Imprese e Territorio

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M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N FA R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

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editoriale

L’ETÀ DELL’INCERTEZZA E LE PICCOLE IMPRESE In queste settimane di ripresa autunnale ci sono molti fattori per ritenere che chi ha coniato la definizione “età dell’incertezza” avrà molti motivi per rivendicare una buona dose di diritti d’autore. Guardare al futuro è complesso perché nello scenario mondiale vediamo sommarsi le confuse dinamiche della globalizzazione e le tensioni interne ai singoli paesi di fronte al difficile equilibrio tra le spinte popolari e i nuovi paradigmi della rivoluzione tecnologica. E’ allora decisivo non sottovalutare i punti di forza della realtà delle imprese italiane, una realtà che resta solida nonostante una narrazione spesso critica e negativa. Parlano i risultati: la crescita dell’export innanzitutto, ma anche la capacità di innovazione, l’introduzione di nuovi processi produttivi, l’integrazione con i servizi, la ricerca di nuove potenzialità grazie alla finanza innovativa. L’imprenditoria diffusa, fatta da professionisti, artigiani, piccole aziende, si rivela sempre di più un elemento capace, al contrario di quanto avviene in altri paesi, di garantire flessibilità e capacità di anticipare le tendenze dei mercati. La dimensione varesina presenta tutti questi elementi positivi a cui si può aggiungere l’integrazione con alcune medie e grandi imprese, sia italiane, sia multinazionali, che garantiscono a loro volta un volano di sti-

molo alla domanda e quindi alla produzione. Ma non si può dimenticare come sull’economia locale si riflettano i lati positivi e negativi dell’avere a fianco una realtà come quella del Canton Ticino che presenta una particolare attrattività sia per le imprese, sia per i lavoratori che possono ottenere salari ragguardevoli anche grazie ad un sistema fiscale particolarmente favorevole che compensa il disagio degli spostamenti giornalieri. Per questo è particolarmente interessante la proposta di Confartigianato, divenuta proposta di legge, per garantire ai lavoratori delle imprese italiane nelle zone di confine una trattamento fiscale agevolato e quindi salari reali alDI SPECTATOR meno in parte concorrenziali con quelli svizzeri. Un intervento che sarebbe un vantaggio per tutti: per i lavoratori che potrebbero avere compensi equiparabili a quelli d’oltre frontiera, per le aziende che avrebbero meno difficoltà ad assumere manodopera specializzata, per il fisco che vedrebbe aumentare la platea dei contribuenti e quindi le proprie entrate. E mettendo sullo stesso piano le imprese e i lavoratori dalle due parti della frontiera si darebbe alle imprese italiane la possibilità di sfruttare al meglio la propria competitività.

SOMMARIO imprese e territorio | 3


SOMMARIO Editoriale

Le strade dell’export sono infrastrutture intelligenti

Ue, Canada e Giappone Dove il Globetrotter è di casa

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Destinazione Pechino via e-commerce Il Dragone promette 20 anni di export

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Ragazzi, si parte I 30 anni dell’azienda diventano una vacanza Anche questo è welfare

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Spazi d’impresa I luoghi del lavoro raccontano i tempi che cambiano

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Aree di confine La proposta di Confartigianato arriva a Roma E ora avanti con il sostegno

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Rivoluzione smartphone Tutte le App per gestire una Pmi con pochi tasti

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Customer satisfaction Il digitale migliora la gestione di clienti e business

Verbal identity Quando la parola scatena l’emozione 4 | imprese e territorio

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L’Unione Europea riscopre i piccoli

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Il nuovo export PIù che necessità chiamatela opportunità

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China Express: dalla quantità alla qualità del Made in Italy

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Welfare aziendale. Lo fanno le piccole perché ci credono. E sentono l’impresa come una comunità

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Il “buon lavoro” incomincia da noi Conciliazione si migliora con i fatti

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Le tasse invisibili La “flat” riuscirà a limitare il Fisco?

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Il futuro di Arduino è la creatività aziendale open source

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Chi scivola sui social si rialza con il dialogo

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Aziende raccontatevi ma senza routine Sorprendeteci con gli imprevisti e avremo una grande storia

NEL PROSSIMO NUMERO rand o non brand: B la forza di un logo Produrre meno, produrre meglio Le frecce della burocrazia Lo spazio del lavoro Sua maestà la digitalizzazione I numeri del territorio

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONE Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico - Confartigianato Imprese Varese Impaginazione - Geo Editoriale - www.geoeditoriale.it Interventi, contributi e grafica - A. Aliverti, N. Antonello, D. Ielmini, G. Nicolussi, A. Morlacchi, M. Lualdi, S. Caldirola Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.760 copie - Chiuso il 14 settembre 2018 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


L’UNIONE EUROPEA RISCOPRE I

PICCOLI ANDREA ALIVERTI


Kristin Schreiber - direttore del programma europeo Cosme

primopiano

Rafforzamento delle misure a sostegno delle Pmi e best practices da sottoporre agli Stati membri: ne parliamo con Kristin Schreiber, direttore del programma europeo Cosme, uno dei massimi dirigenti che rispondono al Commissario all’Industria Ėlzbieta Bieńkowska

L’Europa e le Pmi: cosa sta facendo la Commissione Ue e cosa intende fare con il prossimo bilancio di lungo periodo 2021-2027 attualmente al centro delle trattative tra Commissione, Parlamento e Consiglio Europeo. Lo abbiamo chiesto a Kristin Schreiber, direttore del programma europeo Cosme (acronimo di COmpetitiveness of enterprises and Small and Medium-sized Enterprises, il programma dell’Ue per la competitività delle imprese per il periodo 2014-2020), uno dei massimi dirigenti che rispondono al Commissario all’Industria Ėlzbieta Bieńkowska. L’Italia è un Paese che ha un numero notevole di imprese e micro-imprese artigiane, più degli altri principali Paesi europei, pertanto la strategia di supporto alle Pmi illustrata dal commissario Bieńkowska nel 2015 era stata vista come una grande opportunità. Può dirci se ha funzionato e quali obiettivi sono stati raggiunti in questi anni? Le start-up e le Pmi sono essenziali per la creazione di crescita e di posti di lavoro ovunque in Europa, inclusa l’Italia. Mentre la Commissione lavora per creare un contesto positivo di cui tutte le compagnie europee possano beneficiare, ha una politica specifica per il supporto delle start-up e delle imprese di piccole e medie dimensioni. Nel 2015, presentammo la Strategia del Mercato Unico per liberare il pieno potenziale del mercato unico europeo e far sì che potesse essere il trampolino di lancio per la prosperità dell’Europa. Nell’ambito di questa strategia, abbiamo anche promosso un’iniziativa per dare la spinta alle start-up in Europa, aiutarle ad accedere al credito e ad espandersi oltre i confini nazionali. Mi fa piacere poter dire che stiamo già riscontrando ottimi risultati. Negli ultimi anni, abbiamo compiuto notevoli progressi nel migliorare l’accesso alla finanza per le imprese in Europa. L’Unione Europea ha già supportato qualcosa come circa 315mila piccole imprese solamente nell’ambito del programma europeo “Cosme”, e molte altre nell’ambito del Piano di Investimenti per l’Europa e dei programmi Ue, come Horizon 2020 o “Life”. La Commissione compie ogni sforzo per creare un contesto economico e regolatorio che sia orientato verso le Pmi, incluse le microimprese e le imprese artigiane. Essa propone e si assicura che i provvedimenti legislativi siano studiati a fondo in modo tale che siano il meno possibile impattanti per questo tipo di imprese, tra le altre, attraverso l’applicazione di un “Pmi test” a tutte le nuove misure legislative. Inoltre, il network europeo degli Sme Envoys (sorta di ambasciatori delle Pmi, ndr) funziona come piattaforma di coordinamento degli sforzi degli Stati Membri e di scambio di best practices e discussione di provvedimenti per ridurre il peso amministrativo sulle Pmi. Pensa che le piccole dimensioni delle imprese, e la loro necessità di crescita, costituisca ancora oggi un problema da affrontare, ora che

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primopiano

siamo nell’epoca dell’Industria 4.0? Qual è la strategia della Commissione Ue su questo tema? La trasformazione digitale dell’economia può essere una sfida ma offre molte opportunità in termini di nuovi posti di lavoro, di produttività e di competitività. Mentre molti settori dell’economia sono stati rapidi nell’occuparsi di tecnologie e processi digitali, altrettanti sono ancora in ritardo. Se le aziende, Pmi incluse, vogliono mantenersi competitive, hanno la necessità di adattarsi al contesto che cambia. Nel caso dell’Italia, la spina dorsale dell’economia sono le Pmi, aziende con meno di 250 dipendenti che rappresentano il 99% del numero complessivo delle aziende. Per consentire a queste piccole imprese di prosperare, le aziende devono tenersi al passo con lo sviluppo tecnologico e i decisori politici devono creare un ambiente favorevole ad esse. La Commissione basa il suo supporto alle Pmi nell’implementazione dello Small Business Act, il quadro di riferimento per le politiche Ue sulle Pmi, in particolare applicando il principio “Prima di tutto, Pensa Piccolo” e riducendo il peso amministrativo-burocratico e altri ostacoli alla crescita. Nelle sue iniziative, sta affrontando le barriere all’accesso al credito, incoraggiando le Pmi a svilupparsi oltre i confini e fornendo consulenza agli imprenditori, ad esempio attraverso l’Enterprise Europe Network. Queste misure di sostegno sono accompagnate dagli strumenti disponibili a livello nazionale, come nel caso del Fondo di Garanzia Centrale italiano. La Commissione ha anche portato avanti una serie di provvedimenti per migliorare il funzionamento del Mercato Unico per i beni ed i servizi e per creare un mercato unico digitale. In particolare, l’iniziativa della Commissione sulla digitalizzazione aiuterà l’industria europea, le Pmi e la pubblica amministrazione a ottimizzare le nuove tecnologie.

trasformazione. Nell’ambito del programma InvestEU, 11,25 miliardi su 38 miliardi di garanzie di bilancio sono stanziati per mettere in campo strumenti di debito e di equity a favore delle piccole imprese. In aggiunta, 1,3 miliardi sono a disposizione nell’ambito del programma per l’Europa Digitale, al fine di assicurare la trasformazione digitale della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici e per facilitare l’accesso alla tecnologia e al know how per tutte le aziende, segnatamente le Pmi. Gli stanziamenti proposti per il prossimo bilancio di lungo periodo sono indicativi e le proposte devono ancora essere approvate dal Parlamento Europeo e dal Consiglio. Auspichiamo che un accordo venga raggiunto in tempi brevi cosicché i fondi europei possano iniziare ad apportare risultati al più presto possibile.

C’È ANCHE MOLTO DA FARE NELL’AMBITO DEI PAGAMENTI B2B. LE PRATICHE E I TERMINI SCORRETTI NEI PAGAMENTI SONO ANCORA AMPIAMENTE DIFFUSE

Il Bilancio Ue 2021-2027 incrementerà l’ammontare degli investimenti e delle risorse a disposizione delle Pmi? Cosa cambierà nel dettaglio con il nuovo Bilancio a lungo termine? Basandosi sul successo del corrente programma Cosme, la Commissione propone di rafforzare il supporto dato alle piccole imprese per crescere ed espandersi oltre i confini nell’ambito delle proposte presentate per il bilancio del settennato 2021-2027. Il finanziamento nell’ambito di questo obiettivo include due miliardi di euro in garanzie sui prestiti per le Pmi implementate nell’ambito del Fondo InvestEU e un miliardo sotto forma di supporto di tipo non finanziario per migliorare la competitività delle Pmi implementate nell’ambito del Programma per il Mercato Unico. Questo coinvolgerebbe il sostegno attraverso lo Enterprise Europe Network o azioni di sostegno allo sviluppo dei distretti e di facilitazione dell’industria di

Ritardi nei pagamenti e regolamentazione del marchio d’origine (Made In) sono tra le principali tematiche da affrontare in Europa secondo il settore artigiano italiano. Quali sono le strategie della Commissione Ue su questi fronti? Il ritardo nei pagamenti ha un impatto molto negativo sulle aziende. Mettono a repentaglio la capacità delle aziende di investire, assumere, o persino sopravvivere. Le Pmi sono le più colpite da questa pratica dannosa, dal momento che non hanno la capacità finanziaria di sostenere flussi di cassa irregolare. Dall’adozione della Direttiva Ue sul ritardo nei pagamenti (Direttiva 2011/7/EU), nel 2011, la media dei pagamenti tardivi è diminuita, specialmente nel settore pubblico. È il caso dell’Italia, dove il ritardo medio nei pagamenti della Pubblica Amministrazione si aggirava attorno ai 200 giorni, mentre attualmente si è ridotto a circa 104 giorni. Tuttavia, la massima dilazione consentita dalla Direttiva è di 60 giorni. C’è anche molto da fare nell’ambito dei pagamenti B2B. Le pratiche e i termini scorretti nei pagamenti sono ancora ampiamente diffuse: almeno il 60% delle Pmi nell’Unione Europea ancora oggi accetta termini insostenibili di pagamento da parte delle più grandi aziende partner, per paura di perdere future forniture. Per la stessa ragione, molte Pmi non applicano interessi e compensazioni, e men che meno citano in giudizio i loro debitori, quando vengono pagate in ritardo. La Commissione è impegnata in un’applicazione rigorosa della Direttiva. Sono state aperte procedure di infrazione nei confronti di vari Stati Membri. Nel caso dell’Italia, sono attualmente in corso due procedure, una delle quali pendente di fronte alla Corte di Giustizia. Abbiamo altresì valutato una serie di best practices e di provvedimenti degli Stati Membri e siamo in attesa di discuterli con tutte le parti coinvolte.

