWS CHE DETERMINI UN CAMBIAMENTO POSITIVO, I SOCIAL SONO TERRENO FERTILE

dei prossimi cinque anni, dieci anni ma nessuno sa con certezza quale piega precisa prenderà il cambiamento, si può solo investire su più strumenti contando sulla possibilità che uno di questi diventi lo standard di riferimento del futuro. Tornando a Tesla è del tutto evidente che l’auto elettrica sarà un driver dei prossimi anni, bisogna però aspettare che il mercato sia pronto a riceverla». Investire nell’innovazione significa anche investire nella comunicazione. Attraverso i canali tradizionali e digitali. «A livello di social media gestire l’innovazione è relativamente semplice – dice La Mesa – c’è una straordinaria reattività delle persone rispetto a ogni news che determini un cambiamento positivo, un’auto elettrica straordinariamente efficiente o una tecnologica che limita fortemente gli incidenti. Questo interesse si traduce sempre in condivisioni. L’ambiente social è il terreno più fertile, a livello di marketing, per promuovere l’innovazione tecnologica». La Mesa, qualche mese fa, è stato protagonista di un caso mediatico nazionale. Un caso in cui l’innovazione si è associata al sociale: «In occasione di un’ondata di freddo molto intensa – racconta – siamo riusciti in sei giorni a distribuire migliaia di coperte ai bisognosi. Tutto è partito da un post di un mio amico in cui lanciava un appello per i senzatetto. Con la mia fidanzata sono andato a comprare un centinaio di coperte e, superando il paradigma che la vera beneficen-

ENRICO MARLETTA

za si fa sempre in silenzio, abbiamo deciso di fare un post, ovviamente non con la finalità di esibire il gesto magari per trarne motivo di vanto, ma con quella di allargare la partecipazione. L’immagine poteva dare adito a qualche contestazione ma il messaggio è stato colto nella maniera corretta: le cento coperte sono diventate mille, poi Ikea ha donato diecimila euro in coperte e la campagna è diventata nazionale Un ulteriore salto c’è stato quando hanno aderito calciatori come Dybala e Iturbe che hanno richiamato giornali e televisioni. Bene, in sintesi abbiamo dimostrato che da una scelta innovativa sul piano della comunicazione c’è stato un risultato molto efficace e concreto». La Mesa lavora sulla comunicazione digitale delle aziende. Di frequente ha necessità di affrontare nel modo migliore situazioni di crisi reputazionale. Come comportarsi? «La cosa migliore è prevenire possibili situazioni critiche – spiega – Per questa ragione spieghiamo sempre alle aziende che devono tirare fuori tutti gli scheletri dall’armadio e chiarire con noi ogni possibile problema per il quale, se possibile, va definita una procedura di emergenza in cui si stabilisce come prima cosa, chi a livello aziendale ha la responsabilità di decidere cosa. Un caso emblematico? Mi viene in mente Groupon quando, nei giorni dell’emergenza, associò il terremoto a una proposta di viaggio a Santo Domingo. Un disastro. Giusto ammettere i propri errori? Certo, sempre. Le persone capiranno». imprese e territorio | 37


SE IN AZIENDA ARRIVA

SOCRATE ADRIANA MORLACCHI

Ha senso parlare di etica in azienda? Alessandro Lanteri ne è convinto. E la ritrova nei filosofi e nelle Pmi


