Imprese e Territorio

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Bimestrale di informazione di Confartigianato Imprese Varese 04 - 2017

per quanto tempo è per sempre? A volte solo un secondo PROSPETTIVE TEMPORALI 5-11

TEMPO DI CAMBIAMENTI 12-25

IL TEMPO DEI GIOVANI 26-29

LE SFIDE AL TEMPO 30-34



EDITORIALE Dicono che c'è un tempo per seminare e uno che hai voglia ad aspettare Un tempo sognato che viene di notte e un altro di giorno teso come un lino a sventolare C'è un tempo negato e uno segreto Un tempo distante che è roba degli altri Un momento che era meglio partire e quella volta che noi due era meglio parlarci C'è un tempo perfetto per fare silenzio guardare il passaggio del sole d'estate e saper raccontare ai nostri bambini quando è l'ora muta delle fate C'è un giorno che ci siamo perduti come smarrire un anello in un prato e c'era tutto un programma futuro che non abbiamo avverato È tempo che sfugge, niente paura che prima o poi ci riprende Perché c'è tempo, c'è tempo c'è tempo, c'è tempo per questo mare infinito di gente (da C’è tempo - Ivano Fossati)

NON È (ANCORA) TEMPO DI INDUSTRIA 4.0

Prima riscriviamo regole e giustizia

N

on è solo tempo di Industria 4.0 e non è solo tempo d’innovazione. È tempo, questo sì, d’intervenire affinché le imprese riescano a consolidare sopravvivenza e occupazione per poter pianificare, con la serenità del naufrago in terraferma, crescita, riconversione o digitalizzazione. Scomodi, controcorrente, fuori dagli schemi e senza filtri: in occasione del congresso provinciale del 14 maggio scorso abbiamo promesso di mettere faccia e reputazione nell’assicurare alle oltre ottomila imprese di Confartigianato Varese che questa associazione non avrebbe giocato su campi comodi, non avrebbe usato parole semplici e non avrebbe sfidato avversari deboli. Questo bimestrale è lo specchio di quelle promesse, così come le nostre azioni. Per questo - mentre nel Paese si torna a discutere di occupazione giovanile, ripresa, Pil, incentivi, manovre correttive

e combinazione tra uomo e robot - chi ha sempre creduto nell’occupazione giovanile (Ife e alternanza scuolalavoro sono lì a dimostrarlo), nell’innovazione (basti l’anno di fondazione di Faberlab Tradate: 2014) e nella valorizzazione del capitale umano (VersioneBeta è, e sempre di più sarà, scuola di formazione permanente), ha più di altri il dovere di dire che non è solo tempo di Industria 4.0 e non è solo tempo d’innovazione. Interi brandelli dell’economia del Paese, e di questa provincia, rischiano l’estinzione perché flagellati da forze esogene costrittive alle quali non è più possibile concedere ossigeno e sopravvivenza: lungaggini burocratiche, sofismi normativi, credito difficile, formazione inadeguata, giustizia indolente. Questo Paese ha un’affascinante e incredibile storia economica da raccontare e l’importantissimo dovere di conservare, per tramandarla, ciò

che questa storia ha lasciato in eredità prima d’aggiungervi i nuovi capitoli 4.0. Una storia costellata da piccole e piccolissime imprese che in sé conservano ancora oggi tradizione, artigianalità, conoscenza, manualità e solidi legami con i territori che le hanno originate. Non può, l’Italia, permettere che la storia d’Industria 4.0 venga scritta sulle pagine ingiallite dall’inefficienza e dall’incapacità di sciogliere i nodi che da anni opprimono crescita e sviluppo. E che, ancora oggi, rischiano di prevalere sul buonsenso e sulla buona amministrazione che, pure, c’è e con la quale vogliamo interloquire. Ricominciamo, dunque. Ricominciamo da regole certe, giustizia rapida e burocrazia snella. Non perdiamo tempo o non sarà mai, davvero, il tempo di scrivere la storia di Industria 4.0. Sara Bartolini Confartigianato Imprese Varese sara.bartolini@asarva.org

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sommario

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IL CORAGGIO DELLA LEGALITÀ La forza delle imprese

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Editoriale / 1

COSA RESTA DI QUESTI (DIECI) ANNI DI CRISI? Quando il mondo scoprì Lehman Brothers

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Dall'alba al tramonto?

GUARDARE AVANTI per andare davvero avanti

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La riflessione di Marco Dal Fior

ARRIVANO LE MACCHINE delle possibilità

8

L'analisi di Michele Mancino

Gli approfondimenti – anche video – ai temi trattati nel bimestrale si possono trovare sul sito

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Tutti gli aggiornamenti sono inoltre disponibili sui nostri social

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L’efficienza è fare le cose nel modo giusto, l’efficacia è fare le cose giuste Peter Drucker, padre della scienza del management, consigliere dei Ceo di General Electric, della General Motors, della Ford, dell’HP, della Johnson&Johnson, della Merck e della Motorola

riflettiamoci su

L'uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto, è libero. L'uomo che lotta per ciò che ritiene giusto, è libero Ignazio Silone La semplicità non è solo una qualità che induce a un’appassionata lealtà nei confronti del design di un prodotto, ma è anche uno strumento strategico chiave attraverso cui le imprese possono confrontare le loro intrinseche complessità John Maeda, “Le leggi della semplicità” Negli ultimi otto anni la mia vita è stata solo Uber. Alcuni fatti recenti mi hanno ricordato che le persone sono più importanti del lavoro: ho bisogno di prendermi del tempo per riflettere, lavorare su me stesso e concentrarmi su come costruire una leadership di alto livello. Se vogliamo una Uber 2.0, devo diventare un Travis 2.0 Travis Kalanick, co-fondatore e AD di Uber

LUGLIO-SETTEMBRE 2017

RIPRENDIAMOCI IL TEMPO Riprendiamoci la Vita

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Alla ricerca del tempo rubato

QUANDO IL SUCCESSO è un "fattore mobile”

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Riorganizzare il lavoro/1

PIÙ LIBERI DA SOLI Più forti in squadra

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Organizzare la flessibilità

CHI RINVIA È PERDUTO Scocca l’ora della puntualità

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Il domani che non c’è

NON CHIAMATELO FUTURO È già pane (e affare) quotidiano

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Orgoglio e pregiudizio (dei piccoli)

IL FIUTO DEI GIORNI NOSTRI è il Big Data del non ritorno

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Orgoglio e pregiudizio (dei piccoli)

SALVATE IL SOLDATO MARKETING Social e tradizione fanno team

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Cosa salvare del passato

DA START-UP A SCALE-UP Con le 4 A dell’innovazione

26

Accelerare i cambiamenti

SE L’UNDER 29 È AI MARGINI ci rimettono economia e Paese

28

Giovani e lavoro: conto alla rovescia

LA TERRA CHE HA VOGLIA D’IMPRESA rischia di diventare deserto

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Scadenze d’autunno

IL FINTECH? NERD IN T-SHIRT E FONDI DI VENTURE

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Nuova finanza in vista

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Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002

INVIATO IN OMAGGIO AGLI ASSOCIATI ED ENTI VARI

Caporedattore Davide Ielmini,

Direttore Responsabile Mauro Colombo Presidente Davide Galli

Impaginazione Geo Editoriale www.geoeditoriale.it

Stampa Litografia Valli Tiratura, 11.530 copie Chiuso il 25 settembre 2017

Interventi e contributi: N. Antonello, T. Bassani, F. Cancellato, M. Dal Fior, D. Ielmini, M. Inzaghi, M. Mancino, E. Marletta, G. Nicolussi, P. Provenzano

Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


QUESTIONE DI TEMPI Dall'alba al tramonto?

COSA RESTA DI QUESTI (DIECI) ANNI DI CRISI?

Quando il mondo scoprì Lehman Brothers di Francesco Cancellato Direttore Linkiesta*

E

ra un venerdì, il 15 settembre del 2008, il giorno in cui Lehman Brothers dichiarò fallimento (…). Curiosamente, il possibile crac della più grande banca d’affari del mondo era un riquadro in prima sul Corriere della Sera, e poco altro altrove. Nessuno immaginava di trovarsi nell’ultimo giorno di luce prima di una notte lunga dieci anni (…). Forti di esperienze pregresse, non cadremo nel medesimo errore (…) perché, forse, ha più senso volgere le spalle ai nove anni trascorsi dal fallimento di Lehman, tempo abbastanza lungo per raccontare come siamo cambiati mentre percorrevamo il tunnel (o lo arredavamo, dipende dai punti di vista). Spoiler. Non siamo morti. Siamo cambiati, questo sì. È cambiato il contesto di mercato, che si è fatto più difficile e più rischioso. Sono cambiati i punti di riferimento su cui le imprese potevano contare per competere, dalle banche alle fiere, dalle istituzioni pubbliche alle stesse associazioni di rappresentanza. Sono cambiate le tecnologie e i grandi player di riferimento, che allora si chiamavano HSBC, McDonald’s, Nestlé, Toyota e Walt Disney e che oggi sono state sostituiti da Industrial and Commercial Bank of China, China Construction Bank, Agricoltural Bank of China, Bank of China ed Apple. Non siamo morti, dicevamo. Ma qualcosa sul terreno è rimasto, in quella che gli economisti definiscono double dip recession, doppia recessione (2008-09 e 2011-12). In dieci anni sono scomparse oltre 20 mila imprese artigiane lombarde. Quasi otto ogni cento. Ben più d’una ogni venti. Tra loro, a patire maggiormente i colpi della crisi sono state le imprese manifatturiere e di costruzioni

(…). Oggi, al posto di gru, cazzuole e betoniere, sono arrivati cibo, computer e manutenzioni (…). Altro grande cambiamento: con la crisi siamo diventati meno consumisti e preferiamo riparare anziché comprare. Se compriamo, tuttavia, ci piace farlo online. Nell’arco di dieci anni, la quota degli acquirenti online in Lombardia è passata dal 16,1% del 2006 al 34,3% del 2016. Una mutazione antropologica più che tecnologica - tutt’ora in atto - che ha cambiato il paesaggio, le interazioni sociali tra venditore e acquirente, il processo stesso di acquisto, oggi sempre più fondato sulla reputazione del prodotto nelle piattaforme d’acquisto anziché sulla pubblicità tradizionale (…). Dieci anni fa di e-commerce in Lombardia non c’era pressoché traccia. A metà del traguardo, nel 2012, erano già sei su dieci le imprese che usavano internet per vendere i loro prodotti e servizi e nel 2016 la quota lambiva ormai il 10%. Non solo: se tra le buone notizie di questi mesi c’è la quota crescente (67,7%) di imprenditori che hanno in mente di investire tra oggi e la fine del 2018, sette su dieci tra loro hanno in programma di spendere i loro soldi in strumenti e attrezzature digitali. La rivoluzione (digitale) è in corso, insomma, ma è un po’ diversa da come ce la immaginavamo - o la temevamo qualche anno fa. Una decina di anni fa era senso comune pensare che il lavoro autonomo di seconda generazione avrebbe fatto strame delle professioni più tradizionali, che un parrucchiere o un impiantista o un panettiere non avrebbero mai potuto innovare la loro professione, che i giovani avrebbero abbandonato questi vecchi mestieri al loro destino, preferendo l’ipermodernità di nuove professioni che promettevano guadagni a sei zeri. Artigiani? No grazie, chiamateci startupper. E invece - sorpresa! - nel 2017 troviamo un sacco di under 35 alla guida di imprese artigiane tradizionali, dagli impiantisti ai parrucchieri, soprattutto in

un contesto di passaggio generazionale interno alla famiglia. Una transizione, questa, che si è inserita nel solco della riscoperta del lavoro manuale e dei processi come elemento di storytelling del prodotto o del servizio che si è innestata con la parallela ascesa del movimento dei makers e della diffusione di stampanti 3d e macchine affini, tecnologie abilitanti che possono rivoluzionare un ecosistema economico come fiammiferi in una foresta. Una crasi, questa, che ha come origine il bisogno di rispondere a una crescente domanda di personalizzazione del prodotto o del servizio e come conseguenza la riscoperta di ciò che è artigiano - aggettivo, non più sostantivo come fattore competitivo chiave per lo sviluppo. Se ieri si innovava guardando esclusivamente al futuro, oggi l’innovazione guarda anche al passato, alla sfida di innovare produzioni e settori che sembravano ormai sepolti dalla Storia. Benvenuta crisi, almeno per questo. (…) Mettiamola così, però: in questi dieci anni più che mai, l’artigianato si è emancipato dallo stereotipo di una professione senza titoli di studio, di una carriera percorsa solo da chi aveva voglia di lavorare, anziché di studiare (…). Quel che è ancora più interessante, peraltro, è che questa nuova generazione di micro e piccoli imprenditori ha imprese più internazionalizzate e più digitalizzate. (…) Al pari delle crisi di Alitalia, però, ci sono cose che in dieci anni non sono cambiate. Se è cresciuta la qualità delle imprese, quella del governo e delle istituzioni è rimasta bassina (...). (…) Lo stesso vale per le banche. Hai voglia a dire che il mercato è più ampio, le imprese più solide (…). Tra marzo 2012 e marzo 2017 mancano all’appello due miliardi di prestiti bancari all’artigianato lombardo. Può accadere tutto quel che vogliamo, ma senza quei soldi che prima c’erano e ora non ci sono più, la notte sarà sempre quasi finita, e l’alba quasi arrivata.