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Kristin Schreiber - direttore del programma europeo Cosme

primopiano

In Italy we have a great amount of craft and artisan micro-enterprises and small enterprises, more than the other major European countries, and we saw as a great opportunity the strategy of supporting SMEs that Mrs Bienkowska showed in 2015 at the Small Enterprises Week. Can you tell us how that strategy worked and which goals have been reached in these years? Start-ups and SMEs are essential for the creation of growth and jobs everywhere in the EU, including in Italy. While the Commission works to create a positive environment benefitting all EU companies, it has a particular policy to support start-ups and small and medium-sized enterprises (SMEs). In 2015, we put forward the Single Market Strategy to unleash the full potential of the Single Market and make it the launchpad for Europe to thrive. As part of this strategy, we also launched an initiative to give boost to start-ups in Europe, help them access funding and expand across borders. I am happy to say we are already seeing good results. In the last years, we have made great progress in improving access to finance for businesses in Europe. The EU has already supported around 315.000 small businesses under the EU’s COSME programme alone, and many others under the Investment Plan for Europe and the EU programmes, such as Horizon 2020 or LIFE. The Commission makes every effort to create an economic and regulatory environment which is geared towards SMEs including craft and micro companies. It proposes and makes sure legislative measures are thoroughly applied in a way that is the least burdensome for them by, among others, applying the “SME test” to all new legislative measures. Additionally, the network of EU SME Envoys serves as a platform for coordinating Member States’ efforts and exchanging best practices and discussing measures to reduce administrative burden. 8 | imprese e territorio

Do you think that the small dimensions of the enterprises, and their need of growth, is still a problem to deal with, now that we are entering the era of the Industry 4.0? What is the strategy of the EU Commission on that issue? Digital transformation of the economy can be challenging but offers many opportunities in terms of new jobs, productivity and competitiveness. While many parts of the economy have been quick to take up digital technologies and processes, many are still lagging behind. If companies, including SMEs, want to stay competitive, they need to adapt to the changing environment. In the case of Italy, the backbone of the economy are SMEs – companies with less than 250 employees which account for 99% of the total number of companies. To allow those small companies to flourish, companies must keep up with the technological developments and policy makers need to create a favourable environment for them. The Commission bases its support to SMEs on implementing the Small Business Act - an overarching framework for the EU policy on SMEs - in particular by applying the “Think Small First” principle and reducing the administrative burden and other obstacles to growth. In its initiatives, it is addressing barriers to accessing finance, encouraging SMEs to expand across border and providing advice to entrepreneurs, for example though the Enterprise Europe Network. These support measures are complemented by tools available at national level, such as the Italian Central Guarantee Fund. The Commission has also put forward a number of measures to improve the functioning of the Single Market for goods and services and to create a Digital Single Market. In particular, the Commission initiative on digitisation will help European industry, SMEs and public authorities make the most of new technologies.


primopiano

Is the EU Budget 2021-2027 increasing the amount of investments and money available for SMEs? What is it going to change in details in the new EU Budget? Building on the success of the current COSME programme, the Commission is proposing to strengthen the support given to small business to scale up and expand across borders with the proposals tabled for the EU budget for 2021-2017. Funding under this objective includes €2 billion in loan guarantees for SMEs implemented under the InvestEU Fund and €1 billion in the form of non-financial type of support to improve competitiveness of SMEs implemented under the Single Market Programme. This could involve support through the Enterprise Europe Network or actions supporting the development of clusters and facilitating industrial transformation. Under the InvestEU programme, €11.25 billion of the €38 billion budgetary guarantee is earmarked for the debt and equity instruments to be established for the benefit of small businesses. Additionally, €1.3 billion are proposed under the Digital Europe Programme to ensure the digital transformation of public administration and public services and facilitate access to technology and knowhow for all businesses, notably SMEs. The figures proposed for the next long-term budget are indicative and the proposals still has to be agreed by the European Parliament and the Council. We hope an agreement will be reached soon so that EU funds can start delivering results as soon as possible.

Late payments and regulation on origin marking (Made In) are some of the main issues dealing with EU according to the Italian craft and artisan sector. What are the strategies of the EU Commission on those issues? Late payments have a very negative impact on businesses. They jeopardise businesses’ capacity to invest, recruit, or even survive. SMEs are the most affected by this harmful practice, since they do not have the financial capacity to sustain irregular cash flows. Since the adoption of the EU Late Payment Directive (Directive 2011/7/EU) in 2011, average payment delays have gone down, especially in the public sector. This is the case of Italy where the average payment delay from public authorities used to be 200 days and now it is around 104 days. However, the maximum delay allowed in the Directive is 60. There is also work to do in B2B payments. Unfair payment terms and practices are unfortunately still widespread: at least 60% of SMEs in the EU still accept unsustainable payment terms from larger business partners out of fear of losing future contracts. For the same reason, many SMEs do not charge interest and compensation, let alone take their debtors to court, when they are paid late. The Commission is committed to a strict enforcement of the Directive. Infringement procedures have been opened against a number of Member States. In the case of Italy there are currently two procedures, one of which is pending at the Court of Justice. We have also assessed a number of best practices and measures in the Member States and are looking forward to discussing them with all parties concerned.

AT LEAST 60% OF SMES IN THE EU STILL ACCEPT UNSUSTAINABLE PAYMENT TERMS FROM LARGER BUSINESS PARTNERS OUT OF FEAR OF LOSING FUTURE CONTRACTS

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FOCUS INCHIESTE

LE STRADE DELL’EXPORT SONO INFRASTRUTTURE

INTELLIGENTI

Grandi opere? Oggi servono infrastrutture “smart”, integrate e pianificate in base alle reali necessità. «Le infrastrutture di per sé non creano ricchezza, ma possono “abilitare” la crescita di un territorio». È la sintesi di Lorenzo Tavazzi, responsabile Area Scenari e Intelligence del think tank “The European House-Ambrosetti”, a cui abbiamo chiesto di analizzare e approfondire il tema delle infrastrutture strategiche nel Nord-Ovest del Paese. Lo sviluppo infrastrutturale è considerato un fattore decisivo per la crescita dei territori e per la competitività del sistema economico. Vale ancora oggi con la transizione verso l’e10 | imprese e territorio

conomia digitale e l’Industria 4.0 o forse vale ancora di più oggi? Certamente sì: dalla rivoluzione industriale ad oggi le infrastrutture rappresentano dei fattori abilitanti dello sviluppo al pari di capitale, lavoro e know-how tecnologico. In tal senso il tema dello sviluppo infrastrutturale rimane un fattore decisivo per la competitività di un territorio anche a fronte dei cambiamenti in atto. Da un lato, infatti, la transizione verso l’economia digitale e della conoscenza stimola la creazione di hub di competenze localizzate in determinate università, centri di ricerca o aziende e per generare un effetto distribuito sui diversi territori: è, pertanto, più che mai necessario disporre di una rete infrastrutturale sviluppata che faccia

fronte alle nuove esigenze della mobilità e della logistica. Inoltre, una rete infrastrutturale efficace è un aspetto prioritario per le aziende più attive nell’export, che hanno trainato la ripresa economica degli ultimi anni, e che sono sempre più inserite in catene del valore con una estensione europea o addirittura mondiale. Infine, occorre tenere presente che sempre più i vari sistemi territoriali – Paesi e all’interno di essi Regioni, Province, ecc. – sono interdipendenti: non è un caso che dal 1990 ad oggi, l’indice KOF che misura il grado di interconnessione dei Paesi, è cresciuto dal 46% al 65%. Ancora una volta, in questo contesto di forte mobilità dei fattori produttivi (capitale, competenze, talenti), la qualità e l’efficacia dei percorsi di


FOcuS INCHIESTE

crescita e sviluppo di ogni territorio non è dissociabile dalla qualità e dall’efficacia dei sistemi infrastrutturali della mobilità e dei trasporti. Il quadrante di Nord-Ovest in cui sono inserite Varese e la Lombardia rappresenta la parte più avanzata del Paese dal punto di vista economico/industriale. C’è ancora un gap infrastrutturale da colmare? Non c’è un gap fondamentale che emerge: l’area di Milano è molto connessa, altre zone della regione lo sono di meno. Voglio però sottolineare come il tema chiave da affrontare, a livello regionale e nazionale, non sia tanto l’offerta di infrastrutture tout court, quanto la loro pianificazione e gestione strategica in logica di flessibilità rispetto alle esigenze di crescita. I nuovi modelli di mobilità e di logistica, sempre più incentrati sull’inter-modalità tra i diversi mezzi di trasporto, consentono di ottimizzare la domanda e quindi di rendere più efficaci le connessioni. Una pianificazione integrata del sistema aeroportuale, ferroviario e stradale è quindi il prerequisito per il miglioramento del sistema infrastrutturale, a partire da quello oggi già esistente. Occorre spostare il focus del dibattito dalla realizzazione infrastrutturale, secondo il tipico approccio della “politica dell’offerta” che si è seguita negli anni (rispondere al bisogno di mobilità e connettività facendo nuove infrastrutture) a una politica della domanda, cioè basata sull’ottimizzazione delle infrastrutture esistenti e dei servizi che su di esse possono essere innestati. In questo i modelli di smart infrastructure, abilitati dall’applicazione delle tecnologie digitali e dagli intelligent transport system (Its) – che l’Italia purtroppo ad oggi sfrutta ancora solo in parte residuale – possono essere una soluzione efficace per ottimizzare gli investimenti infrastrutturali focalizzandoli solo sul necessario, massimizzare la dotazione esistente e garantire politiche attive di gestione della domanda di mobilità finalizzate a ridurre gli spostamenti inutili. Tav Torino-Lione, Tav Brescia-Verona, Terzo Valico Genova, Pedemontana, infrastrutture di collegamento con Malpensa e con il sistema Alptransit: quali sono le opere più uti-

li per lo sviluppo del sistema del Nord-Ovest? Tutte queste opere sono importanti per lo sviluppo del quadrante Nord-Ovest del Paese e si inseriscono in uno schema più ampio di necessario potenziamento delle connessioni europee. In questo senso è fondamentale che le opere in cantiere siano completate in tempi adeguati offrendo un quadro certo agli utenti e alle imprese che dovranno poi utilizzarle. Ancora una volta, pertanto – e in relazione con la necessità di ottimizzare le nuove realizzazioni infrastrutturali secondo modelli orientati alla domanda effettiva – l’aspetto che determi-

BISOGNA PASSARE DALLA POLITICA DELL’OFFERTA A QUELLA DELLA DOMANDA, BASATA SULL’OTTIMIZZAZIONE DELL’ESISTENTE E DEI SERVIZI CHE VI SI POSSONO INNESTARE nerà l’effettivo successo di queste opere sarà un’attenta pianificazione integrata che garantisca l’ottimizzazione dei nodi intermodali e che metta imprese e cittadini nelle migliori condizioni per sfruttare i benefici ottenibili attraverso le connessioni più veloci. Più in generale però occorre tenere presente un punto essenziale: le infrastrutture, di per sé, non sono in grado di creare ricchezza e prosperità. Le capacità di sviluppo di un territorio dipendono da altri elementi tra cui la localizzazione geografica, la presenza di agglomerati urbani e le caratteristiche del tessuto economico-produttivo. Le scelte infrastrutturali sono dunque da inserirsi nel più ampio quadro di programmazione economico-produttiva regionale e nazionale, specie per un territorio strategico come quello del Nord-Ovest: occorre quindi una strategia organica del sistema infrastrutturale della mobilità e della logistica, integrata “orizzontalmente” a

livello delle varie tipologie di trasporto (i piani per gli aeroporti, porti, ferrovie e autostrade, vie navigabili, ecc., non sono stati progettati in ottica integrata né in termini di necessità territoriali, né in termini di priorità e coordinamento nei finanziamenti, né, soprattutto, in termini di strategicità per il Paese, ma quasi sempre in un’ottica settoriale o di interesse locale) e “verticalmente” con la più generale visione del modello di sviluppo della Regione e del Paese all’interno di un ampio e mutante contesto geopolitico e geoeconomico. Le ricerche segnalano come il nuovo “triangolo industriale” si stia spostando verso lo schema Milano-Bologna-Padova e non più sullo storico Milano-Torino-Genova: è anche “colpa” dei ritardi infrastrutturali. E in questo contesto, l’aeroporto di Malpensa rischia di non essere più al centro del triangolo? L’area compresa tra Milano, Bologna e Padova è sicuramente una delle più dinamiche del Paese grazie ad alcuni distretti che, anche attraverso la spinta propulsiva impressa dalle esportazioni, si caratterizzano per produzioni di assoluta eccellenza. Questo dinamismo non deve però farci dimenticare la rilevanza che il triangolo storico ancora oggi ricopre. Il dinamismo del nord-est non avviene, infatti, a discapito dell’area tra Milano, Torino e Genova ed è decisivo per il sistema-Paese sostenere la crescita di entrambe le aree. In questo senso, la finalizzazione di infrastrutture quali il Terzo Valico e l’ampliamento delle connessioni per l’aeroporto di Malpensa possono contribuire positivamente a supportare l’intero quadrante. La sfida strategica del Nord-Ovest e più in generale del Paese, è l’ottimizzazione dello sviluppo di tutti i poli territoriali del Paese che possono fare massa critica di risorse e competenze e accelerare lo sviluppo. Ancora una volta la “colpa” di un mancato sviluppo o di un declino non è delle infrastrutture: queste sono solo un abilitatore, per quanto importante, di percorsi di crescita che sono però collegati “a monte” alla capacità e alla dinamicità del sistema produttivo-industriale, alle competenze e al saper fare distintivo di un territorio e degli elementi di eccellenza che questo sa offrire. A. Ali. imprese e territorio | 11