approfondimenti

Una laurea in filosofia, oggi, è considerata un titolo accademico difficile da spendere sul mercato del lavoro. Eppure l’attenzione ai valori e alle questioni di natura etica si rivela sempre più spesso strategica per le piccole e medie imprese. «Pensiamo a Facebook: l’azienda di Zuckerberg ha perso 35 miliardi di dollari in tre giorni per aver tradito la fiducia degli utenti. Uber, qualche mese prima, ha fatto lo stesso. Nessun incidente, neppure le dimissioni in tronco dell’amministratore delegato, è in grado di distruggere decine di miliardi di dollari in poche ore come il mancato rispetto delle regole etiche» afferma Alessandro Lanteri, professore di Imprenditoria alla Hult International Business School a Londra e alla Abu Dhabi University. Lanteri può essere definito come un moderno Socrate. Conduce masterclass rivolte ai manager senior utilizzando la maieutica, ovvero il dialogo finalizzato alla ricerca in sé stessi della verità: «Il mio lavoro è far andare via i partecipanti con molte più domande di quelle che avevano prima – racconta il professore - Potrei dare soluzioni di immediata applicazione, ma non voglio. Preferisco porre domande critiche, talvolta complesse e senza risposta immediata». Nei paesi anglosassoni, dove l’approccio alle competenze è più fluido e meno codificato, è più facile che un’azienda vada in cerca di filosofi. Gli amministratori, per esempio, frequentano corsi di design thinking per imparare a pensare come un designer, quindi con apertura mentale, cambi di prospettive e attenzione ai bisogni. «Le risorse umane con competenze filosofiche, attraverso il loro approccio inquisitivo, offrono un modo più profondo, e quindi diverso, di interpretare la realtà. Nei paesi anglosassoni, non a caso, fanno carriera in azienda laureati in materie umanistiche – afferma il professore – Per spiegare il concetto ricorro a un esempio banale: è facile imparare che se si schiaccia un pulsante si accende la tivù. Una volta rotto il telecomando, però, una persona necessita di essere addestrata di nuovo. Diverso, invece, è insegnare il funzionamento del televisore: il sapere a quel punto raggiunge una profondità

diversa, che consente a una persona di trovare un modo di accendere l’apparecchio anche senza telecomando». Le competenze filosofiche possono essere distribuite tra i manager, ma esistono anche veri e propri filosofi aziendali. Un esempio è il responsabile etico, ovvero colui che si occupa delle responsabilità sociali delle imprese. Poi c’è la figura del coach, colui che aiuta gli imprenditori ad affrontare le sfide in modo non distruttivo e a gestire lo stress. E’ vero che le aziende italiane nella maggior parte dei casi cercano competenze tecniche certificate da inserire nel proprio organico, ma ciononostante l’attenzione per l’etica è molto forte. «In Italia tanti piccoli imprenditori, artigiani e aziende di conduzione familiare hanno una predisposizione innata a un comportamento etico e responsabile – dice Lanteri - Per esempio si occupano della propria comunità, delle scuole, dei dipendenti e delle associazioni sportive locali». Un modo di essere che ripaga in tutti i sensi: «Pensare solo al profitto, facendo passare in secondo piano le questioni etiche, è demenziale perché l’azienda avrà una performance economica inferiore – specifica il professore - Lo dimostrano anni di ricerca accademica e gli esempi in aziende in tutto il mondo. Addirittura, uno studio realizzato in Sud Africa dimostra che degli speculatori orientati soltanto al profitto danno una valutazione molto più elevata alle miniere d’oro più attente alla responsabilità sociale». Bilanci alla mano, per una Pmi l’ipotesi di inserire un filosofo nel proprio organico aziendale potrebbe non essere percorribile. «E’ però possibile ricavarsi momenti in cui si medita sul perché i compiti quotidiani si svolgono in un modo e non in un altro – conclude Lanteri – Spesso in azienda si seguono gli insegnamenti dei nonni, si dice “lo abbiamo sempre fatto così”, e si fa fatica a cambiare. Il pensiero filosofico, però, non chiede di mettere in dubbio la validità di quello che si è sempre fatto, ma di capirlo di più. Oggi forse anche i nostri nonni farebbero le cose in maniera diversa, quindi è giusto che ognuno di noi inizi a pensare a come cambiare».

