Imprese e Territorio

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Bimestrale di informazione di Confartigianato Imprese Varese 03 - 2017

www.asarva.org

ROMPERE GLI SCHEMI Idee non convenzionali per tornare a crescere SI SCRIVE ROBOT SI LEGGE PERSONA 6-13

PUNTI DI VISTA CONTROCORRENTE 14-19

TASSE E BUROCRAZIA GIÙ GLI STEREOTIPI 20-27

LA RIVOLUZIONE CHIAMATA LAVORO 26-34



EDITORIALE / 1

DAVIDE GALLI

Presidente Confartigianato Imprese Varese

INDUSTRIA 4.0 DIPENDE DA NOI

Lavoro e imprese cambieranno

S

i scrive Industria 4.0 (o Impresa 4.0, come l’ha ribattezzata il ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, in occasione dell’assemblea nazionale di Confartigianato), ma si legge rivoluzione. Rivoluzione industriale, di processo, formativa, organizzativa e delle competenze. Industria 4.0 non è solo la sfida tecnologica del nostro Millennio: è un banco di prova pervasivo, totalizzante, che cambierà il modo di produrre e di lavorare, ridisegnerà le mappe dell’occupazione, aprirà le porte a nuove professioni e, inevitabilmente, finirà per lasciarne altre ai margini. Industria 4.0 cambierà l’ordine degli addendi senza fornire alcuna certezza in merito al risultato finale. Quello dipenderà ancora una volta da noi, dall’uomo, chiamato come più volte nel corso della storia ad adattare se stesso e i propri modelli alla sfida per la sopravvivenza economica. Non esistono ricette, non ancora, ma il passato insegna che comprendere e interpretare per tempo il cambiamento, accettandone la scomodità, trasformandola in stimolo e accettando

editoriale

il rischio di errore, è il primo passo per acquisire la chiave di interpretazione del futuro. Il futuro non sarà per tutti, dobbiamo esserne consapevoli: molte professioni stanno scomparendo, e il fenomeno è chiaro sotto i nostri occhi, per effetto di una inarrestabile trasformazione dei processi industriali e produttivi. Altre, soprattutto quelle scarsamente professionalizzate, resisteranno, pur al costo di una contrazione delle retribuzioni. È la legge dell’automazione e della robotica, dell’integrazione dei processi produttivi, della contrazione della filiera distributiva e dell’automazione dei servizi. È il mondo del lavoro verso il quale, anche noi, siamo chiamati a virare, per rispondere al mercato e ai clienti. È la legge della digitalizzazione accanto alla quale, la manualità artigiana, saprà fare la differenza se opportunamente combinata alla tecnologia, come in una orchestra, dove ogni singola nota andrà a comporre la melodia. Chi riuscirà a unire il sapere antico all’innovazione avrà modo di superare il confine della “bottega” o dell’azienda, rendendo l’artigianato creativo – capace di offrire

soluzioni nuove a problemi irrisolti con la creatività e la customizzazione – il cuore pulsante di un contesto economico premiale. Capace di comprendere e valorizzare l’unicità del portato, la massima funzionalità e l’elevato apporto tecnologico. Questo artigianato, l’artigianato dell’investimento e della riqualificazione professionale, sarà l’artigianato 4.0 e, in questo artigianato, troveranno occupazione e soddisfazione tutti coloro che intercetteranno le nuove competenze, facendole proprie e accostandole a un elevato tasso di flessibilità, autonomia e visione di sistema. Competenze verticali e specialistiche accostate alla capacità di adattare quanto acquisito a contesti produttivi in costante trasformazione saranno le carte vincenti della buona occupazione futura. Della nuova occupazione digitale dell’artigianato 4.0. E, perché no, 5.0. A noi il compito di essere parte attiva di questo percorso, sostenendo gli sforzi delle imprese e accostandoci alle scuole affinché possano tradurre i bisogni del territorio nella migliore formazione per gli innovatori di domani.

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sommario

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IL CORAGGIO DELLA LEGALITÀ La forza delle imprese

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Editoriale / 1

LA BUONA OCCUPAZIONE e la chiarezza di regole e obiettivi

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Editoriale / 2

SI SCRIVE ROBOT si legge persona

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In che mondo viviamo/che mondo ci aspetta

IL MURETTO DI MATTONCINI batterà il professore?

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Relazioni e professioni del futuro

IL CAMBIAMENTO È UN’OCCASIONE Chi si adegua per primo vince la sfida "darwiniana"

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Relazioni e professioni del futuro

RIVOLUZIONE ROBOTICA Pronti? Per ora no…

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Relazioni e professioni del futuro

LA RICETTA ANTI CRISI DI MR. CARLSBERG L'errore ci fa diventare forti

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Il manager controcorrente

SCIENZA MAESTRA D’IMPRESA «Il problema è già la soluzione»

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Mestieri che si intrecciano

TANTI, MOTIVATI E ARRABBIATI Arriva l'esercito della ricerca

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Rivoluzioni sul confine

TASSE, CHI HA PAURA di parlare di "patrimoniale"?

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Austerità tra mito e necessità

PICCOLO È RISCHIOSO PER LE BANCHE Ma battere le big si può

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Il credito che non c’è: di chi è la colpa?

IL TICINO BELLO E POSSIBILE La burocrazia light fa il pieno

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La lezione svizzera

DICI SMART WORKING leggi best work

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Riorganizzare per migliorare

GENERAZIONE NEET Sconfitta o nuova risorsa?

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Occupazione, inoccupazione e occupabilità

WOLLY DIVORA IL LAVORO E lo trasforma in mappa

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Le nuove competenze viste dai Big Data

Gli approfondimenti – anche video – ai temi trattati nel bimestrale si possono trovare sul sito

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Confartigianato Imprese Varese

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riflettiamoci su

«Se metti da parte l'analisi dei dati, l'innovazione di ogni organizzazione è una conchiglia vuota» Jack Ma, presidente di Alibaba, prevede che nei prossimi 30 anni i Big Data provocheranno cambiamenti più profondi di quelli generati da Internet «Le interazioni faccia a faccia migliorano il benessere. Con l'ubiquità dei social media sono emerse importanti questioni sull'impatto delle relazioni. Abbiamo esaminato le associazioni che ci sono tra l'attività su Facebook e lo stato di salute fisica, mentale e la soddisfazione di vita. I risultati hanno dimostrato che in generale, l'utilizzo della piattaforma non è associato al benessere» Studio dell'Università di Yale e della California sulla relazione tra i social network e la felicità delle persone

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MAGGIO-GIUGNO 2017

Bimestrale di informazione di Confartigianato Imprese Varese 03 - 2017

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Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002

INVIATO IN OMAGGIO AGLI ASSOCIATI ED ENTI VARI

Caporedattore Davide Ielmini

Direttore Responsabile Mauro Colombo Presidente Davide Galli

Impaginazione Geo Editoriale www.geoeditoriale.it

Stampa Litografia Valli Tiratura 11.600 copie Chiuso il 14 luglio 2017

Interventi e contributi: A. Aliverti, N. Antonello, T. Bassani, D. Ielmini, G. Nicolussi, D. Mammano, P. Provenzano, Spectator

Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


EDITORIALE / 2

LA BUONA OCCUPAZIONE e la chiarezza di regole e obiettivi

O

ccupazione. Di occupazione si è parlato tanto, tantissimo, in questi anni, perlopiù inseguendo cifre in caduta libera, risvolti sociali anche drammatici, tensioni e preoccupazioni. Oggi, con la crisi che sembra aver allentato la morsa – perlomeno su alcune imprese – è il tempo di pianificare la "buona occupazione". Ha fatto riflettere una denuncia, proveniente dalla Cisl dei Laghi, relativa al “peggioramento del clima aziendale”, alle difficoltà dei giovani nelle imprese, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni, all’aumento dei contenziosi, alle malattie professionali legate “al trattamento riservato ai lavoratori” e agli atteggiamenti vessatori nei confronti del personale.

che a volte sfocia in drammatici fatti di cronaca, che la crisi ha acuito alcune criticità. Ma è bene, nel merito, definire la portata e la dimensione del fenomeno, che ci risulta circoscritto, per evitare di innescare un circuito vizioso e una conflittualità che non sono nell’interesse del sistema imprenditoriale e dei lavoratori. Siamo consci della presenza di zone grigie nel mondo del lavoro, anche in provincia di Varese, e siamo consapevoli del ruolo di tutela e garanzia dell’occupazione (e della buona occupazione) del sindacato. Tuttavia la buona occupazione è interesse del dipendente così come del datore di lavoro, soprattutto nelle piccole e medie imprese. Dove, è vero, forse mancheranno badge e cartellini,

Una denuncia che suscita amarezza ma anche qualche considerazione. La nostra associazione, ad oggi, rappresenta oltre ottomila imprese della provincia di Varese: imprese diverse per dimensioni, settore di interesse e anzianità imprenditoriale (startup, aziende storiche, aziende impegnate nel passaggio generazionale…). Sappiamo bene, e dire il contrario significherebbe negare un’evidenza

ma è forte il senso di condivisione dell’obiettivo: il rafforzamento dell’impresa a beneficio del mantenimento dell’occupazione. Il tutto in un quadro di regole chiare, semplici e condivise. Il primo passo, in questo senso, tocca al legislatore: vessare l’impresa con una tassazione non commisurata alla qualità dei servizi, ed esporla a un carico burocratico spesso antistorico, non fa che ostacolare la ripresa e la fiducia di chi, ricordiamocelo, assume su di sé rischi e

responsabilità a volte non semplici da sopportare. Iniziare, tutti insieme, a insistere affinché in Italia si diffonda la consapevolezza della “giusta regola” alla base di una “buona economia” è senza dubbio un impegno che, come abbiamo espresso con chiarezza in occasione del congresso del 14 maggio, ci assumiamo senza esitazione. Regole di sistema e regole “interne”: perché una buona convivenza nelle imprese non può che partire dallo stesso principio. Chiarezza e rispetto reciproco di norme condivise. Da mesi Confartigianato Varese è impegnata in una campagna di sensibilizzazione presso gli imprenditori affinché adottino il regolamento aziendale, strumento in grado di mappare il contesto e definire norme e comportamenti, regole, procedure e principi che corrispondano alle esigenze dell’azienda e dei dipendenti. Norme comportamenti, regole, procedure e principi che vengono poi messi nero su bianco, spiegati e sottoscritti. Costruire e diffondere una nuova cultura della regolamentazione e della reciproca responsabilizzazione può rappresentare un punto di forza in un contesto storico di enormi cambiamenti, anche economici. Migliorando quel clima aziendale che è la vera, immensa e mai abbastanza valorizzata risorsa di tutte le imprese, a cominciare da quelle di dimensioni più contenute. I cambiamenti iniziano dalla condivisione, dalla chiarezza, dalle regole, dal dialogo e dal reciproco impegno. Presidente, direttore generale, dirigenti e dipendenti di Confartigianato Imprese Varese

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ROMPERE GLI SCHEMI In che mondo viviamo/che mondo ci aspetta

La quarta rivoluzione industriale - Conoscere i rischi, sfruttare i vantaggi di Spectator

L

a quarta rivoluzione industriale è entrata con forza anche nelle prove di maturità di quest’anno. Uno degli approfondimenti richiesti agli studenti riguardava infatti il rapporto tra le nuove tecnologie e il lavoro, tra l’avvento dell’era dei robot e i rischi conseguenti per l’occupazione. Proprio questo argomento è stato uno dei gettonati probabilmente perché si prestava ad una analisi essenzialmente problematica. Già i documenti proposti come base della riflessione spaziavano infatti da un’impostazione catastrofista (“I robot sostituiranno il 66% del lavoro umano”) ad una visione più che ottimista (“Industria 4.0: contrordine, i robot creano lavoro”). Non mancava la tradizionale terza via con una ricerca in cui metà degli intervistati era sicura che

