Imprese e Territorio - n. 03/2019

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M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N F A R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

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editoriale

EUROPA

non solo numeri e monete

Come sarà l’Unione Europea nel 2020? Certamente diversa, per molti aspetti, da come è stata negli ultimi anni. Diversa politicamente, perché le elezioni di fine maggio richiederanno una maggioranza diversa e più ampia di quella tradizionale tra popolari e socialisti. Diversa strutturalmente, perché la Gran Bretagna (salvo sempre possibili sorprese) se ne andrà a fine ottobre dopo un processo lungo e difficile che peraltro ha dimostrato come la Ue sia qualcosa di diverso e di più impegnativo di un circolo del golf da cui si può uscire consegnando le chiavi dell’armadietto, e magari pagando le quote arretrate. Diversa economicamente perché, al di là del caso italiano, dovranno comunque essere ridiscussi trattati e parametri decisi ed approvati in tempi sostanzialmente differenti. Il 2020 peraltro è un anno particolare. E’ il punto di arrivo, ma insieme punto di nuova partenza, infatti di quella strategia “Europa 2020” concepita per puntare ad una crescita “intelligente, sostenibile e inclusiva”. Con obiettivi sul fronte dell’occupazione, della ricerca e sviluppo, dei cambiamenti climatici e dell’energia, dell’istruzione, della lotta alla povertà. Per un’economia della qualità quindi, un’economia che considera i numeri e le monete come strumenti, in una logica invece di sviluppo nel rispetto dei valori sociali e ambientali. Pur senza clamori, e fortunatamente, anche senza troppe polemiche, molti passi avanti sono stati compiuti in questa direzione. Con un’Italia per molti aspetti ancora in ritardo (basti pensare al tasso di occupazione fermo attorno al 65% contro un obiettivo europeo del 75%) , ma che per SPECTATOR

altri ha saputo mettere a frutto azioni e strategie positive. E’ il caso dell’economia circolare dove proprio l’Italia, come afferma l’ultimo rapporto del “Circular economy network” e dell’Enea è al primo posto tra le grandi economie europee precedendo Regno Unito, Germania, Francia e Spagna. Non è un risultato da poco anche perché costituisce un segnale importante nella capacità competitiva delle imprese. In un paese povero di materie prime e di fonti energetiche infatti far diventare il tradizionale rifiuto una nuova materia prima costituisce il duplice vantaggio di ridurre i costi e garantire una migliore tutela ambientale. Per raggiungere questi obiettivi la buona volontà delle imprese è condizione necessaria, ma non certo sufficiente. E’ indispensabile quello che l’Ue ha fatto: un piano di azione con una logica innovativa complessiva sia sul piano tecnologico, sia su quello organizzativo, sia per gli aspetti normativi, sia per quelli finanziari: quindi sollecitando una sensibilità e una volontà comune a livello europeo di Stati membri, regioni, città, imprese e cittadini. La dimensione europea appare fondamentale in una prospettiva che coinvolge altri campi dove la provincia di Varese può avere un ruolo da protagonista. Basti ricordare tre tra i dieci punti di forza messi in luce dalla ricerca di The European House Ambrosetti per Confartigianato Imprese Varese: la presenza del Centro di ricerca di Ispra, il ruolo strategico di snodo di connessione tra l’Europa continentale e l’Italia settentrionale e la leadership sullo sviluppo sostenibile. Come dire: senza l’Europa della concretezza non si va molto lontano.


SOMMARIO editoriale

primo piano

EUROPA, NON SOLO NUMERI E MONETE_________________________________________________03

LA LEZIONE DEL PROF ZAMAGNI: “SIAMO NELL’EPOCA DELLA RESPONSABILITÀ”______________05 PIÙ IMPRESA E PIÙ RIPRESA RIDUCENDO LE EURO-REGOLE________________________________08 UN ANDAMENTO LENTO CHE VALE 76 MILIARDI__________________________________________ 10 L’ITALIA BATTE (QUASI) TUTTI. I FONDI CI SONO MA COME LI SPENDIAMO?___________________ 12 NORD MEGLIO DEL SUD. LOMBARDIA IN TERZA POSIZIONE_________________________________ 13 SPREAD, FLAT TAX E UE: RIFLESSIONI CONTROCORRENTE_________________________________ 14 DALLE INIEZIONI FORZATE ALLA PROGRAMMAZIONE. CHI GIOCA D’ANTICIPO VINCE IN COMPETITIVITÀ__________________________________________ 16

Inchieste

LA RIVOLUZIONE È CIRCOLARE________________________________________________________ 18 LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE GREEN______________________________________20 I PANNELLI ECOLOGICI DOVE TUTTO RICOMINCIA_________________________________________22 LA START UP RESPONSABILE NON INQUINA_____________________________________________24 ELETTRAUTO. LA MOBILITÀ CAMBIA I MESTIERI___________________________________________26 LA CASSAFORTE DELLE TERRE RARE___________________________________________________28

approfondimenti LA BABELE DI LINGUE RALLENTA IL CREDITO. SERVE IL VOCABOLARIO DELLA FORMAZIONE____________________________________________30 CHI SI PRENDE AMAZON VINCE________________________________________________________32 ZOMBI, BOLLITI O IMPRENDITORI?______________________________________________________34 L’INTELLIGENZA DELLA MACCHINA DIPENDE DALL’UOMO__________________________________36 FORMULA MILANO: “IL SEGRETO DEL DIGITALE È LA CHIAREZZA”___________________________38 INNOVARE PER CRESCERE. NON SOLO PER PROVARCI____________________________________40 ALLA RICERCA DEI “LUOGHI DELL’INNOVAZIONE”. PER NON CREARE VINCITORI E VINTI________42

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese - Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONI Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli

Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico e impaginazione - Confartigianato Imprese Varese Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.500 copie - Chiuso il 26 Giugno 2019 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


primo piano

La lezione del Prof Zamagni

SIAMO NELL’EPOCA DELLA RESPONSABILITÀ

«Ai giovani bisogna far capire che il loro mestiere non si esaurisce con il quadrare dei conti. Bisogna adoperarsi con le istituzioni e la società civile. Tu imprenditore sei portatore di un carisma»


primo piano

STEFANO ZAMAGNI PRESIDENTE DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA DELLE SCIENZE SOCIALI

MARILENA LUALDI

Il presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali a “Imprese e Territorio”: «Il nostro tempo richiede alle Pmi di diventare agenti della trasformazione del territorio. Non solo di non tagliare alberi o non distruggere l’ambiente, ma di intervenire in maniera appropriata per uno sviluppo endogeno» 6 | imprese e territorio

Questo è il tempo in cui essere responsabili, più che mai. Civilmente responsabili. Un dovere e un’opportunità, che tocca prima di tutto le piccole imprese. Il professor Stefano Zamagni – che insegna all’università di Bologna e alla John Hopkins – è da poco presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. L’ha designato papa Francesco. Con il suo saggio pubblicato da Il Mulino “Responsabili – Come civilizzare il mercato” porta un messaggio forte. E di speranza. Lo scrive, l’economista: «Siamo alla vigilia di una nuova stagione imprenditoriale che si caratterizza sia per il rifiuto di un modello fondato sullo sfruttamento (della natura e dell’uomo) in favore di un modello centrato sulla logica della reciprocità, sia per lo sforzo di dare un senso all’attività di impresa, la quale non può ridursi a pensarsi come mera “macchina da soldi”». Viene da chiedergli se questo passaggio – dalla responsabilità sociale a quella civile per le aziende – non sia una cosa per grandi: «Anzi, soprattutto le piccole possono fare la differenza. Perché hanno un’aderenza al territorio, che le grandi non possiedono. Vivono in osmosi con il loro territorio». Ma che cos’è questa nuova responsabilità? In una sua recen-


primo piano

sione al saggio, l’ha fotografata il direttore di Confartigianato Varese, Mauro Colombo: «Che sia la “persona” il primo soggetto ad assumere una responsabilità, perché l’uomo non è un individuo “diaforico” (esentato dal giudizio morale). Ma è costantemente sottoposto a una serie di relazioni con altri soggetti». La responsabilità in realtà è un concetto vecchio come il genere umano, ci dice il professor Zamagni. Che precisa appunto: «Ha conosciuto però diverse versioni, l’ultima è quella di imputabilità. Un soggetto compie un’azione, da essa derivano determinate conseguenze e l’agente ne è responsabile. Un concetto dominante fino a cinquant’anni fa. Ma poi troppo debole». Perché troppo è accaduto: «Il nuovo concetto – prosegue l’economista- sull’onda di tanti contributi che nel libro cito ampiamente, fa emergere la responsabilità come prendersi cura. Io sono responsabile non solo per quello che faccio, ma anche per quello che potendo fare non faccio». Un’idea che si nutre anche del pensiero cristiano, con le omissioni che non sono meno pesanti. Perché questa accezione di responsabilità però prende piede? La stagione della globalizzazione e la nuova rivoluzione industriale ci mettono di fronte a una considerazione: i problemi maggiori si vivono perché coloro i quali hanno la possibilità di agire dal punto di vista politico, culturale, economico, stanno alla finestra.

L’analisi

rie operano attraversano il meccanismo dei prezzi. Rompono il legame tra la gente e le conseguenze». Come quando la borsa merci di Chicago consentì le emissioni di derivati che avevano come sottostante il prezzo dei cereali e del riso. Le popolazioni povere furono colpite dalla sottonutrizione. I dirigenti replicavano che non avevano alcuna intenzione di far morire di fame quella gente…». Ma per l’impresa è un’altra musica. Già si era fatta strada la responsabilità sociale. Adesso la nuova nozione di responsabilità civile chiede di più, ancora: il prendersi cura, appunto. «Le domanda di fare cose anche se non sono nel suo interesse. Di diventare agente di trasformazione del territorio. Non solo di non tagliare alberi o non distruggere l’ambiente (responsabilità sociale), ma di intervenire in maniera appropriata per provocare uno sviluppo endogeno del territorio».

«A un bambino piccolo si insegna a mangiare con coltello e forchetta e, dopo che ha ripetuto il gesto, gli viene spontaneo. Ecco, prima compi le opere buone, poi ti convincerai e sarai contento di averle fatte»

A questo punto due direzioni vengono evidenziate. Quella della finanza, che ha creduto in una doppia moralità. «La grande crisi del 2007 non è dovuta all’insipienza di qualcuno – osserva – Bensì a questa tesi, che non ha mai tenuto conto delle cosiddette esternalità pecuniarie, concetto da poco entrato nell’uso degli economisti. Tutti conoscono quelle tecniche, come può essere una fabbrica che inquina. Ma quelle pecunia-

Il libro attraversa casi concreti, evoca la saggezza anticipatrice di don Milani. Un concetto così cristiano, ma che passa pure da Aristotele. Il bene di ciascuno può essere raggiunto con l’impegno di tutti. Di più, rileva Zamagni: «Non può essere vantaggiosamente fruito se non lo è anche dagli altri».

In questo, le piccole aziende possono essere ancora più protagoniste. E i giovani imprenditori: «Bisogna far capire loro che il loro mestiere non si esaurisce con il quadrare dei conti. Bisogna adoperarsi con le istituzioni e la società civile. Tu imprenditore sei portatore di un carisma. E non puoi omettere un’azione». Un rispondere per il bene comune. E non serve la consapevolezza per agire, prima: «Sbagliatissima questa idea, frutto di persone che non hanno i piedi per terra. A un bambino piccolo si insegna a mangiare con coltello e forchetta anche se non è consapevole. Dopo che ha ripetuto il gesto, gli viene spontaneo. Ecco, prima compi le opere buone, poi ti convincerai. E sarai contento di averle fatte». imprese e territorio | 7


primo piano

Più impresa e più

RIPRESA riducendo le

EURO-REGOLE LIDIA ROMEO

8 | imprese e territorio


primo piano

L’Europa continuerà ad essere una risorsa positiva per le aziende anche nei prossimi due anni, nonostante i forti cambiamenti in atto, dall’addio di Draghi alla procedura d’infrazione contro l’Italia appena avviata. A tracciare questo orizzonte, con tanto di analisi puntuale, è Carlo Altomonte, professore associato di politica economica europea dell’università Bocconi di Milano. Dal primo novembre Mario Draghi non sarà più alla guida della Banca centrale europea: è la fine di un’era durata otto anni. Quali cambiamenti è lecito attendersi? In realtà la Bce ha già deciso di mantenere i tassi bassi nel prossimo futuro, almeno sino a tutto il 2020, vista anche la previsione di un ciclo economico anemico, con una mini ripresa tra fine 2019 e inizio 2020, e un rallentamento più marcato nel 2021. Inoltre, è stata lanciata una terza TLTRO (Targeted Longer Term Refinancing Operations), che per due anni offre alle banche la possibilità di prendere a prestito a tasso zero del denaro dalla Bce, purché sia destinato al finanziamento delle imprese nell’economia reale. Quindi, almeno sino alla fine del 2020, la politica monetaria è rassicurante.