* Dal tramonto all'alba (o quasi) – abstract – Fonte: Rapporto 2017 artigianato e piccole imprese

Il testo completo sul sito www.asarva.org

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QUESTIONE DI TEMPI La riflessione di Marco Dal Fior

GUARDARE AVANTI per andare davvero avanti Ne parlano filosofi, scienziati, climatologi e teologi. Ma, cos’è, davvero, il tempo? Una convenzione soggetta al mutare delle condizioni. E il paradosso da affrontare per il mestiere dell’artigiano

P

erfino Agostino d’Ippona, che grazie alle sue conoscenze di filosofia e teologia viene ricordato non solo come dottore e santo della Chiesa cattolica, ma anche come in assoluto uno dei più grandi geni dell’umanità, perfino Agostino, se gli chiedevi del tempo, andava un po’ in confusione. Non di quello meteorologico, s’intende. Ma di quel fluire di attimi che trasforma il prima in poi, passando per l’adesso. Se dunque perfino Sant’Agostino scriveva che "se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so", evidentemente il concetto va al di là del semplice quadrante dell’orologio. È l’immagine mobile dell’eternità, come sosteneva Platone, o solo una convenzione che ci permette di misurare gli istanti della nostra vita?

La mutabilità del minuto

Che il tempo, con buona pace dei fisici e degli orologiai svizzeri, non sia un dato immutabile è una verità che tutti sperimentiamo quotidianamente. I minuti passati in coda in autostrada sono molto più lunghi di quelli gustati all’arrivo in spiaggia. Quelli trascorsi in attesa del tale che non si presenta puntuale all’appuntamento scorrono lentissimi, quasi fermi rispetto a quelli, velocissimi, quando ad essere in ritardo sei tu. Hai voglia a dire che sempre di sessanta secondi si tratta. Non è così.

Di generazione in generazione

Pur regolato da rigide leggi scientifiche, il tempo resta sempre

una convenzione. Accettata quasi universalmente, ma allo stesso tempo soggetta al mutare delle condizioni sociali ed economiche. Le giornate dei nostri bisnonni erano molto più lente e quindi più lunghe di quelle attuali. I loro anni, le loro vite, erano scandite dal ritmo delle stagioni. A San Martino si finiva di lavorare nei campi, dopo il falò di sant’Antonio si ricominciava. Andare in un'altra città, per lavoro o per svago, era praticamente un’impresa. Occorrevano ore oppure giornate intere di viaggio. La sveglia la davano il sole che si alzava e il gallo che gorgheggiava nel pollaio. Se voleva parlare con Caio, il signor

Oggi tutto è in real time. E se una pausa, un’esitazione o, non sia mai, un impedimento fanno slittare di qualche minuto la risposta, apriti cielo


QUESTIONE DI TEMPI La riflessione di Marco Dal Fior

Un conto è utilizzare lo scorrere dei minuti per pensare, migliorare, adeguare, crescere. Un altro è buttare via il tempo

Tizio doveva affrontarlo faccia a faccia. Le notizie da una valle all’altra arrivavano a dorso dei muli, con il postino o con la comare pettegola.

Il ritmo della pazienza

Era un ritmo cadenzato dalla realtà contadina, che della pazienza ha sempre fatto una virtù. Perché potevi darti da fare finché volevi, ma le mele maturavano sempre in autunno e il grano si offriva alla falce sempre e solo a giugno. Oggi abbiamo imparato, grazie alla tecnologia, a domare la natura e le sue leggi. Le mele le facciamo maturare quando ci servono, il grano lo importiamo in modo che la trebbiatrice sia sempre in movimento da qualche parte nel mondo. Le telecomunicazioni hanno ridotto le distanze, Internet e i social le hanno annullate. Fai quasi prima a volare a Londra, passando da Malpensa, che ad andare a Bormio, Pedemontana o non Pedemontana. Dalla Patagonia puoi parlare tranquillamente con la zia Mariuccia

che è rimasta a Varese e vederla sullo schermo del tuo smartphone come se fosse nella stanza accanto.

Le distanze (e le ansie) del nuovo millennio

La nostra civiltà, annullando le distanze ha in parte modificato anche il tempo. Oggi tutto è in real time. E se una pausa, un’esitazione o, non sia mai, un impedimento qualsiasi fanno slittare di qualche minuto la risposta, apriti cielo. I telegrammi – fino alla scorsa generazione il metodo più usato per far arrivare al destinatario notizie urgenti – sono reperti archeologici. Oggi comunicazioni via sms, email e whatsapp sono più veloci e pure gratis. E siccome la velocità altro non è che lo spazio percorso in un certo lasso di tempo, ecco che bisogna ridurre al minimo ogni ritardo per stare al passo con i ritmi della civiltà dei gigabyte.

Siamo uomini e resteremo uomini

É in questo paradosso che vivono gli

artigiani di oggi, schiacciati tra una società che vuole tutto e subito e un mestiere, una sapienza, una cultura che richiedono tempo, attenzione, dedizione. L’uomo non è un computer. E secondo qualcuno questo potrebbe anche essere un difetto. Ma lo sarà solo quando un cervello elettronico sarà in grado di dipingere dal nulla la Cappella Sistina, comporre la Quinta Sinfonia o anche solo dire “ti amo” senza ripetere una frase registrata. Attenzione però: saper riconoscere la necessità di un tempo adeguato, riappropriarsi dei ritmi della propria vita e del proprio lavoro non è, e non deve essere, un alibi. Con il real time occorre – lo si voglia o no – confrontarsi. Perché un conto è utilizzare lo scorrere dei minuti per pensare, migliorare, adeguare, crescere. Un altro è buttare via il tempo, rimpiangendo quello andato in una specie di rassegnazione passiva. Non è guardando indietro che si va avanti. Nel lavoro come nella vita.

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QUESTIONE DI TEMPI L'analisi

ARRIVANO LE MACCHINE delle possibilità Le nuove tecnologie hanno modificato la dimensione reale di spazio e tempo, non la semplice percezione o immagine che ne ha l’uomo Un cambiamento che ha ripercussioni in ogni ambito della nostra vita

MICHELE MANCINO

Vicedirettore di VareseNews

michele.mancino@varesenews.it

O

gni volta che Albert Einstein incontrava i giornalisti gli veniva chiesto di spiegare in parole semplici quale fosse il senso delle sue teorie dai nomi piuttosto insondabili. Rispondere a quella domanda - cioè che cosa significassero relatività speciale e relatività generale - non era per niente facile nemmeno per il padre di quelle teorie. Einstein, forse stanco di sentire sempre la stessa domanda, una volta rispose così: «Prima si credeva che se ogni cosa sparisse dal mondo, sarebbero comunque rimasti lo spazio e il tempo. Dopo la teoria della relatività, con le cose che dovrebbero scomparire ci sarebbero anche lo spazio e il tempo». Einstein considerava dunque lo spazio, il tempo e la materia strettamente legati tra loro, tre grandezze che non possono essere considerate isolatamente ma sempre in relazione.

Non cambia solo il concetto

Anche quando si parla di Internet e della rete più in generale si dice spesso che i concetti di spazio e tempo sono stati cancellati o profondamente

modificati, quale effetto principale dell’avvento del virtuale e la conseguente smaterializzazione degli oggetti. Secondo il filosofo dei media Pierre Levy, internet non cambia il concetto dello spazio e del tempo, ma cambia esattamente lo spazio e il tempo. La differenza sottolineata dallo studioso francese è importante perché i significati relativi alle due grandezze sono rimasti gli stessi. Ciò che le nuove tecnologie hanno invece modificato è la loro dimensione reale, non la semplice percezione o immagine che ne ha l’uomo. Si tratta di un cambiamento che ha evidenti ripercussioni in ogni ambito della vita, compresi il lavoro, la sua organizzazione e gli spazi ad esso dedicati. Quando sentiamo parlare di smart working, smart factory, fabbrica intelligente, fabbrica 4.0 e coworking, siamo di fronte a tipologie che rimandano direttamente alla modificazione del tempo e dello spazio nel mondo del lavoro e della produzione di beni e servizi.

Si produce dove si consuma

Gli smart workers, per esempio, non fanno riferimento a un luogo preciso di lavoro, hanno un datore di lavoro

ma non esercita tradizionalmente il controllo e i relativi obblighi sul lavoratore perché non è presente nel momento in cui esso produce. Il coworker condivide uno spazio fisico e i servizi con altri lavoratori, ma rimane indipendente nel proprio lavoro, senza vincoli di tempo e orari. Nella fabbrica 4.0 spesso le mura sono virtuali e lo spazio fisico, quando c’è, è completamente ridisegnato in base alla stretta connessione tra macchine e robot intelligenti, produzione additiva e nuovi materiali, una triade supportata dai big data (grandi archivi di informazioni) e dall’Iot (internet delle cose). Si produrrà dove si consuma e si farà viaggiare la conoscenza, non i prodotti. E la velocità, cioè il tempo impiegato per fare tutto questo, sarà determinante per creare un vantaggio competitivo.I nuovi tempi e i nuovi spazi del lavoro e della produzione mettono dunque in crisi tutti gli assetti preesistenti e allo stesso tempo l’intelligenza artificiale agita e preoccupa sempre di più perché alla base c’è la convinzione che in qualche modo ruberà il lavoro agli uomini.

Da fantascienza a realtà

L’ingresso dell’Intelligenza artificiale nello spazio lavorativo è però

La soluzione non è competere contro i robot, bensì competere insieme ai robot con l’aiuto di tutto ciò che prima non esisteva


QUESTIONE DI TEMPI L'analisi

ormai una realtà. Robot sempre più collaborativi e autonomi sono in grado di fare di tutto, anche svolgere funzioni complesse come, per esempio, guidare un’auto, fare diagnosi mediche, dialogare con le persone in carne e ossa nei servizi on line. Non sempre hanno le sembianze di umanoidi, ma nella sostanza fanno lavori che finora spettavano agli esseri umani. Questo non deve portare a credere che, in una fase di riorganizzazione profonda dell’economia come quella che stiamo attraversando, per i lavoratori la soluzione sia competere contro i robot, bensì competere insieme ai robot con l’aiuto delle tecnologie. Può essere utile, per aiutare a superare le paure di questa fase, citare un passaggio del discorso “Il mondo che nasce” che Adriano Olivetti tenne in occasione della presentazione alle autorità del calcolatore Elea, il primo computer prodotto industrialmente. «Una macchina seppure tanto diversa dalle altre che la nostra industria ha prodotto nella sua semisecolare esistenza, è come quelle create dall’uomo per servire l’uomo, per liberarlo, col frutto della sua stessa fatica, dall’antica fatica di alcune più dure e inerti prove, per dargli altro campo d’affermare la sua vocazione di costruttore: per suscitare infine - con strumenti e obiettivi nuovi - nuove, più degne e suggestive possibilità di lavoro».

In questo nuovo mondo viaggerà la conoscenza, non i prodotti E la velocità sarà determinante per creare un vantaggio

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QUESTIONE DI TEMPI Alla ricerca del tempo rubato

Come in una sceneggiatura surreale, burocrazia, iter complessi e inutili sottraggono energie alla produzione e all’innovazione: è questo il tempo che siamo disposti a togliere ancora alle imprese?