SI SCRIVE ROBOT SI LEGGE PERSONA


ROMPERE GLI SCHEMI In che mondo viviamo/che mondo ci aspetta

l’automazione impatterà negativamente sui posti di lavoro e un’altra metà convinta dell’esatto contrario. È il classico caso in cui nessuno ha torto e tutti hanno ragione. Perché è vero che i droni, le auto che si guidano da sole, i robot nelle catene di produzione così come nelle sale operatorie, sono rapidamente destinati a prendere il posto dei lavoratori in carne ed ossa, ma è altrettanto vero che mentre muoiono i vecchi mestieri ne sorgono di nuovi, mentre vanno in soffitta i fax e i telegrammi sorge una costellazione di start up che sviluppano applicazioni e software di comunicazione. Quello che è certo è che il futuro del lavoro sarà ricco di cambiamenti. Lo dimostra, con centinaia di esempi, Riccardo Staglianò nel suo libro “Al posto tuo, così web e robot ci stanno rubando i futuro” (Ed. Einaudi, pagg. 256, € 18), un viaggio tra realtà industriali e analisi economiche che comprende le lucide analisi espresse già nei secoli scorsi da Karl Marx e John Maynard Keynes e arriva alla “fabbrica a operai zero”. Un viaggio tra realtà complesse e speranze difficili. Interi sistemi economici, come quelli dell’informazione e della mobilità, sono nel pieno di una rivoluzione strutturale lasciando aperta una tendenza di fondo particolarmente rilevante: cresce la distanza tra pochi lavori ad alto reddito ed un’area sempre più larga di impieghi ad alta precarietà. Contrastare questa tendenza non sarà facile, ma dovrà essere altrettanto possibile quanto necessario. Con tre strade: 1) l’istruzione di base e la formazione continua; 2) nuove politiche fiscali che sostengano l’innovazione e insieme aiutino la redistribuzione dei redditi; 3) spazio alla creatività perché, come diceva Einstein, «non si risolvono i problemi nuovi con le vecchie soluzioni». E proprio la creatività è il filo conduttore dell’analisi di Leandro Agrò nel libro “Internet of Humans” (Ed. Egea, pagg. 89, € 9,90),

un libro in cui si passano in rassegna gli inediti paradigmi che contraddistinguono la nuova dimensione sociale. Per scoprire che nell’era dei social network e dei big data assume sempre più importanza la dimensione della persona, con la sua identità e le sue emozioni. Significativa la citazione di Ray Kurzwell, inventore: «La nostra tecnologia, le nostre macchine. Le abbiamo create per estendere noi stessi, in questo sta l’unicità degli esseri umani». Non è così solo uno slogan affermare che il futuro è quello che noi sapremo costruire, un futuro in cui la grande alleanza tra informatica e telecomunicazioni dovrà essere considerata sempre e solo uno strumento per realizzare obiettivi scelti consapevolmente. E allora possiamo credere che gli anni che verranno potranno essere particolarmente interessanti: perché potranno avere alla base la cultura del progetto. «Oggi è tassativo – afferma Agrò nella conclusione del suo libro – infondere umanità in ogni cosa fin

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dall’inizio, fin dunque appunto nella fase progettuale. Oppure ogni cosa evolverà priva di umanità». In questa prospettiva la quarta rivoluzione industriale non sarà diversa dalle precedenti: l’intelligenza di ogni persona sarà fondamentale per riconoscere i rischi e sfruttare i grandi vantaggi.

Il libro “Al posto tuo - Così web e robot ci stanno rubando i futuro” di Riccardo Staglianò

Il libro “Internet of Humans” di Leandro Agrò

Nell’era dei social network e dei big data assume sempre più importanza la dimensione della persona, con la sua identità e le sue emozioni


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ROMPERE GLI SCHEMI Relazioni e professioni del futuro

IL MURETTO DI MATTONCINI batterà il professore? DAVIDE IELMINI

Confartigianato Imprese Varese

davide.ielmini@asarva.org

Nel saggio “Lavoreremo ancora?” di Pier Franco Camussone e Alfredo Biffi l’interrogativo dei digital-preoccupati. Ma è lo stesso Biffi a frenare i timori. Sfruttando anche la lezione di Star Trek

“L

avoreremo ancora?”, edito dalla Egea, non è solo il titolo di un bel libro di due professori della Sda Bocconi School of Management – Alfredo Biffi (che insegna anche all’università dell’Insubria) e Pier Franco Camussone – ma anche la domanda che ci poniamo un po’ tutti quando si parla di tecnologie informatiche, innovazione e robotica. Digital-scettici o meno, il futuro che ci inventeremo dovrà essere un futuro dove l’uomo non si lascerà scippare la propria vita dalle macchine. Anzi, dovranno essere le macchine a non poter fare a meno di noi. Ma come? Imparando da Star Trek e da chi sa fare muretti a secco.

Professor Biffi, che c’entrano l’Enterprise e i terrazzamenti?

Partiamo da Star Trek: qui le persone sono immerse nella tecnologia ma questa si vede solo quando serve. Per esempio quando la navicella è sotto attacco delle popolazioni aliene. Dobbiamo fare come loro: governare l’innovazione e usarla quando serve. I muretti a secco, invece, sono un esempio che faccio quando parlo di competenze: la tua felicità professionale te la costruisci indipendentemente dal pensiero comune. E formandoti giorno dopo giorno.

"Lavoreremo ancora? Tecnologie informatiche e occupazione" di Pier Franco Camussone e Alfredo Biffi (a destra)


ROMPERE GLI SCHEMI Relazioni e professioni del futuro

Non si tratta di parlare di professionalità “alte” o “basse”, ma di quanto sei bravo a fare il tuo lavoro per acquisire valore sul mercato

Non si tratta di parlare di professionalità “alte” o “basse”, ma di quanto sei bravo a fare il tuo lavoro per acquisire valore sul mercato. Perché in futuro il lavoro non mancherà ma sarà micro e frammentato.

Professionalità a rischio?

Per esempio io e lei: un professore e un giornalista. Oggi un solo professore di Harvard è in grado di valutare 107mila studenti, il lavoro che prima svolgevano 500 docenti. E così accadrà con i media: in un robot si inseriranno gli elementi essenziali della notizia e lui costruirà l’articolo. Già oggi, nel mondo del giornalismo, il rapporto tra uomini e macchine è uno a venti, quindi…

Vuole mettere la sensibilità umana? Quella sì, ed è per questo che negli ambienti di lavoro in futuro ci saranno lavoratori preparatissimi sotto il punto di vista tecnicoscientifico ma anche persone con una preparazione in filosofia, antropologia, materie umanistiche.

Difficile non preoccuparsi, non crede?

Avremo tante persone consapevoli del lavoro che fanno e abituate a cicli lavorativi diversi: periodi di fermo alternati a periodi entusiasmanti

Ma no, non bisogna avere paura. Dobbiamo solo accettare il fatto che il lavoro, come lo si concepisce secondo tradizione, sarà sempre meno. Lo scopo delle tecnologie è quello di far fare meno fatica fisica e mentale all’uomo - è sempre stato così – ma quello che facciamo oggi non verrà completamente sostituito dalle macchine. Anzi, l’uomo dovrà essere in grado di controllare le performance delle macchine. Ma lo potrà fare solo se verrà preparato a cavarsela da solo, facendo leva sulle sue qualità e professionalità, in un sistema socio-economico completamente diverso da quello presente. Di certo non assistenziale.

Lo scorso 1° giugno, a New York, è stato presentato l’Avatar virtuale di una modella: il suo nome è Amelia. Lavora 24 ore, conosce quaranta lingue e impara dall’esperienza. Microsoft, invece, ha sviluppato un chatbot che scrive poesie: sicuro che non dobbiamo preoccuparci?

Non penso che una macchina arrivi al “Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie” di Ungaretti. Quello che farà la differenza saranno le persone capaci di immaginare il futuro e costruirlo. E non sto solo parlando dei progettisti di computer ma anche di una badante o, per ritornare all’esempio degli inizi, di un costruttore di muretti. Tutte queste figure, sia quelle che consideriamo nobili (per esempio il medico) e sia quelle che per noi non sono nobili (per esempio chi accudisce gli animali in una stalla), dovranno interagire con le tecnologie. E usarle bene. A fare la differenza saranno le competenze di livello acquisite in un incessante percorso formativo perché ciò che oggi è di valore potrebbe non esserlo nel futuro. E saremo tutti cyborg: il medico, l’ingegnere, il coltivatore. Insomma, saremo “super”.

Anche le imprese dovranno diventare “super”? Ovvio. Le tecnologie sono un’opportunità pazzesca per loro. Anche perché o le cose le fai tu o le fanno i tuoi concorrenti. È un loro dovere usare l’innovazione perché chi fa seriamente l’imprenditore, chi vuole costruire qualcosa che duri nel tempo e sul territorio, avverte questa responsabilità di dare lavoro e di conservarlo. Certo anche i collaboratori in azienda cambieranno.

Cyber lavoratori?

Diciamo che con le competenze tecniche dovranno sviluppare anche quelle che sono le soft skills: la propria utilità la si dimostra anche lavorando in stretto contatto con gli altri. Ma tutti noi, e penso soprattutto ai giovani che escono dalle università, dovremmo pensare a noi stessi come a imprenditori. Si deve dimostrare di saper fare, e quello che si fa bisognerà farlo molto bene. Di altissima qualità. Avremo tante persone consapevoli del lavoro che fanno e abituate a cicli lavorativi diversi: periodi di fermo alternati a periodi entusiasmanti. È il mondo che cambia.

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ROMPERE GLI SCHEMI Relazioni e professioni del futuro

IL CAMBIAMENTO È UN’OCCASIONE

Chi si adegua per primo vince la sfida "darwiniana" Il saggio scritto da Telmo Pievani con il giornalista Luca De Biase

Telmo Pievani, autore del volume ”Come saremo” «Al termine di una crisi non sopravvive “il più forte” ma il più flessibile e il più innovativo»

T

elmo Pievani è professore ordinario al Dipartimento di Biologia dell’Università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Studia, approfondisce, racconta, scrive e insegna. Ma fa di più: guarda tutto quello che è evoluzionismo non dalle lenti di un binocolo ma dalla telecamera di un drone. Dall’alto, per prendere meglio le distanze dagli errori e dalle ovvietà dalla “psicologia evoluzionistica pop” (questo è solo un esempio della vastità tematica alla quale si dedica giornalmente il professore) e migliorare la mira. Con una cura maniacale ma anche con un approccio concreto, seppur divertito e divertente, brillante e alternativo, a tutto quello

che è relazione, cambiamento, maturazione. In una parola, darwinismo. Ma che c’entra, con tutto questo, la piccola impresa?

Professore, in economia e management si dice spesso che “l’impresa è un sistema”: il continuo cambiamento è alla base dell’evoluzione di questo sistema?

Direi di sì. In campo evoluzionistico usiamo una metafora che si addice molto al caso: la Regina Rossa di Lewis Carroll, che per apparire ferma rispetto al contesto che si muove attorno a lei deve correre sempre più veloce. Molte delle strutture più complesse e ammirevoli prodotte dalla natura derivano da questo incessante gioco di mosse e contromosse tra una specie e l’altra, per esempio tra predatore e

«Credo che le piccole imprese abbiano tutte le caratteristiche di plasticità, creatività e rapidità che connotano i soggetti evolutivi di successo»

preda o tra piante e insetti impollinatori. Chi si ferma è perduto, e tutto dipende da come il sistema affronta il cambiamento.

Molte imprese affermano che “la crisi è stata un’occasione” per rimettersi in gioco e trasformarsi: il darwinismo c’entra qualcosa?

La crisi in chiave evoluzionistica è un cambiamento ambientale più drammatico del solito e inaspettato. Le pressioni selettive si modificano e diventano più stringenti, portando molti all’estinzione ma innescando anche una gamma di strategie adattative nuove. Al termine di una crisi non sopravvive banalmente “il più forte”, né il più adatto alle condizioni precedenti, ma di solito il più flessibile, il più rapido a cambiare, il più previdente nell’investire in ricerca e innovazione, qualche volta il più fortunato.

A tal punto che essere “generalisti” non sempre è un difetto?

Dipende. Essere generalisti può essere troppo costoso, anche se in certe circostanze (poco prevedibili)


ROMPERE GLI SCHEMI Relazioni e professioni del futuro

può essere una salvezza. In generale, è bene che vi sia una saggia miscela di indispensabile specializzazione (per competere in nicchie internazionali di forte competenza e di alta qualità) e di flessibilità (cioè di ricettività e di disponibilità all’innovazione rapida).

Qual è il parallelo fra l’evoluzione delle specie animali e l’evoluzione delle macchine? O, meglio ancora, cosa si intende quando si parla di co-evoluzione tra umani e nuove tecnologie?

Si intende l’insieme delle relazioni di reciproca trasformazione tra noi e le tecnologie (che inventiamo, aggiorniamo, eliminiamo, integriamo, spesso convertendo l’esistente per funzioni nuove) e tra le tecnologie e noi (che ci cambiano la vita, le relazioni sociali, la nicchia ecoculturale che ci circonda e ci plasma). Noi cambiamo loro e loro cambiano noi, tanto che i nostri figli nascono “nativi” di un ambiente culturale e tecnologico diverso dal nostro. Il loro plastico cervello, che si sviluppa per due terzi dopo la nascita, è quindi diverso dal nostro.