Il bilancio dell’Ue

L’Europa deve mostrarsi unita per far valere la sua forza, ma dopo l’ultima tornata elettorale non sembra che a prevalere sia un clima di coesione... Serve un cambio di passo nella politica fiscale europea. Perché se è vero che negli ultimi 5 anni l’Europa nel suo complesso ha reagito bene alla crisi creando 12 milioni di posti di lavoro per arrivare a un tasso di disoccupazione attuale inferiore a quello del 2013, è altrettanto vero che questa crescita è stata a macchia di leopardo, con aree regionali come l’Italia e, peggio, il Sud Italia, che sono rimaste indietro. Una politica economica di sole regole da sola non basta. Servono nuovi strumenti di spesa congiunturali. Ci sono i margini politici per pensare a un simile cambio di rotta? Al di là degli ultimi risultati elettorali bisogna considerare alcuni elementi non trascurabili che potrebbero giocare a favore di un consenso politico condiviso, assente in questo momento. Anche la Germania, ad esempio, è colpita da una prospettiva di crisi, tanto che le sue prospettive di crescita sono dimezzate da 1,2 a 0,6 punti percentuali. L’economia europea produce da sola il 25% del Pil mondiale, ma ha bisogno di sostenere anche dall’interno il suo mercato, non solo e non tanto a livello nazionale, ma più in generale a livello comunitario. Perché si arrivi a questa consapevolezza anche le imprese possono giocare un ruolo, esercitando delle pressioni in tal senso.

Ciò che davvero cambierà il rapporto tra Europa e benessere, dice il professor Carlo Altomonte, è un cambio di passo nella politica fiscale

C’è poi tutta la partita dei bandi: Horizon 2020 diventerà Horizon Europe 2021-2027 e Cosme si trasformerà in InvestUe. Saranno strumenti efficaci? Quella dei bandi è una partita che sta alla Commissione chiudere entro l’inizio del 2020. L’indirizzo è quello di un rifinanziamento e ampliamento di questi strumenti a sostegno della competitività delle imprese, riducendo con ogni probabilità le risorse destinate al sostegno dell’agricoltura e delle regioni dell’Est. Volendo allargare l’orizzonte sul piano internazionale, quale ruolo economico può giocare l’Unione Europea rispetto alla minaccia dei dazi riproposta dall’America di Trump e dalla Cina? La crescita economica italiana è decisamente legata alle esportazioni, che raggiungono tutto il mondo anche attraverso la Germania. L’Europa deve riuscire a mantenersi terza nella guerra dei dazi tra Cina e Usa e trovare al suo interno la forza politica di mettere sul piatto tutto il peso economico del più grande mercato mondiale. Un peso che conta se si ragiona in maniera unitaria, come un soggetto unico. Il primo banco di prova saranno i dazi minacciati da Trump sulle importazioni di auto in Usa.

A livello nazionale però sull’Italia pesa l’apertura di una Procedura di Infrazione… ...che sicuramente partirà a luglio, costringendo il Governo a scegliere tra due possibilità. Chiedere una manovra correttiva già con la Legge Finanziaria, oppure esporsi alle sanzioni, che prevedono, tra le altre cose, il blocco dei finanziamenti infrastrutturali. Ma arrivare a questo secondo scenario non conviene a nessuno, neanche alle forze di governo che cadrebbero a breve giro su pressione dei mercati. Piuttosto bisognerà trovare un accordo sul modo per risparmiare che, senza rinunciare a quota 100 e Reddito di cittadinanza significa alzare l’Iva o inserire una patrimoniale. Oppure qualcuno tra Lega e 5Stelle, prima della fine dell’estate troverà il casus belli per far saltare la coalizione. imprese e territorio | 9


primo piano

Un

DAVIDE IELMINI

ANDAMENTO LENTO che vale 76 miliardi

«L’Italia spende poco e spende male». Mauro Cappello, docente all’Università Roma Tre nel corso di “Progettazione e Finanziamenti europei” del Dipartimento di Scienze Politiche, lo dice da diversi anni e adesso lancia un altro allarme: «In questi mesi è in corso il negoziato con l’Unione Europea per l’assegnazione dei fondi del periodo 2021-2027, ma la nostra forza contrattuale potrebbe essere ridotta in considerazione del fatto che l’Italia non ha utilizzato gran parte di quelli precedenti». Il nodo gordiano dei fondi europei è questo: i soldi ci sono e sono tanti – 76 miliardi di euro a disposizione: 44 provenienti dall’Europa e 32 dallo Stato italiano – ma, in proporzione, spendiamo troppo lentamente. Infatti, «siamo i penultimi in Europa con una percentuale del 20% di spesa certificata. Male se pensiamo che la Grecia fa un 31% e la Polonia il 30%. Questa nostra debolezza danneggia cittadini e imprese per la mancata realizzazione di quei lavori, servizi e forniture che potrebbero farci guadagnare in benessere e competitività», incalza il professore. I fondi strutturali europei a disposizione sono quattro: il Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale), l’Fse (Fondo sociale europeo), il Feasr (Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale) e il Feamp (Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca). La

somma messa a disposizione dai soli Fesr e Fse si conta in 52 miliardi di euro. Non tutto, però, è da buttare. Prosegue il professore: «Le regioni virtuose non mancano: la Toscana ha certificato il 33% delle spese Fesr e l’Emilia-Romagna addirittura il 48%, ma in altre regioni - per esempio quelle del Sud Italia - la spesa media è molto più lenta, tra il 16% ed il 18%». Inutile lamentarsi: l’Unione Europea non ha alcuna responsabilità. La questione, aperta da troppo, porta ad ulteriori riflessioni se si pensa al fatto che «nel periodo 2000-2006 l’Italia ha ricevuto dalla Ue la premialità per il modo e la velocità in cui i fondi erano stati spesi. Da anni è tutto cambiato: tra il 2014-2018 la gestione del governo italiano su queste risorse è stata scriteriata», sottolinea Mauro Cappello. Che fa nuovamente riflettere quando sottolinea quanto le opportunità si stiano buttando al vento: «Dopo il 2006 ha preso il via il declino. Nel 2012, per tamponare la situazione, lo Stato italiano ha istituito l’Agenzia per la coesione territoriale con il compito di gestire i fondi europei e di spenderli con sensatezza. Niente di fatto: i programmi che gestisce la stessa Agenzia – il Pon Governance e il Pon Città Metropolitane – hanno percentuali di spesa certificata bassissima. Un vero paradosso se si

L’importo è riconducibile ai soli fondi strutturali ed è un patrimonio che il nostro Paese sfrutta male: l’allarme del professor Mauro Cappello (Università Roma Tre)

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pensa che l’Italia dispone di 1 miliardo e 600 milioni di euro da spendere in assistenza tecnica per aiutare le pubbliche amministrazioni a gestire, bene, i fondi. E invece? I risultati di molte regioni sono scadenti». L’Europa, vista da chi è lontano da Bruxelles e non ha dimestichezza con i meccanismi che la guidano, sembra qualcosa di inavvicinabile. Spaventa forse l’idea di doversi misurare con un’entità gigantesca, o di dover spendere tempo e risorse per un risultato che non è né certo e né garantito. Ma seguendo l’analisi del professore, la storia che si racconta è un’altra: «Le risorse non utilizzate dai singoli Stati vengono disimpegnate da Bruxelles e questo crea una voragine nell’economia e un danno alla politica di coesione. Infatti, la differenza di velocità di spesa tra Nord e Sud determina un peggioramento del “gap” economico, sociale e territoriale tra queste regioni. Insomma, i fondi strutturali finiscono per produrre effetti opposti a quelli che si volevano ottenere: una situazione davvero drammatica». Una situazione che sembra complessa ma, dalle parole di Mauro Cappello, non lo è: «Sa cosa mi dicono i colleghi a Bruxelles? Questo: l’Italia invia moltissime proposte alla Commissione, e anche belle, ma sono mal progettate. Paghiamo lo scotto, dunque, di non avere organismi che spieghino le procedure di accesso ai fondi e che aiutino le imprese a progettare. Le mie proposte sono queste: la prima è quella di inserire in ogni facol-

Il bilancio dell’Ue

tà universitaria un corso di progettazione dei fondi europei; la seconda di smetterla di farsi la guerra (se una regione è di un certo colore politico e il comune di un altro, questo incide sulle assegnazioni) e l’ultima di lavorare in sinergia coinvolgendo anche le associazioni di categoria». A bloccare le imprese, però, è anche la mancanza di una comunicazione friendly da parte delle regioni: «Per trovare i fondi bisogna usare il cane da caccia – insiste il docente - Una comunicazione è inefficace se non raggiunge i destinatari, quindi bisogna proiettarsi sul territorio per raccontare cosa è disponibile e come ci si accede. Le imprese rinunciano per la complessità, certo, ma la sconfitta non è degli imprenditori ma di chi non è riuscito a dire cosa si può fare e come lo si deve fare». Che fare? La parola passa a Raffaele Torino, direttore del corso di perfezionamento in “Progettazione e Finanziamenti europei”: «Chi vuole accedere ai fondi europei, li deve conoscere. Per poterli usare, ci vogliono le giuste competenze. Per capirci: se il rubinetto lo aggiusta l’idraulico, il progetto lo deve preparare chi ha gli strumenti per farlo. Inoltre le risorse europee non sono a pioggia e devono essere utilizzate per preparare progetti che soddisfano i temi sui quali si sta concentrando l’Europa: dalla digitalizzazione al green. Comunque, per le piccole e medie imprese italiane c’è spazio di manovra, anche perché sui fondi Ue la competizione è scarsa». imprese e territorio | 11


primo piano

Il bilancio dell’Ue

ANDREA ALIVERTI

L’Italia batte (quasi) tutti

I FONDI CI SONO ma come li spendiamo?

Da Bruxelles una pioggia di miliardi con i fondi strutturali e i fondi diretti dell’Unione Europea. E l’Italia li sta spendendo. La programmazione comunitaria 2014-2020, per la parte relativa ai finanziamenti indiretti che l’Unione Europea eroga tramite gli Stati e le Regioni, ha messo a disposizione dell’Italia 44,8 miliardi di euro di risorse «aggiuntive, mai sostitutive, rispetto alle normali fonti di finanziamento in capo a ogni Stato, sulla base del principio dell’addizionalità», che è alla base del funzionamento dei fondi strutturali e di investimento europei. Nel dettaglio, 33,9 miliardi di euro tra fondi Fesr (Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale) e Fse (Fondo Sociale Europeo), ripartiti tra regioni meno sviluppate (23,4 miliardi per Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia, dove il Pil pro-capite è inferiore al 75% della media UE), regioni in transizione (1,5 miliardi ad Abruzzo, Molise e Sardegna, in cui il PIL pro-capite è tra il 75 e il 90% della media), regioni più sviluppate (7,9 miliardi alle restanti regioni del centro-nord) e cooperazione territoriale (1,1 miliardo per i programmi transnazionali e interregionali, come ad esempio Interreg tra Lombardia e Svizzera), a cui si aggiungono 10,4 miliardi di stanziamenti per il Fondo per lo Sviluppo rurale (Feasr) e 537 milioni per la Pesca (Feamp).

nia (19,2) e Francia (15,5). Tra gli obiettivi tematici, ai primi due posti «promuovere la competitività delle piccole e medie imprese, il settore agricolo e della pesca», con oltre 8,2 miliardi, e «promuovere l’occupazione e sostenere la mobilità dei lavoratori», per più di 5 miliardi. Come sono stati spesi? Al 30 ottobre 2018, lo stato di attuazione dei Fondi strutturali si attesta, per gli impegni complessivamente assunti, ad oltre il 32% del contributo totale, mentre i pagamenti rendicontati erano pari a circa 7 miliardi, il 12,6% delle risorse programmate. L’Unione Europea impone dei target di spesa ben precisi: se non raggiunti, scatta il cosiddetto “disimpegno”, ovvero i fondi vengono ritirati.

Lo stato di attuazione dei Fondi strutturali si attesta, per gli impegni assunti, al 32% del contributo totale, mentre i pagamenti Ma al 31 dicembre 2018, su 51 programmi operendicontati sono rativi, solo 3 hanno mancato l’obiettivo, per pari a circa 7 miliardi, 45 milioni di euro, appena lo 0,5% dei fondi il 12,6% delle risorse previsti dall’attuale programmazione, a fronte di 9,7 miliardi di spese certificate. Anche per programmate quel che riguarda i fondi diretti, veicolati diret-

L’Italia, dopo la Polonia (77,3 miliardi) è il secondo Paese più beneficiato dai fondi strutturali, più di Spagna (29,7), Germa12 | imprese e territorio

tamente dalla Commissione Europea, l’Italia se la cava bene: nel 2017 è stato il secondo Paese per numero di enti e imprese (3797 per 2239 bandi vinti) beneficiarie e il quarto per ammontare di finanziamenti (4,67 miliardi contro 5,8 della Germania)..


primo piano

Il bilancio dell’Ue

Nord meglio del Sud

LOMBARDIA in terza posizione

Lo stato di attuazione dei programmi operativi regionali, “fotografato” al 31 ottobre 2018, vede spiccare in particolare tre regioni per quel che riguarda l’avanzamento dei pagamenti dei progetti finanziati: Emilia-Romagna, Piemonte e Lombardia. E conferma che non è un mito il fatto che le regioni del centro-nord siano decisamente più efficienti di quelle del sud nell’utilizzo delle risorse stanziate da Bruxelles: l’avanzamento degli impegni di spesa è al 40,12% nelle regioni più sviluppate contro il 17,69% delle regioni meno sviluppate, mentre l’avanzamento dei pagamenti è al 18,03% contro il 7,69%.

zionale) destinati alle regioni italiane di “fascia alta” nel corso del settennato 2014-2020. Equamente suddivise tra fondi Fse e fondi Fesr (970,47 milioni di euro per ciascun programma), le risorse sono state impegnate al 40,21% (780,45 milioni) e già spese al 24,22% (470,15 milioni). Più efficiente la programmazione dei fondi Fesr, con 497,75 milioni di euro impegnati (51,29%), più efficiente la spesa di fondi Fse (257,17 milioni, pari al 26,5%).