INCHIESTE

IL NUOVO EXPORT PIÙ CHE NECESSITÀ CHIAMATELA OPPORTUNITÀ


INCHIESTE

PAOLA PROVENZANO

È finito il tempo dell’imprenditore armato di valigetta, del globetrotter pronto a rincorrere clienti nelle fiere di settore di mezzo mondo: la rivoluzione digitale ha dettato le sue regole anche nel campo dell’export dove c’è un sistema Italia fatto di micro e piccole imprese che ha da difendere numeri di tutto rispetto in tantissimi settori produttivi. La notizia cattiva? Non esistono risposte che vanno bene per tutti, ma solo interventi su misura. La notizia buona? Il mercato globale oggi, proprio grazie alla tecnologia, è accessibile anche ad aziende di piccolissime dimensioni che un tempo erano quelle più in difficoltà nel portare i loro prodotti all’estero. Le parole d’ordine oggi sono più che mai quelle del marketing online, della comunicazione via web, della formazione a tutto tondo e di interventi fatti su misura. A raccontare i nuovi strumenti e le nuove strategie per giocare sullo scacchiere del commercio internazionale è Antonino Laspina, in Ice Agenzia dal 1981, già direttore della promozione, oggi direttore coordinamento Marketing per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e in passato Direttore dell’Ufficio Ice in Malesia e a Taipei, Seul e poi a Pechino con l’incarico di Coordinatore della Rete Ice nella Repubblica cinese. Consigli e regole arrivano direttamente dalle azioni di formazione che Ice mette in campo su tutto il territorio nazionale con la collaborazione delle associazioni di categoria.

lo il suo packaging, rispetto al mercato al quale ci si rivolge. «E non vanno trascurati – sottolinea Laspina – gli aspetti di tipo culturale: come presentarsi a un potenziale partner straniero o come condurre una trattativa sono aspetti che non vanno considerati secondari. Quando un giapponese ci consegna il suo biglietto da visita non possiamo limitarci a metterlo in tasca in modo distratto. Questo gesto sarebbe interpretato come disinteresse da parte nostra». E poi c’è la questione dell’uso del tempo e della sua percezione che è differente da paese a paese: si tratta insomma di regole che fanno parte dell’etichetta da seguire con i potenziali clienti. Tutti aspetti che, messi in fila, raccontano di un approccio ai mercati esteri che ha bisogno di competenze specifiche, ma anche di tanto lavoro fatto passo passo e su misura.

ANDARE ALL’ESTERO DEVE ESSERE UN TASSELLO IN PIÙ CHE L’IMPRENDITORE DECIDE DI METTERE IN ATTO, CON LA CONSAPEVOLEZZA CHE CIÒ COMPORTA ANCHE DEI COSTI DA SOSTENERE

«La prima regola – spiega Laspina – è che lo sbocco sui mercati esteri non deve essere vissuto come una necessità, ma come una opportunità: l’export non può essere la risposta a una situazione di difficoltà dell’impresa sul mercato interno, ma deve essere un tassello in più che l’imprenditore decide di mettere in atto, con la consapevolezza che ciò comporta anche dei costi da sostenere». I mercati da prendere in considerazione? «Meglio guardare prima a quelli più vicini e simili al nostro e poi via via quelli più distanti: perché se fino a qualche anno fa c’erano mercati impensabili per le micro imprese, oggi la digitalizzazione ha ampliato molto gli orizzonti per tutti». Un altro passo importante, oltre alla scelta dei mercati più adatti per il proprio prodotto, consiste nell’essere pronti ad adattare il prodotto o anche so-

A dettare il passo oggi è la rivoluzione digitale e qui entrano in campo marketing online e comunicazione via web. «Anche in questo caso non è possibile muoversi senza una formazione e una conoscenza adeguate – continua Laspina - Ci sono mercati che hanno proprie piattaforme online sulle quali occorre essere presenti e che vanno conosciute e valutate». Un esempio su tutti è quello del settore del design in Russia, un mercato importante a livello di clientela per le imprese del nostro paese e dove esistono specifiche piattaforme di riferimento. Se si guarda all’estero occorre inoltre sapere che il sito internet aziendale sarà guardato dai potenziali clienti e la nostra identità digitale sarà sotto osservazione.

«Per questo – dice Laspina - non possiamo trascurare nessun aspetto legato anche alla comunicazione del nostro prodotto che dovrà distinguersi e dovrà saper raccontare quel qualcosa in più che possiede ciò che noi produciamo». Il vero tratto distintivo per il Made in Italy resta quello del lavoro e della cura che sono dietro ad ogni prodotto. «Chi compera un prodotto italiano – conclude Laspina - spesso è mosso dalla componente emotiva, che deve scaturire da come noi siamo in grado di raccontare il lavoro che sta dietro a ciò che stiamo producendo. Questa è la vera forza del sistema Italia sui mercati esteri che fa la differenza anche per le nostre piccole e piccolissime imprese». imprese e territorio | 13


FOCUS inchieste

UE, CANADA E GIAPPONE

DOVE IL GLOBETROTTER

È DI CASA

Mercati di riferimento già consolidati, ma anche nuovi sbocchi per le imprese del sistema Italia e poi ancora una grande complessità fatta di dazi, trattati di libero scambio, quote, sistemi di protezione degli investimenti e tanti altri tecnicismi: oggi più che mai per andare all’estero con il proprio prodotto servono informazioni, abilità e conoscenze che toccano anche la sfera del digitale. A raccontare i più recenti sviluppi in tema di scenari mondiali del commercio è Francesco Rocchetti analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) che si occupa di Geoeconomia che traccia una mappa e aiuta a riflettere sullo scacchiere che abbiamo di fronte. Quali sono oggi i mercati di riferimento più sicuri e consolidati per le Pmi del nostro Paese? L’Unione Europea resta, evidentemente, il mercato di riferimento per le nostre Pmi. Norme comuni, assenza di barriere tariffarie e confini aperti facilitano il commercio in un continente che possiede ancora molto potenziale per il Made in Italy e per le produzioni manifatturiere italiane. Quali sono invece i mercati più interessanti per il loro sviluppo rispetto sempre alle nostre imprese? Il Canada, in primis, dopo l’entrata in vigore alla fine del 2017 del Ceta, l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea. Da tene14 | imprese e territorio


Francesco Rocchetti - analista dell’Ispi

FOCUS inchieste

re d’occhio ci sono anche quei mercati nei quali l’export, soprattutto, è cresciuto nel 2017 come per esempio la Polonia, la Repubblica Ceca e la Spagna all’interno dell’Ue e la Cina, gli Emirati Arabi Uniti, la Russia e il Marocco fuori dai confini comunitari. Si tratta principalmente di mercati ai quali, complici anche le buone relazioni diplomatiche, le Pmi italiane si sono affacciate soltanto negli ultimi anni e che hanno regalato ottime performance.

LE PMI PER POTERSI MUOVERE NECESSITANO OGGI DI UNA COMPRENSIONE DEL SISTEMA GLOBALE MAGGIORE DI QUALCHE ANNO FA

Qual è invece lo scenario dal punto di vista degli accordi commerciali? L’Unione Europea nel mese di luglio ha concluso un accordo con il Giappone, che dovrebbe aprire maggiormente un mercato che, soprattutto per la meccanica e la chimica, è da sempre poco penetrabile. Preoccupano invece gli scarsi avanzamenti sul fronte Brexit dove sembra più concreta la possibilità di non arrivare ad un accordo. Si tratta di uno scenario poco auspicabile per tutte quelle imprese che già esportano nel Paese e che possiedono magazzini o centri di produzione. A complicare il quadro vi è lo scontro a distanza tra gli Stati Uniti e la Cina. La crescita economica del dragone soprattutto nei settori

della manifattura e dell’high tech, preoccupa Washington che negli ultimi anni, complice la politica dell’”America First”, sta provando a proteggere il proprio mercato interno alzando le barriere tariffarie e a riequilibrare una bilancia commerciale in forte squilibrio. In ogni caso non si tratta di un fenomeno di breve periodo, ma di un dualismo che è destinato a segnare il sistema commerciale del prossimo ventennio.

Rispetto al recente passato per le Pmi è diventato o sta diventando più difficile o facile muoversi nel contesto internazionale? Più la competizione diventa globale più è difficile da affrontare. Le Pmi per potersi muovere oggi necessitano di una comprensione del sistema globale maggiore di qualche anno fa. Potersi orientare tra dazi, trattati di libero scambio, quote, sistemi di protezione degli investimenti e tutti i tecnicismi dell’export è assai difficile. Qual è un punto di debolezza per le nostre Pmi? Uno dei grandi punti di debolezza è la scarsa digitalizzazione: scontiamo l’arretratezza delle infrastrutture di rete e una mancanza di figure capaci di guidare le aziende nel mercato digitale. P. Pro. imprese e territorio | 15


approfondimenti

CHINA

EXPRESS DALLA QUANTITÀ ALLA QUALITÀ DEL MADE IN ITALY


approfondimenti

Anche la Cina cambia: «Meno quantità e più qualità». Sempre più opportunità per le nostre imprese. Ma per coglierle bisogna attrezzarsi. È la sintesi di quanto emerge dal nono Rapporto annuale “Cina. Scenari e prospettive per le imprese” - ricerche, analisi di rischio e previsioni nel breve-medio periodo sulla Cina - elaborato dal Cesif, il Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia Cina presieduta da Alberto Bombassei. Un rapporto che disegna una Cina diversa da quella che siamo abituati a considerare alle nostre latitudini, una Cina in transizione che, se da un lato mira palesemente al primato globale, dall’altro può essere un mercato di sbocco sempre più appetibile per la qualità del Made in Italy. Il “New normal” lanciato dal Presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping vede come «parola chiave meno quantità e più qualità», come spiega Filippo Fasulo, coordinatore scientifico del Cesif e research fellow dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), esponendo un concetto «cruciale nel nostro rapporto con la Cina».

zione che l’Italia è sinonimo di innovazione, mentre le città in movimento ci aprono opportunità per la formazione di aree pilota italiane nei poli di imminente costruzione, come Chengdu. Servono visite politiche continue e dobbiamo organizzarci per capire insieme come affrontare la Cina». Una sfida, perché non si può non tener conto della sfida che la Cina ha lanciato al resto del pianeta: «Si è passati dalla crescita rapida a una crescita di qualità, dove la parola chiave è il controllo di questi processi. Perché il “sogno cinese”, che è il punto riferimento per capire cosa sta succedendo, ha una prospettiva che guarda al 2049». Gli step dichiarati sono tre: raddoppio del reddito pro-capite entro il 2020, indipendenza tecnologica entro il 2030, per arrivare al primato per il 2049. «Con un concetto di globalizzazione 2.0, in termini cinesi, che segna un cambiamento d’epoca - aggiunge Sequi – la nuova Via della Seta guarda a scenari geopolitici che prima non erano di interesse per la Cina». La cosiddetta “Belt and Road Initiative” non sono solo infrastrutture, è «una piattaforma di investimenti bilaterali. Relazioni industriali e commerciali, di mutuo vantaggio, win-win» fa notare ancora Fasulo. Insomma, se c’è un mercato che si apre maggiormente, ci sarà anche una più forte concorrenza cinese diretta all’esterno, considerando che la reazione del Dragone alla quarta rivoluzione industriale, il piano “Made in China 2025”, non è «solo una ricezione di istanze - ricorda l’esperto del Cesif - ma una piena riqualificazione del tessuto industriale cinese, per passare dal basso costo alla qualità ed eccellenza al livello del Made in Italy e del Made in Germany».