Nel libro dal titolo “Come saremo”, scritto con Luca De Biase, si parla di nicchia ecologica o di nicchia ecoculturale: le piccole imprese come si inseriscono in questo “contenitore” e qual è il loro contributo?

Credo che le piccole imprese abbiano tutte le caratteristiche di plasticità, creatività e rapidità che connotano i soggetti evolutivi di successo. Devono però fare sistema, cioè avere una buona ecologia, se vogliono competere nell’arena internazionale.

Nell’epoca dell’Industria 4.0, può accadere che non sempre si affermi la tecnologia migliore: per capire

«Per stare al passo con i tempi non bisogna attendere il cambiamento, ma anticiparlo, inventando nuove nicchie di mercato o modificando le esistenti» l’evoluzione tecnologica dobbiamo prima di tutto capire cosa si intende con il termine evoluzione?

Il successo di una tecnologia oggi non si misura soltanto con l’efficienza, ma dipende anche dalla trama di relazioni in cui si inserisce (vedi il lungo ritardo del successo della videochiamata), dalle relazioni sociali e ambientali che reggono il contesto ecologico in cui una nuova tecnologia nasce e si sviluppa. Oggi quel contesto è fatto anche di percezioni, di mode passeggere, di immaginario. Nel libro cerchiamo proprio di identificare i criteri per discernere le innovazioni che contano davvero da quelle che non lasceranno alcun segno.

In questo mondo che corre, dove tutto è accelerato e iper-veloce, cosa dicono le teorie evoluzioniste? Cosa deve fare un’impresa, secondo gli evoluzionisti, per stare al passo con i tempi? Non esistono ricette valide per ogni paese, ma due cardini emergono con chiarezza. Primo, senza ricerca e innovazione non si va da nessuna parte, il che significa che in ogni distretto bisogna costruire un dialogo serrato con i politecnici, le università e i centri di ricerca. La scienza italiana è formidabile per qualità, ma è anche una di quelle meno finanziate dal

settore privato (oltre che da quello pubblico). Secondo, per stare al passo con i tempi non bisogna attendere il cambiamento, ma anticiparlo, inventando nuove nicchie di mercato o modificando le esistenti a proprio vantaggio. Il futuro non va atteso fatalisticamente, va inventato.

Un concetto fondamentale del darwinismo è che “tutti variano” ma solo alcuni riescono a conservare le modificazioni vantaggiose: quali sono i requisiti per trattenere in sé i cambiamenti vantaggiosi?

I cambiamenti vantaggiosi sono già attorno a noi, basta vederli e trattenerli. Nel caso delle piccole imprese, direi che un suggerimento potrebbe essere quello di studiare la preparazione, i rendimenti, la creatività delle decine di migliaia di giovani ad alta qualificazione che ogni anno lasciano l’Italia per lavorare all’estero. Possibile che almeno una parte di questa ricchezza intellettuale e professionale non possa rimanere o tornare qui, insieme a quella che a nostra volta potremmo attrarre noi da fuori? Basterebbe dare loro fiducia, libertà di esprimersi e sicurezza economica per farsi una vita stabile. Il successo evolutivo sarebbe assicurato. // Davide Ielmini

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ROMPERE GLI SCHEMI Relazioni e professioni del futuro

Il direttore di Industria Italiana, Filippo Astone e le criticità di Industria 4.0 «L’automazione crea una classe di perdenti assoluti a cui non devono provvedere le aziende ma welfare e politica» ANDREA ALIVERTI

Giornalista La Provincia di Varese

andrea.aliverti@libero.it

I

robot? Più opportunità e più rischi. Ma nel lungo periodo, la nostra società va ripensata e in giro non ci sono idee in questo senso». Parola di Filippo Astone, direttore di Industria Italiana e conduttore di Fabbrica 2.4, il programma di Radio 24, l’emittente de Il Sole 24 Ore, in cui parla di robotica e di futuro dell’industria.

«

I robot cambieranno il lavoro in meglio o in peggio?

Aumenteranno i posti di lavoro, non c’è ombra di dubbio, è sempre stato così nella storia umana. Il progresso tecnologico, creando maggiore produttività, alimenta anche la ricchezza e genera posti di lavoro a maggior valore aggiunto, di migliore qualità e maggiormente pagati. È successo anche quando i motori hanno sostituito i cavalli: è aumentato il giro delle merci, si è creato un indotto perché i mezzi a motore qualcuno li doveva fabbricare, trasportare, riparare e guidare. Il vero problema è che quelli che guidavano le carrozze a cavalli sono rimasti a casa e non è che i posti di lavoro in più creati dai motori se li siano presi gli stessi.

È un esempio che può valere anche al giorno d’oggi?

Un esempio che mi piace sempre fare è quello dei porti. Quando saranno completamente automatizzati, con i sensori sui container per smistarli in maniera automatizzata, gli uomini che

RIVOLUZIONE ROBOTICA Pronti? Per ora no…


ROMPERE GLI SCHEMI Relazioni e professioni del futuro

«Oggi l’alternativa alla fabbrica automatizzata è la fabbrica che va via, e quando succede restano a casa tutti, non solo chi ci lavora» guidano i camioncini con le benne o le gru che spostano i container andranno a casa. Magari sono persone di 5060 anni che lavorano nei porti da una vita, per le quali non c’è formazione per fare un altro lavoro che tenga. Eppure il sistema nel suo complesso se ne gioverà, perché chi ha studiato economia sa che aumentando la produttività aumenta la ricchezza.

Quindi il vero problema è il destino dei lavoratori sostituiti dalle macchine nel breve periodo?

L’automazione crea una classe di perdenti assoluti a cui bisogna provvedere. Anche inventando nuovi lavori, legati ad esempio alla cura della persona e del territorio, se pensiamo ai problemi di dissesto idrogeologico che ci sono nel nostro Paese. Ma non è problema delle aziende, bensì del welfare e della politica, che va risolto e va affrontato. Tenendo conto anche delle opportunità che l’automazione può creare.

Ad esempio?

A noi occidentali, l’automazione conviene, perché fa venire meno le ragioni che rendono competitiva la delocalizzazione della manifattura per risparmiare sul costo del lavoro. L’automazione consente di tenere le fabbriche qui da noi invece di portarle in Cina o in India o chissà dove. Non solo perché non c’è ragione di portare altrove un lavoro che viene svolto da robot, ma anche perché più la fabbrica è a valore aggiunto - e quella automatizzata, ovviamente lo è - più è utile tenerla vicina ai centri decisionali dell’impresa che in genere stanno in importanti luoghi occidentali, dove ci sono competenze, attività di ricerca, società di consulenza, e tutto quello che serve.

Oggi l’alternativa alla fabbrica automatizzata è la fabbrica che va via, e quando succede restano a casa tutti, non solo quelli che lavorano in fabbrica ma tutto l’indotto, pensiamo al trasporto, ai servizi finanziari, alla consulenza, ecc. Non è un caso che, parallelamente alla crescita dell’automazione, in tutto il mondo sia in aumento anche il reshoring, cioè il fenomeno del ritorno in patria delle produzioni un tempo delocalizzate.

E allora, perché questo fenomeno non viene visto come opportunità?

Perché non c’è consapevolezza. D’altra parte non si può evitare, perché anche se tu decidi di non introdurre la ruota nella tua azienda, lo farà qualcun altro e ti farà fallire. Teniamo conto che ancora ce ne corre prima che i robot sostituiscano totalmente l’uomo: oggi non hanno ancora il pollice opponibile all’indice e arrivano a sei assi contro le 35 della mano umana. Ma ci arriveremo, come arriveremo alle macchine che si guidano da sole, almeno in dieci anni nell’ipotesi più ottimistica. Quindi, se nel breve periodo servirà più manodopera qualificata, nel giro di 15-20 anni occorrerà ripensare la società e, rispetto a questo, in giro non c’è un’idea bucata....

Per la piccola impresa che opportunità ci sono?

Oggi un prodotto meccanico di particolare pregio può essere venduto in tutto il mondo sul catalogo del marketplace di Amazon. Non è uno scherzo: molti non inseriscono i loro prodotti perché non saprebbero stare dietro ai volumi degli ordini. Quindi, se è vero che da un lato puoi venire spazzato via con più facilità, dall’altro puoi anche con più facilità inserirti nei flussi globali. Più rischi e più opportunità.

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ROMPERE GLI SCHEMI Il manager controcorrente

LA RICETTA ANTI CRISI DI MR. CARLSBERG L'errore ci fa diventare forti Storia della “seconda vita” del Birrificio di Induno Olona «Nel 2007 ero a un bivio, chiudere o ricostruire. Il punto di ripartenza? L’attenzione ai dettagli e il coraggio di sbagliare» DAVID MAMMANO

Giornalista VareseNews

david.mammano@gmail.com

L

a storia dell’imprenditore Angelo Poretti è affascinante da tanti punti di vista. Potremmo definirlo un esempio ante litteram dei tanto chiacchierati cervelli in fuga dei nostri giorni che, a un certo punto, decidono con coraggio di tornare perché capiscono che è possibile costruire, seppur a costo di tanta fatica, le condizioni per poter fare nel proprio paese quello che avrebbero fatto altrove. Nasce nel 1829 e in gioventù lascia l’Italia per viaggiare nel continente europeo. Nel 1877 decide di ritornare in patria e mettere a frutto capitali e conoscenze acquisite dando vita al Birrificio Poretti di Induno Olona. I capitoli successivi e più recenti della storia sono maggiormente noti e parlano di crisi ma anche di una profonda capacità di riuscire a tornare a credere in un nuovo inizio. Quest’ultima parte della storia comincia nel 2007 quando alla guida dell’azienda arriva Alberto Frausin, attuale Ceo di Carlsberg Italia e per certi versi un “Angelo Poretti 2.0”. Frausin si trova di fronte a un

bivio: chiudere tutto o provare a costruire un nuovo futuro possibile. Come si conclude questo capitolo lo ha raccontato Frausin stesso a TEDxVarese, parlando di come Carlsberg Italia abbia saputo vedere nel fallimento una chiave di apprendimento e di come l’attenzione ai dettagli che a molti sembravano insignificanti sia stata fondamentale per la rinascita dell’azienda. Il punto di partenza? «Credere nell’ascolto e rileggere la storia interpretandola verso il futuro e rendendola un fattore del rinnovato successo».

A TEDxVarese ha parlato dell’importanza data ai dettagli come chiave di ripartenza del business, a costo di imbattersi in resistenze di vario tipo. Qual è un buon metodo per superare le resistenze mantenendo armonia in azienda? Le resistenze ci sono sempre perché siamo in un paese che è tendenzialmente pessimista e scettico e che quindi fa fatica ad accettare i cambiamenti, siano essi di business o di altro genere. Questo è un elemento che fa parte della nostra cultura e con il quale bisogna convivere. Tuttavia quando siamo di fronte a un meccanismo di cambiamento, le regole sono importanti e se si imposta un percorso di cambiamento bisogna essere coerenti a ogni costo. Nel nostro caso, ad esempio, ho deciso di compiere una scelta fin dall’inizio: smettere di porre l’attenzione sul fatturato e guardare al valore. In ogni possibile documento aziendale chiedo di non riportare mai il fatturato ma il gross profit. E nel farlo ho talvolta incontrato resistenze perché la tendenza era quella


ROMPERE GLI SCHEMI Xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx

«Ci sono fasi in cui le abitudini vanno bene e altre in cui non funzionano più ed è quello il momento in cui deve subentrare l’innovazione»

«Gli elementi del successo di un’azienda sono spesso già presenti nell’azienda stessa. Basta solo mescolarli nel modo giusto» di tornare sui propri passi. Tuttavia ci sono fasi in cui le abitudini vanno bene e altre in cui non funzionano più ed è quello il momento in cui deve subentrare l’innovazione. La nostra realtà può fare sempre meglio ma in questa fase vediamo che i risultati delle innovazioni messe in campo sono tangibili e quindi l’innovazione stessa non viene più messa in discussione. Una chiave vincente per superare le resistenze mantenendo armonia è il racconto di una storia coerente.

In che senso?

Ho avuto l’onore di lavorare al fianco di Pietro Ferrero e settimanalmente incontravo anche il padre Michele. Sono state alcune delle persone più illuminate che abbia conosciuto. Pietro aveva un disegno e lo raccontava sempre in modo coerente. Il suo racconto diventava quindi così condiviso e conosciuto dalle persone che lavoravano con lui che alla fine era naturale metterlo in pratica e tradurlo in successo aziendale. È la stessa cosa che ho provato a fare a Carlsberg Italia: riscoprirne la storia, raccontarne con coerenza i punti di forza e ripetere sempre le stesse domande per raggiungere gli obiettivi fissati. Gli elementi del successo di un’azienda sono spesso già presenti nell’azienda stessa. Basta solo mescolarli nel modo giusto.