Emilia Romagna in testa per attuazione dei programmi regionali. Segue il Piemonte. Alla regione della Madonnina l’importo più alto di risorse. Non si rischia il disimpegno

Alla data dell’ultimo report ufficiale, l’Emilia-Romagna aveva impegnato 840,4 milioni di euro, il 66,27% di un miliardo e 268 milioni di euro di risorse programmate (481,9 milioni di fondi Fesr e 786,25 milioni di fondi Fse) per il settennato 2014-2020, e aveva già pagato 377,27 milioni di euro, il 29,75% del totale. Da notare l’efficienza nell’utilizzo dei fondi Fse: già impegnato più del 70% delle risorse a disposizione e già pagato più del 30%. Ancor più notevoli anche i risultati del Piemonte, ma solo per quanto riguarda i programmi operativi che fanno leva sui fondi Fse: impegnato il 58,58% delle risorse, di cui il 38,9% già pagato. La Lombardia deve gestire 1,94 miliardi di euro, la somma in assoluto più alta di fondi strutturali sui 13,2 miliardi complessivi (inclusa la quota di cofinanziamento na-

L’agenzia di coesione territoriale ha pubblicato un report sull’assorbimento dei fondi europei nelle varie regioni al 31 dicembre 2018. Anche in questo caso è l’Emilia-Romagna a primeggiare, con una capacità di assorbimento pari al 188,27%. Rispetto al target di spesa richiesto dall’Unione Europea (la cosiddetta regola N+3, che prevede il raggiungimento di determinati obiettivi minimi di utilizzo dei finanziamenti, pena il “disimpegno”, quindi la perdita delle risorse stanziate da Bruxelles) di 179,82 milioni, l’Emilia-Romagna ha certificato 338,54 milioni di spesa, con una capacità di assorbimento del 198,51% per i fondi FSE e del 174,29% per i fondi Fesr. La Lombardia si piazza nella “serie A” della capacità di spesa delle risorse Ue, dietro a Piemonte, Toscana e Friuli Venezia-Giulia, avendo certificato 351,7 milioni di euro rispetto al target di 257,4 milioni, per una capacità di assorbimento del 136,63%. A. Ali. imprese e territorio | 13


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Spread, Flat Tax e Ue: riflessioni

CONTRO C «Lo spread? Un non problema. La Flat Tax? Ciò che serve. Le organizzazioni di categoria facciano pressione per arrivare al taglio delle tasse». La situazione economica alla luce dei venti di guerra tra governo e commissione europea nella lettura di Fabio Dragoni, editorialista economico del quotidiano “La Verità”, tra le più note firme sovraniste del panorama attuale.

Dal mio punto di vista è la narrazione che alimenta delle paure infondate, perché lo spread non ha alcuna attinenza con il costo del credito alle imprese. Le imprese in questo momento non hanno un problema di costo del credito, ma di scarsità del credito, concetto molto diverso. Dal 2011 ad oggi lo stock di credito si è ridotto di 18 punti di Pil, quasi 300 miliardi. Se parliamo con qualsiasi imprenditore, non ci dirà che il credito costa troppo, ma che il credito non c’è.

Fabio Dragoni, firma “sovranista” della Verità, stronca la Commissione e non solo: «Guerra di nervi fino a settembre». Affondo sullo spread: «Il problema non è il costo, ma la scarsità del credito»

La lettera della Commissione Ue che apre l’iter della procedura d’infrazione per debito eccessivo ci deve preoccupare? Più che altro non c’è niente di nuovo sotto il sole. La Commissione fa la vera opposizione al Governo, con un potere di ricatto in più rispetto a chi siede in Parlamento. La tattica è creare un clima di attesa permanente, per impedire al governo l’attuazione di misure autenticamente espansive. Ma la decisione se aprire la procedura verrà presa da un altro organismo, quindi siamo di fronte ad una sottile guerra di nervi che si protrarrà fino a settembre, sfruttando la volatilità dei titoli di Stato per condizionare il governo ad attuare misure gradite a Bruxelles. Non c’è il rischio che l’instabilità e le oscillazioni dello spread minino la fiducia delle imprese e degli investitori? 14 | imprese e territorio

Gli imprenditori non dovrebbero preoccuparsi dello spread? È un non problema. In questo momento i titoli di Stato italiano sono la migliore opportunità di investimento che un investitore possa avere, perché l’Italia è un Paese che ha un attivo commerciale superiore a 50 miliardi, ha una posizione netta verso l’estero che è sostanzialmente zero ed è un Paese che nonostante tutto ha ancora un tessuto manifatturiero che dobbiamo tenere stretto con le unghie e con i denti. Lo spread è uno spauracchio agitato da una informazione che fa disinformazione. Detto questo, sarebbe meglio che non ci fosse. Ma c’è...


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L’altra Europa

O CORRENTE Però non è vero che il costo del nostro debito sta aumentando: il costo medio del nostro stock di debito è del 2,6-2,7% ogni anno, e anche nei momenti di più forte volatilità le nuove emissioni di titoli di Stato mensili non hanno mai superato mediamente l’1,6-1,7%, quindi algebricamente il costo del nostro debito sta diminuendo. E ricordiamoci che lo spread è la differenza tra il nostro costo del debito e quello della Germania, che in questo momento è negativo. È più la Germania che sta scendendo che non il costo del nostro debito che sta aumentando, quindi l’anomalia sta tutta qui. Nel mondo abbiamo 11mila miliardi di titoli obbligazionari a rendimento negativo: è stato stampato denaro ma non è stato immesso nell’economia reale bensì nei mercati finanziari.

Bruxelles ci dirà di no... Ci dirà di no, ma questo governo dovrà essere preparato non bene, benissimo, ad affrontare il negoziato e a far capire ai cittadini che ci sono dei signori che non abbiamo eletto che ci stanno dicendo che non ci possiamo abbassare le tasse. Sarà fondamentale nei modi e nei contenuti della comunicazione essere particolarmente efficaci, ma non alimentare polemiche che diano il là a ritorsioni. Bisognerà essere cauti, determinati e non farsi prendere dal nervosismo.

La Flat Tax bloccata dai conti? «Per i redditi fino a cinquantamila euro, che ad oggi riguarderebbero oltre trenta milioni di contribuenti, avrebbe un forte impatto sociale»

In questo quadro quali speranze realistiche ci sono di attuare una riforma costosa come la Flat Tax? È oggettivamente ciò che serve, perché tutto ciò che va nel senso della semplificazione e dell’abbassamento delle imposte è ciò che serve e perché una Flat Tax per i redditi fino a 50mila euro, che riguarderebbe oltre 30 milioni di contribuenti, avrebbe un forte impatto sociale.

Il taglio delle tasse è una richiesta che le categorie fanno da sempre. La pressione delle organizzazioni di categoria può essere essenziale, occorre che tutte parlino in maniera chiara e con una voce sola. Perché la politica sa quello che succede nel mondo reale grazie alle organizzazioni di categoria, pertanto è essenziale che gli organismi rappresentativi come Confartigianato diano un messaggio chiaro, preciso, che costituisca quasi una sorta di mandato politico a questo Governo nel difendere scelte che vanno nell’interesse del Paese, come ad esempio abbassare le tasse.. A. Ali. imprese e territorio | 15


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Dalle iniezioni forzate alla programmazione

CHI GIOCA D’ANTICIPO VINCE IN COMPETITIVITÀ EMANUEL DI MARCO

La chiave per rispondere alle sfide del mercato e a un contesto globale fortemente mutevole risiede in un cambio di prospettiva: occorre imparare a studiare le prospettive a medio-lungo termine, i cosiddetti megatrend. Ed è in questa carenza che risiede anche quel rallentamento che, a ormai oltre dieci anni dalla crisi, ha reso meno certo il processo di crescita. «Siamo di fronte a un fatto ormai abbastanza assodato - interviene il professor Giuseppe Schlitzer, economista indipendente e docente presso la Liuc Università Carlo Cattaneo di Castellanza - si tratta di un rallentamento che già si può riscontrare in Europa, anche in Germania, e negli Stati Uniti, dove c’erano state delle avvisaglie, oltre che in Cina, con un calo della domanda interna. Tutto ciò è dovuto a una serie di fattori che sono venuti a determinarsi, come le spinte protezionistiche, le tensioni presenti in Europa, il rallentamento asiatico e dei mercati emergenti. Ma oltre a questi elementi, vi è un punto spesso non evidenziato: in questi anni abbiamo spinto la crescita attraverso l’espansione delle politiche monetarie. Ma così non si crea una crescita a medio-lungo termine». Stiamo insomma assistendo a uno “sgonfiamento” fisiologico e dettato da politiche ultraespansive in fase di conclusione. «Occorre spostare il nostro sguardo verso il medio e lungo termine – ammonisce il prof Schlitzer – un cambio di ottica 16 | imprese e territorio

complesso, che deve riguardare l’analisi dei megatrend, cioè le grandi tendenze, che non sono delle mere previsioni e che ci consentono di capire come aziende e Paesi saranno influenzati da queste dinamiche». Prospettive ben delineate, tra cui spicca un forte trend demografico che porterà la popolazione mondiale a toccare i 9 miliardi di abitanti entro il 2040-2050, seguirà poi una fase di decelerazione: «Questa popolazione sarà mediamente più anziana, ci sarà una crescita del fenomeno dell’urbanizzazione e uno sviluppo della fascia media. Vi sono pareri differenti in merito, ma possiamo affermare che già attorno al 2030-2040 metà della popolazione mondiale sarà considerata a reddito medio. Questa spinta demografica ha in sé una serie di conseguenze, come anche i megatrend legati a digitalizzazione, innovazione e automazione, che impatteranno sull’industria della salute e quella farmaceutica, sul manifatturiero, sui servizi e sui trasporti». Un’ulteriore rilevante spinta riguarderà il tema della sostenibilità ambientale, dovuta al cambiamento climatico: «Un impulso divenuto fortissimo – aggiunge Giuseppe Schlitzer – Oggi non si muove un bicchiere senza che venga spiegata la sostenibilità di tale azione. Per il mondo dell’economia parliamo di un passaggio rilevante, finora graduale ma ormai molto impattante». Si tratta perciò di un fattore di competitività? «Senza dubbio quelle aziende che riusciranno a cavalcare i megatrend


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L’economia dei megatrend GIUSEPPE SCHLITZER ECONOMISTA INDIPENDENTE E DOCENTE ALLA LIUC

e anticipare i cambiamenti si troveranno avvantaggiate». Ma come farlo? «Dotandosi in primis, e a tutti i livelli, di persone che comincino a ragionare in un’ottica di medio-lungo termine e di sostenibilità. Penso non solo ai lavoratori ma anche ai manager, ai Ceo e a coloro che rivestono un ruolo nei board. Oggi i piani industriali sono a 3-5 anni, e nel mondo bancario la prospettiva è ancor più limitata perché le autorità impongono un’ottica esclusivamente di stabilità. Ma serve un’ottica che possa andare oltre, il management deve iniziare ad avere la capacità di analizzare i fenomeni a medio-lungo termine».

tende a ragionare in termini di equilibri finali. Ma trattandosi di transizioni in grado anche di durare una generazione, gli Stati si troveranno a dovervi far fronte, ad esempio con sistemi di welfare». E i lavoratori di oggi, in un mercato sempre più dinamico, su cosa dovranno puntare? «Devono “investire” su loro stessi. D’altronde si va perdendo quella dimensione legata a una permanenza decennale presso la medesima azienda. Lo stesso vale per i manager, e in questo senso oggi si parla di Fractional Management, concetto che va oltre il Temporary Management, che prevede magari una presenza di 3-4 anni all’interno dell’azienda. Il Fractional Manager, invece, vi resta per un periodo ancor più limitato, risolve un determinato problema e se ne va. Più in generale, perciò, diventa primario l’impegno a investire su sé stessi al di là della formazione interna all’impresa, che può essere limitata dal timore di perdere, in questo mercato fortemente movimentato, il capitale umano appena formato». Un impegno, perciò, che come detto deve assumere la forma di un vero e proprio investimento nelle proprie competenze.