RIPRENDIAMOCI IL TEMPO Riprendiamoci la Vita In un futuro imprecisato il tempo è l’unica valuta rimasta: i ricchi ne hanno a bizzeffe, campano migliaia di anni e pagano i propri dipendenti con stipendi temporali: vale a dire, giorni di vita

In time, di Andrew Niccol, con Justin Timberlake e Amanda Seyfried The Truman Show, di Peter Weir con Jim Carrey

MATTEO INZAGHI Direttore Rete55

matteo.inzaghi@rete55.net

S

chiacciati da iter e scartoffie che solo una diabolica mente kafkiana potrebbe immaginare, gli imprenditori invocano da anni una via d’uscita che garantisca i giusti controlli, punisca i trasgressori, ma consenta a chi quotidianamente si misura col mercato di non morire di troppa burocrazia. Riecheggia, nei pressi di Confartigianato, il grido di dolore di Davide Galli, allibito dai mesi trascorsi e dalle firme apposte per acquistare un comune macchinario. Il tempo è denaro, dicevano i nostri nonni. Ma è anche e soprattutto Vita. Che senso ha, per chi fa impresa piccola e piccolissima, quindi senza un ufficio preposto alla gestione delle


QUESTIONE DI TEMPI Alla ricerca del tempo rubato

Mode, fenomeni, archetipi condizionano l’immaginario collettivo, finendo per piegare i nostri orizzonti, limitare le scelte, assuefare il nostro subconscio pachidermiche prescrizioni stataliregionali-fiscali o che dir si voglia – spendere una fetta di giornata dietro ad incombenze che nulla hanno a che fare col cuore della propria attività? Che speranza c’è di poter competere, se una parte delle energie finisce per alimentare un corpaccione vorace e, per definizione, improduttivo?

Gli stipendi temporali

Viene in mente un film, IN TIME, di Andrew Niccol. In un futuro imprecisato il tempo è l’unica valuta rimasta. I ricchi ne hanno a bizzeffe, campano migliaia di anni e pagano i propri dipendenti con stipendi temporali: vale a dire, giorni di vita. Quando la riserva si azzera, il malcapitato finisce stecchito. Inutile dire che la classe meno abbiente, di tempo, ne ha pochissimo. E c’è addirittura chi il tempo lo ruba, lo spaccia, lo vende sul mercato nero. L’autore, Niccol, è lo stesso che sceneggiò Truman Show, profetizzando l’avvento di reality show sempre più pervasivi e sovrapponibili a una visione malata, patinata e falsificata

dell’esistenza. E che diresse Gattaca e Lord of War: il primo su un futuro in cui solo i più belli, freddi, geniali e prestanti hanno accesso al pianeta della felicità. Il secondo sul traffico di armi, orchestrato dagli stessi che dicono di combatterlo.

I nemici-compagni di viaggio

Un artista tosto, insomma: capace di rendere popolare, accessibile e commercializzabile riflessioni complesse e necessarie, che coinvolgono tutti noi, dal primo all’ultimo. Perché i nemici che le sue opere immortalano non sono mostri alieni né serial killer. Sono compagni di viaggio. Orpelli di una quotidianità cui non riusciamo più a rinunciare. Mode, fenomeni, archetipi che, piaccia o no, condizionano profondamente l’immaginario collettivo, anche il più smaliziato, finendo per piegare i Gattaca, di Andrew Niccol, con Ethan Hawke, Uma Thurman e Jude Law

Lord of War, di Andrew Niccol, con Nicolas Cage

nostri orizzonti, limitare le nostre scelte, assuefare il nostro subconscio. Questo vale anche per la ricchezza in generale e l’impresa in particolare. E per un dibattito, a volte surreale, che per giustificare l’esistenza di chi lo anima mette in campo di tutto: lo spettro dell’atomica e il rischio dell’embargo; la mano dell’Europa e i punti di Pil; le alleanze incrociate e gli invasori famelici e persino untori. Basterebbe ammettere che alle generazioni, vecchie e soprattutto nuove, stanno rubando il tempo.

Amare, studiare e costruire

Costringendo i capitani di oggi e i timonieri di domani, a spostare gli scatoloni della stiva, mentre il loro battello procede, spedito e ingovernato, verso gli scogli di un’isola che altri hanno già bell’e dribblato. Basterebbe dire che le ore meglio spese sono quelle trascorse ad amare, a studiare, a costruire qualcosa. E che ogni incombenza sottratta al lavoro certifica l’inconsistenza di qualunque annuncio, programma, promessa pre e post elettorale. Basterebbe, insomma, comprendere che è il macchinario faticosamente acquistato dall’azienda Galli a cibare l’artefice della scartoffia. Non viceversa.

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QUESTIONE DI TEMPI Riorganizzare il lavoro/1

QUANDO IL SUCCESSO è un "fattore mobile” Operiamo in ambienti connessi nei quali è possibile accedere in ogni momento, e ovunque, a un elevato numero di dati La capacità di adattarsi a questo scenario va di pari passo con la possibilità di agire in modo più semplice e veloce

DAVID MAMMANO

Giornalista VareseNews

david.mammano@gmail.com

C

osa significa “posto di lavoro”? Una ricerca su Google Italia restituisce più di 36 milioni di risultati. Probabilmente, questa espressione evoca immagini differenti a seconda della generazione di appartenenza: una scrivania e un telefono con i fili per i baby boomers e la generazione X; uno spazio di coworking e uno smartphone per i Millennials e la generazione Z, che entrerà nel mondo del lavoro nei prossimi anni. Il digitale e le tecnologie hanno determinato una trasformazione delle abitudini e del concetto stesso di lavoro. Tant’è che oggi non è più inusuale, nemmeno in Italia, parlare di “smart working” e “mobile working”. Anche su questo, Google ci torna nuovamente utile: l’interesse per l’espressione “smart working”, che indica quella modalità di lavoro che slega la produttività dal luogo in cui viene realizzata, nel nostro paese è cresciuto costantemente nel corso dell’ultimo anno con un picco nei mesi di aprile e maggio, in corrispondenza dei quali il Parlamento italiano regolamentava, per la prima volta, questa nuova modalità di configurazione del rapporto lavorativo.

Il coinvolgimento alza la performance

Si sbaglierebbe tuttavia a pensare che “smart working” e “mobile working” siano espressioni che indicano semplicemente un nuovo modo di intrattenere un rapporto lavorativo. In realtà, si tratta di un nuovo approccio, in primo luogo culturale e che ha il digitale come propulsore, che coinvolge gli individui e le organizzazioni in un processo di re-immaginazione delle strategie sul posto di lavoro, per centrare l’obiettivo di un miglior successo oggi sempre più determinato dalla relazione tra il grado di coinvolgimento delle persone e il livello di performance. Nell’attuale ecosistema digitale, il posto di lavoro è un ambiente sempre connesso nel quale è possibile accedere in ogni momento e ovunque a un elevato numero di dati e informazioni. Allo stesso tempo, questo ambiente stimola la collaborazione e il coinvolgimento dei lavoratori attraverso interfacce sempre più facili e immediate da utilizzare. La capacità di un’organizzazione di adattarsi a questo scenario mutevole va di pari passo con lo sviluppo di una cultura del lavoro che dà importanza agli strumenti di collaborazione e di produttività comune per riuscire a lavorare in modo più semplice e veloce.

La flessibilità batte l’auto aziendale

In tutto questo, le tecnologie diventano sempre più compresse e portatili e lo smart worker è sempre più mobile worker: usa il telefono per leggere le mail e aggiornare il calendario delle riunioni; elabora numeri e compila documenti attraverso il tablet e organizza il lavoro del suo team attraverso app come Slack o Avada. Secondo Idc, il primo gruppo mondiale specializzato in ricerche di mercato, consulenza e organizzazione di eventi in ambito IT e Tlc, i mobile workers italiani passeranno dai 9,9 milioni del 2015 ai 18,6 milioni nel 2020. Questo avrà un impatto sempre maggiore nel modo in


QUESTIONE DI TEMPI Riorganizzare il lavoro/2

cui le aziende, siano esse piccole, medie o grandi, investiranno risorse in ambienti e strumenti di produttività. Secondo una ricerca svolta su un campione di 1.500 lavoratori europei nel 2016 da BT, uno dei principali provider mondiali di soluzioni di comunicazione, il 67% degli impiegati considera la flessibilità e la tecnologia per poter lavorare fuori dall’ambiente d’ufficio più importanti dell’auto aziendale. E il 73% di loro vorrebbe che la propria azienda investisse in tecnologie mobili piuttosto che in tecnologia per gli uffici. Questi lavoratori considerano più facile lavorare in mobilità perché si aspettano di ottenere sempre di più dai loro dispositivi portatili e mobile.

Tecnologia strategica per il business

La qualità dei device e il livello di assorbimento di queste tecnologie da parte delle organizzazioni diventano determinanti nello stabilire il livello di produttività e buon funzionamento dell’organizzazione stessa. Un’indagine che ha coinvolto più di 500 Pmi europee condotta da Aruba ha evidenziato come il 66% creda che l’ottimizzazione del cloud, delle applicazioni e dei dispositivi mobile sia una priorità strategica per il proprio business. Evidenziando che la principale preoccupazione derivante dal mobile working è legata alla sicurezza dei dati.

Intelligenza artificiale

A chi non vuole prendere atto di queste trasformazioni converrà cambiare in fretta idea e atteggiamento. Il prossimo passo evolutivo è infatti già alle porte, con le principali tech companies (Microsoft, Alphabet, Facebook) che cominciano ad aggiornare le proprie visioni aziendali e sostituiscono all’interno dei documenti strategici la parola “mobile” con l’espressione “Intelligenza artificiale”.

I mobile workers saranno 18,6 milioni nel 2020 e questo avrà un impatto nel modo in cui le aziende investiranno in ambienti e strumenti di produttività

L'ACCELERATORE DI RISULTATI È IL NUOVO "PENSIERO TOUCH" Cristiano Carriero, docente e autore del volume “Mobile working” e le app che mandano in soffitta i vecchi schemi: «Il segreto è diventare bravi e allenati a lavorare in situazioni non standard»

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allo smart working al mobile working il cambio di passo è puramente culturale. Tuttavia, pensare “mobile” è profondamente diverso dal saper utilizzare bene lo smartphone, come precisa Cristiano Carriero, docente di marketing, storyteller e autore del libro “Mobile working. Lavorare ovunque in modo semplice e produttivo”, edito da Hoepli. Lavorare oggi vuol dire relazionarsi per una buona parte del proprio tempo con device, siano essi fissi o mobili. Allo stesso tempo, nelle nostre tasche e nelle nostre mani abbiamo dispositivi sempre più potenti che incentivano ad abbandonare sempre di più gli schermi fissi in favore di schermi touch o addirittura di assistenti vocali. L’organizzazione del lavoro diventa quindi un’attività sempre più flessibile e le parole chiave che accompagnano questo nuovo “pensiero mobile” sono almeno tre: ottimizzazione del tempo, rivoluzione degli spazi e responsabilità personale.

Che cosa vuol dire di preciso “pensiero mobile”?

Bisogna dire innanzitutto questo: non si tratta di smart working. A volte le due dimensioni vengono confuse e assimilate. “Mobile working” non è il semplice lavorare da casa e non è nemmeno l’idea di trasferirsi a Bali o in Thailandia e lavorare da lì. Si tratta di una quotidianità e di un esercizio che portano a non usare più il desktop dove non è necessario, con l’obiettivo di ottimizzare i tempi. Chi parla di gestione frettolosa del tempo sbaglia: si tratta di gestione ottimizzata. Da tanti punti di vista: leggere e gestire le mail dei clienti ma anche gestire gli aspetti economici e finanziari della tua realtà. Questo è possibile grazie all’utilizzo

Cristiano Carriero

di alcune applicazioni mobile che per natura sono più veloci e implicano un pensiero più connesso e rapido. Queste app ti danno l’opportunità di fare molte più cose durante la giornata di quante ne faresti davanti al pc, con il vantaggio aggiuntivo di poter utilizzare questi strumenti di lavoro anche durante gli spostamenti. Il dipendente o manager o libero professionista di oggi si spostano di più ma devono ottimizzare i viaggi. Nell’arco di una settimana, ad esempio, un dipendente di un’azienda si sposta per lavoro in media tra le due e le tre volte. Il mobile working diventa quindi prima di tutto una questione di mentalità. Si tratta di diventare bravi e allenati a lavorare in situazioni non standard.