PENSARE SOLO AL PROFITTO, FACENDO PASSARE IN SECONDO PIANO LE QUESTIONI ETICHE, NON SI PUÒ: L’AZIENDA AVRÀ UNA PERFORMANCE ECONOMICA INFERIORE

imprese e territorio | 39


raccONTARE L’IMPRESA

NELL’AZIENDA C’È LA STORIA DELL’UMANITÀ DELLA CREATIVITÀ DELLE DIFFICOLTÀ E IO LA

RACCONTO Andrea Vitali, 63 libri alle spalle e una nuova sfida: raccontare un’impresa, che è un intreccio di vite, di storie e di capitoli che si snodano senza fine, uno dopo l’altro

40 | imprese e territorio

ENRICO MARLETTA


xxxx

Una capacità prodigiosa di inventare storie. È questa una tra le tante qualità attribuite allo scrittore Andrea Vitali, 63 libri pubblicati in dieci anni. Ha cominciato nel 1990 con “Il procuratore” e quest’anno è uscito “Nome d’arte Doris Brilli”, opera in cui lo scrittore svela gli esordi alla caserma di Bellano di uno dei personaggi più amati dai suoi lettori, il maresciallo Ernesto Maccadò. Maccadò è, infatti, il protagonista delle storie di maggior successo come La signorina Tecla Manzi, Olive comprese, La mamma del sole, Galeotto fu il collier, Quattro sberle benedette, Le belle Cece, A canta-

re fu il cane. Da Vitali la scrittura è sempre stata utilizzata «come mezzo di comunicazione con gli altri», come «esperienza da condividere». E non sono forse storie da raccontare quelle che attraversano le tante piccole, medie e grandi industrie del nostro territorio? «Dietro un’azienda c’è una storia, la storia di un’umanità, di esseri umani che hanno avuto un percorso di idee, illuminazione, creatività, difficoltà anche - spiega Vitali - Mettere in piedi un’azienda è mettere in campo un atteggiamento di creatività altrimenti non sarebbe nata. E il fatto di rac-

contare la propria storia illumina oltre che divertire. Illumina, perché il racconto di quella storia è istruttivo, quasi didattico perché racconta un percorso che da un punto zero è arrivato ad un determinato livello». Tra gli appassionati lettori dei suoi romanzi, Vitali, recentemente, scopre di avere anche un imprenditore. È l’erede dell’azienda Herno, Claudio Marenzi. La storia di Herno comincia con il babbo Giuseppe Marenzi e la mamma Alessandra Diana che subito dopo la seconda guerra mondiale nella valle dell’Erno, siamo a Lesa in riva al lago Maggiore, rilevano un antico opificio e avviaimprese e territorio | 41


RACCONTARE L’IMPRESA

no la loro manifattura chiamando l’azienda Herno in omaggio al fiume. Claudio Marenzi partecipa a una presentazione di Vitali e poi a Bellano, a casa dello scrittore, un bel giorno arriva uno strano pacco. «Lo apro e mi ritrovo tra le mani un impermeabile meraviglioso. E la misura è perfetta per me. Non capisco perché io non ho mai ordinato quel capo, poi trovo una lettera nella quale il mistero viene svelato». Marenzi, sempre in giro per il mondo, scrive a Vitali che quando è in viaggio si porta sempre dietro il libro “La stanza del vescovo” perché è una storia che lo tiene legato al suo luogo d’origine. Il libro di Piero Chiara è sempre accanto anche al letto di Vitali per il quale Chiara «è un modello costante di ispirazione». L’imprenditore, che è un appassionato lettore delle storie di Vitali, chiede quindi allo scrittore di scrivere un racconto introduttivo ad un libro che sarà pubblicato quest’anno e che è dedicato alla storia della sua azienda. «Ci siamo poi incontrati a Milano - prosegue Vitali - e ascoltandolo mi sono confermato come un’azienda non nasca dal niente come un fungo dalla sera alla mattina ma passo dopo passo. Passi che sono capitoli di una storia che non finisce mai perché a capitolo si aggiunge capitolo. All’interno di un’azienda ci sono vite uma-

ne e ogni vita umana è storia, tante storie, quindi, che intrigano un raccontatore di storie». Così Vitali accetta, «per me è stata la prima esperienza e ho accettato l’offerta perché mi è stata data piena libertà narrativa». Libertà, perché spiega Vitali, «mi piace il dato oggettivo per usarlo a mio uso e consumo, non rispettando la storia vera e propria. Io