«Primario l’impegno a investire su sé stessi al di là della formazione interna all’impresa, che può essere limitata dal timore di perdere, in un I quali hanno una ricaduta trasversale in tutmercato fortemente ti i settori, come accaduto con l’innovazione movimentato, il capitale digitale: «Ci saranno chiaramente realtà più influenzate di altre dai grandi cambiamenti, umano appena formato» così come ci saranno vincitori e perdenti. Avremo prodotti che spariranno, un esempio noto è quello del rullino fotografico, e nuove dinamiche, pensiamo all’online banking che ha comportato la chiusura di molti sportelli bancari. E in questa transizione alcuni posti di lavoro verranno persi, ma ne nasceranno altri. Questo gli economisti lo sanno, ma spesso sottovalutano tali processi perché si

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inchieste

Bando da due milioni di euro per i progetti che prevedono il riuso e l’utilizzo di materiali riciclati. «La strada è senza ritorno, tutti dovranno ripensare il modo di produrre, sia le industrie che le piccole imprese»

La rivoluzione è

CIRCOLARE 18 | imprese e territorio


inchieste

Fenomeno innovability

RAFFAELE CATTANEO ASSESSORE ALL’AMBIENTE E AL CLIMA DI REGIONE LOMBARDIA

Economia circolare, «non un’opzione, ma una necessità, anche per le piccole imprese. E può diventare un’opportunità». Ad affermarlo è Raffaele Cattaneo, assessore all’Ambiente e al Clima di Regione Lombardia, che insieme al collega allo sviluppo economico Alessandro Mattinzoli e ad Unioncamere Lombardia ha appena varato un bando da due milioni di euro «a sostegno di progetti che promuovano il riuso e l’utilizzo di materiali riciclati e di prodotti derivanti dai cicli produttivi». Risorse destinate a «micro, piccole e medie imprese in forma singola o in aggregazione (anche con grandi imprese, queste ultime però non potranno accedere ai contributi) con l’obiettivo di incentivare la formazione di filiere produttive nel campo dell’economia circolare.

stimenti sulle imprese che sviluppano tecnologie green e che operano nella prospettiva dell’economia circolare». Conviene mettersi in scia per cogliere le «straordinarie» opportunità che si prospettano: «È una sfida che riguarda le grandi imprese come gli artigiani, perché il cambiamento sarà pervasivo per tutti e costringerà a ripensare il modo di produrre e concepire i prodotti ad ogni scala - aggiunge Cattaneo - prima di tutto occorre consapevolezza, poi bisogna agire. La politica deve dare delle norme adeguate, che oggi mancano e ad esempio bloccano il settore del riciclo, perché la direttiva europea sull’economia circolare non è ancora stata recepita e le norme attuali risalgono ad una legge del ‘98. Le imprese devono elaborare tecnologie, innovazioni e processi conseguenti».

A tu per tu con l’assessore all’Ambiente e al Clima di Regione Lombardia Raffaele Cattaneo che alle Pmi lancia un monito: «I fondi investono sulle imprese che sviluppano tecnologie green»

«Iniziative per sostenere l’innovability, un’innovazione sostenibile che guarda ad un nuovo modello di sviluppo - sintetizza l’assessore Cattaneo - il sistema che ha costruito la ricchezza del nostro territorio è basato sul modello dell’economia lineare e sul consumo di risorse naturali, a un ritmo che oggi non è più sostenibile. Occorre costruire un modello di sviluppo diverso in cui le materie siano recuperate il più possibile, e in cui beni e servizi siano pensati fin dalla loro concezione per poter essere riutilizzati. Penso ad un’automobile che alla fine del suo ciclo vitale non sia destinata alla sfasciacarrozze ma integralmente recuperata in tutte le sue componenti attraverso un progetto a monte che ne faciliti lo smontaggio e il recupero e attraverso un sistema produttivo a valle che consenta di recuperare i vari materiali e riutilizzarli». Incentivare la transizione verso l’economia circolare «non è una opzione ma è una necessità - rimarca l’assessore lombardo - è una sfida culturale ed è il più grande cambiamento di modello economico dopo la rivoluzione industriale, non è più solo una questione da ambientalisti ma un gigantesco tema economico, tanto che sta già avendo un primo effetto concreto, spostando l’indirizzo degli investimenti. I principali fondi, a partire da quelli americani, stanno concentrando i propri inve-

In questo senso i “piccoli” non sono penalizzati, anzi. Perché, segnala l’assessore regionale, «l’innovazione sostenibile già oggi avviene più nella piccola impresa che non nella grande impresa. Oltretutto, per una volta, l’Italia è già leader in molti campi, perché siamo un Paese povero di materie prime che ha dovuto sviluppare processi più efficienti e ha imparato ad operare con criteri di economia circolare e a sviluppare innovazione per consumare meno materia. In Europa siamo primi per impiego di “materia circolare”, la materia prima seconda, con una quota del 18,5%, quasi il doppio della Germania (10,7%), e siamo più efficienti nel consumo di materia, 256 tonnellate per milione di euro contro 423 dei tedeschi». Raffaele Cattaneo vede «opportunità anche per il territorio di Varese e per le imprese artigiane, lo ritroviamo nello studio The European House Ambrosetti-Confartigianato e non a caso Valerio De Molli ha aperto l’ultimo Forum Ambrosetti parlando di economia circolare. È un trend globale, ma le imprese che lo mettono in pratica sono sui territori». A. Ali. imprese e territorio | 19


inchieste STELLA GUBELLI DOCENTE DI ECONOMIA AZIENDALE ALL’UNIVERSITÀ CATTOLICA

La SOSTENIBILE leggerezza dell’

ESSERE GREEN CHIARA FRANGI

C’era una volta il bilancio d’esercizio. Poi arrivò il bilancio sociale. Oggi, invece, chi vuole crescere deve pensare al “bilancio di sostenibilità”: una fotografia a trecentosessanta gradi che può diventare uno strumento decisivo per la crescita di un’azienda. Anche piccola. Lo racconta Stella Gubelli, docente di Economia Aziendale all’Università Cattolica: «Il bilancio di sostenibilità è qualcosa in più rispetto al bilancio sociale. Si tiene conto, ovviamente, del conto economico, e si riportano anche le azioni in termini di welfare, ad esempio. Ma si aggiunge anche l’aspetto ambientale: cosa fa l’azienda per essere sostenibile per il pianeta? Come ricicla, come risparmia energia e come questo tipo di scelte influisce nel rapporto con gli stakeholder?»

Le azioni di sostenibilità vanno mappate, insomma, dalla scelta di installare pannelli fotovoltaici fino a quella di spegnere senza lasciare in stand by i computer degli uffici a fine giornata, passando per le iniziative volte a favorire la conciliazione vita-lavoro dei collaboratori. Non è solo una questione di facciata, ma sostanziale, spiega ancora Gubelli: «Ormai le grandi multinazionali richiedono elevati standard ambientali e sociali nella produzione, standard che devono essere condivisi anche dai fornitori. Ecco perché alle Pmi conviene: chi è nell’indotto delle grandi aziende del territorio, ad esempio, può ottenere commesse migliori, se riesce a dimostrare e mappare la propria sostenibilità». Con l’Agenda 2030, infatti, le aziende sono chiamate a raccontare e dimostrare il proprio impegno.

Non si tratta solo di comunicazione, continua la professoressa: «Il bilancio di sostenibilità può diventare uno strumento potente in mano ai responsabili della comunicazione di un’azienda, ma per essere in grado di dare una spinta decisiva per la crescita, è necessario che sia qualcosa di più che una brochure».

C’è di più: anche chi si rivolge al pubblico deve mettere in conti di dover dimostrare la propria eticità, perché i consumatori sono sempre più attenti a quel che comprano e a come è stato prodotto. «Soprattutto le giovani generazioni sono sempre più attente ai temi ambientali. Quello che fino a quindici anni fa era una nicchia, oggi si sta

Le ricerche di mercato lo certificano: il 66% dei consumatori a livello mondiale è disposto a pagare di più per ottenere un prodotto sostenibile La percentuale sale al 92% tra i Millennials, coloro che saranno futuri consumatori

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inchieste

Fenomeno innovability

Chi ha il miglior curriculum vorrà scegliere un’azienda dove si lavora più serenamente. I vantaggi della sostenibilità sono anche economici: scelte di risparmio energetico, ad esempio, si traducono in un immediato risparmio sui costi delle utenze

allargando, e nei prossimi anni avrà un trend in sicura crescita: sono le ricerche di mercato a confermarlo, i consumatori premiano le aziende che possono dimostrare di rispettare l’ambiente». Nel rapporto Nielsen del 2015, ad esempio, salta agli occhi come il 66% dei consumatori a livello mondiale sia disposto a pagare di più per ottenere un prodotto sostenibile. Percentuale che arriva al 92% tra i Millennials (come è stato riportato durante il Salone CSR e Innovazione sociale 2016): coloro, cioè, che stanno diventando consumatori con autonomia di spesa in questi anni.

verrà richiesto dai clienti, business o consumer che siano». Un “check up della sostenibilità”, insomma, è un passaggio che può diventare chiave per la crescita: servirà a raccogliere dati per la comunicazione, sia quella esterna che quella verso i fornitori. I vantaggi sono sia di tipo tangibile che intangibile. Da una

Dal bilancio sociale al bilancio sostenibile: oggi chi lo fa piace ai clienti e ai fornitori. Lo conferma Stella Gubelli, docente di economia aziendale in Cattolica: «Se non è di facciata, alza reputazione e contatti»

Certo, tutto questo per l’azienda ha un costo: chi non ha un’organizzazione abbastanza articolata al suo interno, dovrebbe ricorrere a consulenze esterne per scrivere il bilancio di sostenibilità. «Un costo che può diventare importante per una Pmi, me ne rendo conto – dice ancora Gubelli – ma l’invito è quello di tentare almeno una mappa delle azioni di sostenibilità. Se non è possibile formalizzare tutto all’interno di un vero e proprio bilancio, almeno tentare di capire cosa si sta facendo, per poterlo poi raccontare e dimostrare dati alla mano nel momento in cui

parte ci sono quelli intangibili “interni”: una maggiore produttività dei lavoratori, ad esempio, che diventano più motivati e sviluppano spirito di squadra. Verso l’esterno, invece, si parla di una migliore visibilità, che si traduce in fiducia da parte dei finanziatori e in attrattività per i migliori talenti: chi ha un miglior curriculum vorrà scegliere un’azienda dove si lavora più serenamente. I vantaggi della sostenibilità diventano anche economici: scelte di risparmio energetico, ad esempio, si traducono in un immediato risparmio sui costi delle utenze. Non solo: anche i ricavi possono aumentare, grazie ad una mag-

giore fidelizzazione dei clienti, sempre più attenti all’eticità delle scelte. imprese e territorio | 21


inchieste ALESSANDRO SAVIOLA PRESIDENTE GRUPPO MAURO SAVIOLA

I pannelli ecologici dove tutto

RICOMINCIA L’economia circolare è l’asset strategico su cui il manifatturiero deve puntare: «Le aziende capaci di investire nella sostenibilità triplicheranno in cinque anni perché i nuovi modelli di business terranno conto di una nuova visione del futuro che chiede maggiore attenzione all’ambiente»

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L’economia circolare prima che diventasse di tendenza. Nella Bassa Mantovana, a Viadana, il Gruppo Mauro Saviola ha scelto la strada del recupero dei materiali di scarto già dal 1992: etica e business si incontrano nei “pannelli ecologici” creati con il riciclo del legno post-consumo. Un’azienda nata nel 1963 quando il fondatore che le dà il nome, l’artigiano Mauro Saviola, ha l’intuizione di trasformare la propria falegnameria in un’industria di pannelli truciolari per cavalcare l’epoca del boom economico, e che segna la svolta nel ‘92 quando l’imprenditore mantovano comprende prima di tutti che il legno post-consumo può avere una nuova vita, con il Pannello Ecologico, core business e fiore all’occhiello di questa realtà, ricavato interamente da materiale riciclato, senza abbattere un solo albero vergine. Oggi è la seconda generazione di famiglia, rappresentata dal presidente Alessandro Saviola, a portare avanti la mission di un Gruppo che nel frattempo è diventato un colosso, con oltre 600 milioni di euro di fatturato consolidato nel 2018, più di 1.400 dipendenti in 13 siti produttivi in Italia e nel mondo e un innovativo “design center” a Francoforte. «Ricavare il massimo valore dall’intero ciclo di vita del prodotto per risparmiare materie prime ed emissioni è nel Dna del Gruppo - spiegano dal quartier generale di Viadana, cittadina adagiata sul Po a un tiro di schioppo da Parma, nelle terre rese celebri dalla penna


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Fenomeno innovability case history 1

di Giovannino Guareschi - raccolta, smaltimento, trasformazione e rigenerazione significano nuova vita per il legno. Un sistema capace di sostenersi da solo, dove le risorse non diventano rifiuti, dove tutto ricomincia, dove inizio e fine si ricongiungono». Sostenibilità sul serio, da quando nessuno o quasi ne parlava: il Gruppo Saviola si definisce «a tutti gli effetti una Eco-Ethical Company». Una realtà che poggia su una «filiera produttiva articolata - spiega Alessandro Saviola - che coinvolge tutto il ciclo di quello che viene definito rifiuto, ma che per noi è opportunità e prodotto da lavorare e rimettere sul mercato in una catena di virtuosità». Il legno usato viene raccolto dal network di 20 centri Eco-Legno dislocati in Italia e in Europa - si ricicla qualcosa come 1,2 milioni di tonnellate di materiale ogni anno, volumi che nessun’altra azienda al mondo può vantare - e viene trasportato per alimentare il processo produttivo per la realizzazione dei pannelli ecologici, certificati FSC 100% recycled, ma anche dei pannelli nobilitati e laminati.

del Gruppo è l’integrazione: a monte del processo produttivo c’è la business unit Sadepan, il maggior produttore italiano di resine ureiche, melanimiche e fenoliche, mentre a chiusura del ciclo produttivo c’è la Composad, laboratorio di creatività focalizzato sul design Made in Italy applicato al mobile in kit. Infine, a inizio 2019 è nata Saviolife, divisione dedicata alle scienze della vita, che crea prodotti per agricoltura, alimentazione animale e concia delle pelli a basso impatto ambientale».