Quanto è facile o difficile portare in azienda un tipo di cultura che contempla il fallimento e l’errore come

chiavi di apprendimento e tensione al miglioramento? Cosa può incentivare questo tipo di cultura?

La realtà è questa: non si fallisce mai. Il fallimento è apprendimento. Certo, un fallimento ti rimane impresso. Ma è importante dare la possibilità ai tuoi collaboratori di poter sbagliare e apprendere. Tuttavia una guida è necessaria. Faccio un esempio: a Roma possiamo andarci con il canotto, con il treno o in bicicletta. Una volta impostato l’obiettivo, il come ci si arriva è meno importante: ci si renderà conto che il modo più efficiente è la macchina piuttosto che il treno e si sceglierà una soluzione. L’apprendimento è questo. L’anticamera del fallimento è la mancanza di obiettivi. Mentre un’azienda evolve e continua a imparare, il ruolo del capo è quello di essere l’unico responsabile. E se gli errori sono troppi grossi, a rimetterci sarà soltanto lui.

Quali consigli si sente di dare a realtà aziendali medio-piccole che hanno la necessità di rilanciarsi come successo a Poretti ma magari non dispongono del coraggio o degli strumenti sufficienti ad avviare il cambiamento?

Il coraggio è una delle poche cose di cui non si può fare a meno. Il mondo d’oggi è complesso e occorre il coraggio di fare le scelte migliori circondati dalle persone giuste. E per quanto le persone che lavorano con te possano essere preparate, anche la fortuna gioca un ruolo chiave. E allora diventa

fondamentale anche la capacità di ascoltarsi dentro e di individuare qual è il possibile contributo che si può dare nel rilanciare o sviluppare o portare fuori dalle sabbie mobili la propria azienda. Questo vuol dire anche dover compiere scelte faticose. Ma una volta fatte, occorre essere coerenti. Scegliere una strada vuol dire avere anche il coraggio di proseguirla. Spesso a distruggere un’azienda è un cambio improvviso di una strada intrapresa senza coinvolgere i propri collaboratori e senza spiegarne le motivazioni.

Che ruolo ha il digitale in Carlsberg Italia? Sul digitale stiamo lavorando molto. Credo di avere indovinato le strade che percorreremo nel prossimo futuro. Si tratta di un percorso che ha una sua coerenza. Un po’ come per tutti cambiamenti, il digitale impone un cambio di mentalità. Spesso le persone semplificano i concetti e guardano al digitale come a un semplice canale di comunicazione o advertising, che in realtà è solo un pezzo della grande catena di valore che dobbiamo essere in grado di produrre. Siamo in fase di test su più fronti e a partire dall’anno prossimo saremo in grado di raccontare un nuovo pezzo della nostra storia. Comincio ad anticipare questo: “digitale” per Carlsberg Italia vorrà dire soprattutto customer experience e straordinarietà dell’esperienza che si dovrà tradurre sempre di più in consapevolezza dell’acquisto e del consumo.

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ROMPERE GLI SCHEMI Mestieri che si intrecciano

SCIENZA MAESTRA D’IMPRESA «Il problema è già la soluzione»

L’astrofisico Luca Perri e l’errore che può cambiare la storia «Mai sottovalutare ciò che in apparenza è poco utile perché spesso è l’elemento che ribalta il fallimento in successo»

I

l fallimento è il principale meccanismo alla base del progresso scientifico e occuparsi di scienza è un po’ come fare impresa: si definisce un obiettivo, si forma una squadra e si intraprende una strada che spesso però è disseminata di ostacoli ed errori. Può quindi diventare difficile riuscire a immaginare soluzioni alternative o cambi di percorso che conducano al successo sperato. Tuttavia, esiste una formula magica che può accomunare scienziati, artigiani e imprenditori e che serve a raggiungere gli obiettivi fissati soprattutto quando questi sembrano non essere più a portata di mano: «Lo spirito che ci deve guidare deve essere quello che trasforma i problemi in soluzioni».

A dirlo è Luca Perri, dottorando in fisica e astrofisica all’Università degli Studi dell’Insubria che si occupa di costruire e progettare strumentazioni per telescopi e che alla prima edizione di TEDxVarese ha entusiasmato il pubblico raccontando in modo non convenzionale le ricerche scientifiche più buffe che però hanno risvolti nella vita di tutti i giorni. Lanciando un messaggio di grande importanza: «Mai sottovalutare ciò che in apparenza è poco utile perché spesso è l’elemento che ribalta il fallimento in successo».

Una chiave di lettura interessante, come la applica nel suo lavoro? Prendiamo ad esempio il progetto più recente di cui faccio parte e sul quale sto strutturando la mia attività di dottorato.


ROMPERE GLI SCHEMI Mestieri che si intrecciano

«Se sbatti contro un muro, ti vien voglia di mollare, ma questa è la fase in cui capire come trovare una nuova via: ed è più facile farlo se si lavora con un team»

Siamo partiti con l’obiettivo di studiare i raggi gamma nello spazio e abbiamo aperto una nuova strada nello studio dei vulcani. Tutto parte da un tipo particolare di telescopio chiamato Cerenkov grazie al quale riusciamo a osservare la luce blu ultravioletta che viene prodotta dai raggi gamma quando vengono assorbiti nell’atmosfera. Nel 2014 con l’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Istituto Nazionale di Geologia e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia abbiamo costruito e montato uno di questi telescopi sul monte Etna ma a un certo punto ci siamo resi conto di un problema. Il telescopio infatti registrava anche la presenza di particelle chiamate muoni che sono visibili nel momento in cui il raggio gamma viene assorbito dall’atmosfera. I muoni sono un problema perché fanno rumore di fondo.

E come avete risolto?

Girando il telescopio e trasformando i muoni da problema in soluzione.

Queste particelle infatti attraversano la materia oppure vengono deviate a seconda della densità della materia stessa. Questo vuol dire che è possibile mappare la densità di grandi superfici di cui si vuole conoscere la struttura come ad esempio il nostro vulcano. E allora abbiamo realizzato che montando su alcuni cingolati questi telescopi era possibile realizzare una mappatura tridimensionale dell’Etna che può restituire informazioni sulla presenza di magma e sull’attività delle polveri con molta più precisione. E quindi è possibile ad esempio migliorare il sistema di monitoraggio del vicino aeroporto di Catania che può chiudere in tempi circoscritti e soltanto quando c’è reale necessità. Siamo partiti da uno studio astratto e siamo arrivati a una scoperta che ha una ricaduta reale e che interessa tutti, è nel bene di tutti e ci siamo riusciti anche perché a un certo punto abbiamo dovuto affrontare un problema e lo abbiamo fatto ribaltandolo in soluzione.

Qual è il metodo che vale la pena applicare per riuscire a ribaltare i problemi e i fallimenti in soluzioni?

Partiamo da una constatazione: può capitare a tutti di sbattere contro un muro e questo muro può essere anche bello grosso. La prima reazione è di dolore e in certi casi sfugge qualche imprecazione o comunque si usano espressioni poco gentili. La tentazione di lasciar stare, di abbandonare la partita è molto forte. Tuttavia, questa è la fase in cui occorre capire come trovare una nuova via e questo passa dall’analisi di

quali alternative sia possibile trovare per arginare il problema. Per risolvere il problema bisogna indagare più a fondo il problema stesso. Questo è più facile se si tratta di un lavoro in team. Saper ascoltare è fondamentale per trovare una soluzione a un ostacolo che magari rimane tale rispetto all’obiettivo primario ma diventa un elemento da poter sfruttare per raggiungere un nuovo obiettivo. Da questo punto di vista, c’è una domanda vincente che la scienza e la ricerca nel corso degli anni continuano a ripetersi ed è: «Perché non proviamo a capire se riusciamo a costruire dell’altro?».

Cito: «Nella scienza si parte dalla curiosità e si arriva a scoperte che possono avere un grande impatto nella vita di tutti i giorni e questo lo possiamo fare solo grazie all’aiuto di aziende del territorio e questo smuove anche l’economia». Vale anche a livello locale?

Certamente. Uno dei grandi gruppi con il quale collaboriamo è formato da tante aziende di piccole e medie dimensioni del territorio lombardo e che grazie al rapporto con noi riescono a sviluppare e aggiornare le loro competenze. Questo succede perché di fatto trasmettiamo expertise e know how dando un contributo ai processi innovativi aziendali. E in generale, con le competenze che sviluppano insieme a noi le aziende riescono poi a partecipare e a vincere bandi importanti per la costruzione di apparecchiature scientifiche in tutto il mondo. // David Mammano

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ROMPERE GLI SCHEMI Rivoluzioni sul confine

TANTI, MOTIVATI E ARRABBIATI Arriva l'esercito della ricerca Roberto Cingolani, numero uno dell’Istituto Italiano di Tecnologia «Opportunità enorme e trasversale. Riserverà sorprese più grandi di quelle che pensiamo adesso»

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rea pharma, servizi, informatica, Big Data, packaging. Per questi settori, ma non solo, in Lombardia è in arrivo una pioggia di opportunità, che bagnerà anche il territorio varesino e le sue imprese. A dirlo è Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia, riferendosi a Human Technopole, il polo di ricerca dedicato alla medicina predittiva

che nascerà a Milano dalle ceneri di Expo. Siamo in dirittura d’arrivo per la partenza del progetto. Già a fine anno, sull’area che ha ospitato l’Esposizione universale ci saranno i primi ricercatori che, secondo le previsioni di Cingolani, arriveranno a 1.500-1.700 quando si lavorerà a pieno regime, nel 2024 («motivati e arrabbiati, cioè con tanta voglia di fare»). Un apparato gigante, che non solo renderà Milano e la

GABRIELE NICOLUSSI

Confartigianato Imprese Varese

gabriele.nicolussi@asarva.org

«Quello che le imprese devono riuscire a sfruttare è la galassia di lavori che un apparato del genere si porta appresso»

Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia


ROMPERE GLI SCHEMI Rivoluzioni sul confine

Lombardia all’avanguardia in Europa e nel mondo, ma che rappresenta anche un immenso bacino di opportunità lavorative per tutto il territorio, dai servizi alla logistica, dalla ristorazione all’edilizia. Bisogna farsi trovare preparati. Innanzitutto è necessario capire su che settori puntare. «Secondo me – spiega Cingolani, che con l’Iit ha curato la creazione del progetto - lì vai dall’area pharma all’area servizi, dall’informatica al mondo digitale e a tutta la parte relativa agli algoritmi e ai big data. Ma non solo, anche cibo e packaging. Penso sia un’opportunità enorme, trasversale. Credo potrebbe riservare sorprese ben più grandi di quelle che pensiamo adesso. Noi abbiamo fatto il masterplan, ispirato a 3-4 esperienze mondiali grosse, poi il direttore che verrà farà il suo piano esecutivo. Però i settori sono veramente trasversali». Human Technopole sarà infatti suddiviso in sette centri: genomica oncologica, neurogenomica (per studiare le malattie neurodegenerative come Alzheimer e Parkinson), nutrizione e alimentazione, big data, scienze della vita, analisi delle decisioni (che comprende discipline come statistica, matematica e intelligenza artificiale) e nanotecnologie applicate a cibo, nutrizione, salute e medicina. Si potrebbe obiettare che molte pmi hanno poco a che spartire con questi settori. Vero, ma quello che le imprese devono riuscire a sfruttare è la galassia di lavori che un apparato del genere si porta appresso. Come si diceva prima: servizi, informatica, digitalizzazione, logistica, ristorazione, edilizia e così via.

«Quando si inizia a parlare di futuro, è già presente. Prima tra un’innovazione e l’altra, di quelle radicali, passavano 20 anni. Ci adattavamo e ci potevamo riciclare»

AZIENDA PROTAGONISTA DELL’INNOVAZIONE

Parlare con Cingolani, però, che di tecnologia ci vive, porta anche a fare una riflessione generale sul nuovo modo di fare impresa: «Adesso un’azienda deve essere digitale e avere una politica intelligente sul capitale umano, questo è ovvio. E dove possibile, essere protagonista nell’innovazione». Si pensa subito alla robotica. Ma è veramente il futuro? «Quando si inizia a parlare di futuro, è già presente. Adesso gli aeroplani atterrano da soli e noi non ci poniamo neanche il problema. Una cosa che è cambiata negli ultimi anni è il ritmo con cui le novità arrivano. Prima tra un’innovazione e l’altra, di quelle radicali, passavano 20 anni. Ci adattavamo e ci potevamo riciclare e ricondizionare. Adesso nell’arco di 2-3 anni ci sono tecnologie distruttive e facciamo sempre più fatica ad adeguarci».