In un Paese come l’Italia in cui 20 milioni di persone non accedono neanche una volta a internet, quanto può diffondersi il mobile working? Questi dati ci devono far riflettere molto. Le amministrazioni pubbliche meriterebbero un capitolo a parte e avrebbero tanto bisogno di pensiero mobile. Oggi le aziende utilizzano poco il pensiero mobile e si allenano poco su

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QUESTIONE DI TEMPI Riorganizzare il lavoro/2

questo fronte perché vivono ancora lo spauracchio dello smart working. La comodità dell’organizzazione autonoma del lavoratore lascia il posto alla preoccupazione di abusi. Questo determina anche l’assenza di dati significativi sul mobile working, perché di fatto molte aziende non hanno nemmeno idea di cosa sia. Tuttavia, assistiamo a uno scenario in cui i Millennials e la Generazione Z non hanno un pc e forse non ne avranno nemmeno uno sul posto di lavoro.

Il libro “Mobile working" scritto da Cristiano Carriero

Quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi del mobile working?

Più elasticità, più flessibilità e una maggiore capacità di attirare partner, clienti e stakeholder connettendoli tra loro. Il pensiero mobile è un acceleratore di risultato. Io quando sono in treno lavoro meglio perché fondamentalmente mi organizzo per concentrare le mie attività. Quanto agli svantaggi, al momento non ne vedo di particolari, se non quello potenziale di una defocalizzazione ovvero il fatto di diventare troppo multitasking. Alcune attività rimangono difficili da svolgere sullo smartphone ma la nascita di nuovi tool consente di superare le difficoltà di utilizzo.

«Oggi le aziende usano poco il pensiero mobile per lo spauracchio dello smart working. Tuttavia Millennials e Generazione Z non hanno un pc e forse non ne avranno mai»

Qual è lo scatto culturale che devono compiere le aziende e i professionisti per adottare il “pensiero mobile”?

Devono eliminare il concetto della postazione fissa. Lo disse già 15 anni David Allen con il libro “Getting Things Done”. La sua teoria ha ispirato il mio libro. Mi spiego: le aziende si muovono in una direzione opposta alla mobilità di obiettivi e azioni, accumulando una serie di task. In realtà, la metà o addirittura i tre quarti di questi task possono essere smaltiti subito o con tempi più dinamici.

Qual è l’approccio vincente a cui allenerei le giovani leve?

Smaltite subito i task facili. Durante una giornata capiteranno decine di imprevisti. Smaltendo subito i task “facili”, si evita di incappare in una montagna che poi va scalata. Grazie allo smartphone abbiamo uno strumento non solo per essere sempre connessi con il lavoro ma anche per gestire questa connessione.

Quali sono i problemi, anche legislativi, legati a questo approccio?

«Durante una giornata lavorativa capitano decine di imprevisti: smaltendo subito i task “facili”, si evita di incappare in una montagna che poi va scalata»

Fino a qualche anno fa il tema era legato al rischio di venire scoperti da desktop a compiere attività che non c’entravano con il lavoro, quindi molte aziende hanno cominciato a vietarlo. Poi è arrivato lo smartphone e c'è stato il blocco della rete aziendale, superato dal fatto che è possibile navigare con la propria rete mobile. Morale della favola: se il dipendente è così libero da riuscire a fare altre attività in rete probabilmente non è abbastanza valorizzato. // David Mammano


QUESTIONE DI TEMPI Organizzare la flessibilità

PIÙ LIBERI DA SOLI Più forti in squadra La digital trasformation vista da Luca Solari, autore di Freedom Management «Rivoluzione culturale che investe l’imprenditore, non più capo-controllore, ma persona con idee e obiettivi chiari. E per i collaboratori cambia l’ingaggio»

PAOLA PROVENZANO Giornalista

paolaprove@yahoo.it

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n queste righe non c’è spazio per voli pindarici o visioni utopiche, ma sono ammesse parole come rivoluzione e libertà. Dal punto di vista di chi si occupa di management, risorse umane e innovazione strategica i fatti, messi in fila, raccontano di una trasformazione digitale che ridisegna in modo più flessibile l’organizzazione del lavoro, ridefinisce le gerarchie, mette al centro la responsabilità del singolo e muta anche il rapporto tra grandi e piccoli competitor sul mercato, solo per dare alcune pennellate di un mondo che cambia sotto i nostri occhi. Luca Solari, docente all’Università degli Studi di Milano e autore del libro Freedom Management (in autunno in uscita in Italia per Guerini Editore), non ha dubbi nel raccontare la dinamica della quale siamo, più o meno consapevoli, spettatori e protagonisti.

Negli ultimi anni siamo di fronte a veloci cambiamenti che riguardano la digital trasformation: quali sono le implicazioni pratiche?

La digital trasformation è qualcosa di complesso, che non riguarda solo i cambiamenti tecnologici, ma anche quelli culturali, sociali, organizzativi, creativi e manageriali. Il maggior utilizzo della tecnologia porta a cambiare il modo di organizzare il lavoro, inoltre le

persone entrano in contatto fra loro più facilmente, si creano legami e connessioni, c’è una maggiore libertà del singolo. Soprattutto quello che viene superato è un modello di lavoro fordista, basato sul controllo gerarchico delle risorse umane e sulla catena di montaggio. Non in tutti gli ambiti lavorativi questo accade nello stesso tempo: per alcuni ci vorranno ancora degli anni, per altri tra controllo remoto e lavoro a distanza, siamo già approdati ad un modo differente di concepire lo spazio e l’organizzazione del lavoro.

Il libro “Freedom Management" scritto da Luca Solari

Cosa significa questo in un’impresa, che non abbiamo più la figura del “capo”?

Non significa che la figura dell’imprenditore non ci sarà più, ma che il suo ruolo cambia: imprenditore non più capo-controllore, ma figura che ha idee, le sviluppa, detiene il coordinamento delle azioni, fissa obiettivi. Quello che cambia è l’ingaggio per chi lavora: non è più basato sul controllo, ma sul coinvolgimento, su un ingaggio personale che riguarda il singolo, sulla motivazione a quello che si fa in azienda. Questo modello al momento è stato definito in diversi modi che hanno sfumature differenti: si è parlato di holocracy, leaderless, lavoro agile. Ciascuna definizione è parziale e non coglie appieno tutti gli aspetti del cambiamento.

Quali sono le maggiori conseguenze per il lavoratore? Il lavoratore è più libero nelle sue scelte su come arrivare all’obiettivo ed è anche più autonomo nell’organizzare il suo

Luca Solari

«L’importante è raggiungere gli obiettivi fissati, non l’osservazione rigida dell’orario d’ufficio. Il tempo guadagnato sarà un tempo di qualità che migliora la vita»

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tempo: in questo senso si pensi al lavoro agile. L’importante è il raggiungimento dagli obiettivi che sono stati fissati, non l’osservazione rigida dell’orario d’ufficio. Il tempo guadagnato sarà un tempo di qualità che migliora la vita di ciascuno. Nel contempo il lavoratore sarà più responsabile di sé stesso e della sua crescita professionale continua. La nostra vita sarà fatta sempre più di apprendimento continuo.

E per chi si deve affacciare sul mercato del lavoro, per i giovani? I giovani dovranno avere la capacità di declinare le competenze nei processi, ma sarà necessario che il sistema della formazione cambi, trovando soluzioni in grado di formare i lavoratori di domani.

In questo scenario quale sarà il posizionamento delle piccole imprese?

Le piccole imprese potranno sfruttare a loro vantaggio la flessibilità che le caratterizza. Ma la trasformazione digitale ha un'altra conseguenza. La tecnologia, si pensi al cloud, sta abbattendo quello che era il divario in termini di economia di scala tra piccole e grandi imprese. Mi spiego: ci sono soluzioni che, in termini di investimento, sono alla portata delle piccole quanto delle grandi imprese e delle start-up. I costi sono spesso accessibili e rendono disponibili soluzioni tecnologiche all’avanguardia anche a chi è piccolo e non ha capacità di investimento come una impresa grande. Viceversa la grande impresa fa più fatica a muoversi e si può trovare anche legata da scelte globali, adottate a livello di sistema e difficili da scardinare.

NAVIGHIAMO NEI BIG DATA

ma non dimentichiamo l’uomo Francesco Gallucci, esperto di neuromarketing, e l’era del “ritorno”. Non solo digitale, l’azienda torni a scrutare nella "profondità dell’anima"

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l vantaggio competitivo delle imprese? A determinarlo sarà sempre più il fattore umano e ad essere vincenti saranno le imprese capaci di cogliere e decodificare i “segnali deboli”: quei cambiamenti di umore, di gusto e di preferenze che nessuna indagine di marketing può fotografare, ma che sono nell’aria e nell’umore delle persone. Mentre parla Francesco Gallucci, vice presidente di Ainem (associazione italiana di neuromarketing), pare proprio di vederle quelle imprese che, pur navigando nel mare di Big Data e tecnologie, non hanno perso di vista l’uomo, sia esso un collaboratore

oppure un cliente. L’analisi è chiara e alla fine lo è pure il messaggio: ripartire dell’uomo e dalla sua sete di conoscenza.

Da gerarchico a sistemico

Francesco Gallucci è uno che guarda alla trasformazione digitale con gli occhi di chi è abituato a scandagliare in profondità l’anima umana. «Nella nostra società – dice – è in atto un cambiamento organizzativo che parte della rivoluzione tecnologica e da cambiamenti del mercato e che si basa, tra le altre cose, su di una condivisione sempre più ampia e veloce delle informazioni. Per questo

«A fare la differenza sono le persone con la loro capacità di ascolto: la catena di vendita quindi non è più l'ultimo anello ma il primo e il più importante»


QUESTIONE DI TEMPI Organizzare la flessibilità

«Solo in piccola parte l’uomo decide sulla base razionale, mentre è la parte non razionale ad influire per il 95% su ciò che decidiamo»

l’organizzazione del lavoro diventa sempre meno gerarchica e le piccole imprese in questo hanno un vantaggio, dato dai minori vincoli presenti in esse rispetto alle imprese di grandi dimensioni». Il modello organizzativo gerarchico cede il passo a un modello sistemico, nel quale il focus non è tanto l’esecuzione di un incarico, quanto la condivisione degli obiettivi con i propri collaboratori. «Se in una piccola impresa l’imprenditore decide di percorre nuove strade – dice Gallucci – lo potrà fare solo se i suoi collaboratori lo seguiranno con convinzione. Solo collaboratori coinvolti e soddisfatti possono aiutare a raggiungere i risultati. Ma attenzione non stiamo parlando di una soddisfazione che passa dalla gratificazione economica, ma da una attenzione a tutto tondo rispetto alla persona che ha una dimensione che va al di là di quella lavorativa».

I “segnali deboli” del mercato

C’è un altro tassello importante: in un contesto in cui le informazioni non sono più strutturate dall’alto al basso, ma si muovono in tutte le direzioni, diventa fondamentale cogliere i cosiddetti “segnali deboli” che arrivano dal mercato. «È fuori dubbio – dice Gallucci – che qualsiasi analisi di

mercato basata su di un questionario non coglie le motivazioni vere della scelta del consumatore. Sappiamo che solo in piccola parte l’uomo decide sulla base razionale, mentre è la parte non razionale ad influire per il 95% su ciò che decidiamo». Se è vero che colossi come Facebook e Amazon, attraverso la decodificazione delle tracce che lasciamo online, già

si muovono sul terreno della analisi dei comportamenti, cosa si può fare? «Anche in questo caso a fare la differenza sono le persone con la loro capacità di ascolto: la catena di vendita, in questo senso, non è più l’ultimo anello, ma diventa il primo e più importante perché in grado di cogliere cambiamenti, orientamenti, umori. Importante è anche poi essere capaci di analizzare e gestire tutta questa mole di informazioni».