Da falegnameria a colosso, il Gruppo di Viadana è cambiato negli anni ma ha conservato un punto di forza: il riciclo. Spiega Alessandro Saviola: «Il rifiuto per noi è un’opportunità»

Un processo che permette di salvare 10mila alberi ogni giorno offrendo sul mercato prodotti unici e di qualità, che per il 20%, nel settore legno, vengono esportati. Uno dei punti di forza

Un modello, visto che secondo Saviola l’economia circolare può essere un asset strategico su cui l’Italia dovrebbe puntare per il futuro del manifatturiero: «Le stime attuali confermano che le aziende capaci di investire nella sostenibilità triplicheranno in cinque anni perché i nuovi modelli di business terranno conto di una nuova visione del futuro che chiede maggiore attenzione all’ambiente». Saviola sa di guidare una realtà pionieristica: «Un unicum in Italia e in Europa perché ha iniziato a fare economia circolare prima che questo concetto fosse un trend. Avendo iniziato a sviluppare processi produttivi innovativi da tempo, proseguiremo con velocità verso il traguardo che il pianeta e i nostri figli ci chiedono: custodire il territorio in cui viviamo». A. Ali. imprese e territorio | 23


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La startup responsabile

NON INQUINA Si chiama Nuvap, è una startup ultratecnologica e ha scelto di investire sul monitoraggio dell’inquinamento: «L’impresa è importante, può esercitare un’azione di responsabilità sociale piena nei confronti del proprio ecosistema, i dipendenti e le famiglie, semplicemente dando consapevolezza di questi temi e impostando pratiche virtuose»

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Ventisei parametri con cui monitorare l’inquinamento. Quello dentro gli edifici: che è il più insidioso, proprio perché vi dedichiamo meno attenzione. Nuvap è un’azienda giovane e sorprendente, che grazie alla tecnologia scova i nemici della nostra salute. Ma allo stesso tempo offre una soluzione a questo problema che di tecnologico non ha nulla, tra le pareti dove viviamo o lavoriamo: il fattore umano. Perché è cambiando i comportamenti che possiamo avere un ambiente più sano e quindi stare meglio. L’impresa toscana però è interessante anche come modello di crescita. E di aspirazioni. Antonella Santoro, Ceo di Nuvap, è stata invitata di recente anche a illustrare l’esperienza in un contesto ad alto tasso energetico, la Cariplo Factory di Milano. Nuvap, nata nel 2014, quante persone vede al lavoro oggi? «Abbiamo un ecosistema molto articolato – risponde - la piattaforma tecnologica vede diverse società, comunque una ventina di persone. Età media trent’anni. La formazione? Ce ne occupiamo noi». Servono competenze tali che non si può che fare così. E le aspirazioni dell’azienda? «Diventare il punto di riferimento in Europa- risponde Antonella Santoro – Abbiamo 26 parametri, un vantaggio competitivo. Siamo gli unici che continuiamo a fare ricerca e crediamo di aver impostato un modello di business che ci permette di scalare rapidamente».


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Fenomeno innovability case history 2

ANTONELLA SANTORO CEO DI NUVAP

L’idea – ci racconta – è nata da uno dei fondatori, Francesco Rapetti (figlio del noto autore di testi Mogol): era possibile una tecnologia che mostrava se le persone erano esposte all’inquinamento? Una cartina di tornasole, accessibile, sullo smog indoor? La risposta sul campo – e con tanto di brevetti – è stata sì, grazie all’incontro con Marco Magnarosa e il Polo tecnologico dell’Università di Pisa. «L’idea poi si è raffinata – racconta Antonella Santoro – ed è diventata un prodotto. Soprattutto l’inquinamento indoor, lo trascuriamo. Eppure, lo generiamo noi, con la scelta dei materiali, le abitudini, quante volte ventiliamo gli ambienti e via dicendo». L’aria in uno spazio chiuso, ad esempio, è mediamente cinque volte più inquinata di quella all’estero. E un dato inquietante: il gas radon (gas naturale presente in molte abitazioni) è la seconda causa di tumore dopo il fumo, Non occorre cambiare casa, se si riscontra l’esposizione: piuttosto, sono appunto i comportamenti che vanno modificati. E così sul posto di lavoro: di ogni tipo, anche quelli più insospet-

tabili come gli uffici. Nuvap grazie ai suoi dispositivi ProSystem riesce ad avere un monitoraggio continuo. Si sta continuando a investire sul mercato e si analizza la situazione in aziende, scuole, case di riposo – spiega l’imprenditrice – strutture ricettive in senso lato, real estate. Dietro questo intenso lavoro tecnologico, c’è appunto l’impegno a creare una consapevolezza. E Santoro cita alcuni esempi. «Stiamo completando uno studio su cento aziende di servizi, non produttive – spiega – Ci siamo detti: andiamo negli uffici dove tutti si sentono al sicuro. L’impresa è importante, può esercitare un’azione di responsabilità sociale piena nei confronti del proprio ecosistema, i dipendenti, le famiglie, semplicemente dando consapevolezza di questi temi e impostando pratiche virtuose». Tra gli altri risultati interessanti, “Ne ho pieni i polmoni” nelle scuole: dove emerge che i picchi di inquinamento possono insorgere anche dopo le pulizie. Questione di detergenti e di qualità dei prodotti usati. Ma. Lu.

«Primario l’impegno a investire su sé stessi al di là della formazione interna all’impresa, che può essere limitata dal timore di perdere, in un mercato fortemente movimentato, il capitale umano appena formato»

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La transizione verso l’auto elettrica è iniziata e, anche se non sarà fulminea, rivoluzionerà non solo il modo di spostarci ma anche quello di lavorare. Tesla si è portata avanti con corsi ad hoc per riparatori e tecnici specializzati. Attrezzarsi conviene

ELETTRAUTO La mobilità cambia i mestieri

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Fenomeno innovability

Le vetture del futuro avranno meno componenti usurabili ma più sensori e centraline: le officine dovranno investire in attrezzature e strumentazioni all’avanguardia e su una sempre più specializzata formazione del personale

Auto elettrica, la transizione è iniziata. È ora di adattarsi, ma c’è tempo. «Nel prossimo decennio, l’elettrico puro al massimo al 20-30% del parco auto totale». È la stima del professor Sergio Savaresi, ordinario di automatica al Politecnico di Milano, sulla portata del cambiamento che interesserà il settore dell’automotive in Italia. «Sul lunghissimo periodo praticamente tutti i veicoli saranno elettrici o a idrogeno, sul medio periodo, nell’arco di un decennio, in una fase di transizione l’elettrico puro sarà limitato al 20-30%». Una stima, quella fatta dal team del professor Savaresi, che deriva da una ricerca che ha analizzato un campione rappresentativo di 50 milioni di viaggi, scoprendo che «quasi il 30% della popolazione di una provincia tipo del Nord non percorre con la propria automobile mai più di 200 chilometri al giorno - sottolinea Savaresi - È questo il numero che certifica il mercato ragionevolmente aggredibile dall’elettrico, perché oltre questo target la gente dovrebbe cominciare a cambiare le proprie abitudini, perciò presumibilmente si orienterà più sui veicoli ibridi». Una previsione che conferma la stima fatta dallo studio “Electrify” di The European House - Ambrosetti ed Enel, che ha posto come scenario più ottimistico per il 2030 uno stock del 24% di auto elettriche pure, circa 9 milioni, nel parco auto nazionale (il 5 e il 14% sono gli altri due scenari ipotizzati). Insomma, la transizione è iniziata ma sarà graduale. E la minaccia di un monopolio cinese non deve creare più di tanto allarmismo: per Savaresi è più «rumore di fondo», che segue alle «schermaglie» tra il Dragone e gli Usa sul caso Huawei. «È vero che i cinesi stanno tirando il passaggio all’elettrico senza passare dall’ibrido, nel mercato cinese la transizione sarà più rapida perché guidata dal Governo che ha deciso di puntare in maniera molto massiccia sull’elettrico», mentre per l’esperto del Politecnico «l’Europa, aggredendo il diesel, fa male a sé stessa: è come tagliare il ramo su cui si è seduti e bisogna stare attenti perché è una tecnologia molto pregiata». In gran parte made in Europe: accelerare la transizione potrebbe dunque essere miope. In ogni caso, rispetto alla tendenza globale in atto ci sono i margini per attrezzarsi, soprattutto

per l’indotto, spesso fatto di imprese artigiane, che ruota attorno al mondo delle case automobilistiche e dell’assistenza agli utenti. «La filiera che subirà più modifiche sarà quella dei motori termici, anche se nella fase dell’ibrido continueranno ad essere importanti per tanto tempo - prevede Savaresi L’area tecnica che subirà maggiori sconvolgimenti sarà invece quella dei motori, per il resto non cambia molto. Saranno altre le cose che creeranno sconvolgimenti sulla filiera dell’indotto, come il passaggio al veicolo a guida autonoma e a forme di utilizzo in sharing, che creeranno veri terremoti che cambieranno i numeri e i modelli di business». Un settore che si appresta ad essere rivoluzionato nei prossimi decenni è quello delle autoriparazioni. Già oggi la tradizionale divisione tra le professioni di meccanico ed elettrauto è stata superata per confluire nella figura del “meccatronico”, ma in futuro l’imporsi dei veicoli elettrici richiederà l’emergere di nuove figure specializzate. Se n’è accorta per prima Tesla, il brand-simbolo del futuro elettrico nell’automotive, che ha lanciato in due college Usa il programma Tesla Start, un corso di specializzazione intensivo di 12 settimane per formare tecnici qualificati nella manutenzione delle auto elettriche. «La crescita delle motorizzazioni ibride ed elettriche nel nostro Paese - sottolinea l’Osservatorio di Autopromotec, la biennale delle attrezzature e dell’aftermarket automobilistico di Bologna - rappresenta senza dubbio il preludio di una vera e propria rivoluzione, che determinerà cambiamenti significativi anche sull’autoriparazione. Di sicuro le auto elettriche e, in generale, le vetture del futuro, avranno meno componenti usurabili rispetto alle auto tradizionali di oggi, ma allo stesso tempo la domanda di autoriparazione non diminuirà, perché il crescente numero di sensori e centraline degli autoveicoli genererà la necessità di affidarsi alle officine di autoriparazione, le quali dovranno investire in attrezzature e strumentazioni all’avanguardia oltre che su una sempre più specializzata formazione del personale». Meglio arrivare pronti.

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inchieste

LA CASSAFORTE

delle terre rare

Auto elettrica, la Cina domina. è laggiù «il Medio Oriente della nuova mobilità». L’Europa prova a reagire, prima che sia troppo tardi. Il segreto sono, da un lato, le “terre rare”, metalli fondamentali per l’elettronica avanzata che in realtà, a scapito del nome, «in natura sono presenti in modo abbondante - fa notare Danilo Bonato, direttore generale di Remedia, il consorzio nazionale per la gestione dei rifiuti elettrici ed elettronici (Raee) - ma la Cina, oltre ad avere un terzo dei giacimenti mondiali, ne produce più dell’80% perché da fine anni ‘90, senza badare più di tanto agli impatti ambientali, ha investito nelle miniere, mentre gli altri Paesi occidentali hanno preferito non toccare i loro giacimenti ma utilizzare la Cina come fornitore». Dall’altro, metalli come cobalto e litio che sono essenziali per la realizzazione delle batterie per le auto elettriche, le cui miniere sono controllate, anche qui, soprattutto dalla Cina, in Africa e non solo, anche grazie a sette miliardi di investimenti in acquisizioni di giacimenti nel solo 2018, come riporta “Repubblica”. Così oggi la filiera delle terre rare e dei metalli per la mobilità elettrica è saldamente in mani cinesi, non solo l’estrazione e la trasformazione dei metalli ma anche la produzione dei componenti delle batterie, con i principali concorrenti in Giappone e Corea del Sud. Tanto da spingere il think tank MacroPolo 28 | imprese e territorio

a chiedersi se l’Estremo Oriente sarà «il Medio Oriente della nuova mobilità», in cui il petrolio è sostituito dagli ioni di litio. «I Cinesi dominano la produzione di batterie per automotive, e consideriamo che la batteria vale un terzo del costo complessivo di un veicolo elettrico - il monito del manager Alberto Forchielli, fondatore di Mandarin Capital Partners e profondo conoscitore del Paese del Dragone - con la Cina che controlla le miniere per produrre le batterie, l’auto elettrica è sua, e dopo pannelli solari, droni, smartphones, 5G, ecco che un altro pezzo di futuro risiede in Asia». Tra il 2020 e il 2030, stima Bloomberg, la domanda mondiale di batterie a ioni di litio è destinata a decuplicare (da 123 a 1293 Gwh) e la Cina potrebbe monopolizzare questo nuovo “Eldorado”. Troppo tardi per reagire? In Europa si stanno muovendo Francia e Germania, che hanno annunciato un progetto europeo, da 5-6 miliardi di investimenti, per la produzione di batterie per auto elettriche, subito ribattezzato “Airbus delle batterie” (Battery Airbus) facendo il parallelismo con il consorzio che negli anni ‘70 lanciò la sfida a Boeing in tema di aeromobili. L’Unione Europea, da parte sua, nel 2017 ha promosso la European Battery Alliance (con la partecipazione anche dell’Italia), che entro la fine di quest’anno dovrebbe finanziare i primi progetti di interesse comune, con il duplice obiettivo di incen-


inchieste

Fenomeno innovability

IL FENOMENO IN CIFRE - DATI ACI 2018 IL PARCO AUTO ATTUALE - ITALIA

IL PARCO AUTO ATTUALE - PROVINCIA DI VARESE

Autovetture totali: 39 milioni (elettriche 12.156) Benzina 46,34%; Gasolio 44,38%; Ibrido 0,76%, Elettrico 0,03%, Gpl/metano 8,59%