PREVENIRE L’EVOLUZIONE PER RESTARE AL PASSO

Secondo Cingolani per rimanere al passo in un mondo in continua evoluzione «dobbiamo avere un cittadino sempre più educato, una scuola sempre più pronta. Dobbiamo correre per certi versi ai ripari a livello di prevenzione. Si deve iniziare dai bambini». «L’innovatore si fa a 6 anni, non si fa a 18 o a 20. Io mi sono laureato a 23. Se non facessi questo mestiere, l’ultima cosa che avrei visto risalirebbe a 30 anni fa. Il 99% delle persone vive in questo modo. Quindi bisogna investire sulle persone, a livello di divulgazione e di scuola. Ma anche noi stessi che facciamo ricerca dobbiamo offrire un po’ del nostro tempo ai professori di liceo che poi educano i nostri figli nell’aggiornamento. Si fa gratis, non è una cosa che richiede soldi. Richiede solo impegno civile».

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ROMPERE GLI SCHEMI Austerità tra mito e necessità

TASSE, CHI HA PAURA di parlare di "patrimoniale"? Carlo Milani, economista e direttore di Bem Research, va controcorrente e rilancia: «Argomento politicamente scomodo, ma dobbiamo affrontarlo». Lo dicono le cifre: giù il rapporto debito/Pil e maggiore ossigeno all'economia

NICOLA ANTONELLO Giornalista quotidiano La Prealpina

nicola.antonello.giornalista@gmail.com

P

atrimoniale: appena si ventila l’ipotesi della celebre “tassa sui ricchi”, succede di tutto. I partiti che la propongono crollano nei sondaggi e si scatena una ridda degna delle proteste dei tassisti contro Uber. Eppure, col debito pubblico sempre più alle stelle e un sistema fiscale fra i più complicati al mondo, la “patrimoniale” si sta facendo nuovamente largo come possibilità. O almeno la sostiene Carlo Milani, economista e direttore di Bem Research, start-up nel campo dei Big Data: «L’applicazione di una tassa

GETTITO TOTALE IN ITALIA:

220miliardi di euro Famiglie meno facoltose Famiglie con ricchezza mediana Famiglie molto facoltose

EFFETTO SUL RAPPORTO DEBITO/PIL:

-13%

GETTITO TOTALE

GETTITO PER FAMIGLIA

37mln

14 euro

11miliardi

4.300 euro

92,6miliardi

36.000 euro

di euro

di euro

di euro

% SU GETTITO TOTALE

0,02% 5% 42,7%

patrimoniale straordinaria soggettiva – dice l’esperto - in una misura orientativa del 5%, accompagnata da una immediata e contemporanea riduzione corrispondente della tassazione su reddito e/o consumi, potrebbe essere una soluzione interessante». E l’idea viene anche sostenuta dai numeri: «Sulla base di alcune nostre simulazioni, basate su dati micro e macroeconomici – aggiunge Milani stimiamo in circa 220 miliardi di euro il gettito derivante da un’imposta del 5% applicata sul patrimonio immobiliare e finanziario delle famiglie italiane. Osservando la distribuzione per decile di ricchezza, si rileva che per il 10% delle famiglie meno facoltose l’uscita sarebbe complessivamente di 37 milioni di euro, ovvero lo 0,02% del gettito totale per un ammontare di 14 euro medio per famiglia. Considerando invece le famiglie con una ricchezza mediana, il gettito stimato sarebbe pari a 11 miliardi, pari a 4.300 euro per nucleo. Il carico di gettito più elevato, pari a 92,6 miliardi, il 42,7% del totale, verterebbe sulle famiglie più facoltose, che dovrebbero sborsare 36mila euro per nucleo familiare. Capisco che sia un argomento delicato e politicamente difficile, perché basta citare la patrimoniale e scatta il sollevamento popolare. Tuttavia, per come l’abbiamo costruita, ha un ritorno economico per tutti, sul lungo periodo anche per chi dovrà sborsare di più».


ROMPERE GLI SCHEMI Austerità tra mito e necessità

RISPARMIARE SUGLI INTERESSI

Con tali risorse, secondo i calcoli dell’economista, si potrebbe abbattere il rapporto debito/Pil di 13 punti percentuali, portandolo al di sotto del 120%, un dato oggi lontano miglia ma che permetterebbe un risparmio sugli interessi, derivante sia dal minor stock sia del minor rischio sul debito, valutabile in circa 22 miliardi di euro all’anno. Palanche di denaro, praticamente una finanziaria all’anno. «Queste risorse potrebbero essere utilizzate, da subito, per misure quali la riduzione delle aliquote Irpef fino a 3 punti percentuali, oppure per la riduzione dell’Iva al 16-17%. Inoltre, affinché la tassa patrimoniale non si traduca in un semplice prelievo forzoso da parte dello Stato, l’intervento andrebbe inserito in un più ampio Patto fiscale con i contribuenti italiani. Tale Patto dovrebbe prevedere che i risparmi sulla spesa da interessi siano interamente e immediatamente destinati alla riduzione del carico fiscale, principalmente sui redditi e sui consumi, senza per questo interrompere la ricerca di una maggiore efficienza della spesa pubblica e la lotta all’evasione fiscale».

I CASCHI BLU DELL’ECONOMIA

A tal fine «è cruciale – conclude Milani - che la Commissione europea venga chiamata a fungere da garante del rispetto del Patto. Se fino a oggi il controllo europeo è stato visto dagli italiani come vessatorio, in questo caso il ruolo sarebbe quello di verificare – come una sorta di “caschi blu” dell’economia – che effettivamente vengano ridotte le imposte correnti pagate dai contribuenti e non si verifichino nuovamente gli sperperi del passato». Utopia o possibilità?

«Capisco che sia un argomento delicato, a rischio di sollevamento popolare, tuttavia ha un ritorno economico per tutti»

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ESPROPRIATIVA E PUNITIVA PUNTIAMO SULLE ALIQUOTE La direttrice vicaria del dipartimento di Economia dell’Insubria boccia la proposta-Milani: «Irragionevole, non porterebbe a nulla Lo Stato intervenga sulle agevolazioni e sulla spesa pubblica» «Un’imposta patrimoniale del 3-5% sul valore di mercato degli immobili o sul patrimonio mobiliare è utopistica e irragionevole, nonché espropriativa». È durissimo il commento di Maria Pierro, direttore vicario del dipartimento di Economia dell’università dell’Insubria sull’ipotesi di inserimento di una tassa patrimoniale: «Sia il patrimonio immobiliare sia quello finanziario – dice ancora la professoressa - nella migliore delle ipotesi rendono oggi, in media, il 2-2,5% del patrimonio investito, al lordo della tassazione. Il reddito prodotto non sarebbe dunque sufficiente per sostenere i tributi e finirebbe per erodere totalmente il patrimonio». Inoltre, come ben sanno imprese e cittadini le cui tasche sono storicamente “saccheggiate” dal Fisco, «in Italia sono già previsti prelievi che impattano sul patrimonio dei contribuenti che, insieme alle imposte sui redditi, garantiscono (o dovrebbero garantire se fossero pagate da tutti) un buon gettito. La più nota è l’Imu che grava sugli immobili e che, a breve, dovrebbe essere rivista in aumento. La seconda imposta con effetti sul patrimonio è quella di bollo applicata sulle attività finanziarie detenute in Italia e/o all’estero. Entrambe si aggiungono all’imposizione diretta, che colpisce i redditi prodotti dagli immobili (Irpef, se posseduti da persone fisiche o Ires da enti commerciali e non commerciali) e i redditi finanziari. Insomma, l’effetto congiunto delle imposte determina un prelievo già importante e altri interventi

impositivi sarebbero da considerare più che punitivi per il contribuente». L’analisi della professoressa Pierro si sposta quindi sulla situazione attuale: «Dobbiamo cercare di cambiare atteggiamento – afferma ancora la docente – e apprezzare gli sforzi fatti per migliorare la situazione fiscale ed economica. Dal 1990 a oggi sono molti i passi in avanti in termini di garanzie per il contribuente e di riduzione della tassazione. Un esempio: l’Irpeg era al 37% fino a pochi anni fa, oggi l’Ires è del 24%. Ricordiamoci che Giuliano Amato, presidente del Consiglio negli anni Ottanta, a causa della grave situazione economica, applicò con decreto un prelievo del 6 per mille sui depositi bancari, dalla sera alla mattina. Se fosse adottato oggi, si parlerebbe di colpo di Stato». Dove e come intervenire dunque? «Per esempio – conclude Pierro - sulle aliquote che potrebbero essere ridotte, con conseguente ampliamento degli scaglioni di reddito. E sul potenziamento delle agevolazioni per studenti, lavoratori, famiglie e terzo settore. Inoltre bisognerebbe intervenire sulla spesa pubblica, modificandone la destinazione in modo più razionale». // Nicola Antonello


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ROMPERE GLI SCHEMI Il credito che non c’è: di chi è la colpa?

«Possiamo discutere se le banche stiano facendo bene il loro lavoro, che è quello di valutare la controparte, ovvero la qualità dell’impresa e dei suoi progetti»

PICCOLO È RISCHIOSO PER LE BANCHE Ma battere le big si può Il trend dei finanziamenti penalizza le aziende di dimensioni ridotte e punta sulle industrie L’analisi (e i consigli a misura di Pmi) di Lucrezia Reichlin, docente di Economia alla London Business School e direttore non esecutivo del gruppo bancario UniCredit

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er le piccole e piccolissime imprese chiedere e ottenere un credito è ancora molto difficile. I finanziamenti delle banche finiscono per lo più nelle tasche dei big. Lo dice il Centro Studi di Confartigianato su dati Banca d’Italia. I numeri parlano chiaro. I prestiti alle aziende medio-grandi (sopra i 250 dipendenti) a febbraio 2017 sono aumentati dello 0,4%, mentre persiste il segno negativo sia per le imprese con meno di 20 dipendenti (-1,6%) sia per quelle sotto i 5 addetti (-0,6%). Un segnale che non rassicura. Ne abbiamo parlato, in occasione del

Festival dell’Economia di Trento, con Lucrezia Reichlin, economista, docente di Economia alla London Business School e direttore non esecutivo del Gruppo Bancario UniCredit.

Stando ai dati del Centro Studi di Confartigianato sembra che le banche si stiano dimenticando delle piccole imprese. Come nasce questa diffidenza? Il problema è un problema di rischio. Le banche quando concedono prestiti devono valutare il rischio della controparte e in molte aree italiane le piccole imprese sono altamente rischiose. Non si può

chiedere alle banche di fare tutto, perché prestare a imprese che poi non restituiscono i soldi che gli sono stati prestati porta ai famosi crediti deteriorati (non preforming loans, n.d.r.) che appesantiscono i bilanci delle banche e le rendono ancora più inefficaci a fare il loro lavoro, che è quello di prestare.

Non si può chiedere alle banche di fare tutto, ma chiudere definitivamente le porte alle piccole imprese rischia di essere dannoso per l’economia italiana nel suo complesso…

Uno può discutere se le banche stiano facendo bene il loro lavoro, cioè di valutare in modo


ROMPERE GLI SCHEMI Il credito che non c’è: di chi è la colpa?

Lucrezia Reichlin, economista, docente di Economia alla London Business School e direttore non esecutivo del Gruppo Bancario UniCredit

Il credito non è solo offerta, ma è domanda e offerta. Se è debole dipende dalla qualità della domanda. E anche le Pmi devono fare la loro parte. È un matrimonio, ci sono due parti, non ce n’è una sola oggettivo e intelligente la controparte, quindi la qualità dell’impresa e dei progetti che gli vengono sottoposti. Si può discuterne, e valutare se in questi anni abbiano agito bene o combinato grandi disastri. Però, in generale, il fatto che gli istituti di credito diano più prestiti alle imprese grandi piuttosto che a quelle piccole è un fatto naturale: le imprese grandi sono meno rischiose.

La realtà italiana, però, è caratterizzata soprattutto da Pmi. Non si rischia, finanziando soprattutto le grandi imprese, di guardare solo al profitto e di allontanarsi dal territorio? Pensiamo per esempio ad una grossa azienda che ottiene dei prestiti e poi decide di delocalizzare.