NON È UN CASO CHE PER MOLTE DELLE SUE STORIE, IL MEDICOSCRITTORE ABBIA TRATTO SPUNTO DAL COTONIFICIO CANTONI, UN EDIFICIO OGGI ABBANDONATO non voglio diventare uno storico o un cronista. Parto sempre dal dato reale, mi piace prendere la cosa reale e poi proiettarla in un altro universo». Non è un caso che per molte delle sue storie, il medico-scrittore abbia tratto spunto dal Cotonificio Cantoni, un gigantesco edifi-

cio, oggi abbandonato, che sorge al centro del paese di Bellano, borgo stretto tra le acque del lago e i monti della Valsassina. «Impiegava 800 dipendenti. Al di là del fine produttivo, è un’azienda che creava relazioni, litigi, passioni, amori e tutto questo diventa un filone narrativo». Tante le storie legate ad aziende che hanno colpito nel tempo, Vitali. «Mi ricordo di aver letto, una volta, di un imprenditore che quando è morto ha destinato un lascito ai propri dipendenti. Se si va al di là della superficie della vetrina, saltano fuori storie che danno senso alla vita». E ancora: «Ho ben presente anche di un’azienda del Veneto che aveva studiato diete personalizzate per i propri dipendenti. Da un lato si assicurava un rendimento costante perché i dipendenti si ammalavano meno ma poi ci guadagnava lo stesso dipendente perché stava bene». Far parlare le persone, quindi, gli imprenditori, gli operai e poi raccontare perché ci sono tante storie da far emergere. «Storie che si animano all’interno dell’universo e che si animano sempre dall’uomo». E come detto, la storia di un’azienda è la storia di uomini «che hanno avuto un percorso di idee, illuminazione, creatività, difficoltà anche». Una storia che può illuminarne molte altre.


WELFARE il benessere

Arealavoro

IN AZIENDA I PIANI DI WELFARE AZIENDALE RIDUCONO IL COSTO DEL PERSONALE, E CONVENGONO A TUTTI

Confronta e scopri il vantaggio fiscale su 1.000 € di premio al tuo dipendente PREMIO IN DENARO

CON PIANO WELFARE

COSTO AZIENDA

1.300 €

1.000 €

NETTO DIPENDENTE

561 €

1.000 €

CUNEO FISCALE

739€

0€

VUOI SAPERNE DI PIÙ? PRENOTA UNA CONSULENZA GRATUITA WWW.ASARVA.ORG/WELFARE-AZIENDALE


L'OFFERTA CHE SI FA IN 4 PER LA TUA AZIENDA. Scopri la nostra linea di prodotti dedicata alle imprese, pensata sulle esigenze di ogni singolo settore. FORMULA IMPRESA

BUSINESS

FORMULA IMPRESA

PMI

FORMULA IMPRESA

SHOP

FORMULA IMPRESA

NON PROFIT Ti aspettiamo in Filiale e su

ubibanca.com/formula-impresa in filiale

ubibanca.com

800.500.200

Fare banca per bene. Formula Impresa è l’offerta a pacchetto di UBI Banca S.p.A. riservata a chi svolge un’attività imprenditoriale e alle organizzazioni non profit. Ciascun pacchetto proposto dalla Banca si compone di diversi prodotti e servizi tutti obbligatori, che possono essere di nuova o precedente apertura, tra i quali vi è sempre un conto corrente sul quale devono essere regolati tutti gli altri rapporti compresi nello stesso pacchetto. La cessazione per qualsiasi causa di anche di uno solo dei prodotti che compongono obbligatoriamente il pacchetto determina la cessazione dell’offerta, mantenendo i restanti prodotti alle medesime condizioni in essere. Le attività tecniche collegate al Servizio POS fisico sono svolte da CartaSì, quelle collegate al servizio Digital Banking Imprese da ICBPI. La carta di credito “Libra Business” non fa parte del pacchetto ma può essere facoltativamente acquistata dal Titolare di Formula Impresa a condizioni economiche migliorative. Per le condizioni contrattuali di Formula Impresa e di Libra Business si rinvia ai fogli informativi e ai documenti informativi precontrattuali delle carte di credito disponibili nelle filiali di UBI Banca S.p.A. e nella sezione “Trasparenza” del sito www.ubibanca.com. Messaggio pubblicitario con finalità promozionale.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.