Formare alla consapevolezza

Francesco Gallucci

«Per questo – continua Gallucci resta fondamentale la formazione, intesa non come il classico aggiornamento nozionistico, ma come strumento per far crescere la consapevolezza rispetto a un contesto complesso e per rispondere a quella sete di conoscenza che ha da sempre accompagnato l’uomo». La conclusione è chiara: in ogni caso il punto decisivo al quale si torna è l’uomo. «Una conseguenza della rivoluzione digitale – conclude Gallucci - è che l’uomo, sia esso imprenditore, collaboratore o cliente, alla fine viene sempre più messo al centro». // Paola Provenzano

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QUESTIONE DI TEMPO Il domani che non c’è

NICOLA ANTONELLO Giornalista quotidiano La Prealpina

nicola.antonello.giornalista@gmail.com

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o farò domani». E il domani diventa dopodomani. Passano settimane, mesi, anni. Ma finché si rinvia il riordino di casa, pazienza, gli oggetti si accatastano e amen. Il problema è quando si rinviano alle calende greche questioni fondamentali per il futuro di un progetto e di un'impresa minando, in questo modo, l'esistenza stessa dell'azienda. Nel mondo dell'economia, queste figure, da cui bisognerebbe fuggire, si

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CHI RINVIA È PERDUTO Scocca l’ora della puntualità chiamano “procrastinatori”. Prendono al contrario il detto “non rimandare a domani quello che puoi fare oggi”. E così, nel cassetto, finiscono attività aziendali, incombenze fiscali e burocratiche, oppure la presa di coscienza della necessità di formazione e riqualificazione professionale di sé stressi o dei dipendenti. Il risultato è sempre lo stesso: quando si rinvia, o ci si ferma, si è perduti. Soprattutto oggi quando tutto cambia in attimo, specialmente nell'economia. Basta poco per trovarsi gambe all'aria. Come dovrebbe invece comportarsi un imprenditore o un manager illuminato? Lo descrive Patrizia Gazzola, docente dei corsi di Management, Business planning, Operazioni di gestione straordinaria d'impresa all'università dell'Insubria. «La gestione del tempo – spiega è fondamentale perché, magari non

Si scrive procrastinare, si legge “rimandare” ma in economia questo può creare problemi «Il tempo è una risorsa limitata e va utilizzato al meglio, oppure ci si gioca la reputazione» ci rende conto, ma si tratta di una risorsa limitata e, in quanto tale, deve essere utilizzata al meglio. Una volta le aziende curavano soprattutto gli aspetti legati alle risorse finanziarie economiche e umane, ma ora la risorsa del tempo è diventata altrettanto importante. E così come in altri ambiti, si deve valutare e analizzare dove ci sono delle perdite più o meno sensibili, riducendo gli sprechi».

Lo stereotipo dell’italianità

Eppure in Italia pare ci sia ancora poca consapevolezza sull'argomento. «È una questione culturale –

aggiunge Gazzola - Purtroppo l'Italia è conosciuta nel mondo come una nazione che non sa gestire al meglio il tempo. Ovviamente non è sempre così e si sta cercando di cambiare questo stereotipo ma il pregiudizio all'estero rimane anche perché, più si va nel Nord Europa, è più vi è una cultura radicata sulla puntualità e sulla gestione e pianificazione delle tempistiche di ogni processo aziendale». Col tempo, però, anche in Italia il time management sta recuperando posizioni: «Chiaramente più è articolata un'attività – afferma la docente – e più serve programmazione e pianificazione. E poi, rispettare i


tempi, permette anche di effettuare la fondamentale fase di controllo. Inoltre, se un progetto è strutturato e prevede l'impegno di più imprese, dal rispetto del cronoprogramma, dipende anche il lavoro degli altri. Al contrario, se un anello della catena si inceppa, iniziano i problemi e il rischio è di giocarsi la reputazione stessa dell'impresa».

Mai rimandare la formazione: troppo rischioso

La tendenza italiana, invece, è di essere precisi e puntuali «se un ritardo prevede delle sanzioni, come in ambito fiscale. Si tende invece a procrastinare quello che non è obbligatorio, ma che, in futuro, potrebbe creare anche maggiori problemi. Un esempio: la formazione dei collaboratori. Un'azienda di dipendenti aggiornati permette di ridurre ogni tipo di rischio. Si tratta di un investimento costoso e a lungo termine, ma anticipare i tempi previene rischi che potrebbero essere più onerosi del costo della formazione stessa». Per evitarlo bisogna «focalizzarsi sull'analisi delle priorità. Ci sto provando con i miei studenti, dando loro anche soli quindici minuti di tempo per un business plan. Stabilire le priorità anche in un lasso di tempo minimo, è molto allenante». Soprattutto per aiutare l'estinzione di una “specie” di cui farebbero tutti a meno: i procrastinatori.

NIENTE PIÙ SEDIE IN RIUNIONE CHI STA IN PIEDI VA AL SODO Massimo Ramponi, docente della Liuc, e la strategia delle multinazionali contro gli ormai troppi "incontri inutili" Quante volte, dopo una riunione di lavoro, si ha la sensazione di aver perso tempo? Specialmente quando sul tavolo sono finiti solo problemi, sfoghi e lamentele. E, di soluzioni, ben poche. È per questa ragione che in alcune multinazionali hanno sperimentato le riunioni aziendali in piedi. Niente più poltrone dove sprofondare, ronfare, pensare a tutt’altro ma una più scomoda posizione eretta. Lo racconta Massimo Ramponi, docente all'università Liuc Cattaneo e consulente aziendale con esperienza ventennale nel campo della pianificazione di progetti. «Con questa soluzione hanno risolto il problema. Si svolgono riunioni magari più frequentemente ma, stando in piedi, si velocizzano. Dopo venti minuti in posizione eretta, si va al sodo». Oppure si agisce sulla leva economica: «In un'altra grande azienda – aggiunge – si è deciso che chi convoca la riunione su un progetto, si accolla il budget orario di ciascun partecipante. E così, prima di chiamare dieci persone per una riunione potenzialmente inutile, si valuta la questione più e più volte». Niente ordine del giorno, solo improvvisazione Insomma, sul time management e sulle perdite di tempo in generale, qualcosa si sta muovendo, anche perché secondo Ramponi, «in Italia la situazione è drammatica. Nelle riunioni non c’è ordine del giorno, si va e si discute a braccio, correndo spesso dietro ai problemi di stretta attualità. Ovviamente in questo modo si perde del tempo. In questo scenario,

sono invece rare le riunioni fondamentali: dal face to face per lo start up dei progetti, all'analisi che servirebbe alla fine». Tutto e subito non è produttivo D'altronde, «come essere umani preferiamo i risultati concreti e visibili nell'immediato, rispetto a risolvere questioni complesse, in cui i frutti si vedranno solo a lungo termine». Eppure la complessità, come notano ogni giorno gli imprenditori, pare un futuro che è già presente: «Fino a qualche anno fa si aveva un capo – conclude Ramponi - e quella persona ti dava un compito da raggiungere in un determinato tempo. Ora ci sono più capi, più obiettivi e tutti vogliono essere la priorità. Ma la complessità riguarda anche le singole imprese, perché nei progetti si deve collaborare con diverse funzioni aziendali. E quello che si fatica a capire, ed è tipico proprio del time management, è che qualcuno può avere delle priorità, mentre un’altra unità organizzativa ne ha altre. Con tutti però, bisogna coesistere. Inevitabilmente».

// Nicola Antonello

In Italia la situazione è drammatica, nelle riunioni non c'è ordine del giorno, si corre dietro ai problemi d'attualità e non s'affrontano criticità o pianificazione futura


NON CHIAMATELO FUTURO È già pane (e affare) quotidiano Web marketing, eCommerce e shopping online sono il fenomeno del momento Crescita a doppia cifra per food&grocery, arredamento&home living, abbigliamento e turismo. Ragionarci su oggi significa assecondare le esigenze dei clienti ENRICO MARLETTA

Giornalista quotidiano La Provincia

e.marletta@laprovincia.it

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empo perso? Sul digitale anche i piccoli dovrebbero lasciar perdere i pregiudizi: il cambiamento interessa tutti e non è detto che il futuro premi sempre e solo i grandi signori del web. Il valore degli acquisti online da parte dei consumatori italiani toccherà nel 2017 i 23,1 miliardi di euro, con un incremento del 16% rispetto al 2016. Nel 2017 gli acquisti eCommerce cresceranno del 25%, a un tasso più che triplo rispetto a quello dei servizi (+8%).

A scriverlo è l’Osservatorio eCommerce B2c Netcomm – School of Management del Politecnico di Milano nell’ultima ricerca sui dati 2017 presentata nei mesi scorsi a Milano nel corso della XII edizione del Netcomm Forum, evento di riferimento in Italia sull’eCommerce e la digital transformation.

Come una routine

«È in atto un cambiamento sistemico di acquisto e offerta che coinvolge alcuni fattori importanti del commercio elettronico spiegava Roberto Liscia, presidente di Netcomm - Il digitale non è più il futuro ma intride moltissimi aspetti della vita quotidiana del consumatore». Tra i prodotti più gettonati quelli legati ad alcuni dei settori più rappresentativi del Made in Italy come il food&grocery

(prodotti alimentari da supermercato, prodotti gastronomici e alcolici, cibo pronto), l’arredamento&home living, l’abbigliamento e il turismo. Secondo i dati della ricerca Net Retail, elaborata da Human Highway per Netcomm, nel primo trimestre del 2017 i consumatori italiani che hanno acquistato online sono passati dai 18,7 milioni dello scorso anno a 20,9 di questa primavera con 12,2 milioni di famiglie italiane (oltre la metà del totale) che hanno adottato lo shopping digitale come modalità di routine quotidiana.

Sua maestà il mobile

Ma in che modo i negozi, o le attività manifatturiere e artigianali, possono entrare nel mondo on-line? Ne abbiamo parlato con Elisabetta Oldrini consulente nel campo dell'eCommerce e della comunicazione digitale.


QUESTIONE DI TEMPI Orgoglio e pregiudizio (dei piccoli)

Chi è Elisabetta Oldrini Elisabetta Oldrini comincia a lavorare nella comunicazione online nel 1998 in Quam (poi Nurun). Nel 2001 entra in Omd, centro media del gruppo Omnicom, dove crea il reparto Interactive. Prosegue il suo percorso come Account Director in Profero, agenzia digital a servizio completo, prima a Milano e poi a Londra, gestendo la comunicazione online di importanti clienti come Seat Pagine Gialle, Expedia, Telecom Italia, Lufthansa, Astrazeneca, Merrill Lynch. Nel 2004 entra nel management team di Expedia.it. Dal 2007 torna in Profero alla guida dell'agenzia italiana. Nel 2012 Profero diventa Plan.net Italia ed Elisabetta Oldrini rimane alla guida dell’Agenzia diventando uno dei quattro partner italiani di Serviceplan Group. Dal 2014 lavora come consulente nel campo dell'eCommerce e della comunicazione.

«Innanzitutto è necessario studiare il mercato di riferimento e quello che già la concorrenza offre, non solo a livello di prodotto ma anche come presentazione e servizi correlati: politiche di reso, termini di shopping ecc. Se in alcuni casi, infatti, saranno più importanti delle belle foto o un video, in altri casi avremo bisogno che il prodotto sia accompagnato da una scheda tecnica precisa che ne presenti tutte le caratteristiche, e le review di altri clienti possono essere preziose. Naturalmente i contenuti dell'eCommerce si dovranno poter fruire facilmente non solo sullo schermo di un computer ma necessariamente anche su smartphone e tablet, i veri protagonisti dell’eCommerce».

Geolocalizzazione e customer service

«Nessuno oggi può continuare a pensare di ignorare questa trasformazione. Non esserci significa scomparire e perdere clienti e mercato. L’eCommerce può far paura ma non esserci ci condanna a sparire. Possiamo cominciare anche aprendo una pagina su Facebook o su Instagram. L’importante è che tutto sia curato, originale e ben presentato e che la nostra presenza sui social sia costante». «Ancora più importante è ragionare sulla geolocalizzazione di comunicazioni e offerte, e offrire un ottimo servizio alla clientela (customer service)».

Attraverso Facebook e Instagram potremmo così far sapere a tutti, non solo ai nostri clienti abituali che nel mese di settembre, ad esempio, ci sarà una vendita speciale di magliette, scarpe o di qualunque prodotto sia in vendita nel nostro negozio.

Generare esperienze

«Certamente - prosegue Oldrini si tratta di passi che vanno studiati bene perché nulla deve essere lasciato al caso o all’improvvisazione. Oggi, tra l’altro, stiamo entrando in una nuova fase che vede il consumatore alla ricerca di esperienze. Le imprese che vogliono eccellere dovranno quindi porre la massima attenzione alla relazione con il proprio cliente, coccolandolo e rendendolo protagonista dei propri acquisti».