NUOVE OPPORTUNITÀ DA UN PAESE IN FORTE TRANSIZIONE CHE MIRA AL PRIMATO GLOBALE. MA NON SARÀ UN RIGORE A PORTA VUOTA

L’indirizzo è «meno crescita e meno sovracapacità. Oggi la crescita è al 6,5%, obiettivo che consentirà a Pechino di raddoppiare il reddito pro-capite entro il 2020. Ci saranno più consumi e meno investimenti nel contributo alla crescita del Pil». Se oggi in Cina «il rapporto Pil/consumi è molto inferiore alla media di altri Paesi, con ampi margini miglioramento», e se ogni anno «15-16 milioni di cinesi si spostano dalle campagne nelle città, dove consumano di più», è evidente come si aprano spazi per i prodotti occidentali più ricercati, come quelli tipici del Made in Italy. Lo conferma Fasulo, parlando di «grandi opportunità di crescita per il tipo di prodotti che noi vendiamo e che i cinesi ricercano, legati alla qualità». Detto così, sembra un rigore a porta vuota, ma gli imprenditori che ci hanno provato sanno che consolidarsi sul mercato del Paese del Dragone è tutto fuorché semplice. Lo è a maggior ragione nella “nuova Cina”: «Occorre sintonizzarsi con il fuso orario di Pechino, proiettato sul lungo periodo, altrimenti le eccellenze italiane potranno essere messe in discussione. Se vogliamo essere mercato di riferimento e insegnare qualità di vita alla Cina non possiamo sederci sugli allori» il monito del coordinatore scientifico del Cesif. «Per la nuova Cina dobbiamo essere più moderni, più efficienti e più organizzati - sintetizza Ettore Sequi, ambasciatore d’Italia a Pechino - per l’Italia non ci sono solo opportunità di tipo retail, ma la ricerca di qualità del consumatore cinese equivale all’Italia. Occorre fare informazione e comunicazione, perché in Cina non c’è una chiara perce-

Siamo pronti? Le istituzioni, come la Regione Lombardia, sotto questo punto di vista non sottovalutano la sfida: «La Cina rappresenta uno dei mercati se non il mercato futuro fondamentale - rimarca il vicepresidente regionale Fabrizio Sala - abbiamo avuto risultati eccezionali negli anni pre e durante Expo. Con le istituzioni cinesi continuiamo ad intrattenere rapporti. Per incrementare tutto ciò abbiamo portato avanti alcune iniziative: in termini infrastrutturali, lo w anche via treno diretto da Mortara alla Cina fino a due-tre convogli alla settimana, con un costo di trasporto e una velocità che si pongono a metà strada rispetto alla via aerea e alla nave; in termini di internazionalizzazione, abbiamo messo in campo un investimento da 40 milioni di euro, in parte focalizzato sulla Cina con missioni economico-istituzionali e meeting sulla piazza di Milano» .A. Ali. imprese e territorio | 17


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DESTINAZIONE PECHINO VIA E-COMMERCE IL DRAGONE PROMETTE 20 ANNI DI EXPORT Come arrivare in Cina? L’opportunità dell’e-commerce. «La Cina è “il” mercato target per i prossimi vent’anni». In quell’articolo determinativo enfatizzato al massimo c’è tutto, nelle parole di Giulio Finzi, segretario generale del consorzio Netcomm, l’associazione che riunisce le imprese italiane del commercio elettronico. «Le imprese italiane devono capire le opportunità e la Cina è “il” mercato target. I prossimi 20 anni sono della Cina. Persino Facebook copia Wechat già da due anni sui modelli di vendita». Wechat è il principale social network cinese, oltre un miliardo di utenti, di cui tre milioni e mezzo di account ufficiali (quelli delle aziende), su cui i cinesi «fanno tutto», anche perché ormai nelle città del Dragone è 18 | imprese e territorio

SU 1,7 MILIARDI DI ONLINE SHOPPERS NEL COMPARTO BUSINESS TO CONSUMER, PIÙ DI 500 MILIONI SONO IN CINA, CONTRO I 300 DELL’EUROPA E I 180 DEGLI USA

già «una prassi pagare con lo smartphone», mentre al posto di Google c’è Baidu come motore di ricerca. Sono solo le basi per iniziare ad approcciare il mercato digitale cinese, che è davvero un altro mondo per le imprese che iniziano ad affacciarsi su Facebook e sui social “occidentali”. Ma siccome quello cinese, come ricorda Giulio Finzi, «è il più grande mercato del mondo» anche a livello di commercio elettronico, se è vero che «su 1,7 miliardi di “online shoppers” nel comparto Business to Consumer, più di 500 milioni sono in Cina, contro i 300 in Europa e i 180 negli Usa, perdipiù con un ampio margine di crescita anche in questo


settore», forse vale davvero la pena di farci un pensierino. Anche perché, sottolinea Finzi «la Cina è pronta a ricevere prodotti italiani tramite il canale online», e le prospettive di allargamento del mercato sono sorprendenti. Un dato su tutti? Nel settore del “personal care” la stima per il 2022 vede gli acquisti online in Italia al 7%, in Cina addirittura al 26%. C’è da considerare un aspetto fondamentale, che «il governo cinese favorisce l’e-commerce “cross border” (fuori dai confini, ndr) con dazi agevolati». Per penetrare il mercato cinese occorre passare attraverso piattaforme autorizzate (i principali marketplace cinesi online sono Tmall Global, Ka-

IL GOVERNO CINESE FAVORISCE L’E-COMMERCE “CROSS BORDER” CON DAZI AGEVOLATI MA, PER PENETRARE IL MERCATO, MEGLIO USARE PIATTAFORME AUTORIZZATE

ola.com, JD World Wide, Vip.com e Xiaohongshu.com), che bypassano importatori e distributori e «consentono alle aziende italiane di vendere direttamente al consumatore finale». Un vantaggio non da poco, per aggirare la complessità delle relazioni con il mercato cinese. Per affrontare un mercato così gigantesco, «una delle strade più percorribili», è il suggerimento di Giulio Finzi, può essere «quella del brand collettivo», già sperimentata da Netcomm con il primo progetto collettivo italiano rivolto al consumatore cinese. Un modo per le piccole e medie imprese «per ottimizzare i costi e fare massa critica». Con un click, forse la Cina sarà davvero più vicina. imprese e territorio | 19


approfondimenti

WELFARE AZIENDALE LO FANNO LE PICCOLE PERCHÉ CI CREDONO E SENTONO L’IMPRESA COME UNA COMUNITÀ ANDREA ALIVERTI

Il professor Giulio Sapelli: «All’imprenditore conviene offrire servizi perché ottiene in cambio un aumento della produttività Funziona se è una scelta volontaria»

«Il welfare aziendale? Chiamatelo con il suo nome. L’unico vero che vedo in circolazione è quello delle piccole imprese». Parole del professor Giulio Sapelli, ordinario di economia politica all’Università degli Studi di Milano e storico docente di storia dell’economia (nonché aspirante premier per un giorno del governo Lega-5Stelle prima della designazione di Giuseppe Conte), a poche settimane dall’inserimento di “Ivrea Città Industriale del XX Secolo”, la Ivrea di Adriano Olivetti, nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. «Un riconoscimento amaro perché arriva un po’ tardi» ha commentato su “Vita” lo stesso professore che alla Olivetti ci ha lavorato e che è un “olivettiano” di ferro. «Ma è anche un segnale e speriamo che serva a far nascere una nuova generazione di manager». Professor Sapelli, oggi si parla sempre più diffusamente di welfare aziendale. Stanno tornando i tempi di Ivrea e di Olivetti? Ma perché quel modello lo conoscono davvero in pochi. Adriano Olivetti era un ebreo convertito al cattolicesimo, aveva un’ispirazione religiosa in quello che faceva. Ma anche quello della Fiat di Vittorio Valletta, seppur meno raffinato, era un modello di welfare. La cosa essenziale di quei modelli è che il welfare era completamente gratuito. Olivetti a Ivrea, così come cento anni prima l’imprenditore Crespi di Crespi d’Adda: mettevano a disposizione degli operai le case, il medico, le scuole per i bambini. Ricordo da ragazzo ad Ivrea che ci facevano fare la pulizia dei denti. La mutua e le assicurazioni sanitarie erano garantite dall’impresa. Altra storia? Oggi non si ha più idea di quello che era quel modello di welfare: l’unico ancora esistente, simile a quelli dell’Italia degli anni ‘50-

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approfondimenti

’70 - poi spazzati via dalla disgraziata riforma Donat Cattin che ha smantellato le mutue, e fu disgraziata per i lavoratori - è quello dei sindacati americani, che si gestiscono autonomamente le mutue. Ma questa riscoperta non è un fatto positivo? Sì, oggi viene riscoperto, ma a me fa un po’ ridere. Se paragoniamo le mamme che pagano la retta dell’asilo nido creato dall’azienda al modello di Ivrea abbiamo proprio sbagliato indirizzo. Un tempo non era inconcepibile che un operaio pagasse alcuno dei servizi di welfare forniti dall’azienda. Occorre fare un po’ la tara all’odierno concetto di welfare aziendale. Nelle grandi aziende non è welfare, sono agevolazioni per i dipendenti, che non hanno nulla a che fare con Olivetti né con Valletta. Come mai è stato accantonato quel modo di fare impresa? È cambiata la cultura. La controrivoluzione neoliberista ha sconfitto l’idea di impresa come comunità. Le uniche imprese che ancora sono delle comunità sono quelle artigiane. Dove gli imprenditori si fanno carico delle esigenze dei loro collaboratori, non li licenziano nemmeno nei momenti di crisi e di scarsità di lavoro, stringendo la cinghia e piuttosto vendendo l’automobile. È nelle piccole e medie imprese che rivede la “fiamma” di Olivetti? Quella fiamma si sta riaccendendo. Vedo che, mentre nelle grandi aziende queste idee sono sempre meno tenute in considerazione, nelle piccole e medie imprese si trattano gli operai come faceva Olivetti. Tanti fanno opere, costruiscono scuole, danno servizi e mettono in piedi welfare aziendale vero.

Gli incentivi al welfare aziendale possono essere una strada? Ma se metti l’incentivo, è welfare assistito. L’unico modo per fare bene il welfare è che l’impresa ci guadagni. All’imprenditore conviene offrire dei servizi perché ottiene in cambio un aumento della produttività. Funziona se è una scelta volontaria dell’imprenditore di dare servizi gratuiti. Altrimenti non è welfare, perché il welfare assistenziale universale è già di per sé gratuito. Se si tratta di servizi a prezzo scontato, sicuramente hanno un loro valore importante, ma i sindacati non lo chiamino welfare. Le città industriali, come Ivrea, venivano “disegnate” ad immagine e somiglianza delle fabbriche. Si può immaginare che in futuro il welfare aziendale - oggi ad esempio si parla di trasformare i bonus per la produttività in servizi di trasporto - torni ad accompagnare la pianificazione delle città? Dietro alla “corporation town” di una volta c’era un piano. Quando la Fiat fece Mirafiori, si mise al tavolo con il Comune per fare un piano per i 40mila operai che, su tre turni, si sarebbero riversati in quel quartiere. Poi nel ‘62 bloccarono la riforma urbanistica del ministro Fiorentino Sullo, che voleva imporre alle città una pianificazione vincolata in accordo con le aziende, così ci siamo ritrovati con certe follie come Scampia a Napoli e altri obbrobri che ci sono anche nella periferia di Milano. Nelle piccole città la pianificazione ha funzionato meglio. Ma costruire le città sulle richieste e sulle esigenze del lavoro, a partire da una viabilità scorrevole, sono cose che insegnava già Lecorbusier. Oggi purtroppo l’urbanistica è diventata sociologia e non più pianificazione urbana. imprese e territorio | 21


FOCUS APPROFONDIMENTI

RAGAZZI, SI PARTE

I 30 anni dell’azienda diventano una vacanza Anche questo è welfare 22 | imprese e territorio


FOCUS APPROFONDIMENTI

Ci sono storie che meritano di essere raccontate. Storie in grado di conquistare, affascinare e persino commuovere. Storie di piccole grandi aziende capaci di fare qualcosa di speciale, qualcosa in grado di lasciare un segno. Di tracciare un solco che altri, chissà, un domani potrebbero decidere di utilizzare. La storia che vogliamo raccontarvi in questo numero del magazine Imprese e Territorio è quella di Andrea Meloni (47 anni) e della moglie, Erika Mascheroni (45), che alcuni mesi fa – in occasione dei trent’anni della loro Nuova Tecnostampa – hanno scelto di festeggiare coinvolgendo tutti, ma proprio tutti, coloro che nel tempo hanno permesso a questa litografia-cartotecnica-fustellatura di diventare ogni giorno più grande. E così hanno deciso di portare dipendenti e relative famiglie in vacanza a Tenerife dove, da qualche tempo, abita una ex dipendente che tanto aveva fatto per l’impresa. Un modo per ritrovarsi, stare insieme, condividere un’avventura anche al di fuori del capannone di Gerenzano dove l’azienda ha avuto sede in via dei Campazzi prima del trasferimento nei 3.500 metri quadrati di capannone a Uboldo. Il loro motto è “mai avere paura, credi in ciò che fai, nel tuo lavoro, nei tuoi investimenti, nella tua azienda e in chi ci lavora. Credi nel futuro e, se sbagli, tirati su le maniche e ricomincia da zero”. E i due coniugi, genitori di Beatrice, Camilla e Giorgia, lo mettono in pratica ogni giorno. E lo hanno messo in pratica anche nel momento in cui hanno deciso di chiudere tutto per vivere un’esperienza di welfare aziendale unica, indimenticabile, in grado di cementare ancor più e ancor meglio l’intesa tra loro, i 23 dipendenti della Nuova Tecnostampa e le rispettive famiglie. Quaranta persone in tutto per un totale di sei giorni di relax in un resort all inclusive nella più grande delle isole Canarie. Una sorpresa inattesa per i collaboratori, italiani e stranieri (in due arrivano dal Marocco e tre dall’Egitto) d’età compresa tra i 20 e i 35 anni. «I nostri ragazzi tifano per noi e per l’azienda, vedono gli investimenti che facciamo per mandarla avanti e sentono di avere un futuro sicuro – spiegano Erika e Andrea – Per questo un giorno, parlando di welfare aziendale, ci siamo detti “perché non fare un viaggio tutti insieme per andare a trovare Antonia, la nostra ex collaboratrice, e vivere un’esperienza nuova”?». E l’esperienza ha funzionato diventando l’ennesimo modo per rafforzare quell’amicizia e convergenza di intenti che rende la Nuova Tecnostampa una piccola azienda grande prima di tutto nel cuore. E, non meno importante, nella testa e nella determinazione della coppia che la guida da che papà Eugenio Meloni l’ha rilevata assieme a un socio. «All’inizio c’era solo la stampa, e funzionava. Poi, nel 2004, un cliente specializzato in cartotecnica