Autovetture totali: 590mila (elettriche 121) Benzina 61,4%; Gasolio 33,6%; Ibrido 1,3%, Elettrico 0,02%, Gpl/metano 3,65%

Totale motorizzazioni Euro 4,5,6: 64,68%

Totale motorizzazioni Euro 4,5,6: 73,98%

PARCO AUTO ELETTRICO IN EUROPA - 636mila veicoli (0,22%) NORVEGIA 162mila (6,5%)

SVEZIA 50mila (1,1%)

GERMANIA 121mila (0,21%)

ITALIA 12mila (0,03%)

NUOVE IMMATRICOLAZIONI DI AUTO ELETTRICHE NEL 2018 CINA 1 MILIONE USA 300MILA EUROPA 200MILA

CRESCITA IMMATRICOLAZIONI AUTO ELETTRICHE IN ITALIA: 2009 > 63 VEICOLI | 2014 > 1.110 VEICOLI | 2017 > 2.016 VEICOLI | 2018 > 5.010 VEICOLI

ITALIA 5000

tivare la creazione di una filiera manifatturiera nel settore e di ridurre la dipendenza dal mercato asiatico. Il ministero dello sviluppo economico a febbraio ha avviato una manifestazione di interesse per questo tipo di progetti, riscontrando l’interesse di gruppi come Seri, Enel, Terna e Fca. Il nuovo Fondo Nazionale per l’Innovazione, varato dal Mise con l’ultima manovra economica e gestito da Cassa Depositi e Prestiti con una dotazione iniziale da un miliardo da investire secondo le modalità del venture capital, nelle intenzioni del ministro Luigi Di Maio dovrà sostenere anche le iniziative legate al settore delle batterie per le auto elettriche. Ma non è solo il pubblico a mobilitarsi, anche i grandi player del mercato elettrico sono già in prima linea. Come il colosso tedesco E.On, che sta sviluppando un “corridoio elettrico” di stazioni di ricarica ultra-fast per le batterie delle auto tra Norvegia e Italia. Oppure come Enel X, che in partnership con Nissan e Rse (società pubblica di ricerca sul sistema energetico) ha lanciato la sperimentazione della “batteria con le ruote”, per sviluppare il “Vehicle to Grid” (V2G), la tecnologia che permette alle auto elettriche di immagazzinare e restituire energia per la stabilizzazione della rete, attraverso l’impiego delle batterie come sistemi di accumulo energetico nei periodi di ricarica. A. Ali.

Molta della mobilità elettrica del futuro dipenderà dalla Cina, che possiede e produce oltre l’80% dei metalli fondamentali per l’elettronica avanzata

imprese e territorio | 29


approfondimenti

La Babele di lingue rallenta il

CREDITO FORMAZIONE Serve il vocabolario della

Gianfranco Torriero, vicedirettore generale dell’Associazione Bancaria Italiana (Abi), ne fa una questione di metodo, «perché tutti siamo consapevoli del fatto che le norme che impattano sul settore bancario hanno sempre un riflesso sul cliente finale: famiglie ma soprattutto imprese. Anticipare e gestire sono due verbi fondamentali per creare condizioni favorevoli affinché le nuove regole non siano penalizzanti». Le nuove regole sono quelle di Basilea 3. O, ancora meglio, il grande corpus del quale fanno parte quella normativa e il nuovo pacchetto bancario da poco varato, che va a impattare direttamente sul rapporto banche-imprese. Per comodità parliamo però di Basilea 3, «anche se a dicembre 2017 - sottolinea Torriero - il Comitato di Basilea ha proposto Basilea 3 Plus, che non è ancora Basilea 4 ma va a ridefinire ulteriormente l’impianto di Basilea 3». Lo snodo principale è fondamentalmente questo: con queste nuove norme, il credito per le Pmi sarà più costoso e sempre meno accessibile? Né l’uno e né l’altro. Torriero lo dice a chiare lettere: «Mai come in questo momento il costo del credito è basso e la liquidità non manca. Ciò che manca, invece, è la certezza del diritto e un clima di maggiore fiducia. Quindi serve una politica economica e regolamentare coordinata, stabile e di medio termine». Il messaggio sul quale insiste Abi è anche un altro: «La stabilità delle banche - evidenzia Torriero - è importante per la stabilità complessiva del settore finanziario. Ma la ricerca di stabilità, anche attraverso una normativa più 30 | imprese e territorio

mirata, non deve penalizzare la capacità di accompagnare la crescita economica. È fisiologico che, nella nostra economia, un ruolo prioritario per dare supporto finanziario alle imprese lo giochino ancora le banche. Che sono imprese a tutti gli effetti e che, come tutte le imprese, hanno a che fare con una burocrazia normativa particolarmente invasiva: abbiamo stimato che tutti i dispositivi normativi, in vigore o in corso di consultazione per essere approvati, nel solo 2018 si sono tradotti in media per le banche nella gestione di otto provvedimenti per giorno lavorativo». Anticipare e gestire: un gioco di squadra. L’azione comune per l’analisi e la definizione di posizioni condivise su iniziative normative e regolamentari di matrice europea e internazionale, che impattano sull’accesso al credito per le imprese, ha preso forma nel tavolo di Condivisione Inter-associativo sulla Regolamentazione Internazionale (Ciri): Abi e 17 associazioni di categoria, compresa Confartigianato Imprese, insieme per la definizione di iniziative comuni sulle norme che stanno per entrare in vigore o già operative. A tutela delle realtà imprenditoriali. L’approvazione del “Pacchetto bancario” (Risk Reduction Package) da parte del Parlamento Europeo è avvenuta il 16 aprile. Tra i temi di maggiore interesse, l’estensione dello “SMEs Supporting Factor”, cioè «l’estensione del fattore di supporto alle Pmi che consente di applicare una ponderazione più bassa per i finanziamenti» a questa tipologia di aziende. Un risultato che partiva da un dato di fatto: salvaguardare il


Con Gianfranco Torriero, vicedirettore generale dell’Abi, facciamo il punto sulle nuove regole di Basilea 3 e sul rapporto tra banche e Pmi. «Criticità in vista? Non più di oggi ma servono fiducia e certezza del diritto»

approfondimenti

mondo delle piccole e medie imprese. Si tratta di un «fattore correttivo che mitiga gli effetti restrittivi sulla capacità delle banche di erogare credito in conseguenza degli accresciuti requisiti patrimoniali (l’aumento degli accantonamenti, ndr). Abbiamo evitato l’approccio generalista», rimarca il vicedirettore generale dell’Abi. Un risultato di vasta portata, perché una norma che non c’era, né era prevista inizialmente nell’Accordo di Basilea, è stata introdotta nella normativa europea e italiana. Ed è valida a livello internazionale, dopo l’accoglimento da parte del Comitato di Basilea, nella nuova versione di dicembre 2017. Il rapporto tra banche e imprese, anche alla luce delle nuove norme, non deve preoccupare: «Anzi, è migliorato anche grazie alla politica monetaria espansiva», afferma Torriero. «Inoltre, nell’ultimo decennio, per contrastare la crisi economico-finanziaria, abbiamo messo in campo strumenti potenti, nati sempre dalla collaborazione con il mondo delle associazioni imprenditoriali, come la moratoria sui debiti delle Pmi. A questa misura hanno avuto accesso più di 450mila imprese, per una maggiore disponibilità di liquidità di 25 miliardi di euro». Rapporto che si sta raddrizzando, ma con linguaggi diversi. Perché le banche ne parlano uno, mentre il piccolo imprenditore - «bravissimo a trovare le soluzioni tecniche nel suo lavoro ma, in genere, con una più limitata conoscenza dei temi finanziari» - ne parla un altro. Educazione e comunicazione sul tema? Certo, e sempre di più: «Perché chiedere un finanziamento per investire non richiede gli stessi documenti che ser-

SOLDI

«Interessa sempre meno quello che l’impresa ha fatto ed è stata nel passato; interessa di più quello che vuole essere in futuro»

vono, invece, per un finanziamento per le scorte o per fare operazioni straordinarie. L’Autorità bancaria europea (Eba) e la Banca Centrale Europea (Bce/Ssm), inoltre, chiedono sempre più all’imprenditore che dialoga con la banca di predisporre un adeguato business plan. Interessa sempre meno quello che l’impresa ha fatto ed è stata nel passato; interessa sempre più quello che vuole essere in futuro». A breve, inoltre, il tavolo tra Abi e associazioni di impresa porterà ad un altro prodotto: una guida, semplice, sulla nuova definizione di default. Come dire, un vademecum che aiuterà le Pmi ad essere più consapevoli della necessità di rispettare le scadenze di pagamento. Anche alla luce di quel Fintech che non è escluso dalla partita di Basilea 3, cioè che può impattare sull’attività di finanziamento. Conclude Torriero: «Le banche stanno collaborando e l’open banking deve essere un’opportunità. Le banche tendono ad essere più efficienti, ad analizzare più velocemente le informazioni e a dare servizi in minor tempo anche lavorando con il mondo delle Fintech. Però devono essere in grado di poter competere con le stesse regole dei grandi ‘aggregatori’ come Google, Facebook o Apple. Le stesse banche sono aggregatrici: aggregatrici del risparmio. E il modello italiano di banca vicina all’economia reale, alle famiglie e alle imprese, che ha affrontato una crisi caratterizzata da un crollo del 10% del Pil, è un modello da difendere».

D. Iel. imprese e territorio | 31


approfondimenti

Chi

SI PRENDE VINCE Amazon

GABRIELE NICOLUSSI

32 | imprese e territorio


approfondimenti

Riflessioni sulla tecnologia

Ottobre 2017: Amazon lancia un beauty contest che dura 14 mesi per identificare la sede di due nuovi headquarter, destinati a ospitare 25mila posti di lavoro ciascuno, con un salario medio di 150mila dollari all’anno. Un investimento stimato di 2,5 miliardi di dollari. Su 238 città candidate, distribuite fra Usa e Canda, vincono Long Island City nel Queens (New York City) e Arlington, in Virginia. A febbraio 2019 la multinazionale decide però all’improvviso di cancellare il suo piano di insediarsi nel Queens, dopo mesi di proteste degli abitanti del quartiere preoccupati per la gentrificazione che ne sarebbe seguita e che avrebbe fatto salire il costo della vita. Una scelta su cui si sta ancora discutendo, ma che ci dà l’occasione di capire quali strategie deve adottare un territorio, grande o piccolo che sia, per attirare capitali esterni e in che modo, da questi capitali, possa trarre guadagno. Ne abbiamo discusso con Giorgio Barba Navaretti, professore di Economia politica all’Università Statale di Milano, che ha studiato la vicenda in prima persona.

Amazon ha anche presentato dei questionari molto dettagliati alle pubbliche amministrazioni. Le domande riguardavano l’andamento demografico, la composizione della popolazione (etnia, genere, numero di stranieri) e il grado di istruzione. Ma non solo. Fra le voci c’erano anche il numero di lavori high-tech presenti nel Queens e la disponibilità di talenti freschi specializzati nella tecnologia. La cosa non stupisce. Un’azienda che si insedia in un territorio, lo sappiamo, alimenta un determinato indotto. È normale che scelga una zona ricca di imprese di valore e di manodopera di alta qualità. Ecco che puntare sulla formazione e sullo sviluppo delle aziende

Per le imprese la parola chiave è contesto: il colosso di Bezos ha detto no al Queens dopo mesi di proteste degli abitanti e nonostante le iniezioni della politica. Colpa del mismatch tra volontà e opportunità

«Per capire il fenomeno – inizia Barba Navaretti - bisogna partire dagli attori in campo e dalle loro aspettative. La prima domanda da farsi è: perché alle amministrazioni locali conviene che una multinazionale, o comunque una grande azienda, si insedi nel loro territorio?». Innanzitutto, per far crescere occupazione e salari, per stimolare lo sviluppo di nuove tecnologie, per aumentare la produttività e il numero di occupazioni collaterali, come ristoranti, supermercati, parrucchieri o bar (i servizi). «Si stima che per ogni nuovo posto di lavoro high tech – conferma il professore - ne nascano da 1.5 a 5 in attività non correlate». Se pensiamo al caso Amazon, 25mila posti di lavoro possono arrivare a crearne fino a 125mila. Un bel salto in avanti per un territorio che ha la necessità, o la volontà, di crescere. Attore numero due: la multinazionale. Per capire quali fossero le città più convenienti dove far nascere i propri headquarter,

è una strategia chiara, da parte della pubblica amministrazione, che fa diventare più attrattivi nei confronti di possibili investitori. «Non dobbiamo perdere le economie di agglomerazione, ovvero le imprese che sono già presenti sul territorio. Questa partita diventa ancora più fondamentale con il digitale e con le opportunità che mette a disposizione». Un altro fattore incentivante è infine una fiscalità “amica”, ma anche questo non sempre basta. Per convincere la multinazionale a stanziarsi nel Queens, che con i suoi 2,3 milioni di abitanti è il distretto più grande di

New York, il governatore dello stato, Andrew Cuomo, e il sindaco della città, Bill de Blasio, avevano offerto alla società di Jeff Besoz tre miliardi di dollari in sussidi. Eppure Amazon, alla fine, ha rifiutato l’offerta. La ragione? Non ha ritenuto opportuno entrare in un territorio che, in parte, non voleva la sua presenza e chiedeva ai politici di usare quei soldi per sistemare trasporti, scuole e ospedali. «Quello che ci dice Amazon – conclude lo studioso - è che è molto difficile che gli investimenti vadano nelle aree sottosviluppate o con conflitti interni, perché quello che conta di più è il contesto in cui le imprese andranno ad operare». imprese e territorio | 33


approfondimenti

CARLO ALBERTO CARNEVALE MAFFÈ PROFESSORE DI STRATEGY AND ENTREPRENEURSHIP ALLA BOCCONI UNIVERSITY SCHOOL OF MANAGEMENT

ZOMBI, BOLLITI o imprenditori?