Al territorio Monte dei Paschi ha dato soldi a destra e a manca e abbiamo visto come è finita. Tutti protestano: le banche protestano, le imprese protestano. Bisogna analizzare quello che è successo in questi anni. Le banche locali hanno erogato prestiti molto rischiosi e hanno fatto un disastro. Se i progetti non sono buoni, se l’economia reale non funziona, i prestiti non bastano, anzi sono contro-produttivi.

Come si può uscire da questo circolo vizioso e risolvere il problema? Io credo che il punto fondamentale sia che ognuno deve fare il suo mestiere. Le imprese devono rafforzarsi, internazionalizzarsi, cercare nuovi mercati. L’Italia cresce poco, è uno dei Paesi che cresce meno al mondo. Senza l’internazionalizzazione è difficile

Non c’è crescita senza il credito È una tendenza in chiaroscuro, e lontana dalle dinamiche indispensabili a stabilizzare la ripresa, quella che emerge dal Centro Studi di Confartigianato su dati Banca d’Italia. Almeno per quanto riguarda le aziende di piccole o piccolissime dimensioni. I numeri parlano chiaro: mentre il IV trimestre 2016 ha registrato un aumento del 4,27% sul capitolo investimenti, la domanda di credito – sempre alla voce investimenti – risulta in stagnazione da dodici mesi. E il I trimestre 2017 si è chiuso con il segno meno. I prestiti alle società non finanziarie – escluse le imprese fino a cinque addetti – crescono dello 0,3%, mentre i prestiti al totale delle famiglie aumentano del 2,4%, e sono stabilmente in positivo da luglio 2015.

pensare ad una crescita dal punto di vista reale. Noi dobbiamo riuscire a conquistare nuovi mercati. Il credito non è solo offerta, ma è domanda e offerta. Se è debole dipende anche dalla qualità della domanda. E anche le Pmi devono fare la loro parte. È un matrimonio, ci sono due parti, non ce n’è una sola. // Gabriele Nicolussi

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ROMPERE GLI SCHEMI La lezione svizzera

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u quanto sia bassa l’imposizione fiscale svizzera sulle imprese rispetto a quella italiana, non si discute. Dall’unione delle imposte federali, cantonali e comunali non si supera il 21%. Niente male se pensiamo che qui, in Italia, si arriva a un salasso che oscilla tra il 64% e il 68%. Se il pagar tasse, in terra rossocrociata, non pesa – l’esborso da parte di imprenditori e cittadini viene equilibrato dalla stabilità economica, dalla garanzia della legge (quello che è certezza e diritto) e dalla sicurezza nella vita di tutti i giorni – la burocrazia è un’entità leggera che, invece di ostacolare, aiuta. Il presidente di Confartigianato Imprese Varese, Davide Galli, lo

aveva detto a chiare lettere al Congresso Provinciale del mese di maggio: «Vogliamo una burocrazia sana, perché la burocrazia regola il rapporto tra interlocutori diversi e sinergici. Ma vogliamo che la burocrazia arrivi a rinnovare se stessa, rispondendo al bisogno di rapidità ed efficacia».

LA FORZA DEL MADE IN SWISS

Un’azione decisa su tutto quello che è burocratico si aggancia direttamente ad un risparmio di costi e tempi per l’imprenditore. Così accade che in Canton Ticino, secondo quanto ci ha detto il responsabile dell’Ufficio di Lugano della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera, Fabio Franceschini, «un italiano può aprire una società di capitali in circa due settimane

e una società di persone in un giorno a patto, però, che il titolare o l’amministratore delegato sia residente nel Cantone e che da parte dell’azienda ci siano garanzie economiche e contrattuali solide». Regole di qualità ma anche poche, chiare, applicabili e applicate da tutti stanno alla base di un Paese, la Svizzera appunto, che di questa trasparenza normativa ha fatto il suo punto di forza. Ecco perché molte imprese italiane hanno accettato un compromesso che potrebbe far storcere il naso a molti. Il Made in Italy, brand riconosciuto in tutto il mondo, è entrato in competizione con il «Made in Swiss, ormai considerato fondamentale per chi vuole raggiungere velocemente non solo il Nord Europa ma anche l’Oriente».

IL TICINO BELLO E POSSIBILE La burocrazia light fa il pieno Sempre più imprese, nonostante un costo della vita molto alto, scelgono di traslocare oltreconfine Perché un Cantone di 352mila abitanti (la provincia di Varese ne conta 890mila) rischia addirittura di farci concorrenza? E cosa possiamo imparare dal modello-elvetico?

La scelta antiburocratica del Canton Ticino è una risposta efficace alla sete di competizione delle imprese, alle quali è richiesta oggi una elevata rapidità di reazione


IL CANTON TICINO IN PILLOLE

ROMPERE GLI SCHEMI La lezione svizzera

LA PRESSIONE FISCALE

16-25%

60,9%

L'IVA

ORDINARIA

ORDINARIA

RIDOTTA (beni di uso quotidiano):

RIDOTTA (servizi turistici e generi alimentari):

8%

2,5%

22% 10%

MINIMA (beni di prima necessità):

4%

IL CUNEO FISCALE

Nell’Ocse 32esima

21,8%

Nell’Ocse quinta

47,8

%

GLI STIPENDI La Svizzera è tra i Paesi con i salari più alti del mondo. Un insegnante svizzero guadagna dai

4.275 € ai € 5.131 €

In Italia lo stipendio medio di un docente si aggira tra i

1.747 € e i 2.472 €

INVESTIMENTI IN LOGISTICA

«Accade così che alcune aziende facciano una parte della produzione in Italia per poi terminarla nel Cantone: i consumer stranieri hanno paura della burocrazia italiana». A dirlo è Gianmarco Torrente della Fideconto Consulting SA di Lugano. Anche in questo caso è la snellezza delle procedure, la semplicità delle autorizzazioni, la velocità nelle decisioni e la certezza delle norme ad offrire un’opportunità in più. Se a tutto questo aggiungiamo i grossi investimenti sulla logistica, la Svizzera si sta proponendo con sempre maggiore determinazione come porta di accesso al mondo. Anche grazie ad accordi bilaterali con Paesi che se anni fa erano visti come competitor ora possono essere considerati partner commerciali. La Cina, per esempio, verso la quale viaggiano i prodotti svizzeri senza dover pagare alcun dazio in entrata. La scelta anti-burocratica

Fabio Franceschini, Camera di Commercio Italiana per la Svizzera: «Qui una Spa nasce in due settimane. Per una società individuale basta un giorno…» del Canton Ticino è una risposta efficace alla sete di competizione delle imprese, alle quali è richiesta dai mercati una rapidità di risposta spesso disattesa dall’ingombrante mole di moduli, firme e timbri. Il presidente Galli, che al Congresso provinciale aveva parlato anche secondo la sua esperienza da imprenditore nel settore meccanico, non usa mezze parole: «Chiediamo regole efficaci che non garantiscano solo poche, e antistoriche, rendite di posizione. O che non scivolino in abusi di regolamentazione. Regole che, al contrario, tutelino la libertà d’impresa, la velocità di reazione alle domande provenienti dal mercato, la flessibilità nella riconversione delle attività in un Paese che dell’impresa, oggi, ha più bisogno che mai».

RAFFORZARE I SETTORI DEBOLI

La Svizzera pensa alle imprese, e non solo alle sue. Lo dimostrano

le scelte fatte anche su settori strategici sui quali il Canton Ticino vuole investire perché debole: la meccanica e l’elettronica, la moda (Stabio si è trasformata in una Fashion Valley), tutto quello che è ricerca e sviluppo legato anche al digitale e, infine, le Scienze della vita (biotecnologie ma anche settore farmaceutico). Una nazione che vuole crescere deve saper attrarre imprese e capitali, e così fa la Svizzera. Con aiuti cantonali alle imprese estere che vanno dagli ammortamenti accelerati alla cessione gratuita di terreni per capannoni alle defiscalizzazioni fiscali dai cinque ai dieci anni. Cosa si chiede alle imprese? Di farsi un po’ svizzere. Cioè rispettose di tutte quelle regole che assicurano un diffuso benessere economico e sociale. // Davide Ielmini

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ROMPERE GLI SCHEMI Riorganizzare per migliorare

Su LinkedIn ha fatto discutere il post provocatorio di una guru della comunicazione social, Emanuela Goldoni «Basta con le tre ore di sonno a notte, meglio puntare su qualità, obiettivi, benessere e flessibilità»

In inglese la chiamano “employer branding” ed è l'attenzione al personale che diventa strumento per avere in azienda i migliori talenti

Dici smart working LEGGI BEST WORK


ROMPERE GLI SCHEMI Riorganizzare per migliorare

PAOLA PROVENZANO Giornalista

paolaprove@yahoo.it

T

utto è partito con un post su LinkedIn che metteva sotto accusa l’abitudine di postare sui social l’ennesimo caffè della giornata, mandato giù per resistere al sonno e poter così lavorare «dormendo solo tre ore a notte, come fanno i grandi manager». Questo post - visualizzato 250mila volte, consigliato 969 e seguito da 115 commenti - è stato solo una provocazione? Oppure si è trattato del racconto di uno stile di vita differente, che chiama in causa ritmi di lavoro meno frenetici, smart working, organizzazione flessibile e – perché no – un maggiore benessere in azienda e una maggiore creatività? Perché se è vero che le idee non dormiranno mai, il nostro cervello ha bisogno di riposo e spesso è proprio il riposo a generare le intuizioni migliori.

TRA IMMAGINAZIONE E REALTÀ

A firmare il post è Emanuela Goldoni: una professionista che sulla comunicazione social ha costruito la sua carriera. A 34 anni, dopo una serie di esperienze lavorative in diverse agenzie di comunicazione, ora lavora come Brand Manager in Tk Soluzioni, azienda fortemente orientata nel campo della digital transformation a suon di sviluppo di app, realtà aumentata e business intelligence. Siamo in una di quelle realtà di lavoro che l’immaginario collettivo rappresenta assolutamente performanti e che non dormono mai, con uno stile di vita che confina il riposo nella sfera delle poche ore e dove chi lascia la scrivania prima che calino le tenebre viene visto come tendenzialmente “fannullone”. Ma le cose stanno veramente così? «Questo modello si è affermato in molti luoghi di lavoro – racconta Emanuela Goldoni – Alcuni hanno criticato il mio post, soprattutto persone giovani non ancora entrate

nel mondo del lavoro o freelance». Chi invece ha apprezzato il post? «I commenti positivi sono arrivati da manager che operano nei settori delle banche, assicurazioni, agenzie di comunicazione e società di consulenza B2B».

UN TEMA SU CUI RIFLETTERE

Qui ci si addentra in un tema in realtà da sempre caldo che è quello dell’organizzazione del lavoro e della produttività, misurata dalla qualità e dal raggiungimento degli obiettivi più che dalla quantità di ore che si trascorrono alla scrivania. «Sono temi importanti – dice Emanuela Goldoni – perché il raggiungimento degli obiettivi comuni dovrebbe essere ciò che determina il ritmo del lavoro: il che significa che possono esserci anche giorni con poco sonno ed altri no e giorni in cui si lascia la scrivania alle sei di sera senza rimpianti». Una migliore organizzazione aziendale implica un migliore uso del tempo ed il tempo è per tutti un valore. «Ad essere messo in discussione è anche il mito del multitasking – osserva Emanuela Goldoni - In realtà non è vero che occorre fare molte cose insieme, semplicemente occorre essere capaci di gestire i tempi di lavoro: e lo dico in prima battuta per chi lavora nel mio ambito dove non si tratta di salvare vite. Chi si comporta come se stesse lavorando sempre sull’emergenza in realtà forse ha qualche problema nell’organizzare il suo lavoro».

IL TEMPO È BENESSERE

L’idea di fondo non riguarda solo una migliore organizzazione del lavoro: smart e slow working sono strumenti per ricavare tempo per se stessi e portano anche a un maggiore benessere nella vita del singolo spostando i tempi di lavoro in base alle esigenze personali: uscire prima dall’ufficio e rispondere poi a una mail di lavoro a tarda sera non sono comportamenti in contraddizione tra loro. «Una maggiore attenzione al benessere dei dipendenti – dice Emanuela Goldoni – accresce la reputazione di una impresa. Alcune realtà bancarie, ad esempio, valutano con attenzione questo aspetto nella scelta di un fornitore: se io so che in

«Non è vero che occorre fare molte cose insieme, bisogna solo essere capaci di gestire i tempi di lavoro: e lo dico in prima battuta per chi non salva vite...»

un’azienda si cerca di controllare lo stress e vi è attenzione al tempo e al benessere dei dipendenti, allora posso pensare che anche il lavoro sarà fatto meglio». In inglese si parla anche di employer branding ovvero di Quella attenzione al personale che diventa uno strumento per attirare alle proprie dipendenze i migliori talenti, ma che è anche una cartina di tornasole rispetto a clienti e fornitori. Insomma il post non ha voluto essere solo una provocazione, ma un modo per dire che cambiare ritmo si può e – a volte – si deve, in nome di una maggiore qualità della vita e di un ritrovato benessere che nutre anche la creatività.