«L’eCommerce può far paura, ma non esserci condanna a sparire. Possiamo iniziare con poco, l’importante è che tutto sia curato, originale e ben presentato»

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QUESTIONE DI TEMPI Orgoglio e pregiudizio (dei piccoli)

IL FIUTO DEI GIORNI NOSTRI è il Big Data del non ritorno Non basta dire eCommerce e non bastano più neppure intuito, contatti e relazioni Per sfondare oggi bisogna sapere raccogliere e valutare una grossa quantità di informazioni legate alla propria attività. Quali? Ne parliamo con Marco Brambilla

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nalisi di dati telefonici, analisi di traffico e social media, marketing, IoT (modellazione e analisi di big data stream da sensori), progettazione di sistemi informativi e di gestione di dati e processi per assicurazioni e banche, big data analysis per il consumo energetico, gamification, app e big data per l’analisi dei dati di eventi, retail e industria (sistemi documentali, tracciamento, data integration, processi di business). Gli ambiti dell’innovazione digitale affrontati da Marco Brambilla, professore associato del Politecnico di Milano, sono molteplici. Brambilla si occupa di progetti di ricerca e innovazione di big data analysis, crowdsourcing, social media analytics e model-driven engineering. È docente dei corsi di Web science (big data, machine learning e social media analysis) e Ingegneria del software (modeling, prototyping e design agile di sistemi software). È socio fondatore delle start-up WebRatio (www.webratio.com), che si occupa di soluzioni IoT, Web e mobile basate su cloud e big data,

«Oggi anche le Pmi possono analizzare dati e performance: infrastrutture, reti e personale si possono delegare e non servono grossi investimenti»


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«Posso costruire una categoria di utenti tipo, proporre loro dei prodotti ad hoc o fare esperimenti diretti e vedere, ad esempio, come reagisce il pubblico»

Marco Brambilla, Politecnico di Milano

e di Fluxedo (www.fluxedo.com), che si occupa di big data analytics, big data integration e progetti di behaviour analysis basata su dati provenienti da multiple sorgenti. In comune tutti i campi di attività e ricerca hanno i dati. I numerosi dati derivati dalle nostre azioni e scelte. In particolare per quanto riguarda l’eCommerce Brambilla si è occupato di estrazione dati e studio di engagement online.

Ascolto, accompagnamento, vendita

L’ascolto del cliente, l’accompagnamento e l’orientamento alla vendita sono, infatti, una delle nuove frontiere da conquistare. «La sfida che affrontiamo oggi riguarda l’utilizzo dei dati, cosa dobbiamo farne e come ne possiamo trarre valore - spiega Brambilla - In passato un’azienda poteva avere successo basandosi semplicemente su un’intuizione, sulle relazioni costruite nel tempo e sui contatti. Oggi per crescere bisogna sapere raccogliere e valutare una grossa quantità di informazioni legate alla propria attività. Quando e a chi ho venduto quel determinato prodotto, chi è il mio acquirente abituale, cosa vuole e così via. Se si vogliono migliorare le proprie performance è fondamentale. Diversamente resteremo indietro».

Prima lo perdevo, oggi lo seguo

«Fortunatamente oggi anche piccole aziende possono analizzare in modo avanzato i propri dati e le proprie performance con tecniche all’avanguardia quali machine learning e artificial intelligence, non è necessario essere Google o Facebook perché infrastrutture, server, reti,

personale si possono delegare e non servono enormi investimenti». Lo stesso Politecnico, tra l’altro, attraverso propri consorzi e spin-off, può fornire una prima consulenza. «Si valuta un progetto insieme e, se dallo studio di fattibilità emergono delle possibilità, allora l’azienda si può muovere e cercare i professionisti più adatti». Tornando alla questione dati e all’eCommerce se una volta, con

Brambilla, associato del Politecnico di Milano, è docente di web science e ingegneria del software; da sempre si occupa di behaviour analysis

il commercio tradizionale, il mio prodotto lo vendevo ad un grossista e ne perdevo poi tutte le tracce, oggi posso sapere cosa vendo e quando lo vendo, a chi, le caratteristiche del cliente. «Analizzando e mettendo insieme tutte queste informazioni posso costruire una categoria di utenti tipo, proporre loro dei prodotti ad hoc. Senza contare che posso fare esperimenti diretti e vedere, ad esempio, come reagisce il pubblico rispetto a un determinato prodotto. Fantascienza? No è la realtà e non dobbiamo dimenticare i grandi attori in campo in questo tipo di mercato, attori che sono in grado di accrescere la propensione del pubblico verso gli acquisti online. Questo nel lungo periodo può portare benefici anche per le aziende di dimensioni mediopiccole». // Enrico Marletta


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QUESTIONE DI TEMPI Cosa salvare del passato

SALVATE IL SOLDATO MARKETING Social e tradizione fanno team DAVIDE IELMINI

Confartigianato Imprese Varese

davide.ielmini@asarva.org

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ira e rigira, quando si parla di marketing tradizionale o social si parte sempre da qui: tradurre gli obiettivi aziendali in azioni di mercato. Fare il contrario non avrebbe senso. Luca Marinelli è docente a contratto all’Università Politecnica delle Marche dove insegna digital strategy alla facoltà di Economia di Ancona. Ma è anche ambasciatore della regione Marche per Ninja Marketing, blog di punta

Luca Martinelli, docente di digital strategy all’Università Politecnica delle Marche, è disruptive. «Imprese, non cestinate spot, tv, radio e cartelloni: il mondo social è complementare»

per il marketing e la comunicazione online. Il social media marketing, nelle sue parole, «è uno strumento, non la soluzione». Secondo punto: «Agli imprenditori dico che gli strumenti tradizionali per andare sul mercato (cartelloni e pagine pubblicitarie, passaggi tv o radio) non è andato in pensione. Anzi…».

Questa è una buona notizia: il marketing resta quello che è?

Il social media marketing è una pratica complementare, non alternativa, a quelle già attuate. L’abilità che ognuno dovrebbe possedere è quella di integrare questi canali con strategie adatte. E solo chi riesce ad avere questa visione è in grado di giocare in maniera sinergica con questi strumenti. Il mondo digitale non è un aut-aut, ma un supporto a quello che gli imprenditori stanno già facendo. Ecco perché alcuni studiosi non parlano di marketing digitale, bensì di marketing in un contesto digitale.

Facciamo un passo indietro. C’è un imprenditore che vuole far crescere i suoi contatti commerciali: come lo può aiutare il social media marketing?

«Siamo di fronte a un’obesità informativa, l’utente è bombardato da una pioggia di dati. Il trucco? Mostrare i contenuti giusti alla persona giusta»

Diciamo da subito che il social media marketing è marketing, cioè come punto di riferimento ha comunque l'orientamento al mercato. Gli strumenti in campo sono i social. Il più famoso è Facebook ma abbiamo anche Twitter, Instagram, Youtube, etc. La sua importanza sta nel creare un canale diretto tra l’azienda e i suoi potenziali consumatori / clienti senza alcun intermediario.


QUESTIONE DI TEMPI Cosa salvare del passato

Questa è un’opportunità ma anche un’arma a doppio taglio: da un lato l’impresa deve gestire da sola il flusso di comunicazione, dall’altro può mappare il suo mercato di riferimento, tenere sott’occhio i suoi competitor e individuare gli attori con i quali interagire all’interno di quel mercato per farsi nuovi clienti.

Oggi è importante raccontare quello che si fa, ma il problema è che lo fanno tutti. Come ritagliarsi un proprio spazio?

Tutti i social raccolgono storie. Siamo di fronte ad una obesità informativa dove l’utente è bombardato da una pioggia di dati. La regola è questa: far vedere il contenuto giusto alla persona giusta nel momento giusto. Il web ci permette di scremare il pubblico di riferimento e capire a chi può interessare quello che sto dicendo. Su tantissimi siti di imprese, nella descrizione della propria attività, si legge per esempio “leader del settore”, ma questo non sempre è un valore. Il vantaggio è saper mirare.

Le imprese, soprattutto quelle di piccole dimensioni, a volte non si trovano a loro agio nella gestione dei social e spesso si affidano ancora al passaparola. Anche i social attivano un passaparola, ma capisco la sfiducia di alcuni imprenditori. Per mettere un po’ di ordine bisogna partire da due considerazioni: primo, gestire un social come utente privato è una cosa e come azienda è un’altra. I social sono una piazza in cui interagire ma servono anche a vendere: è per questo che l’imprenditore deve esserci con il cappello dell’azienda. Secondo: in Italia manca la cultura digitale, siamo in ritardo rispetto ai nostri pari europei e non sempre il web viene gestito con la giusta professionalità. Molto spesso si riscontra l'assenza totale di una strategia. Da qui l’equivoco: alcuni imprenditori pensano che aprendo una pagina Facebook possano entrare automaticamente in contatto con i clienti. I social, invece, devono essere gestiti con un approccio manageriale.

È una questione di contenuti e di scelte: Facebook e LinkedIn non sono la stessa cosa. Come si fa? Bisogna ottimizzare le risorse (le Pmi

non ne hanno molte, quindi usarle bene è una possibile chiave del successo) e scegliere il canale giusto, perché i social cambiano radicalmente nel giro di pochi mesi. Non esiste una ricetta standard per le aziende, ma esistono obiettivi che si possono tradurre nel mondo digitale. Bisogna conoscersi.

«L’imprenditore deve fare chiarezza sui suoi fattori di successo e deve saper ascoltare il flusso di conversazione prima di creare i contenuti» Quale è il miglior social per il marketing?

Oggi Facebook è in grado di coprire diverse esigenze, è trasversale e ha una propensione al mondo del business. Nel mondo, circa 2 miliardi persone si connettono a Facebook almeno una volta al mese: se ci sei bene, altrimenti…

Le prime mosse per un messaggio vincente di social media marketing?

Sapersi raccontare. L’imprenditore deve fare chiarezza sui suoi fattori di successo e su quello che è il suo valore aggiunto. Cosa mi distingue? Cosa offro in più, e meglio, dei miei competitor? Le risposte a queste domande saranno il contenuto del messaggio. Secondo: valorizzare il messaggio soprattutto con foto e video (della durata non superiore ad un minuto e mezzo). Immagini dei prodotti, del contesto aziendale, del "dietro le quinte" per far capire la tradizione, la qualità, l’artigianalità. Poi, preparare un testo efficace da accompagnare alle immagini. Poche frasi che riassumono in maniera molto chiara il messaggio e danno una connotazione ai contenuti.

L’ultima mossa?

Lasciare aperta la comunicazione e coinvolgere l’utente con le call to action: seguici, vieni a scoprire la nostra storia, guarda il nostro sito, scarica la nostra brochure. Uno strumento efficace perché dice cosa fai e perché sei lì. L’azienda prima deve saper ascoltare il flusso di conversazione e poi creare i contenuti.

Come si misurano i risultati di una campagna di marketing social?

Un’azienda che vuole fare pubblicità su Facebook si sentirà chiedere “quale è il tuo obiettivo?”. Acquisire nuovi contatti e/o vendere direttamente da Facebook? Tutto questo si può fare coinvolgendo figure tecniche in grado di creare e pubblicare contenuti e investendo in pubblicità e contenuti sponsorizzati per farmi conoscere. In media, i fan di una pagina Facebook che vedono i messaggi postati sono il 10%, al massimo il 15%, dei propri follower. Tutti gli altri li posso raggiungere con la pubblicità.

Sui social media non bisogna essere invadenti. L’interazione tra impresa e potenziali clienti (lasciando la parola anche a loro) può essere una buona soluzione?

E’ la strada giusta da seguire, però c’è una bella differenza tra chi ad esempio produce macchinari industriali e chi lavora nel food. Per i primi possono essere d’aiuto contenuti come “white paper” diffusi in rete: condivido con alcuni colleghi le problematiche del settore e dando vita al dibattito mi accredito come realtà attenta. Anche l’apertura di un blog aziendale all’interno del sito dove io propongo articoli tematici può fare la differenza.

“Errare è social” e non esiste una “tecnica” per portarsi a casa il risultato desiderato: bisogna solo provarci? Siamo in una società in cui è importante sperimentare e provarci: Facebook stesso sperimenta ogni giorno. Gli step e l'approccio di cui abbiamo parlato fino a qui restano comunque gli stessi, a cambiare è il modo. Con i social il vero vantaggio è che tutto si può misurare.