Fare impresa oggi significa reagire all’innovazione in modo positivo. La provocazione di Carlo Alberto Carnevale Maffè: «Avete l’obbligo della neutralità rispetto alla tecnologia, se non riuscite a distinguere il fine dai mezzi che usa siete già bolliti»

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Fare impresa, oggi come ieri, vuol dire rispondere positivamente a una serie di sfide da leggere non come ostacoli da superare, ma come elementi che rappresentano il cuore stesso dell’essere imprenditore. A partire dal rapporto con le nuove tecnologie. Ne abbiamo parlato con Carlo Alberto Carnevale Maffè, professore di Strategy and Entrepreneurship presso la Bocconi University School of Management nonché voce de “I conti della belva” su Radio24. Professore, siamo dinosauri o rane bollite? Ovvero: siamo realmente rane bollite, mutuando Chomsky, rispetto a un’evoluzione digitale che sta arrivando? E come possono fare le Pmi per evitare di fare questa fine? Il digitale è una fiamma accesa sotto alla pentola del vecchio brodo, per restare alla nostra similitudine. Rimanere immersi in esso è consolante, ma ricordo che storicamente l’artigianato ha dovuto far fronte alle rivoluzioni industriali. La storia economica ci insegna che l’arrivo di nuovi cicli di innovazione tecnologia spiazza i processi produttivi arretrati. E ostinarsi a non capirlo sarebbe come aver voluto difendere carrozza e cavallo quando arrivò Henry Ford a cambiare i paradigmi. Il concetto di “bollitura” vuol dire quindi rifiutare la tecnologia, quando questa altro non è che un mero cambiamento di logica produttiva. Sarebbe come rifiutare il telaio meccanico o l’energia elettrica. Non è ammissibile che l’imprenditore nutra pregiudizi verso la tecnologia, è contraddittorio rispetto alla sua stessa natura. L’imprenditore è soggetto neutro rispetto ai mezzi, semmai deve essere impegnato rispetto ai fini, cioè come utilizzare capitale, lavoro e tecnologia sulla base delle proprie intuizioni imprenditoriali. Ma non deve e non può mai


approfondimenti

Riflessioni sulla tecnologia

essere contrario a prescindere. Rifiutare ideologicamente una tecnologia vuol dire smettere di fare l’imprenditore. Prima ancora di essere “bollito”, quindi, sei uno “zombie”, non hai capito che fare impresa è un atto di laicità e di coraggio tecnologico e industriale. Non possiamo rifiutare l’elettricità per restare alle candele. Oggi internet è l’elettricità dell’informazione, e lo sappiamo da 40 anni, non da due minuti. È finito il tempo in cui occorre dirsi che vanno educati gli artigiani alle nuove tecnologie. A chi rifiuta l’innovazione va detta una sola cosa: avete abdicato alla missione a cui avete giurato fedeltà, che è quella di fare impresa. Non è questione di predisposizione culturale, simpatia o antipatia: per chi fa impresa l’uso della tecnologia è una necessità imposta dalla scelta preliminare proprio di fare questo mestiere. È ancora assolutamente possibile oggi creare ottimi oggetti a mano in modo quintessenzialmente “artigianale”, ma si può comunque usare internet per promuoverli o venderli. Lo dico chiaramente: l’imprenditore ha l’obbligo della neutralità rispetto alla tecnologia, se non riesce a distinguere il fine dai mezzi che usa è già bollito... ma non lo sa ancora. Lei ha detto che le imprese italiane sopra i dieci dipendenti sono più produttive di quelle tedesche. Ciò che frena l’efficienza del Paese, in un certo senso, sono le microimprese. Ma micro non è sinonimo di improduttivo. Il problema, forse, è la carenza di tecnologie, organizzazione cultura e competenze. Cosa ne pensa? Non sono io, ma dati dell’Ocse, a dimostrare che il legame tra dimensione e produttività non è univoco. Esistono molti casi di piccole imprese più produttive di quelle grandi, pensiamo all’Inghilterra e alla Danimarca. Quindi non è la dimensione in sé a spiegare il gap di produttività, quanto il modello organizzativo d’impresa. Affermo sempre, che “i dipendenti sono come le azioni: non si contano, si pesano”, citando con il dovuto rispetto Enrico Cuccia. Perché il problema non è quanti dipendenti hai, ma come li organizzi: il loro numero è il risultato del perimetro d’impresa, ma come organizzarli no, è una responsabilità dell’imprenditore. Perciò se le microimprese sono improduttive, e questo è un fatto, non dipende dalla loro dimensione, ma accade perché l’imprenditore non sa dimostrarsi adeguato, avendo lui l’obbligo per ruolo, di garantire la produttività. E quando i numeri dicono che non riesce a farlo, è uno schiaffo al nobile mestiere di fare impresa. Non bisogna quindi difendere le Pmi in quanto tali, ma sfidarle ad accrescere la produttività. L’efficienza e la produttività delle microimprese devono tornare a essere una sfida dell’imprenditore; non attribuiamo quindi a fattori esterni, che non sono cause ma piuttosto effetti, una responsabilità che deve essere sulle sue spalle. E ancora: essere artigiani non è una scusa per rimanere relativamente inefficienti: la dimensione ridotta non giustifica la mancata adozione dei moderni strumenti di ausilio alla produttività, individuale e organizzativa. La tecnologia, d’altronde, è ormai facilmente disponibile. Per esempio, ci sono minime differenze

di costo e di complessità nell’accedere a servizi cloud, dalla capacità di elaborazione “on demand” fino alle applicazioni di intelligenza artificiale, sia che si tratti di un colosso sia che si stia parlando di una piccolissima azienda di provincia. Ancora oggi, in Italia, abbiamo imprese padronali ed è difficile trattenere i cervelli. Come invertire questa tendenza? Il cervello è una “materia prima” di grande qualità. Se pensi di poterlo pagare poco, vuol dire che non vuoi realizzare un prodotto a sua volta di qualità. Chi paga poco il lavoro si renda conto che la sua pretesa di parlare di qualità ai propri clienti non ha fondamento economico. Circa la dimensione padronale, la differenza tra il padrone e l’imprenditore è tutta nel ruolo manageriale. L’imprenditore è per eccellenza l’anti-padrone, considera il capitale una risorsa flessibile mentre il padrone la considera una risorsa privata, e dice “non si tocca perché è il mio, solo mio, e di nessun altro”, insomma fa dipendere le dimensioni dell’impresa dal vincolo del controllo assoluto sul capitale proprio. Il padrone quindi, non è tecnicamente un imprenditore, in quanto inverte il senso dei vincoli: per l’imprenditore il capitale non è un vincolo intoccabile ma una variabile dipendente, ovvero una risorsa da usare in quantità e struttura coerente con la strategia d’impresa. Come facciamo a raccontare meglio ciò che è oggi l’artigianato per avvicinare i giovani? Attenzione: i giovani sono già attratti dall’artigianato, solo che parliamo di un artigianato di natura diversa. Tutte le startup e le piccole imprese di servizi sono, in fondo, artigianato di servizi. Lì l’assenza di pregiudizio dei “nuovi” artigiani rende più facile l’osmosi tra artigianato e grande impresa, e così si verificato acquisizioni, integrazioni, inserimenti in gruppi più grandi. I giovani oggi si avvicinano a un tipo di artigianato diverso. Forse non si è compreso appieno che questo ambito ha cambiato pelle. Tutto il terziario avanzato nasce in un contesto artigianale: se devo scrivere software, ad esempio, all’inizio faccio un lavoro artigianale; solo in seguito, crescendo e adottando metodi e tecniche che consentono di ottenere economie di scala, divento industria. La difficoltà a reperire giovani per la propria azienda? Forse l’imprenditore non è ancora riuscito a trasformare la propria realtà in un qualcosa che sia a misura delle nuove generazioni. Vi sono centinaia di migliaia di giovani che vanno a lavorare in piccole realtà del terziario avanzato. E magari con stipendi iniziali non diversi da quelli che offre l’artigianato. Ma là il giovane coltiva insieme all’imprenditore l’ambizione di crescere in modo rapido, sia professionalmente che in termini economici. Dare la colpa ai giovani per la mancanza di attrattività della propria azienda, in fondo, è il modo perfetto per ammettere la propria incapacità. I giovani vanno attirati come accade per le materie prime di qualità: con processi produttivi in grado di esaltarli. Devi avere reputazione e processi adeguati. E. D. M. imprese e territorio | 35


approfondimenti PADRE PAOLO BENANTI FRATE FRANCESCANO DOCENTE DI ETICA, BIOETICA ED ETICA DELLE TECNOLOGIE

L’intelligenza della

MACCHINA UOMO dipende dall’

Riflessioni sul futuro dell’IA con padre Paolo Benanti, frate francescano docente di etica delle tecnologie «Se l’intelligenza artificiale è un attore sociale, allora interviene il tema dell’equità e della giustizia: servono IA eque e non pregiudiziali e parziali»

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L’Intelligenza Artificiale come chiave verso nuove frontiere dell’interazione tra uomo e macchina. Una svolta potenzialmente epocale, che porta con sé inevitabili spunti di riflessione anche sul tema etico. E il 2019 sarà probabilmente l’anno nel quale, parallelamente allo sviluppo continuo di questi strumenti, occorrerà effettuare concrete scelte di campo. «D’altronde non parliamo di una tecnologia special purpose, cioè che svolge un solo compito, ma general purpose, cioè in grado di cambiare il nostro modo di fare ogni cosa - interviene Padre Paolo Benanti, frate francescano del Terzo Ordine Regolare, docente ed esperto di etica, bioetica ed etica delle tecnologie - e questa sua pervasività fa sì che l’etica assuma un ruolo decisivo, diventando una componente centrale della stessa Intelligenza Artificiale. Ma per inserire l’etica in questa forma di tecnologia occorre aprire quella sorta di scatola nera rappresentata dall’algoritmo». «Ed ecco la prima istanza etica: come trasformare i principi che finora ci hanno accompagnato in qualcosa che la macchina può capire? In primis penso al “non nuocere”, occorre mettere in atto una direttiva etica che richiami sostanzialmente la norma morale fondamentale, cioè il non fare del male. Di fronte a una macchina che surroga in alcune circostanze la propria decisione, bisogna trovare il modo di tradurre questa modalità nel linguaggio della macchina stessa. E inoltre, siccome l’IA non è solo uno strumento ma un vero attore sociale, allora


approfondimenti

Riflessioni sulla tecnologia

ecco un’ulteriore questione, quella dell’equità e della giustizia. Servono IA che siano eque e non pregiudiziali e parziali». Importante poi comprendere il rapporto che potrà crearsi tra le nuove tecnologie e il lavoro artigiano, che fa spesso della creatività il proprio motivo fondante: «Di fatto - prosegue Padre Benanti - l’Intelligenza Artificiale ha la capacità di sostituire alcune capacità e decisioni umane. Per quello che riguarda il settore artigianale, c’è una cosa che ci caratterizza come sistema Paese, cioè il Made in Italy, che rappresenta un certo modo di fare le cose. Se le IA riusciranno a meccanizzare tutto ciò, si avrà un impatto non indifferente». «Si porrà a seguire un nuovo importante quesito: come tutelare e ridefinire quel qualcosa di specifico del nostro modo di produzione? Se una macchina automatica riuscirà a fornire la stessa qualità o individualità del pezzo di una piccola produzione artigianale, questo è qualcosa che rischia di dover essere discusso, tutelato e protetto in anticipo per mantenere il valore del nostro sistema produttivo. Per cui non si tratta solo del robot nella grande fabbrica, ma dello specifico del nostro modo di produzione, che ha grande tradizione e grande qualità». La società di consulenza McKinsey stima che meno del 5% delle occupazioni può essere completamente automatizzato usando la tecnologia attuale. Tuttavia, circa il 60% delle occupazioni potrebbe automatizzare il 30% o più delle loro attività costitutive. Il lavoratore, quindi, come deve ripensare le proprie competenze e il proprio modo di operare? «I lavori non verran-

no integralmente automatizzati, ma trasformati. Veniamo da una tradizione che, anche per ragioni di natura culturale, ci consegna una sorta di socializzazione del lavoro, dal pensiero cattolico alle dinamiche delle piccole cooperative. Il rischio, con questa radicale automatizzazione, è che scompaia il concetto di lavoro inteso come professionalità che caratterizza un’esistenza lavorativa.» «L’artigiano è colui che fa con arte quel tipo di lavoro o che dispone di particolari capacità. Ma se le macchine acquisiranno sempre più capacità di automatizzazione, il lavoro potrà essere ridotto a task, cioè quel tassello che manca alla completa automatizzazione del lavoro stesso. Per cui non sarà più l’artigiano a fare quella determinata cosa, ma rappresenterà il task che interviene tra le macchine per completare i piccoli lavoretti che le macchine non sanno fare perché troppo complessi o dispendiosi. Questo può portare a uno scenario di trasformazione radicale. Muterà la stessa definizione di lavoro». Ma attenzione anche a non lasciarsi sopraffare da una forma d’istinto apocalittico: «La trasformazione può condurre anche verso sviluppi molto positivi. La questione su cui porre particolare attenzione - conclude Paolo Benanti - non è tanto la situazione di nuovo equilibrio che si verrà a creare, ma il percorso che ci porterà verso questa trasformazione. Come ci arriveremo?». Sarà insomma la forza e la qualità del tessuto sociale a rappresentare la trama e il contesto entro cui inserire le nuove tecnologie. L’uomo, quindi, dovrà comunque restare al centro. E. D. M. imprese e territorio | 37


approfondimenti

FORMULA MILANO

ADRIANA MORLACCHI

«Il segreto del

DIGITALE è la chiarezza»