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ROMPERE GLI SCHEMI Riorganizzare per migliorare

Tra imprenditori e liberi professionisti sta nascendo una nuova consapevolezza: sono sempre di più le persone disposte a investire tempo e denaro pur di lasciarsi alle spalle il paradigma “dormo poco lavoro molto e non ho tempo per affetti e salute”. A raccontarcelo, da un punto di vista privilegiato, è Gianluca Tescione, mental coach che di casi di imprenditori giovani, startupper, capitani d’azienda più avanti con gli anni, in crisi o sul punto di lasciare il lavoro ne vede e ne supporta tanti. E forse qualcosa di quello che sta accadendo vien fuori anche dalle parole di Elon Musk, amministratore delegato di Tesla, considerato uno degli imprenditori più geniali e visionari del momento. La sua giornata tipo? «Dodici ore dedicate al lavoro, sei al riposo e sei alla ricerca di una fidanzata» Gianluca Tescione

IL BELLO DEL LAVORO è dire “ho vissuto” Elon Musk, numero uno di Tesla, geniale e visionario, dedica dodici ore all’azienda, sei al riposo e sei alla ricerca di una fidanzata. E la sua impresa vola. Il mental coach Tescione: «Siamo come uno sgabello, l’equilibrio ci migliora» TRE SFERE DA RIEQUILIBRARE

«Quello che sta dicendo Musk – spiega Tescione – non è altro che la ricerca di un equilibrio che riguarda tre differenti sfere della nostra persona: sono tre “conti correnti” che noi abbiamo aperti e dove stanno rispettivamente il lavoro, la salute e gli affetti. Sono come tre pilastri: quello del lavoro, quello dell’amore e quello del benessere e della vitalità». «Ciascuno di noi – continua Tescione utilizzando una immagine molto chiara – è come uno sgabello a tre gambe: se una di queste manca oppure è più corta delle altre, allora manca l’equilibrio. Chi sceglie ad esempio solo il lavoro, finirà per avere dei problemi sul lato degli affetti o della salute».

Cosa vede nella sua esperienza di tutti i giorni? «Per chi fa il mio lavoro non è difficile trovarsi di fronte a uomini maturi di 70 anni che hanno fatto una vita in impresa e poi si guardano indietro e si accorgono di non aver vissuto, oppure vedere professionisti che ignorano i segnali di stanchezza che il corpo manda in nome di una ricerca continua della massima efficienza sul lavoro finendo per essere travolti dai problemi di salute. Occorre che ciascuno di noi trovi il suo personale modo di tenere tutto insieme ed in equilibrio – spiega Tescione – ci possono essere dei suggerimenti generali su come farlo, ad esempio gestendo meglio il tempo, ma poi le ricette vanno personalizzate a seconda delle nostre esigenze».

In altre parole non è questione di fissare un numero di ore da dedicare ad affetti, lavoro e salute: «Non si tratta di scegliere tra l’una o l’altra cosa, ma di avere del tempo per tutto e che questo tempo sia di qualità». Ed è da questo equilibrio che scaturisce anche la capacità creativa.

LA CHIAVE È LA PASSIONE

La vera cartina di tornasole e la premessa di tutto è però rappresentata da come il lavoro viene percepito e vissuto. «A non funzionare è il concetto di lavoro come fatica – spiega Tescione – La nostra occupazione deve essere guidata dalla passione, ossia da un forte interesse: solo così il lavoro ci risulterà piacevole e porterà alla nostra realizzazione». Una passione che si declina nelle diverse professioni e che per ciascuno ha caratteristiche differenti, legate a talenti e interessi personali. «Solo così ci si alza ogni mattina motivati, altrimenti il lavoro diventa una fatica. A quel punto non è questione di quanto si lavora, ma di come lo si fa». // Paola Provenzano


ROMPERE GLI SCHEMI Occupazione, inoccupazione e occupabilità

Un viaggio tra portale (Job Talent) e realtà Presentiamo, in questo numero del bimestrale, una parte dell’inchiesta condotta da Confartigianato Imprese Varese sul fenomeno dei Neet, i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano e che, secondo un’indagine Eupolis (luglio 2017), oggi rappresentano in Lombardia il 18,6% dei coetanei. Abbiamo voluto affrontare questo tema perché comprendere tutti i fenomeni legati all’occupazione, e nello specifico gli elementi di maggiore criticità, rappresenta uno sforzo indispensabile per rendere Job Talent, la nuova piattaforma di incontro della domanda e dell’offerta di lavoro, uno strumento realmente efficace per i giovani e le imprese. Ma anche per l’intero territorio della provincia di Varese.

GENERAZIONE NEET Sconfitta o nuova risorsa? Sono sempre di più, e rischiano di rimanere ai margini della società Come intervenire? L’abbiamo chiesto agli esperti, che parlano di autoimprenditorialità e messa a frutto di competenze trasversali

P

er loro il futuro è lontano, confuso, irreale. I Neet – acronimo inglese di “not (engaged) in education, employment or training” (i giovani che non studiano, non lavorano e non si formano) – sono una generazione sospesa. Chiusa in un limbo. Nel Regno Unito, quando la definizione è stata usata la prima volta nel luglio 1999 in un report della Social Exclusion Unit del governo, interessava i ragazzi compresi tra i 16 e i 24 anni. In Italia la fascia si è estesa dai 15 ai 29. Però è stata la crisi economica a dare al termine un significato più ampio. Oggi tra i Neet ci stanno i minorenni ma anche i diplomati e i laureati. Chi non studia e cerca lavoro. Chi ha cercato, ha rinunciato e resta in famiglia. Chi una famiglia non ce l’ha, vive un disagio sociale e chi, il disagio, se lo crea. Il mercato del lavoro non aiuta. Anche in provincia di Varese. E se nel 2016 il tasso di inattività nella fascia tra i 15 e i 29 anni ha registrato un calo di 4 punti, lo stesso tasso – rispetto al periodo precrisi – è aumentato di 4,8 punti. Preoccuparsi è lecito. Partendo da una domanda: cosa fare con i giovani?

METTERSI IN PROPRIO

Le Cooperative Lotta contro l’Emarginazione (Colce) e Naturart, in provincia di Varese, una risposta la danno: «Non bisogna lasciare spazio alle scuse. Tanto dei giovani quanto delle loro famiglie». E, fa sapere Manuel Battaggi dalla Colce, «i genitori dovrebbero imparare a dire “no” ai figli. Da un lato le famiglie troppo protettive, e dall’altro i giovani che pensano che qualcuno li manterrà per sempre, nel migliore dei casi portano i ragazzi all’apatia. Invece bisogna aiutarli a cavarsela da soli».

Le soluzioni possibili e praticabili non mancano: «È importante sviluppare politiche giovanili calate nella realtà: l’autoimprenditorialità, per esempio, è un’ottima risposta», prosegue Manuel. Voler fare, sapersi organizzare e «mettere in circolo le proprie competenze, anche se piccole. Non bisogna essere il migliore ma solo partire con il piede giusto».

SEMPRE PIÙ MINORENNI

Fenomeno tuttora nebuloso, quello dei Neet sta coinvolgendo sempre più minorenni. Possibilità economiche, cultura e status sociale delle famiglie contano poco: il Neet è un fenomeno trasversale che non sempre si mostra alla luce del sole. A confermare dati e tendenze di questo problema sono anche Stefano

«Molti ragazzi si buttano nell’iperattività correndo tutto il giorno pur di raccogliere qualche soldo: purtroppo, anche questa è una possibile anticamera all’ennesima frustrazione»

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Scatuzzo e Massimiliano Potenzoni, rispettivamente presidente e vicepresidente di Naturart. «Il 50% dei ragazzi tra i 18 e i 25 anni rientra nella categoria Neet», dicono. Che sono cambiati con il cambiamento della società, perché «se prima cercavano lavoro, chiedevano una collaborazione per preparare curriculum ben fatti e fissavano un obiettivo, oggi si accontentano di un lavoretto senza alcuna crescita professionale». I laureati? «Non mancano, e continuano a fare progetti pur di non fare niente».

INIZIAMO DAL TIROCINIO

Il problema è sociale, perché «allo stress psicologico generato sui ventenni dalle loro famiglie – perché non trovi lavoro? In cosa hai sbagliato? – si è sommato lo stress della perdita del lavoro da parte dei genitori negli anni della crisi: se prima del 2010 i giovani erano frustrati, dopo anche le ultime difese sono crollate», proseguono gli educatori. Così inizi a sentirti a disagio con gli amici ed esci dalla compagnia: si chiama esclusione sociale. Però gli strumenti sui quali fare leva ci sono: i tirocini ma, ancora meglio, la partita Iva. Un consiglio da Naturart: «Molti ragazzi si buttano nell’iperattività correndo tutto il giorno pur di raccogliere qualche soldino: purtroppo, anche questa è una possibile anticamera all’ennesima frustrazione». // Davide Ielmini

La persona al centro «IMPRESE, PUNTATE SUL VALORE DEL SÉ» Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra e psicanalista, prova a connettere mondo del lavoro e Neet: «Insegnare qualcosa significa trasformare la crisi in una occasione di speranza»

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e imprese dovrebbero riuscire a valorizzare non tanto ciò che si propone, cioè la fatica per un pugno di dollari, ma il valore del sé, della persona, della consapevolezza di valere qualcosa». È questa la ricetta che Gustavo Pietropolli Charmet, psicanalista e psichiatra di fama, propone per riuscire a coinvolgere i Neet. Che, a parer suo, altrimenti rischiano di rimanere irrecuperabili. «Il concetto è: sei tu che vali. Credi di non esser capace di far niente? Noi potremmo aiutarti a imparare a fare qualche cosa. Ma perché lo facciamo? Perché ci dispiace vedere sprecata la tua persona». Non è facile riuscire a coinvolgere qualcuno che per scelta ha deciso di estraniarsi dalla società, di rendersi

«

invisibile. Ma una volta che ci si entra in contatto, è necessario usare le leve giuste. «Bisogna valorizzare questi aspetti personali perché i Neet, molto spesso, sono fragili. Si sono ritirati perché sono permalosi. Le frustrazioni che hanno ricevuto, magari normali per le altre persone, per loro sono state devastanti e diventano delle ingiustizie che meritano vendette tremende. E la vendetta è quella di sparire dalla circolazione e non farsi più vedere».

IN LOMBARDIA SONO IL 18,6%

I neet in Italia sono un vero e proprio esercito e rappresentano un problema con cui fare i conti. Nella fascia 15-29 anni sono circa il 24% del totale, contro il 14% della media europea. Va un po’ meglio in Lombardia, dove il dato scende al


ROMPERE GLI SCHEMI Occupazione, inoccupazione e occupabilità

Gustavo Pietropolli Charmet

molto positivo, perché non se ne poteva più del mondo di prima: moralistico, masochistico, che disprezzava i giovani, che non aveva nessun rispetto dei bambini. Magari è giusto che sprofondi». La disillusione e l’immobilismo, spiega Pietropolli Charmet, arrivano proprio nella fascia 16-30 anni. In alcuni casi anche un semplice avvenimento (come un fallimento a scuola, in amore, in ambito lavorativo) può portare alla perdita della speranza che un futuro sia possibile. Ci si chiude in un eterno presente, fatto di riti e di giornate tutte uguali, rifiutando di guardare avanti. 18,6%. Ma stiamo parlando sempre di una fetta consistente di persone in età lavorativa. Cosa spinge un ragazzo a perdere le speranze? Come influisce su questo la crisi? Secondo Pietropolli Charmet bisogna fare delle distinzioni. «Innanzitutto non sappiamo come intenderla, questa crisi. Economica? Etica? Della speranza? Secondo me è molto importante proprio il tema della speranza, del valore della crescita e della responsabilità che ognuno ha nei confronti della propria intelligenza». E in questo la società spesso non aiuta. «Il futuro da qui a 10 anni viene presentato ai giovani e giovanissimi dalla famiglia e dalla scuola con toni apocalittici. Descrivono un mondo che non è fatto per i ragazzi, ma per i vecchi. Un mondo dove non solo non ci saranno il lavoro, la pensione, la casa, ma dove non ci sarà neanche l’aria da respirare, l’acqua da bere, le foreste».