ha chiuso e abbiamo deciso di portare al nostro interno anche quella attività». Una decisione giusta, una svolta per tutti che porta l’azienda ad espandersi migrando prima a Vignate (500 mq), poi a Solaro e Gerenzano. Anche i dipendenti aumentano con il tempo: dai quattro iniziali (papà Eugenio, il figlio Andrea, il socio e un dipendente) si arriva a cinque, poi nove e così via, a salire fino ai 25 di oggi. Un anno importante per sancire una sorta di spartiacque tra un “prima” e un “dopo” è il 2009, l’anno del trasferimento a Solaro (600 mq), dell’ingresso in azienda di Erika e della crisi, che fa chiudere uno dopo l’altro i giganti della stampa e della cartotecnica, piegati da un eccesso di costi da sostenere. «Ci siamo detti che in questi momenti è giusto tirarsi su le maniche e così abbiamo fatto, sfruttando la nostra flessibilità e mettendoci a lavorare come matti per far fronte ai clienti rimasti senza fornitori a causa della chiusura dei nostri competitor». Anni di lavoro matto e disperatissimo (sabati, domeniche e serate in azienda non si contavano). E’ in quegli anni – fino al 2011 – che arrivano nuove macchine, come la “due colori più vernice” che non smette mai di lavorare. E le commesse, una dopo l’altra, vanno a destinazione «perché i primi a credere che ce l’avremmo fatta eravamo noi». «Se avessimo avuto anche solo per un attimo il timore di non farcela, se non avessimo cavalcato l’onda, non saremmo arrivati fino qui: è andata bene anche perché i clienti hanno creduto in noi». Così gli investimenti in macchinari continuano, per restare sempre al passo con i cambiamenti di un settore competitivo come quello della stampa e cartotecnica per la farmaceutica e la cosmesi. E allora, spazio a due fustellatrici (una usata e una “piega e incolla” per la quale attingono a Nuova Sabatini e superammortamento) con l’obiettivo di fare sempre meglio, un po’ anche grazie ad una super “cinque colori” che entra in famiglia nel 2014 quando – per la Nuova Tecnostampa – la crisi può dirsi archiviata. E arrivano le prime certificazioni di qualità che fanno crescere il valore. E’ a questo punto che si inizia a pensare al nuovo capannone di Uboldo: un investimento immobiliare per patrimonializzare l’azienda, in attesa di puntare sulla nuova tecnologia UV Led. Nel capannone della Nuova Tecnostampa, le confezioni di farmaci e integratori che si formano passo dopo passo, stampa dopo stampa, macchina dopo macchina, rimandano a marchi e nomi noti. Qualcuna ha la scritta in italiano, altre in arabo e altre ancora in inglese. Tutte le lingue, tutto il mondo per la piccola grande aziende dove creatività, flessibilità, tecnologia e determinazione fanno il paio con la forza di una squadra che oggi dialoga vis-a-vis e in un gruppo WhatsApp dove l’immagine della vacanza vissuta tutti insieme resta il ricordo più bello. Il primo. Ma non l’ultimo.

ANDREA MELONI E LA MOGLIE, ERIKA MASCHERONI HANNO SCELTO DI STARE INSIEME A COLORO CHE NEL TEMPO HANNO PERMESSO ALLA NUOVA TECNOSTAMPA DI DIVENTARE OGNI GIORNO PIÙ GRANDE

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APPROFONDIMENTI

IL “BUON LAVORO” INCOMINCIA DA NOI

CONCILIAZIONE

SI MIGLIORA CON I FATTI

Confartigianato Imprese Varese ha sottoscritto a inizio agosto con il segretario generale Filcams Cgil Pino Pizzo un accordo integrativo aziendale a favore degli oltre duecento dipendenti dell’associazione, della società di servizi ArtSer e di QuiCredito. Un passo avanti e un esempio per le Pmi

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Se ne parla sempre. E sempre più spesso. Perché conciliare vita e lavoro, oggi, è una delle nuove priorità del mondo del “buon lavoro”, quello che genera soddisfazione personale ma anche benessere, migliori possibilità di gestione del tempo, un miglioramento delle performances e dei risultati e riscontri positivi dal tessuto sociale nel quale sono inseriti coloro che ne beneficiano. Parole? No, fatti “esemplari” perché «le associazioni di categoria oggi più che mai hanno il dovere di indicare la strada e di percorrerla per prime nel modo più convinto e autorevole possibile» spiega il direttore generale di Confartigianato Imprese Varese Mauro Colombo che, insieme alla responsabile Risorse Umane Monica Nizzolini, ha sottoscritto a inizio agosto con il segretario generale Filcams Cgil Pino Pizzo un accordo integrativo aziendale a favore degli oltre duecento dipendenti dell’associazione, della società di servizi ArtSer (anche di Vigevano e Mor-

tara) e di QuiCredito. «Si tratta di un percorso iniziato negli anni Ottanta e proseguito fino a oggi con convinzione e consapevolezza – prosegue Colombo – Ora, con questa firma, abbiamo introdotto ulteriori novità come il piano welfare, l’estensione del congedo parentale e del congedo di paternità e la possibilità di godere le ferie a ore». Un’attestazione di riconoscenza rivolta a tutti coloro che giorno dopo giorno «concorrono a realizzare il successo dell’organizzazione» e un contributo al benessere del territorio, «attraverso le convenzioni e i benefit erogati nell’ambito del welfare aziendale, per i quali ove possibile si è scelto il chilometro zero». Benessere e flessibilità reali per dare un supporto concreto al “primo welfare”. Un esempio? E’ più facile assistere i figli o eventuali familiari in difficoltà grazie alla flessibilità oraria in entrata e uscita, all’orario che


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consente di lasciare libero un pomeriggio alla settimana e alla possibilità di godere delle ferie a ore in caso di bisogno. «Dal 2016 il numero di dipendenti è salito da 185 a 208 circa anche grazie all’ingresso di numerosi giovani – sottolinea il dg Colombo – Oggi l’organizzazione conta 146 donne e 62 uomini e dimostra nei fatti un convinto sostegno all’occupazione». Anche per questo, e per rispondere alla progressiva diversificazione territoriale e professionale dei collaboratori, Confartigianato Varese ha scelto a fine 2017 di investire su una piattaforma di welfare aziendale che è parte integrante e sostanziale dell’accordo. La piattaforma si articola in servizi dedicati alla formazione dei figli, ai servizi sanitari, alle spese assistenziali (anziani e familiari non autosufficienti), al tempo libero, al trasporto pubblico e alle attività sportive e viene messa a disposizione tanto dei dipendenti quan-

to delle imprese associate a Confartigianato Varese, per agevolarne l’avvicinamento alle Pmi associate e non. Nell’accordo sono previsti inoltre un gruppo di acquisto, convenzioni assicurative e per il credito e mutua. «Il benessere dei fatti, che amplieremo grazie a un’analisi organizzativa e a un’indagine sul benessere aziendale avviata nel mese di giugno e destinata a definire gli strumenti per facilitare un costante monitoraggio del clima aziendale, delle prestazioni, dei bisogni formativi, dei percorsi di carriera e sviluppo e di quanto è determinante per mantenere l’equilibrio vita-lavoro» annuncia il dg. Rileva il segretario generale Filcams Cgil Pino Pizzo: «Fare accordi integrativi è sempre un motivo di soddisfazione perché significa creare condizioni di miglior favore per tutti, nel rispetto della legge e del contratto contemperando le esigenze tecnico organizzative aziendali da una parte e le necessità dei

lavoratori dall’altra». Il fatto poi che Confartigianato, oltre che essere azienda, rappresenti anche ottomila aziende amplifica l’importanza dell’accordo, «che speriamo possa essere da esempio e riesca a trascinare anche quelle imprese che nutrono diffidenza rispetto alla contrattazione di secondo livello». Soddisfazione ed ennesima dimostrazione di come – parole di Colombo – «su questo territorio i rapporti sindacali, anche nei momenti di difficoltà, siano sempre stati improntati alla collaborazione e al reciproco rispetto». Conclude Pizzo: «Il benessere aziendale crea un senso di identità e riconoscimento della professionalità che accomuna azienda e dipendenti. Con questi accordi si riescono a raggiungere obiettivi importanti e si riesce a dare valore aggiunto nei diritti e nel miglioramento della qualità del lavoro e di vita». imprese e territorio | 25


APPROfondimenti

SPAZI D’IMPRESA I LUOGHI DEL LAVORO RACCONTANO I TEMPI CHE CAMBIANO MARILENA LUALDI

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APPROfondimenti

CRESPI D’ADDA, VILLAGGIO PATRIMONIO DELL’UNESCO, NACQUE VICINO A UN FIUME. ANNI DOPO IL COTONIFICIO SOMAINI NON SORSE VICINO ALL’ACQUA, MA ALLA FERROVIA

Un promemoria importante è arrivato dall’Unesco. Il cinquantaquattresimo sito proclamato dall’ente è quello di Ivrea, come città ideale della rivoluzione industriale del Novecento. Una mappa tangibile della concezione del lavoro e del progresso che apparteneva ad Adriano Olivetti. L’organizzazione facilita – o rende più gravosa – la vita in azienda. Architetti e umanisti si incontrarono per un disegno moderno e funzionale della città, con edifici che si differenziano tra produzione, uffici, servizi (che vanno dal nido alla mensa e abbracciano tutto quello che noi chiameremmo welfare), le dimore. Capostipite è Crespi d’Adda, oggi villaggio sempre patrimonio Unesco, fondato a fine Ottocento vicino al fiume dalla famiglia Crespi. Circa mezzo secolo di gloria, che ha lasciato l’ordinata divisione tra le case operaie e quelle dei dirigenti, dove però anche le prime sono piacevoli e scandite dagli orti e dal verde. Trama e ordito sembrano portare la filosofia del tessile nell’approccio urbanistico. Una tendenza che accomuna grandi aziende anche nella nostra provincia. A Busto Arsizio l’imponente Cotonificio Bustese – oggi museo del Tessile – aveva attorno a sé palazzi differenziati per gli operai e per gli impiegati. Previsti poi gli orti, oggi parco pubblico. Molti avevano lasciato i campi per andare in fabbrica: quello spazio non consentiva solo di contribuire al proprio sostentamento, bensì di ritrovarsi in qualche modo. In un’epoca dove il digitale è la parola d’ordine e diverse società al top si vantano di essere nate in un garage, tutto questo può suonare lontano e desueto. Invece, la storia si ripete o comunque offre spunti di riflessione e incursioni nel futuro. A Lomazzo, il Cotonificio Somaini nacque non vicino a un fiume, bensì alla ferrovia. Una visione innovativa, che ha portato successivamente a un esempio di forte innovazione. Mille operai allora, oggi l’obiettivo è mille lavoratori della conoscenza. Qui è infatti sorto con il nuovo millennio ComoNext. Coworking è la parola che si affaccia sui nostri tempi.

Una coabitazione di settori e professioni, che permette di scambiarsi idee e di crescere insieme. Ma non esistono metodi di organizzazioni perfetti ed efficaci per tutti. I ricercatori dell’Università di Harvard e della Harvard Business School di Boston Ethan S. Bernstein e Stephen Turban hanno analizzato la situazione in due multinazionali. Questo attraverso dispositivi che venivano indossati dai lavoratori prima e dopo l’open space: grazie a sensori bluetooth riuscivano a registrare le interazioni dei singoli. Risultato: queste invece di aumentare sono crollate del 70%, mentre è cresciuto lo scambio di mail, tra il 20 e il 50%. La tendenza era quella di tenere le distanze da chi si aveva vicino. Insomma, esistono i benefici (contaminazione di idee, ma anche economici) come i pericoli. Come interagire allora? L’architetto Michele De Lucchi al Salone del Mobile di Milano aveva portato una nuova visione del luogo di lavoro, con “La passeggiata”. Perno, il concetto del camminare, insistendo sul fatto che la sedentarietà è una condizione del passato che non stimola la creatività. Esistono poi aree dedicate in questo Workplace 3.0: club (ispirata alle lounge di hotel e aeroporti), uomini liberi (dove c’è la possibilità di creare sia insieme sia da soli), agorà (dedicata a presentazioni ed eventi), laboratori (dove le idee prendono forma). C’è la presenza dell’arte, ma soprattutto della natura. Quest’ultima determinante nell’attualità (si pensi a Solomeo di Brunello Cucinelli) come già il passato aveva tracciato. Roba per grandi? Non proprio. L’artigianato ha molto da dire sulla concezione degli spazi. Pensiamo alle cittadelle artigianali, che sono una prima forma di coworking o comunque coesistenza tra settori diversi, con la possibilità di sinergie. O alla trasformazione legata alla digitalizzazione. Gli spazi dell’artigiano digitale oggi sono mutati radicalmente e iniziano proprio dal computer o dallo smartphone, prima vetrina del proprio lavoro e della storia dell’azienda. Né si può dimenticare un luogo di eccellenza che si afferma con lo smartworking: la casa, da cui sempre più spesso ci si collega per svolgere il proprio mestiere. imprese e territorio | 27