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QUESTIONE DI TEMPI Accelerare i cambiamenti

GABRIELE NICOLUSSI

Confartigianato Imprese Varese

gabriele.nicolussi@asarva.org

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eggere questo articolo porterà a un bivio. Da un lato ci sarà la strada della critica - «non possiamo far niente, è un momento difficile per tutti» - ma, dall’altro, anche quello della riflessione: «Forse il modello adottato finora si può migliorare». Perché questa premessa? Perché non ci sono mezze misure quando si parla con Francesco Inguscio, fondatore di Nuvolab, acceleratore di startup che ha l’obiettivo di mettere benzina nel motore delle imprese italiane. Inguscio,

a volte, non va per il sottile. Vuoi per l’attitudine ad affrontare i problemi in modo concreto, che gli deriva dalle esperienze di lavoro nella Silicon Valley; vuoi per l’innovativo modo di fare, egli stesso, business. Con lui cerchiamo di analizzare i maggiori problemi in cui inciampano le imprese italiane e di trovare gli accorgimenti per risolverli. Per riuscire a fornire gli strumenti (o gli spunti) affinché le Pmi colgano il momento giusto, quello della (seppur timida) ripresa. Punto primo: il problema delle start-up (ma anche delle Pmi, perché «ogni Pmi appena nata è una start-up») non è la sopravvivenza, ma la crescita. «Siamo pieni di start-up ma non abbiamo scaleup, aziende con forti tassi di crescita di fatturato e di dipendenti. In questo senso un incubatore, che si occupa di trasformare idee in start-up, con

l’ottica “da 0 a 1”, è meno efficace di un acceleratore, che le trasforma in imprese di successo, “con l’ottica da 1 a 10”».

Conservatrici e con pochi fondi

Le imprese sono molte, poche riescono però a sfondare. Quali sono le loro maggiori mancanze? Anche qui Inguscio non va per il sottile: mentalità conservatrice e non consapevole delle dinamiche tecnologiche; elevata avversione al rischio; mancanza di mezzi finanziari per sostenere la crescita, vista la «cronica sottocapitalizzazione e il limitato accesso al credito». Guardarsi in faccia non è facile. Ammettere i propri punti deboli, invece, aiuterebbe a crescere. Il discorso che fa Inguscio, lo ammette lui stesso, non vale per tutte le Pmi.

DA START-UP A SCALE-UP Con le 4 A dell’innovazione Avviare un’impresa o dare nuova vita a un’azienda attiva, e in sofferenza, è possibile, ma per non rischiare la palude dite addio a mentalità conservatrice e avversione al rischio e rimettete in moto i meccanismi della finanza. Parola di Francesco Inguscio (Nuvolab) che punta sui fondi I 4.0

«L’ondata di fondi che sta fluendo per Industria 4.0 è da cavalcare, tenendo conto che in Europa una start-up su tre in questo ambito è italiana»


start up on demand. Nel primo caso «si mappano i trend tecnologici, le dinamiche di mercato e i principali business model emergenti nelle imprese, suggerendo possibili opzioni strategiche per innovare con successo». Nel secondo caso, invece, vengono sfruttate le competenze provenienti dal mondo delle startup, mixandole con risorse del mondo corporate. «In questo modo si generano “start up su commissione” per le aziende, che diventano laboratori di ricerca e sviluppo controllati dall’azienda committente, ma con dinamiche molto più snelle e performance significativamente superiori». La ricetta universale per il successo non esiste. Ogni impresa è un mondo a parte, con peculiari punti di forza e strategie da adottare. In ogni caso per essere competitivi bisogna passare anche per il mondo del digitale. «In questo campo c’è ancora molto da fare, se si conta in Italia siamo al palo come livello di digitalizzazione: 25esimi su 28 stati membri, secondo la Commissione Europea».

«Mentre in Italia la risposta a una proposta innovativa è, di solito, “no, perché…”, negli Usa l’approccio è ribaltato: “perché no?”»

Il poker

Francesco Inguscio

Il libro “L'Italia dei pesci rossi" scritto da Francesco Inguscio

Ci sono aziende molto innovative, con il vento in poppa, fatturati in crescita e una spinta propulsiva verso il futuro, ma ci sono realtà in sofferenza. In parte per la crisi, in parte per un apparato burocratico e fiscale che le penalizza. «Le principali aree di criticità sul fare impresa in Italia sono la difficoltà di ottenere credito dalle banche, la complessa fiscalità delle aziende, un sistema di leggi inefficiente

E in quanto ai settori trainanti? Su cosa si può scommettere? Per il fondatore di Nuvolab le 4A su cui ha senso innovare sono Alimentare, Abbigliamento, Arredo e Automazione industriale. «Nell’ultimo settore l’ondata di fondi che sta fluendo per Industria 4.0 è da cavalcare, tenendo conto, che secondo gli osservatori del PoliMi, in Europa una start-up su tre in questo ambito è italiana». Senza dimenticarsi del biotech, che «è stato protagonista delle più grandi exit degli ultimi anni».

Si perde la partita che non si gioca

e un sistema giudiziario ingolfato». A questo aggiunge una cultura sociale spesso avversa all’imprenditore (visto come chi sfrutta e non paga le tasse) e a un’assenza di competenze, specie tecniche, dei giovani.

Innovation landscape analysis

Ed eccoci al dunque: come fare per migliorare? Le soluzioni si chiamano innovation landscape analysis e

Che si abbia a disposizione un piccolo o un grande capitale, che si tratti di edilizia o di metalmeccanica, la vera discriminante, alla fine, la fa chi sta al timone dell’impresa. E in questo gli Stati Uniti, che Inguscio conosce bene, sono dei maestri: «Mentre in Italia più volte la risposta ad una proposta innovativa è “no, perché…”, negli Usa l’approccio è ribaltato: “perché no?”». Insomma, fiutata la vera opportunità, sorpassati tutti gli ostacoli che tentano di rallentare il cammino, non resta che buttarsi. «Perché, come diceva la stella dell’hockey Wayne Grtzky: “Si perdono tutte le partite che non si giocano”». Non resta che giocare.


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QUESTIONI DI TEMPO Giovani e lavoro: conto alla rovescia

Una generazione (solo) divano? Pubblichiamo, in questo numero del bimestrale Imprese e Territorio, un secondo approfondimento dell’inchiesta condotta da Confartigianato Imprese Varese sul fenomeno dei Neet (giovani che non studiano e non lavorano) e, per estensione, dell’inoccupazione giovanile (per leggere gli articoli precedenti consultare il sito www.asarva.org). Secondo l’ultimo Rapporto Istat sul fenomeno, nel 2016 in Italia la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni in condizione di Neet era la più elevata tra i Paesi dell’Ue (24,3% contro una media del 14,2). Un esercito di 2,2 milioni di ragazzi che, sul totale dei giovani tra i 15 e i 29 anni, equivale a uno su quattro. Tuttavia, sempre secondo l’analisi Istat, dopo la crescita registrata negli anni della crisi, i Neet oggi sono in calo.

SE L’UNDER 29 È AI MARGINI ci rimettono economia e Paese Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica alla Cattolica, ha coordinato l’indagine “Rapporto Giovani” dell’Istituto Toniolo. E ha una certezza: «Più si aspetta a mettersi in moto, più si perdono opportunità. E si dilapida un patrimonio»

Alessandro Rosina

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a percentuale di Neet rappresenta quanto un Paese dilapida il potenziale delle nuove generazioni, a scapito non solo dei giovani stessi ma anche delle proprie possibilità di sviluppo e benessere». Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale dell’Università Cattolica di Milano e coordinatore dell’indagine “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, non va per il sottile. La sua è una fotografia matematica e lineare, da uomo di numeri: chi non studia e non lavora sta buttando all’aria il proprio potenziale e la possibilità di vivere bene. I dati in Italia non sono confortanti e sono fra i più alti in Unione Europea: secondo l’Istat sono Neet 2,2 milioni di giovani tra i 15-29 anni, con una distinzione che va per gradi.

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Nell’Ue i ragazzi senza occupazione hanno poca formazione o disagi; in Italia ci sono neodiplomati e neolaureati con potenzialità


QUESTIONI DI TEMPO Giovani e lavoro: conto alla rovescia

Tra di essi c’è infatti chi un’occupazione la sta ancora cercando (un milione), chi è scoraggiato, ma se gli venisse fatta un’offerta la accetterebbe (700mila) e chi, infine, non è interessato. Facendo una radiografia sociale dei Neet, si scopre un’altra anomalia tutta italiana. Spiega Rosina che, «mentre negli altri Paesi sono in larga parte giovani effettivamente in condizione di deprivazione sociale per carenza di formazione adeguata e per disagio familiare ed emotivo, nel caso dell’Italia una parte rilevante è composta anche da neodiplomati e neolaureati con buone potenzialità, ma che si trovano con tempi lunghi di collocazione nel mercato del lavoro». E che a lungo andare, scoraggiati, abbandonano ogni speranza. Lo stesso discorso vale anche per chi ha problemi fisici. «Secondo i dati Eurofound – puntualizza il professore – da noi questa quota è più bassa rispetto alla media europea, mentre è maggiore la percentuale di chi è disoccupato di lunga durata e di chi è scoraggiato». Insomma, il nodo del discorso sembra essere il sistema sociale ed economico italiano, non tanto il suo welfare.

La “mammite” e il “nero”

«La creatività artigiana e la capacità di innovazione tecnica delle nuove generazioni italiane sono oggi fortemente sottoutilizzate»

La crisi ha colpito tutti e, in Europa ma non solo, ha fatto molte vittime. Perché allora in Italia si registra, più che altrove, un tasso così alto di giovani che non studiano e non lavorano (con picchi al Sud anche del 40%)? Secondo Rosina le ragioni sono essenzialmente due e sono fenomeni tipicamente italiani: un modello culturale che rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori e il lavoro nero. Nel primo caso ritorna tutta la discussione sugli “italiani mammoni”. Se è vero che stimolare il ragazzo a una maggiore autonomia e indipendenza (pensiamo per esempio alle culture nordiche, dove spesso a diciotto anni si va già a vivere da soli) può aiutarlo a rimboccarsi le maniche, è vero anche che se non c’è lavoro e non ci sono soldi, le alternative scarseggiano. Secondo Rosina «è necessario

creare consapevolezza che il tempo perso o trascorso ai margini prima dei 25 anni (età che in Italia viene vissuta con meno urgenza di scelte impegnative e responsabilizzanti) rende più debole anche il percorso successivo, sia professionale sia nella realizzazione piena dei propri progetti di vita». Ovvero: più aspetti a darti da fare, più sarà difficile metterti in moto. Parlando invece di economia sommersa, il discorso è di pura logica: se non dichiari di lavorare, da un punto di vista statistico vieni registrato come Neet, anche se non lo sei.

Valorizzare il capitale umano

Cosa fare per migliorare la situazione? Bisogna lavorare su due fronti: sullo “stock” (chi è già in quella condizione) e sul “flusso” (chi sta finendo gli studi e sta entrando nel mondo del lavoro). «Nel primo caso – sostiene Rosina - serve sia un salto di qualità dei centri per l’impiego, sia una collaborazione con le realtà sociali, per migliorare la capacità di raggiungere i più scoraggiati. Nel secondo, invece, è necessario rafforzare il contrasto alla dispersione scolastica, migliorare l’orientamento formativo e il raccordo tra scuola e lavoro, non solo potenziando nella scuola la formazione di competenze che servono alle aziende, ma anche incentivando le aziende a valorizzare il capitale umano». Dobbiamo impegnarci tutti: associazioni, imprese, politica, servizi per il sociale. Perché «la creatività artigianale e la capacità di innovazione tecnica delle nuove generazioni italiane sono oggi fortemente sottoutilizzate». Ed è un vero peccato. // Gabriele Nicolussi

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QUESTIONE DI TEMPI Scadenze d’autunno

LA TERRA CHE HA VOGLIA D’IMPRESA rischia di diventare deserto Una Tavola Rotonda, un dossier e un obiettivo: conservare la tradizione produttiva dell’area del Luinese e della Valcuvia. Tre gli interventi per combattere dumping salariale elvetico, carenza di professionalità e difficoltà logistiche

I

mmaginate un territorio dove le aziende, nonostante tassi di disoccupazione ancora elevati, faticano a trovare forza lavoro, perché chi cerca un’occupazione, guarda prima di tutto oltreconfine. Immaginate un territorio incassato in una valle, lontano dall’autostrada e innervato da strade perlopiù inadatte al trasporto pesante. Immaginate un territorio con una tradizione artigianale solida, soprattutto nel settore meccanico e metalmeccanico, ma scarse opportunità per sfruttarla. Quel territorio è il Luinese, alle prese da sempre con una concorrenza elvetica difficile da contenere in termini di importo netto degli stipendi erogati ai dipendenti e con un’orografia tanto turisticamente affascinante quanto logisticamente complessa. Partita persa? Desertificazione inevitabile?

No, ma i tempi per intervenire stringono, come hanno rilevato le istanze sollevate dagli imprenditori del comparto in occasione della Tavola Rotonda “Imprese per il territorio” – promossa il 10 luglio scorso – e il successivo dossier,

È necessario agire sul reddito netto, adottando un regime fiscale incentivante per i lavoratori che risiedono in Italia e sono occupati in aziende con sede vicina al confine

già ufficialmente sottoposto alla commissione Attività Produttive del consiglio regionale della Lombardia.