CAMBIARE IL MONDO

Ma chi l’ha detto, poi, che le cose stiano veramente così? «Parlare di un mondo dove non si potranno avere i privilegi che hanno avuto i nonni e i padri è una bugia, una visione invidiosa degli adulti. Nessuno sa come andrà a finire. Può anche darsi che quello che stiamo vivendo sia un momento

OFFRITE L’OCCASIONE, LORO LA COGLIERANNO

Ma quanto si può continuare a vivere in questo modo? «Non credo che abbiamo i dati per sapere come andrà a finire la storia dei giovani d’oggi. Molte delle illusioni sono dure a morire. L’idea per esempio del diritto ad essere mantenuti è difficile da scardinare». Ma non è tutto perduto, non si può ragionare solo in termini negativi. «È ovvio – conclude – che il vostro ruolo (delle associazioni di categoria e delle imprese, ndr) è quello di offrire a questi ragazzi delle occasioni di crescita e di lavoro, in modo da migliorare la società». // Gabriele Nicolussi

COSTRUIAMO LE COMPETENZE per aumentare il valore sul mercato

Quando si parla di Neet, Massimo Erbetta della Cooperativa “L’Aquilone” cambia le prospettive: «Il lavoro è uno strumento della nostra vita, ma non deve interessare solo i Neet. E non si può definire Neet un ragazzo che non è inserito nel circuito formale del lavoro». Per intenderci: se un ragazzo lavora un mese e poi non lo fa per il mese seguente, le statistiche come lo considerano? Un diplomato o un laureato che ma fa parte di un’associazione giovanile o di una band, e si sta costruendo competenze trasversali o informali, è un Neet? «Non direi – prosegue il responsabile delle Politiche giovanili della cooperativa - Anzi, non avere un reddito non può qualificare un giovane, soprattutto oggi in una società nella quale i ragazzi non riescono a lavorare sull’occupazione ma sull’occupabilità. Quindi su come aumentare il loro valore sul mercato del lavoro». Collegare il pensiero all’azione, curare il rapporto con i fornitori, gestire un conto economico, capire il cliente: «Tutte queste, fatte per esempio a un festival estivo, sono attività al confine con l’imprenditorialità e aiutano a farsi esperienze e ad imparare. I ragazzi, quelli tra i 16 e i 25 anni fermi nel mondo dello studio, sono tutti Neet? I dati sono difficili da recuperare e su quanto possono essere attendibili, proprio perché questo fenomeno è volatile, bisognerebbe rifletterci», fanno sapere dalla cooperativa di Sesto Calende impegnata nei casi di disagio esistenziale.

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ROMPERE GLI SCHEMI Le nuove competenze viste dai Big Data

Matteo Fontana

Si tratta di una straordinaria macchina di analisi delle dinamiche del lavoro, delle competenze richieste nei diversi territori dietro a ogni posizione

WOLLY DIVORA IL LAVORO E lo trasforma in mappa La tecnologia ha rivoluzionato i mestieri e diventa sempre più difficile capire quali siano le competenze più utili e più richieste. La risposta arriva da una piattaforma di business intelligence creata da Tabulaex. E con un “cervello varesino”, quello di Matteo Fontana TOMASO BASSANI

Giornalista VareseNews

tomaso.bassani@varesenews.it

L

a velocità con la quale la rivoluzione tecnologica sta cambiando il mondo delle professioni e delle imprese non ha eguali nella storia. Essere un professionista o un imprenditore e voler stare sul mercato significa dover aggiornare continuamente le proprie competenze, i propri orizzonti e i processi della propria organizzazione. Farlo non è cosa semplice: non esiste uno schema, una procedura o qualcuno che dica come riuscirci. Esistono i consigli che valgono da sempre: l’importanza del

fare network, di stimolare il confronto e la collaborazione tra le ramificazioni del proprio settore, di fare formazione, di aggiornarsi e ascoltare continuamente il mercato. A complicare ancora di più il quadro è l’ecosistema di riferimento del proprio lavoro che da un lato deve rispondere sempre di più a logiche di concorrenza globale e dall’altro deve misurarsi costantemente con la realtà e le competenze espresse ad un livello territoriale locale. Per questo esistono le associazioni di categoria, le fiere, i convegni, i centri di ricerca, le università e tanti altri luoghi di confronto che aiutano a far girare le idee e a creare occasioni di incontro ad alto valore aggiunto. Ma nell’era del digitale e della rivoluzione tecnologica, forse, si può fare ricorso a qualche strumento in più.

L’INFORMAZIONE E LE DECISIONI

Anzi, a qualcosa che non è mai stato possibile fare in questa dimensione e con questa precisione per mappare e comprendere le competenze chiave richieste dal mercato del lavoro e da qui progettare nuove forme di sviluppo, formazione e produzione: la risposta arriva dall’analisi dei big data. La mole di dati oggi a disposizione su qualunque aspetto della nostra società è enorme e di pari passo, stanno andando anche la tecnologia e le competenze che permettono di estrarre informazioni utili a prendere decisioni. Esistono delle realtà che si occupano di fare questo: di realizzare una mappatura completa delle posizioni lavorative e delle competenze che esse richiedono a qualunque livello territoriale. A Varese c’è un


ROMPERE GLI SCHEMI Le nuove competenze viste dai Big Data

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professioni diverse

ingegnere informatico che se ne occupa. Si chiama Matteo Fontana, si è laureato al Politecnico di Milano e si è occupato di analisi dei dati in diverse pubbliche amministrazioni e in grandi realtà aziendali in ambito editoriale e bancario. Oggi lavora al Crisp, il centro di ricerca interuniversitario che si trova all’interno dell’Università Bicocca di Milano, dove guida il coordinamento delle attività e di progettazione nell’ambito del mercato del lavoro e della sanità.

I TREND DEL MILLENNIO

Fontana insieme al team di Tabulaex, spin-off della Bicocca, ha dato vita a Wolly, una piattaforma di business intelligence creata letteralmente per “divorare” annunci di lavoro, processarli, classificarli attraverso algoritmi di machine learning e restituire informazioni puntuali su posizioni di lavoro e competenze richieste su tutto il territorio nazionale in qualunque data a partire dal 2013. Detto così sembra qualcosa di già visto, è lo stesso procedimento che si è sempre utilizzato attraverso questionari a campione sulle aziende. C’è però una differenza e sta tutta nei numeri: Wolly, con l’insieme di algoritmi che lo costituiscono, da quando è nato si “mangia” 700mila annunci di lavoro ogni anno per un totale di quasi 4 milioni di record in banca dati. Annunci dai quali è

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mila gli annunci di lavoro

in grado di estrarre una miniera di informazioni su ogni tipo di lavoro: quando e dove è necessario, che tipo di competenze sono richieste dalle aziende per avere quella posizione, quali sono i trend delle professioni cercate dal mercato e tanto tanto di più. Andiamo con ordine: la materia grezza della quale si occupa Wolly sono gli annunci di lavoro: «Qualunque sia la loro fonte online la nostra piattaforma è in grado di immagazzinarli - racconta Fontana - Gli annunci possono arrivare da grandi portali come monster.it o infojobs.it ma anche da agenzie interinali, portali più piccoli e giù fino alla singola azienda che li pubblica sul proprio sito web».

DAL GENERALE AL PARTICOLARE

Questa è la prima fase del processo nella quale le centinaia di migliaia di annunci vengono strutturati all’interno di un database. «Il secondo passaggio è quello più cruciale - continua - Attraverso operazioni di text processing e algoritmi di machine learning tutti questi annunci vengono ripuliti fino ad identificare esattamente a quale posizione lavorativa fanno riferimento, quali competenze richiedono, dove è richiesto il posto di lavoro, in quale periodo e in quale settore». Quello che ne risulta è una mappatura minuziosa su tutto il territorio nazionale fino ad una profondità comunale.

1.276 le richieste

per agenti commerciali

Il risultato finale è una piattaforma che può rispondere a molte domande fondamentali per chi studia il mercato del lavoro. La più banale è quella che parte da un territorio: “Wolly quali sono le professioni richieste se cerco lavoro in questa zona?”. La risposta sarà l’elenco di tutte le posizioni aperte ma è solo l’inizio: “Wolly quali sono le competenze richieste a chi vuole fare questa precisa professione in questo preciso territorio che può essere la provincia di Varese?”. O ancora. “Wolly se sono in possesso di queste competenze che lavoro posso trovare e dove?”.

COME È CAMBIATA LA MIA PROFESSIONE?

Volete un esempio ancora più preciso? Wolly può rispondere anche ad una domanda di questo tipo: “Come sono cambiate negli anni le competenze richieste dalle imprese per svolgere una precisa mansione?”. Insomma, è una straordinaria macchina di analisi delle dinamiche del lavoro. Delle competenze che vengono richieste nei diversi territori dietro ad ogni posizione e, soprattutto, uno strumento importantissimo per le imprese per sapere cosa si muove intorno al proprio settore di appartenenza e ancora di più per scuole e agenzie formative per colmare il gap tra la propria offerta didattica e i reali bisogni del mondo del lavoro.

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ROMPERE GLI SCHEMI Le nuove competenze viste dai Big Data

S

candagliare il mercato del lavoro con l’aiuto dei Big Data significa costruire una panoramica puntuale delle posizioni aperte sui territori e analizzare quali competenze sono richieste per settore di appartenenza. Abbiamo visto come Wolly, lo strumento di business intelligence costruito dall’ingegnere varesino Matteo Fontana e dal suo team, si proponga di farlo divorando centinaia di migliaia di annunci di lavoro e isolando da ciascuno le informazioni necessarie a restituire una panoramica

Sempre di questi 23.045 annunci il 19% non esigono esperienza lavorativa pregressa, il 42% almeno due anni di esperienza, il 29% da 3 a 5 anni e il 6% più di 5 anni. L’approfondimento sulle skills richieste vede come indispensabile l’utilizzo di AutoCad, ma subito dopo di software come SolidWorks e Solid Edge, due programmi di progettazione, e la conoscenza di meccanica e modellazione 3D. Tra le soft skills richieste ci sono in primis inglese, autonomia sul

COSA SO FARE, DOVE LO TROVO

Il primo esempio è l’utilizzo di AutoCad, il programma di progettazione che abbiamo già incontrato tra le competenze richieste per il disegnatore industriale. Sulla base di questa competenza Wolly restituisce 17.883 annunci di lavoro per un totale di 20 professioni diverse che vanno dall’ingegnere industriale al tecnico elettronico, con la loro distribuzione territoriale e le ulteriori skills alle quali si accompagna maggiormente. Infine, Fontana fornisce una prima

Con Wolly, realizzato dall’ingegnere varesino Matteo Fontana, scandagliamo hard e soft skills in Italia e sul territorio. E, in testa ci sono sempre più professioni tecniche

200 200 MESTIERI MESTIERI DIVERSI DIVERSI A Varese c’è spazio per tutti delle competenze. E proprio Fontana ha elaborato alcuni esempi concreti, partendo da situazioni vicine a quelle degli imprenditori varesini. La prima ricerca parte dalle professioni.

COSA SERVE, COSA TI CHIEDO

E, precisamente, dal disegnatore industriale: su questa professione Wolly restituisce una richiesta sull’intero territorio nazionale, che conta 23.045 annunci di lavoro concentrati prevalentemente in Lombardia (quasi seimila), Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Il 12% delle posizioni aperte sono per un contratto a tempo indeterminato, il 36% a tempo determinato e il 52% da definire successivamente.

lavoro, problem solving, capacità di lavorare in team e creatività. L’altro focus riguarda la professione di “modellatore e tracciatore meccanico di macchine utensili”. In totale l’offerta conta 8.571 annunci di lavoro sempre concentrati su Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte. Tra le principali skills richieste emergono su tutte la programmazione Cnc, la conoscenza delle macchine utensili, con le relative certificazioni, e la capacità di lettura di disegni tecnici. La seconda ricerca parte, invece, dalle competenze per tracciare una panoramica delle richieste di lavoro nel mondo delle aziende.

analisi sulla panoramica delle competenze e delle professioni richieste dalle aziende in provincia di Varese. Ne è emerso un panorama fatto di quasi 18mila annunci di lavoro su 219 tipi di professioni diverse. Tutti posti di lavoro molto recenti perché risalenti alle ultime attività di estrazione dati di giugno 2017 che vedono in testa le richieste di agenti commerciali (1.276) seguite da conduttori di macchinari fissi, disegnatori industriali, assistenti alle vendite, addetti alla gestione degli stock, addetti allo spostamento e alla spedizione delle merci contabili generici, meccanici e carrozzieri, assemblatori di parti meccaniche e personale di ufficio. // Tomaso Bassani


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