Dirette o indirette che siano, uno dei problemi irrisolti dell’Italia riguarda il sistema fiscale. Unanimemente le tasse e le tariffe sono troppo alte, troppo complicate. Semplicemente troppe. Non solo: in più, in molti non le pagano e la lotta all’evasione spesso viene persa. Risultato: a livello imprenditoriale, i tanti ligi al dovere e ai pagamenti rischiano di finire gambe all’aria a causa di chi non lo è, compiendo una sorta di concorrenza sleale. Allo stesso modo, la classe politica è unanimemente d’accordo sulla riduzione delle tasse e sulla semplificazione. A migliorare la situazione ci ha provato il centrodestra a trazione berlusconiana prima e poi il centrosinistra. Entrambi con alterne fortune. Ora tocca al governo di Movimento 5 Stelle e Lega, il cui cavallo di battaglia fiscale riguarda la flat tax. «Si andrà a toccare la cosiddetta imposizione diretta – afferma Luigi Lovecchio, docente di Diritto tributario avanzato all’università di Roma Tre – mentre non verranno toccate le tasse indirette, vale a dire l’Iva e le accise su gas, energia elettriche e imposte di fabbricazione che hanno, chiaramente, un peso a loro volta molto rilevante». Tornando alla flat tax, Lovecchio è abbastanza scettico sulla sua fattibilità: «Tutti – aggiunge il tributarista - saremmo teoricamente d’accordo sulla flat tax. Il problema sono le risorse. Il concetto è che se io faccio pagare solo il 15% o il 20% a te che non dichiari niente, allora tu sarai indotto a pagare di più. Ma ci vorrà tempo affinché si inizi a innescare un meccanismo virtuoso di autofinanziamento della flat tax, cioè che l’evasore dichiari di più». Quindi Lovecchio suggerisce una seconda via, un’entrata soft nel regime della flat tax: «Per un primo momento – aggiunge – mi limiterei a proporla per le Partite Iva. Anche perché per gli imprenditori una sorta di tassa piatta ci sarebbe già: si tratta dell’Iri, l’Imposta sul reddito imprenditoriale, valida per gli imprenditori e approvata dal governo Gentiloni. Doveva entrare in vigore nel 2018, ma è stata differita all’anno prossimo. Sostanzialmente si applica sul reddito di impresa gua-


approfondimenti

LE TASSE

INVISIBILI LA “FLAT” RIUSCIRÀ DAVVERO A LIMITARE IL PESO DEL FISCO?

L’analisi (scettica) del tributarista Lovecchio: «Non verranno toccate le tasse indirette, vale a dire Iva e accise su gas, energia elettrica e imposte di fabbricazione»

NICOLA ANTONELLO

dagnato, pari al 24%, se quel reddito rimane in impresa e viene reinvestito. Adesso si parla di abbassarla al 15%. Se si compie un’operazione di questo genere, allora il gettito minore che ne deriva è sostenibile nel breve periodo, perché la platea che ne beneficia sono gli imprenditori. E non tutti. E poi perché l’imposta resta bassa finché l’imprenditore non si preleva l’utile». Vi è una sorta di patto con l’imprenditore: se guadagni e reinvesti in azienda, creando altra economia e, magari, altri posti di lavoro, allora le tasse sono meno pesanti. Tuttavia quanto accaduto con l’Iri, secondo Lovecchio la dice lunga sulla sostenibilità della flat tax universale: «L’Iri è stata rimandata – aggiunge il professore universitario –

perché mancavano le risorse. Quindi mi chiedo: dove si possono trovare finanziariamente i soldi della flat tax, così come promessa in campagna elettorale?». Altro aspetto, altro problema: «Sono scettico sull’eventualità che gli evasori, attirati da un minore imposizione fiscale minore, inizino a pagare. Per loro, anche il 15% di tasse è sempre una fregatura. Per funzionare servirebbe una complessiva riforma fiscale unita alla creazione di strumenti forti per l’Agenzia delle entrate, a partire dal metterla in grado di utilizzare correttamente i miliardi di dati ricevuti. A mio avviso, l’unica speranza di funzionamento della flat tax è mettere l’evasore di fronte al bivio: pagare o essere sicuramente stanato». imprese e territorio | 29


storie di impresa

AREE DI CONFINE

La proposta di Confartigianato è arrivata a Roma Ora avanti facendo squadra

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storie di impresa

Restituire alle imprese in generale, e alle imprese manifatturiere in particolare, l’importanza, la centralità e il ruolo – anche culturale – che meritano. E sostenere tutte quelle iniziative – a cominciare dalla proposta di legge Aree di Confine – che possano riportare fiducia e slancio alla piccola e media impresa, cuore del benessere occupazionale del Paese. È un vero e proprio “manifesto per le Pmi” quello presentato a fine luglio dal presidente di Confartigianato Imprese Varese, Davide Galli, dal direttore generale Mauro Colombo e dall’intera giunta esecutiva dell’associazione (Antonio Ziliotti, Lorenzo Mezzalira, Giacomo Ciriacono, Fermo Borroni, Paolo Rolandi e Gianemilio Gasparri) al viceministro al Lavoro e allo Sviluppo Economico del Governo Conte, il tradatese Dario Galli, accompagnato dal deputato leghista Matteo Bianchi. Un manifesto messo a punto in occasione di un incontro programmatico dal quale due filoni sono emersi con particolare significatività: la manifattura intesa come pilastro sul quale poggiare la costruzione del futuro della provincia di Varese. E il progetto di legge (oggi proposta di legge) maturato nel corso di un “viaggio” di Confartigianato Imprese Varese nei territori a più alto rischio di desertificazione, a cominciare dal Luinese, area che risente più di altre della fuga di professionalità nel vicino Canton Ticino, complice un più basso cuneo fiscale e, di conseguenza, un più alto netto in busta garantito ai lavoratori italiani in uscita dal Bel Paese. E dai due filoni portanti sono discese altre urgenze per le imprese, a cominciare dalle regole del gioco che – parole del presidente Davide Galli - «cambiano troppo spesso e troppo rapidamente per mettere le imprese nella condizione di non convivere più con l’incertezza». «In questi anni molte delle politiche pubbliche – ha sottolineato Galli - sono andate nella direzione della grande industria. Ora è il momento di rimettere al centro la piccola e media impresa». A cominciare dal sostegno alla formazione e alla digitalizzazione (e ai relativi centri di divulgazione, come VersioneBeta e Faberlab) così come alle politiche di incentivo al welfare aziendale. Obiettivo: non perdere le opportunità di far crescere il territorio ed evitare il rischio di “decrescita infelice”. Temi sui quali il sottosegretario Dario Galli ha espresso la ferma intenzione di procedere con una sensibilizzazione forte ai massimi livelli del “Governo del Cambiamento”, invitando le imprese a farsi parte attiva e a far sentire una voce forte e univoca. Perché «l’Italia senza fabbriche e senza imprese è un Paese povero». Per arrestare la delocalizzazione o la chiusura delle imprese in difficoltà ecco quindi la fiscalità agevolata a favore dei dipendenti delle aziende con sede nelle aree di confine, introdotta dal progetto di legge che, il 23 luglio, è stato presentato alla Camera dei Deputati diventando Proposta di Legge. Primo firmatario, il deputato leghista Matteo Bianchi. «Da questo momento in poi sarà fondamentale il supporto di tutte le forze politiche di entrambi i territori e non solo». A dirlo è il presidente di Con-

fartigianato Imprese Varese, Davide Galli che, con l’associazione di viale Milano, ha lavorato oltre un anno per arrivare alla definizione di un progetto che ha raccolto il consenso di imprese e amministrazioni comunali oltre che il supporto diretto di Confartigianato Imprese Como. Tutto era partito dal progetto sperimentale ImpresAperta, attuato da marzo a giugno 2017 da Confartigianato Imprese Varese con l’allora presidente del consiglio regionale della Lombardia, Raffaele Cattaneo (oggi assessore all’Ambiente e Clima di Regione Lombardia, ndr) con l’obiettivo di raccogliere la voce delle aziende e portarla sui tavoli istituzionali. Di qui la presa d’atto delle forti criticità del Luinese nel trattenere in azienda le migliori professionalità tecniche a causa del dumping salariale esercitato dalle imprese del Canton Ticino e l’avvio di un percorso di ascolto e sintesi finalizzato a sostenere un progetto di legge. «Si è trattato, da parte nostra, di una iniziativa senza precedenti che ha richiesto un impegno difficilmente descrivibile da parte di molteplici professionalità interne» rileva Davide Galli, ricordando che il progetto prevede anche un pacchetto formativo messo a punto grazie all’attività dei professionisti di AreaLavoro e della scuola di formazione permanente VersioneBeta. «Il tutto è stato poi condiviso e recepito da più soggetti, pubblici e privati». Ora «la disponibilità del deputato Matteo Bianchi sposta tutto sul piano nazionale ed è lì che ci aspettiamo di raccogliere ulteriori consensi e convergenze trasversali» ribadisce Galli, insieme al presidente di Confartigianato Imprese Como Marco Galimberti. Un primo atto formale in tal senso è l’appoggio già messo per iscritto dall’amministrazione comunale di Varese, che ha confermato la volontà di ampliare il consenso bipartisan a sostegno della proposta di legge. Una proposta che, una volta tradotta in legge, avrà valore in tutti i territori di confine con Paesi stranieri, mantenendo intatto l’obiettivo: trattenere in Italia, e nelle aziende locali, le professionalità formate in loco a sostegno di tutte le forme di imprenditorialità e, in particolare, delle attività manifatturiere. L’approdo in Parlamento è dunque un passaggio importante ma non conclusivo. Prosegue Galli: «Al netto del risultato, questo provvedimento rappresenta, per noi, un modo per far arrivare alle massime istituzioni nazionali una richiesta forte ed esplicita di attenzione nei confronti di territori che, per loro natura, subiscono il peso del dumping salariale esercitato da territori dove il cuneo fiscale è nettamente inferiore rispetto a quello italiano». La proposta prevede un regime fiscale incentivante per i lavoratori che risiedono in Italia e sono occupati in aziende con sede legale in tutti i territori di confine entro e non oltre i 20 chilometri. In particolare, il reddito da lavoro dipendente prodotto nel territorio italiano da lavoratori residenti in Italia e dipendenti di aziende con sede legale entro i 20 chilometri dal confine, concorre alla formazione della base imponibile nella misura che va dal 70 al 50%. Ora la parola passa al territorio e a chi lo rappresenta.

SI È TRATTATO DI UNA INIZIATIVA SENZA PRECEDENTI CHE HA RICHIESTO L’IMPEGNO DI MOLTE PROFESSIONALITÀ INTERNE: ORA CI ASPETTIAMO DI AVERE ULTERIORI CONSENSI

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Fabio Violante - ceo di Arduino

IL FUTURO DI

ARDUINO è la creatività aziendale open source «Gli artigiani sono i veri maker, antesignani del termine stesso. Con l’Internet of Things il modo migliore per capire qual è il potenziale per le aziende è farlo». Dai forni per le pizze ai musei Vaticani, Arduino ormai è ovunque, con il suo software che viene scaricato una volta ogni 2,6 secondi nel mondo. Ne parliamo con Fabio Violante, che da poco meno di un anno è il nuovo Ceo di Arduino, dopo che il fondatore Massimo Banzi ha ripreso in mano il controllo del 100% della società limitandosi a svolgere il ruolo, strategico, di chief technical officer. Come definirebbe Arduino? Una delle eccellenze italiane, credo. Un’azienda fondata da Massimo Banzi a Ivrea, quando era professore associato all’Interaction Desi32 | imprese e territorio


approfondimenti

gn Institute, che oggi è una piccola multinazionale che fa moltissima ricerca e sviluppo, in particolare a Torino.

IL MODO MIGLIORE PER CAPIRE CHE COSA L’IOT PUO’ FARE PER LE AZIENDE È SPERIMENTARLO L’OBIETTIVO? SEMPLIFICARE E MIGLIORARE I PROCESSI

Che cosa realizzate? Un prodotto per “maker” nato per aiutare i designer ad utilizzare l’elettronica con semplicità. Massimo, oggi Cto, cercava di risolvere un problema: il concept designer richiedeva lo sviluppo di schede custom per ogni singolo progetto. Arduino invece poteva essere riprogrammata con un microcontrollore e i suoi utilizzatori, con ambienti di sviluppo molto semplici, si sono scatenati. La nostra missione, pervasiva, è abilitare chiunque, rendendo semplici delle tecnologie complesse. L’altro principio chiave di Arduino è che è tutto open source, il che ha consentito ai “maker” di lanciarsi. Una rivoluzione? Vuole sapere che impatto abbiamo sul mondo? Abbiamo 26 milioni di utenti sul sito web, 500mila sul forum, quasi al livello di un prodotto consumer. Il nostro software viene scaricato una volta ogni 2,6 secondi nel mondo.