Iniziamo subito

Le soluzioni per uscire dallo stallo esistono ma, come si dice, il tempo per attuarle stringe. Un primo passo, già indicato, potrebbe essere la creazione di un’area a fiscalità agevolata, con focus sulla defiscalizzazione degli straordinari e incentivi per l’attrattività del personale. Un altro capitolo da scrivere con urgenza dovrebbe essere comprendere la messa a progetto di interventi destinati a migliorare il transito e i tempi di percorrenza dei mezzi pesanti. Ultimo, ma non meno importante, fronte di intervento: il rilancio della cosiddetta “scuola dei mestieri” o, per dirla con altri termini, della


QUESTIONE DI TEMPI Scadenze d’autunno

formazione studiata a misura delle necessità occupazionali espresse dalle imprese.

Questione stipendi

Nel dettaglio, uno dei nodi mai sciolti di quest’area di confine è il dumping salariale delle imprese elvetiche. Nella confederazione rossocrociata si arriva a percepire uno stipendio anche doppio di quello italiano, complice una tassazione decisamente meno impattante rispetto a quella italiana. Come colmare il gap? La proposta è creare, attraverso un disegno di legge ad hoc, una zona con una fiscalità agevolata, in modo da permettere ai datori di lavoro di riconquistare competitività senza sostenere ulteriori oneri. «Diventa necessario – si legge nel Dossier - agire sul reddito netto, adottando un regime fiscale incentivante per i lavoratori che risiedono in Italia e sono occupati in aziende italiane con sede produttiva entro una certa fascia di distanza dal confine. In particolare solo una parte del reddito del lavoratore contribuirà alla formazione della sua tassazione, generando per differenza un aumento del suo netto tale da pareggiare quello equiparabile in Svizzera». Risultato: il dipendente vede aumentare il netto, l’impresa non subisce contraccolpi che ne comprometterebbero la competitività.

La costituzione di una "scuola delle professioni", con il coinvolgimento diretto delle aziende, potrebbe generare un ritorno positivo, sia per i residenti che per il sistema economico C’è strada e strada

Punto due: la logistica. Gli imprenditori luinesi sono meno competitivi non solo rispetto ai vicini ticinesi, ma anche rispetto ai competitor con sede in altre zone della provincia di Varese. La lontananza dall’autostrada, e l’assenza di direttrici stradali ad alta percorribilità, rallenta i collegamenti, facendo aumentare del 10-15% i costi di trasporto. Paesino dopo paesino, rotonda dopo rotonda, i mezzi pesanti procedono a rilento e rendono difficile anche la vita dei residenti in zona. Alla morfologia non si scappa, Luino è incastonata tra i monti e il lago. Alcune soluzioni, però, sono rimaste a lungo sul tavolo. A cominciare dal cosiddetto “Madonnone”, che prevedeva il trasferimento della dogana da Ponte Tresa a Cadegliano di Madonnone e la creazione di un tunnel che partisse proprio da Ponte Tresa per attraversare tutto il territorio. L’altra ipotesi era la variante di Brenta, pensata per tagliare il centro abitato di Cuveglio. Risultato: entrambe oggi sono finite nel cassetto. Di qui la richiesta di «agire subito presso l’amministrazione provinciale di

Varese, i Comuni, Regione e Anas per sollecitare interventi manutentivi e avviare una mappatura delle strade in vista del passaggio di competenze a Regione/Anas».

Cervelli in fuga

La concorrenza Svizzera “ruba” cervelli e professionalità al luinese, creando voragini in termini di competenze da inserire nelle imprese. «Eppure il lavoro va bene – ammette un imprenditore del settore meccanico – e vorrei assumere anche tre-quattro persone, ma non riesco a trovarli». La costituzione di una “scuola dei mestieri”, entro la quale coinvolge in modo diretto anche le imprese del territorio, potrebbe generare un ritorno positivo, sia per i residenti che per le imprese. Un circolo virtuoso del quale, alla fine, beneficerebbe anche l’area, che accanto al turismo e al frontalierato, si garantirebbe il mantenimento della tradizione artigianale. Le proposte, come abbiamo visto, ci sono e le imprese vogliono reagire alla crisi. Ma vanno pensate e attuate in fretta. Pena la desertificazione produttiva di un territorio. // Gabriele Nicolussi

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QUESTIONE DI TEMPI Nuova finanza in vista

IL FINTECH? NERD IN T-SH L'ex fenomeno interno alle banche, oggi ha cambiato pelle Il giornalista Aldo Pecora: «Gli istituti non sono stati al passo con la dinamicità e la velocità di proliferazione delle start up». E ora… TOMASO BASSANI

Giornalista VareseNews

tomaso.bassani@varesenews.it

O

ggi si può noleggiare una macchina con un’app dello smartphone, farsi portare la cena a casa con un click e scambiare le foto delle vacanze con i parenti da un capo all’altro del mondo. È il mondo delle start up e della rivoluzione dei servizi digitali che ha avuto come fulcro la Silicon Valley e ha investito quasi tutti i settori della nostra quotidianità. In

questo contesto che ruolo ha, e che posizione occupa, il fintech? Nei fatti potremmo definirlo una nicchia di questa rivoluzione, ma una nicchia forte perché si rivolge ai soli servizi finanziari. L’Economist, bibbia del capitalismo anglosassone, ha parlato del fenomeno un paio di anni fa. E, con un articolo, lo ha definitivamente consacrato come “quella combinazione tra nerd in T-shirt e fondi di venture capital che dopo essere entrata prepotentemente nelle comunicazioni, nella mobilità, e in numerosissimi altri settori ora ha messo sotto tiro anche il settore dei servizi finanziari. Quello dove le banche detenevano saldamente il loro monopolio indiscusso: prestiti, pagamenti e investimenti. Settori dove ora è tutto un proliferare di app e startupper”.


QUESTIONE DI TEMPI Nuova finanza in vista

Tre asset, il successo di Paypal e un futuro chiamato bitcoin Sono tre gli asset del fintech: pagamenti, concessione prestiti e versamenti e investimenti di somme di denaro. Il primo e più grande esperimento mondiale fintech è stato Paypal che è stato in grado di fornire questi servizi ai propri clienti senza essere una banca. Per trasferire dei soldi fino a qualche tempo fa in Italia ci volevano tre giorni, il tempo di trasferimento effettivo di un bonifico; con Paypall si tratta di un procedimento istantaneo. E questo è un esempio su uno strumento già alla portata di tutti ma il trend che si imporrà nel futuro sarà relativo ai bitcoin, con i quali trasferire pagamenti in tutto il mondo con la stessa valuta. È la nuova era delle criptovalute: più affidabili, veloci e senza frontiere.

HIRT E FONDI DI VENTURE Pagamenti con smartphone e crowdfunding

Sono fintech, ad esempio, i pagamenti via smartphone nei negozi, i trasferimenti di denaro tra privati attraverso una app, le piattaforme di crowdfunding, alcune realtà di investimento e tanto altro ancora. Per fare luce su che cosa sia questo fenomeni e come sarà sempre più utile anche alla piccola e media impresa abbiamo chiesto ad Aldo Pecora, giornalista ed esperto di fintech, già caporedattore di SmartMoney e ora con nuovi progetti editoriali all’orizzonte che, proprio su questi temi, tiene una serie di puntate su RadioRai1 che si chiama Eta Beta. «La premessa da fare su questo mondo è che il Fintech è nato all’inizio come fenomeno interno alle banche. I primissimi esempi

che vengono in mente sono i sistemi di homebanking che hanno cominciato a dare ai clienti la possibilità di fare tutto da casa».

Strumenti che ormai tutti hanno cominciato conoscere, ma come si è evoluto? Agli inizi non si pensava ancora all’orizzonte tecnologico con il quale facciamo i conti oggi. Per intenderci, non si pensava agli smartphone. Si guardava invece ai tradizionali servizi di sportello che grazie ad internet sono diventati raggiungibili anche da casa. Poi però le cose sono cambiate e i grandi istituti bancari non sono stati in grado di tenere il passo con la dinamicità e la velocità di proliferazione delle start up. L’ondata di innovazione è stata enorme e ci ha portato molti dei servizi che oggi conosciamo.

«Nel mondo del b2b, con aziende, fornitori e professionisti che lavorano tra di loro, tutti i pagamenti saranno sempre più velocizzati»

Quali sono gli ambiti messi nel mirino dal fintech?

Sono i tre grandi asset bancari: fare pagamenti, concedere prestiti e versare ed investire somme di denaro. Il primo e più grande esperimento mondiale è stato Paypal che è stato in grado di fornire questi servizi ai propri clienti senza essere una banca. Per trasferire dei soldi fino a qualche tempo fa in Italia ci volevano tre giorni, il tempo di trasferimento effettivo di un bonifico, mentre con Paypall si tratta di un procedimento istantaneo. E questo è un esempio su di uno strumento già alla portata di tutti ma pensate che il trend che si imporrà nel futuro saranno i bitcoin. Coi bitcoin puoi trasferire pagamenti in tutto il mondo con la stessa valuta. È la nuova era delle criptovalute: più affidabili, veloci e senza frontiere.

E questo come può entrare nella quotidianità di chi fa impresa?

Innanzitutto ribadisco che molti dei servizi utilizzati oggi, a partire dagli home banking, sono già il frutto del fintech. Quindi le imprese sanno già quali sono molti campi

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QUESTIONE DI TEMPI È arrivata la nuova finanza?

di applicazione. Ovviamente, le prospettive e le potenzialità sono infinitamente più grandi. Abbiamo appena parlato della parte dei pagamenti: nel mondo del b2b, fatto di aziende, fornitori, professionisti e piccole realtà che lavorano tra di loro, tutti i pagamenti saranno sempre più velocizzati.

Mentre il prossimo scenario?

Il prossimo scenario sarà sempre di più quello dell’accesso al credito. L’imprenditore oggi è strozzato perché non riesce ad accedere al credito in banca. Parliamo anche di cifre piccole, 4-5 mila euro per pagare commesse improvvise. La crisi delle piccole e medie imprese è questa e la soluzione sarà sempre di più il fintech. Ci sono servizi molto rapidi e veloci per l’accesso a piccoli prestiti ma, soprattutto, c’è la grande opportunità di distribuire il rischio d’impresa ad esempio con il crowdfounding. Se la banca non ti dà i soldi ma tu, imprenditore

Aldo Pecora

«Con il fintech bisognerà tornare a rischiare: l’imprenditore analogico ha capito come utilizzare questi servizi ora deve imparare a metterli a sistema»

hai un’idea che sai essere forte, ti puoi rivolgere direttamente alla rete e alla tua community. Con il crowdfunding la piccola impresa di Gallarate che ha un’idea di prodotto o di servizio si rivolge alla rete e rastrella la liquidità immediata per dare forma alla produzione. In questo modo, se l’idea è valida, i soldi vengono automaticamente accreditati sul conto corrente dell’impresa senza chiedere permessi, fare firme, dare garanzie e altre forme che strozzano l’iniziativa imprenditoriale.

Quando parliamo di tutto questo parliamo di qualcosa che gli imprenditori possono già toccare con mano?

Sì. Tutto questo sta arrivando anche qui. Accadrà soprattutto quando ci saranno i passaggi generazionali all’interno delle imprese. Certo ci sarà bisogno di moltissimi investimenti che dovranno essere di sistema, come ad esempio nelle reti infrastrutturali del Paese, ma anche all’interno delle imprese. Bisognerà tornare a rischiare: la prima vera frontiera dell’imprenditore analogico è stata quella di capire come utilizzare questi servizi ora bisogna capire come metterli a sistema. Al credito si accederà attraverso la rete, i pagamenti tra imprese e fornitori saranno istantanei e l’orizzonte di questi scambi diventerà sempre di più il mondo. Amazon è nato proprio come un fenomeno fintech. Oggi è diventata un’infrastruttura mondiale: ha una sua finanziaria interna e il magazzino è diventato la rete. Potrà succedere anche in Italia. Le aziende per forza di cose inizieranno a collaborare fra di loro, tenderanno a consorziarsi e in tutti questi rapporti il fintech sarà fondamentale. Oggi il digitale rappresenta un vero volano di sviluppo e un’occasione da non perdere, tutto si baserà sulla velocità dei processi.


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