Aspetto importante, chi sviluppa applicazioni IoT? È sempre stato un mondo appannaggio di sviluppatori “embedded”, che sono tanti ma non tantissimi. Con l’IoT si affacciano designer e sviluppatori software: rompiamo i silos tra le varie discipline e rendiamo semplice un percorso. Ci faccia qualche esempio… Arduino ha avuto un impatto nella nascita di nuovi settori industriali come il 3D printing hobbystico: teniamo conto che ormai i microcontrollori Arduino Mega si trovano nelle schede delle stampanti che si vendono nei supermercati... Oppure il mondo dei droni, con il codice sviluppato con Arduino da Chris Anderson (ex direttore di Wired, poi Ceo di 3D Robotics, ndr). E ancora, stanno nascendo startup che utilizzano Arduino in produzione: le nostre schede long range ad esempio vengono utilizzate per applicazioni di tipo agricolo, come i sensori nei campi che misurano il grado di maturazione della frutta, oppure nell’ambito dell’augmentation dell’industrial IoT, dove si affacciano prodotti Arduino-based per costruire modelli di business come modulo della loro offerta produttiva. E ancora, in fase di prototipazione di device. Ormai Arduino ha una diffusione molto ampia… Le posso citare qualche dato. Siamo presenti anche nelle aziende grandi, una buona parte delle “Fortune 500”. E gli sviluppatori Arduino

richiesti su LinkedIn sono ormai nell’ordine delle migliaia. Abbiamo delle partnership in corso per essere un po’ la “Svizzera” di questo mondo, neutrali, lavorando con tutte le tipologie di connettività. Quale sviluppo per l’Internet of Things? Arduino oggi si muove in due ambiti, hardware ed education. Io sto cercando di spostarlo verso il cloud. L’approccio industriale di IoT oggi è una priorità per noi. Arduino sta sviluppando un proprio modello di business basato su applicazioni industriali. Stiamo passando all’utilizzo di Arduino in produzione: prototipazione, applicazioni, modulazioni, licensing commerciale della parte di intellectual property.

Quali potenzialità può avere l’Internet of Things nelle Pmi? Il modo migliore per capire che cosa l’IoT può fare per le nostre aziende è farlo. Arduino è progettato proprio per far capire il potenziale. Ricordiamoci solo di una cosa: “le persone ignorano il design che ignora le persone”, quindi è sempre importante un’esperienza utente gradevole. Ma persino il Vaticano utilizza Arduino per il tracking delle opere d’arte in prestito. Si sta diffondendo uno spirito “maker” anche nelle aziende tradizionali? Il 70% degli utenti professionali R&D nelle aziende sono maker anche nella vita. Noi vogliamo rendere semplice l’accesso a tutti. Com’è il rapporto tra il mondo delle Pmi e Arduino? Noto un’enorme attraction. Gli artigiani manifatturieri utilizzano Arduino per il controllo qualità, progettano soluzioni low cost ingegnandosi con Arduino. Dal basso arriva almeno il 20% degli utenti. Sono loro, gli artigiani, i veri maker, gli antesignani del termine stesso, ora con tre click trovano i dati sul cloud. Non abbiamo un dato preciso ma dall’esperienza, sono tanti i casi. Condivide l’idea che in futuro grazie a tutto quello che rientra nel mondo di I4.0 si apriranno nuove opportunità per i “piccoli”? Per il futuro l’obiettivo che ci poniamo noi è abilitare le persone ad essere creative, non solo come individui ma anche come aziende. La semplificazione e l’accessibilità per guidare le persone fino al miglioramento dei loro processi o all’attivazione di nuovi processi. Mi viene in mente un’impresa che produce forni industriali per pizzerie, che ha lanciato un nuovo modello business con un cloud che permette uno stream tra i manutentori e la casa madre, in grado di fornire dati precisi per le operazioni di mantenaince. Il prossimo passo sarà quello dalla prototipazione alla produzione. A. Ali. imprese e territorio | 33


RIVOLUZIONE TUTTE LE APP PER GESTIRE UNA PMI CON POCHI TASTI E TANTA SEMPLICITÀ Dalla gestione delle vendite all’organizzazione dei magazzini si utilizza la sola fotocamera del telefono: sono sempre di più le applicazioni che provano a spostare sui dispositivi mobili quello che un tempo si faceva con un pc

RICCARDO SAPORITI 34 | imprese e territorio


approfondimenti

UN TEMA CRUCIALE PER LE AZIENDE È LA COMUNICAZIONE INTERNA,PROBLEMATICA ANCHE SOLO QUANDO IN UNO SCAMBIO DI MAIL SONO COINVOLTI PIÙ DI DUE SOGGETTI

SMARTPHONE Gestire il magazzino, preparare le fatture, ricercare agenti di commercio, tenere riunioni con i propri collaboratori. Tutte attività che fanno parte della realtà quotidiana all’interno di una piccola e media impresa. E che, ovviamente, richiedono tempo. Ma come cambierebbero le cose se fosse possibile fare tutto questo attraverso una app sul proprio smartphone? Il fatto è che è davvero possibile. E sono tante le applicazioni pensate per essere utilizzate dalle aziende. A cominciare da quelle che permettono di gestire la logistica interna. Una delle più complete è senz’altro Wama. Grazie alla fotocamera dello smartphone, inquadrando il codice a barre o fotografando un prodotto, è possibile caricarlo o scaricarlo dal magazzino. L’app consente anche di gestire gli ordini, sia di acquisto che di vendita. Inoltre, consente di salvare la posizione dei prodotti all’interno del magazzino, così da poterli ritrovare più velocemente quando se ne ha bisogno. Altra soluzione è rappresentata da Magazzino Perfetto. Punto di forza di questa applicazione è la gestione dell’inventario. L’app ha anche già integrata una piattaforma per la gestione dell’e-commerce. Sul fronte della fatturazione, un’applicazione utile può essere Fattura Facile. Come suggerisce il nome, il funzionamento di questa applicazione è molto intuitivo. Tra gli elementi più interessanti, la possibilità di utilizzarla per inviare dei preventivi ai clienti. Possibile anche inserire il logo dell’azienda e memorizzare i dati dei clienti, così da non doverli inserire ogni volta. Un tema cruciale per le aziende è quello relativo alla comunicazione interna. Problematica quando in uno scambio di mail sono coin-

volti più di due soggetti, con il rischio che vadano persi pezzi importanti di informazioni. La soluzione? È Slack, un’applicazione gratuita disponibile per Android, iOS e Windows Phone. Si tratta di un’app di messaggistica, all’interno della quale è possibile creare dei canali, ad esempio dedicati a una particolare attività aziendale oppure ad uno specifico progetto. È ovviamente possibile definire chi possano essere i partecipanti a questa conversazione. Oltre che condividere immagini e documenti. Il tutto senza dover andare a ricercare tutte le mail dedicate alla discussione su un tema, dato che tutte le informazioni si trovano all’interno del singolo canale. Sul fronte della ricerca di agenti commerciali opera invece YoAgents. Si tratta di una start-up che all’inizio dello scorso mese di giugno ha siglato un aumento di capitale pari a 450mila euro e che rimane controllata al 63,73% da Digital Magics, il più grande incubatore italiano per le aziende innovative digitali. Questa realtà offre alle startup e alle Pmi la possibilità di accedere ad una rete commerciale formata da oltre duemila agenti diffusi su tutto il territorio nazionale. Sulla piattaforma, disponibile sotto forma di app, è possibile caricare i materiali relativi ai propri prodotti. Saranno poi gli agenti a scaricarli e a proporli sul territorio. Mentre le aziende, sempre tramite l’applicazione, avranno la possibilità di gestire la rete commerciale e visualizzare i risultati delle campagne. Lo smartphone, in buona sostanza, diventa per le aziende molto più che un semplice telefono. Grazie ad applicazioni che consentono di impiegarlo in diversi rami dell’attività aziendale, dalla gestione del magazzino fino alla ricerca di agenti commerciali, diventa sempre di più uno strumento di lavoro al servizio delle imprese. imprese e territorio | 35


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approfondimenti

CHI SCIVOLA SUI SOCIAL SI RIALZA CON IL DIALOGO Prima di tutto mettiamo da parte i pregiudizi. Il marketing sui social media non è una passeggiata in cui basta uno stile smart e un profilo ammiccante per conquistare gradimento e consensi. Facebook, Instagram, Twitter: i social media non sempre sono un terreno facile in cui promuovere il proprio business. La prima tentazione in cui è facile cadere è quella di misurare il successo della propria strategia di marketing solo dal numero di fan o like raccolti. Grandi numeri uguale grandi risultati? Non sempre, dipende innanzitutto dal genere di attività che si intende promuovere. Nel caso di un negozio o di un’attività commerciale, ad esempio, migliaia di follower possono non essere così significativi: «Like e follower si possono comprare, ai miei clienti dico sempre: meglio 500 buoni anziché cinquemila che non servono a niente» dice Alessandro Tommasi, social media manager di Eye Communication, con basi operative a Milano e Mantova. Pragmatismo e disincanto le due parole chiave per non farsi travolgere dai like. E consapevolezza che quando tutto sembra andare d’incanto, può capitare il passo falso, la gaffe, il messaggio sbagliato. In questi casi la cosa da evitare è far finta di niente perché allora sì che la valanga del social media fail rischia di travolgerci. Il concetto di crisi, sui social, è di norma rappresentato con il concetto di epic fail. Vale a dire un errore che diventa così evidente da evolversi in forma virale. Le conseguenze possono essere pesanti ed è per questo che le società più strut-

turate hanno di norma definito un protocollo di emergenza. Quest’ultimo è parte di un vero e proprio piano editoriale che deve essere impostato sui valori del brand e che deve tenere conto dei punti di forza ma anche delle eventuali debolezze dell’azienda. In questo ambito si provvederanno a definire gli obiettivi e il tone of voice. Lo stile comunicativo è tutto, accanto ovviamente ai contenuti. Nelle piccole imprese le procedure di norma non sono formalizzate. Però mai improvvisare: «Nel caso di artigiani e commercianti – spiega Tommasi – il problema più comune in questo campo è quello di non dare alla presenza sui social l’importanza che merita: il budget è limitato e spesso l’attività viene seguita dal figlio del titolare, magari a tempo perso e senza una chiara e coerente strategia di comunicazione». Risultato: nel migliore dei casi un’audience ai minimi termini, nel peggiore un calo del proprio livello reputazionale. Insomma, bisogna rivolgersi a professionisti dedicati, interni o esterni alla propria attività. Una necessità che si avverte in modo eclatante quando si ha necessità di gestire un errore di comunicazione oppure un feedback negativo. «L’indicazio-

ne generale – continua Tommasi – è quella di rispondere sempre alle critiche, in modo educato e cercando il più possibile di comprendere le ragioni di una critica sforzandosi di chiarire cosa può essere successo. Vero che talvolta, penso al caso dei ristoranti ma anche dei centri estetici, ci si imbatte in recensioni false, magari alimentate dalla concorrenza. Al netto di queste situazioni, però, la trasparenza e il dialogo pagano sempre. L’onestà di ammettere un proprio errore del resto può consolidare il credito, la reputazione di un’attività». Ciò che non può più fare è ignorare questi ambienti. Attraverso i social, i clienti, acquisiti e potenziali, dialogano con l’imprenditore, acquisiscono anche informazioni di base come l’orario di apertura o l’indirizzo. Indispensabile, quindi, stare sempre connessi per fornire risposte tempestive. Un profilo poco partecipato causa inefficienza e trasmette un’immagine di trascuratezza. «L’aggiornamento costante e non casuale è fondamentale – dice Tommasi – la qualità fa la differenza e lo stesso discorso vale per foto e video, contenuti sempre più importanti e su cui non si può improvvisare usando il telefonino, se non in circostanze eccezionali».

MAI IMPROVVISARE LE STRATEGIE, MAI IGNORARE I CASI CRITICI O GLI ERRORI, POSSONO PEGGIORARE LA SITUAZIONE. MEGLIO PUNTARE SU TRASPARENZA E QUALITÀ DEI CONTENUTI

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focus approfondimenti

CUSTOMER

SATISFACTION IL DIGITALE MIGLIORA LA GESTIONE DI CLIENTI E BUSINESS


focus approfondimenti

Ci sono diversi buoni motivi per abbracciare un approccio digital al customer care della propria azienda. In primo luogo, perché ciò che è digitale è reale: gli individui, le cose e gli ambienti sono sempre più connessi alla Rete e, come persone, troviamo sempre più naturale riuscire a connetterci con facilità alle soluzioni che cerchiamo per i nostri bisogni. Tra questi, ci sono sicuramente le risposte che pretendiamo dalle aziende che ci hanno fornito un prodotto o un servizio. Come clienti siamo soddisfatti di un customer care che funziona bene e questo è determinato sempre di più dalle tecnologie che usiamo per interfacciarci con il mondo. Secondo uno studio nel settore telecomunicazioni di McKinsey&Company, i clienti che ricevono un servizio di assistenza dalle aziende anche sui canali digitali sono tendenzialmente più soddisfatti di quelli che lo ricevono sui canali tradizionali. Ma, in generale, è ancora tanta la strada da fare tra le aziende, di qualsiasi natura e dimensione. Questo ragionamento vale ancora di più per l’Italia, come ricorda Paolo Fabrizio, esperto di social e digital customer service, speaker internazionale e autore del libro “La rivoluzione del social customer service”. Tra piattaforme, risorse umane e cultura dell’ascolto, il digitale può incidere profondamente nel modo in cui diamo risposta ai nostri clienti.

C’è chi parla di digital customer service come di una “nuova leva competitiva”. È d’accordo? E perché? Sì. Utilizzando piattaforme omni-canale, è possibile elevare l’asticella di monitoraggio e controllo del servizio, in misura maggiore a quanto si fa con canali tradizionali come il telefono. Il risultato a cui aspirare è un potenziale cliente che diventa cliente. Il tal caso, il servizio clienti converte la relazione in vendita. Pertanto, è importante che la qualità del digital customer care sia costante durante tutte le fasi: pre, durante e post. Il livello dell’asticella, in tutti i casi, va elevato. Quali sono le prospettive che vede in questo ambito nel 2018? Dobbiamo distinguere tra mercati molto avanzati come Usa e Regno Unito, e la realtà italiana. Riporto la mia esperienza al Customer Service Summit di New York: un trend di mercato è la crescita di app di messaggistica istantanea come Facebook Messenger e la recentissima funzione di WhatsApp for business, non ancora pronta per essere integrata in piattaforme evolute. In Italia siamo in ritardo. Da circa un anno assistiamo a un primo approccio serio in alcuni settori ma molto a “macchia di leopardo”. Registro un interesse per il mondo delle chat non legato a trend particolari o specifici settori. Da tempo però, alcuni settori specifici si sono mossi in modo deciso: le Telco (Tim, Wind, Vodafone), ma anche le compagnie aeree e le banche online.

IL SERVIZIO CLIENTI SPESSO È CONSIDERATO SOLO UN COSTO. TUTTAVIA OGGI LA COMPETIZIONE NON SI FA PIÙ SUL PREZZO MA SULLA QUALITÀ DELLA RELAZIONE

Qual è il corretto approccio al digital customer service da parte delle imprese o di chi in generale intende sviluppare una relazione corretta con i propri clienti? Parlare di digital customer service vuol dire avere ben chiaro che la relazione con il cliente è un elemento centrale e strategico per il business, a 360 gradi. Senza questa precisa visione, è difficile cominciare a parlare persino di customer service. Tutto ciò che è digital è un insieme di strumenti che andiamo ad aggiungere ma i fondamentali sono quelli legati alla conoscenza del servizio clienti e alla valorizzazione della qualità del servizio percepito. Questo aspetto è ancora difficilmente compreso in Italia. Che si tratti di aziende grosse o piccole, il servizio clienti viene sottovalutato, non è considerato come necessità ma come costo. Tuttavia occorre consapevolezza rispetto al fatto che la competizione non si fa più sul prezzo ma sulla qualità del servizio che il cliente percepisce. Essere pronti al digital vuol dire avere già in tasca questi concetti. Poi si tratta di decidere se integrare nuovi canali digitali. Per fare questo, occorre formare almeno una persona in azienda dedicata al customer service. Un approccio corretto parte da queste domande: chi sono i miei clienti? Che età hanno? Quali canali digitali usano frequentemente? Quali vorrebbero utilizzare per ottenere assistenza? È inutile fare sforzi di business se non sono affiancati da obiettivi chiari e seguiti da approcci metodologici.

Quali sono i principali consigli che darebbe a un’impresa che volesse integrare un digital customer service, partendo da zero? Per parlare di utilizzo di canali digitali la conditio sine qua non è che ci sia almeno una persona dedicata al servizio clienti. È comunque difficile da integrare il digitale avendo una sola unità a disposizione. Chiediamoci: abbiamo abbastanza tempo per farlo? O rischiamo di essere pessimi su alcuni canali? Ogni canale che si decide di aprire, inoltre, va presidiato costantemente. Il digital customer care è come un rubinetto: quando il cliente lo apre (domanda), si aspetta che l’acqua esca subito (risposta). L’azienda, quindi, deve investire nella formazione di persone capaci di comunicare efficacemente con il digitale, rispondendo con un linguaggio specifico per ciascun canale di contatto. Quali sono le principali soluzioni tecnologiche che un’impresa deve integrare per avviare un corretto digital customer service? Esistono numerose piattaforme e cruscotti digitali. Il consiglio, nel caso si scelga di aprire più di un canale digitale, è quello di ricorrere a una piattaforma omni-canale, un cruscotto che integri tutto, compresi i canali tradizionali (telefono, email) e che riesca a restituire una reportistica in tempo reale per misurare le performance sia di team, sia individuali. A. Mor. imprese e territorio | 39


Racconti d’impresa

AZIENDE RACCONTATEVI MA SENZA ROUTINE

SORPRENDETECI CON GLI IMPREVISTI

E AVREMO UNA GRANDE STORIA

Luciano Manuzzi - regista del film “Mister Ignis”

ADRIANA MORLACCHI

Fare un film su una piccola o media azienda italiana? «Perché no, a patto che la storia dell’azienda o della persona che la anima sia dirompente. Per diventare soggetto di un film, un’azienda deve distinguersi dalle altre con qualcosa di inedito o controcorrente» risponde Luciano Manuzzi, il regista del film “Mister Ignis, l’operaio che fondò un impero”, raggiunto telefonicamente in Sicilia dove si trova per terminare un film sull’accoglienza. «Sono da sempre fortemente attratto dal presente e dalle vicende che lo caratterizzano. Per esempio, avrei voluto fare un film sulla storia della fabbrica Maflow di Trezzano sul Naviglio presa in gestione dagli operai e rilanciata sul mercato scongiurandone il fallimento. Quella è una storia eccezionale, ma qualcuno mi ha preceduto, c’è sempre la rincorsa per accaparrarsi le storie più meritevoli». Come mai ha deciso di fare un film su Giovanni Borghi?

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Ad onor del vero non è stata una mia idea. Il film mi è stato proposto dal regista Renzo Martinelli: inizialmente avrebbe dovuto girarlo lui. È un progetto che ho ereditato, ma questo non significa che non abbia messo le mani nella storia. Mi ha molto interessato raccontare un personaggio significativo del boom economico quale è stato Giovanni Borghi. Quel periodo lì ha fatto l’Italia. E lo dico senza retorica. È stato un periodo in cui chi aveva idee, intraprendenza, slancio, voglia di fare e di proporre, trovava i supporti logistici e finanziari. Era, in quell’epoca, più semplice e diretto il modo di realizzare i propri progetti. “Semplice” forse non è la parola adatta, ma almeno era possibile, perché la disposizione della realtà di allora lo consentiva. Oggi è vero che ci sono le start-up, ma queste devono essere “incanalate” in un ambito, in un percorso. Non è facile farle decollare. Per tornare ad Ignis, le voglio dire che io ho sempre avuto voglia di evocare la sua epoca, di raccontare il boom economico, e così quan-


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do mi è stata prospettata l’idea di fare un film su Borghi ne sono stato entusiasta. E poi da sempre, a casa, ho un frigo Ignis. Può darci qualche anticipazione del suo nuovo film? Si tratta di un film sull’accoglienza. S’impernia sulle vicende di un assessore alle Politiche sociali di Palermo della Giunta Orlando, Agnese Ciulla, che con il suo operato e la sua esperienza è riuscita a redigere un protocollo che è poi servito per produrre la legge per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati. Il tema dell’accoglienza è in questo momento al centro del dibattito sociale in tutti i Paesi occidentali e vederne ingrandita una piccola sezione penso possa aiutare a capire questo enorme e straordinario e contrastato problema. L’idea del film risale a due anni e mezzo fa, ma - a causa dei tempi tecnici che richiede la messa in opera di un film - è stato girato adesso, in un periodo che appare molto lontano rispetto

a quello in cui è ambientata la storia, e anche perché molte cose in Italia sono cambiate. La pellicola sarà pronta entro Natale, non so quando e come sarà messa in palinsesto, penso nella primavera del 2019. La Rai come servizio pubblico si è fatta carico di raccontare il nostro Paese con un mosaico di storie che consentono allo spettatore di farsi un’idea, di capire meglio gli anni che stiamo vivendo. Ritiene che per un’azienda abbia senso raccontarsi? Se si, come dovrebbe farlo? Si, in assoluto raccontarsi è un bene per tutti, quindi ha senso anche per un’azienda. Ma la narrazione, per funzionare, deve riuscire a essere dirompente, cioè riuscire a spezzare quella crosta di routine che crea la normalità che la sovrasta. Da storia normale e prevedibile, a storia eccezionale e sorprendente. Sono sempre le conseguenze di un imprevisto che consegnano a una storia la possibilità di essere raccontata.

Cosa le è rimasto del film su Borghi? All’inizio ho avvicinato la figura di Borghi con curiosità. Poi ho scoperto che nel suo fare, e nel suo operare, c’era una modalità un po’ visionaria, che non teneva conto della realtà tout court. La visione è l’insegnamento più grande che mi ha lasciato questo sorprendente personaggio. La grande immaginazione, il non fare i conti spesso e volentieri con la realtà e la concretezza e le esigenze del quotidiano, lo ha sempre portato un passo avanti rispetto agli altri. Ha innovato i frigoriferi grazie al poliuretano espanso: se non fosse stato per la sua ostinazione, non sarebbe mai riuscito a farlo. A un certo punto sembrava dover buttare nel lago di Varese ventimila frigoriferi perché all’inizio della lavorazione del poliuretano le fiancate uscivano storte, ma è andato avanti, a testa bassa, perché convinto che la sua innovazione avrebbe migliorato il prodotto. L’ostinazione è l’aspetto del suo carattere che più mi ha affascinato. imprese e territorio | 41


approfondimenti

VERBAL IDENTITY QUANDO LA PAROLA SCATENA L’EMOZIONE

Autorevole, semplice, sofisticata, amichevole. Ogni azienda ha una personalità, il problema spesso è renderla riconoscibile e unica attraverso tutti i testi utilizzati per comunicare. «L’identità verbale è una componente di branding, posizionamento e comunicazione fondamentale per ogni azienda. Questo perché, oggi più che mai, le aziende comunicano a persone che orientano la propria scelta verso un prodotto, o un servizio, non più succubi della logica del miglior prezzo, ma protagonisti di un rapporto dialogico ed emozionale con i brand» spiega Valentina Falcinelli, autrice del libro “Testi che parlano”, edito da Franco Cesati Editore e titolare di Pennamontata. «Mi spiego meglio: se fino a qualche tempo fa alle aziende poteva bastare essere le più competitive sul mercato, oggi non è più così. Oggi devono essere le più brave a creare una relazione con le persone e devono intessere con loro un rapporto quanto più vero e intimo e personale possibile. Ed è qui che entra in gioco l’identità verbale, la voce dell’azienda: un elemento chiave per rendere il brand più umano e permettergli di comunicare con maggiore vicinanza ed empatia e in modo più distintivo. A questo punto, trovare la propria voce, e usarla in modo coerente sia off che on-line, è di vitale importanza». Il tono di voce è il modo in cui un’azienda parla all’esterno. È lo stile che sceglie per comunicare sé stessa, per mostrarsi saggia piuttosto che leggera e frizzante o anticonformista e ribelle. «La voce deve rispecchiare personalità e valori aziendali, deve essere quella che usa il pubblico per comunicare col brand e deve essere vera – afferma Falcinelli - La voce migliore da usare, quindi, è la propria, né più né meno, ed è a questo che l’azienda deve prestare attenzione. Occorre solo capire quale sia questa vera voce. Trovarla, e poi usarla al meglio, è un lavoro tutt’altro che semplice». Individuare la propria voce è di fondamentale importanza, tanto più che oggi, amplificata da internet e dai social, non si spegne mai. «Il di-

gitale ha dato alle aziende l’incredibile opportunità di essere presenti praticamente sempre e per tutti – continua l’esperta - Parlo di “opportunità”, non di obbligo. Presidiare un canale significa infatti animarlo (dargli un’anima), arricchirlo di contenuti pensati per il pubblico, renderlo specchio dei valori aziendali e trasformarlo in uno spazio di scambio uno a molti, ma anche e soprattutto uno a uno. In tal senso, appunto, essere presenti ovunque non è un obbligo. Dal momento in cui il brand decide di abitare un social, la possibilità però diventa obbligo: il brand ha l’obbligo di abitare quel social al meglio». La voce, per un’azienda, si esprime soprattutto con parole scritte. Questo anche sui social, piattaforme usate perlopiù per colloquiare. «La scrittura diventa quindi uno dei veicoli più potenti per arrivare bene al cuore del pubblico, perché è solo con i testi e le immagini che l’azienda può comunicare – puntualizza l’autrice - Scrivere bene, in modo corretto, però, non basta più: occorre scrivere testi che parlano». Per individuare il proprio tono di voce, il segreto è domandarsi: «Se l’azienda fosse una persona, chi sarebbe? Come parlerebbe?» e, poi, «In quali valori crederebbe questa persona? E come li porterebbe avanti, proteggerebbe, magnificherebbe?». «Dopodiché occorre valutare il proprio posizionamento, capire se lo si vuole conservare o stravolgere; bisogna studiare le proprie buyer personas (età, estrazione sociale, sesso, gusti, linguaggio…) e far sì che la propria voce sia allineata alla loro – conclude - Questi sono i primi, primissimi passi da fare per arrivare a definire l’identità verbale di un’azienda». E, ancora: «Si tratta di un lavoro molto impegnativo, che richiede esperienza ed enorme sensibilità. La brand voice, infatti, è una forte leva strategica di marketing. Scegliere quella sbagliata potrebbe compromettere il posizionamento dell’azienda. Certo, si può sempre correggere il tiro, ma questa è una mossa delicata e ancor più rischiosa. Detto ciò, è fondamentale non improvvisare. Ricordate: il tono di voce è l’Everest della scrittura». A. Mor.

LE SCELTE DEI CLIENTI AVVENGONO SULLA BASE DELLA CAPACITÀ DELLE AZIENDE DI ESSERE LE PIÙ BRAVE A CREARE UNA RELAZIONE CON LE PERSONE

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