Assessore, lei che è stata riconosciuta tra le 50 donne del mondo più influenti nella tecnologia, come sta portando questa sua competenza nell’amministrazione comunale? Quali sono le resistenze che incontra, sia da parte dei cittadini che dei pubblici dipendenti? Sono innanzitutto un tecnico, cresciuto professionalmente in Microsoft, un’azienda specializzata in innovazione e tecnologia e, proprio in virtù dell’esperienza maturata in 25 anni, sono stata chiamata a inizio mandato dal sindaco Giuseppe Sala, che ha deciso di istituire un assessorato alla trasformazione digitale per accelerare il percorso della città nel solco dell’innovazione – risponde Roberta Cocco, assessore alla Trasformazione digitale e ai Servizi Civici del Comune di Milano - Ho accettato questa sfida e ho messo le mie competenze a disposizione della città, lavorando in sinergia con tutti i miei colleghi assessori per costruire, tassello dopo tassello, la Milano digitale. Non parlerei di resistenze da parte dei cittadini e dei dipendenti pubblici, quanto piuttosto della necessità di rendere il digitale davvero accessibile a tutti, che si tratti di persone che usufruiscono di un servizio online del Comune o degli sportellisti dell’anagrafe che devono fare i conti con l’introduzione di novità dal punto di vista tecnologico. Tutte le associazioni imprenditoriali si scagliano contro 38 | imprese e territorio

l’eccesso di burocrazia nelle Pa. Lei, che sta dall’altro lato della barricata, pensa che l’informatizzazione possa essere una risposta? La burocrazia è il vero problema della pubblica amministrazione: qualsiasi decisione o iniziativa prevede una serie di passaggi che rallentano pericolosamente la macchina comunale. Di sicuro la digitalizzazione potrebbe liberare gli uffici da moltissime incombenze burocratiche che oggi vengono ancora processate in maniera cartacea. Poi, il punto è sempre lo stesso: l’innovazione è semplificazione ma dev’essere accessibile, chiara e comprensibile a tutti i cittadini, non solo ai nativi digitali, altrimenti è una scommessa persa. Per chi ha una Pmi, spesso il primo interlocutore è il Comune. L’introduzione della digitalizzazione nelle Pma ha migliorato o peggiorato il dialogo? Direi che è necessario spiegare che le innovazioni permettono di evitare di fare lunghe code agli sportelli, per esempio, permettendo un risparmio di tempo e denaro perché richieste e problematiche vengono risolte dal pc di casa. Come Comune di Milano, per esempio, abbiamo deciso di accompagnare ogni nuovo servizio digitale con un video tutorial presente sul portale istituzionale, che spiega passo dopo passo come registrarsi al portale, come richiedere e stampare un certifica-


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Riflessioni sulla tecnologia

ROBERTA COCCO ASSESSORE ALLA TRASFORMAZIONE DIGITALE E AI SERVIZI CIVICI DEL COMUNE DI MILANO

to digitale, come rinnovare o richiedere un pass sosta, come prenotare un appuntamento online o come inviare una pratica allo sportello unico eventi. Cosa ha fatto in materia di semplificazione il Comune di Milano e cosa intende fare? Abbiamo fatto tanto ma ancora tanto c’è da fare. Il nostro fiore all’occhiello è il Fascicolo del cittadino, uno speciale raccoglitore digitale presente sul portale istituzionale del Comune di Milano che contiene tutte le informazioni del cittadino residente: il numero e la scadenza della carta d’identità, il numero della tessera elettorale, l’iscrizione alle scuole comunali dei figli, i pagamenti da effettuare (per esempio per la Tari, la tassa sui rifiuti) e che consente, ad esempio, di prendere appuntamento online per il rinnovo della carta d’identità o di stampare e conservare in pdf i propri certificati digitali. Quest’ultimo punto, in particolare, è fonte per noi di grande soddisfazione: nel mese di dicembre il 58% dei certificati è stato scaricato online, contro il 42% di certificati richiesti allo sportello. Numeri che parlano da soli e che

dimostrano che i cittadini milanesi sanno rispondere positivamente alle innovazioni che gli vengono proposte. Accanto al Fascicolo del cittadino mi piace ricordare il sistema di pagamenti digitali PagoPa, con il quale è possibile pagare la tassa dei rifiuti in pochi clic dal sito del Comune di Milano. Dopo qualche resistenza iniziale, dovuta al cambio di modalità,

Mrs Trasformazione Digitale - l’assessore milanese Roberta Cocco - racconta l’avanzata della città metropolitana: «Innovazione è semplificazione ma dev’essere accessibile, chiara e comprensibile»

la risposta dei cittadini è più che mai positiva. Siamo il terzo ente in Italia per numero di transazioni su PagoPA, dopo Agenzia delle Entrate e Aci. Al momento i milanesi possono pagare la Tari e le tasse d’iscrizione per nidi e scuole d’infanzia. Anche qui i numeri sono straordinari: abbiamo toccato quota 200 milioni di incasso nel 2018, con punte di pagamento effettuate il sabato, la domenica e nelle ore serali. E in questo nuovo anno contiamo di implementare PagoPA con altre tipologie di tributi, come le multe e le rette scolastiche.

Infine, organizzeremo corsi di formazione per insegnare ai cittadini a usare i servizi digitali a loro disposizione e abbattere così il digital divide. imprese e territorio | 39


approfondimenti

«Macché disruptive, l’innovazione oggi è soprattutto incrementale». A rompere l’idea secondo la quale le tecnologie moderne rappresentano sempre un punto di rottura nei confronti del passato, ci pensa Paolo Pasini, docente di Sistemi Informativi presso SDA Bocconi School of Management. Intelligenza artificiale, robotica, cloud computing, data analytics hanno in-

da alcune reti di vendita per la gestione del magazzino, per poi essere subito abbandonati per mancanza di ergonomia e capacità d’uso da parte degli operatori. «Tra i settori in cui l’innovazione viene maggiormente utilizzata c’è innanzitutto il mondo delle tecnologie legate a produ-

INNOVARE CRESCERE per

Non solo per provarci

vaso le nostre case e le nostre aziende ed è impensabile (e controproducente) non farci i conti. Ma attenzione, ci mette in guardia il professore, a non cadere nella trappola degli show digitali, perché il rischio di cadere in una bolla tecnologica è sempre dietro l’angolo. «Una buona parte delle tecnologie digitali che vediamo sul mercato – spiega Pasini sono evoluzioni di tecnologie già esistenti in precedenza, come l’intelligenza artificiale o tutto il mondo della sensoristica che alimenta l’Internet of Things. Ecco perché dico che l’innovazione oggi è soprattutto incrementale». È vero però che la tecnologia viaggia veloce e c’è il rischio di farsi prendere dall’eccessivo entusiasmo. «Sono sempre stato critico sugli show digitali. Abbiamo visto in passato delle vere e proprie bolle su tecnologie che sembravano molto interessanti, ma che poi sono state abbandonate per l’incapacità di trovarne un’applicazione utile». Pasini porta come esempio i Google glass. Gli occhiali con realtà aumentata della multinazionale americana sono stati adottati, anche in Italia,

zione, logistica e supply chain. Quindi robotica, sensoristica, Iot nei magazzini e nelle linee produttive e tutto il mondo del 3D printing. Un altro ambito digitale è la strumentazione che permette di lavorare meglio in ufficio, comunicando in modo agevole attraverso web conference, chatting, email, oppure organizzandosi il lavoro attraverso il calendaring». La vera grande partita, però, si gioca sull’analisi dei dati. «E’ un mondo in grande fermento, perché non abbiamo solo dati nuovi e più veloci, ma anche software che ci permettono di lavorarci meglio. I campi di applicazione sono molto ampi. Abbiamo casi di acciaierie di piccole dimensioni che, grazie a determinati sensori e ai dati che forniscono, possono fare una manutenzione predittiva e capire quando è il momento di sostituire un componente, prima che questo si rompa e blocchi tutta la linea produttiva».

I riferimenti per le competenze? Startup innamorate della tecnologia, che sono però specializzate in nicchie di settore, e medio-grandi operatori, che portano le esperienze catturate a livello internazionale

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Secondo Pasini non ha senso fare delle “prove” con la tecnologia. L’innovazione va studiata con attenzione. «Mi preoccupo quando vedo che ci si butta a capofitto senza fare valutazioni. La logica della sperimentazione può essere utile, ma deve scaricare a terra


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Riflessioni sulla tecnologia

Paolo Pasini (Sda Bocconi) traccia la rotta per gli imprenditori: «Prima di buttarsi a capofitto è necessario capire quanto si perde non facendo nulla ed evidenziare i punti deboli dell’azienda. Una volta trovati, allora è giusto individuare la tecnologia adatta a colmare i gap»

qualche risultato, non può essere fine a sé stessa». C’è chi si butta a capofitto, ma c’è anche chi rimane diffidente verso la tecnologia, perché i vantaggi che porta non sono sempre identificabili in modo chiaro. Se compro un macchinario che aumenta la velocità di produzione, il numero di pezzi prodotti al giorno è una buona cartina tornasole.

bili nelle imprese?». Secondo Pasini i soggetti a cui rivolgersi sono soprattutto due: le start-up, geneticamente innamorate della tecnologia, che sono però specializzate soprattutto in nicchie di settore; e i medio-grandi operatori, che portano le esperienze catturate a livello internazionale, ma che a volte non sono coerenti con le piccole realtà italiane.

Ma se decido di fare una campagna di digital marketing, la storia si complica. «Quello che stiamo cercando di fare in questo periodo è ribaltare la questione. Diciamo agli imprenditori: provate a capire, in un arco temporale di medio termine, non quali sono i vantaggi se usate determinate tecnologie, ma quanto perdete non facendo nulla. A questo uniamo un’altra analisi, mirata a evidenziare i punti deboli dell’azienda. Una volta trovati, cerchiamo di individuare la tecnologia adatta per superarli».

Abbiamo visto che è necessario trovare i punti deboli della propria impresa e una tecnologia che sappia superarli. Per farlo, Pasini consiglia la via della condivisione. «Una cosa che si sta sperimentando nelle Pmi italiane è mettere attorno a un tavolo persone che si occupano di vari aspetti (dal commerciale al marketing, dalla produzione alla valutazione dei costi) insieme a qualcuno che ha la capacità di fondere da un lato le tecnologie e dall’altro le loro applicazioni».

Possiamo anche essere aperti all’innovazione, ma rimane un problema: come trovo la persona (o l’azienda) giusta a cui affidarmi? In certi campi scovare le competenze di cui ho bisogno può essere difficile. «Sulle tecnologie innovative è un bel match, perché non è facile trovare chi le conosce e al contempo le sa anche applicare nelle aziende. Nella realtà aumentata, per esempio, ci sono un sacco di cose alla Star Trek nei laboratori, ma quante di queste sono poi oggettivamente sfrutta-

In questi piccoli laboratori aziendali, assicura il professore, si generano molte idee creative. «Nascono spesso progetti interessanti, per esempio sul fronte della capacità di raccogliere dati e analizzarli, prendere delle decisioni e scoprire cose nuove che posso fare sul mercato, sui canali di vendita, sul prodotto o sui nuovi clienti». Questa operazione, mette subito in chiaro Pasini, ha un’unica controindicazione: bisogna investirci del tempo. G. Nic. imprese e territorio | 41


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Riflessioni sulla tecnologia

Alla ricerca dei “luoghi dell’INNOVAZIONE” Per non creare

VINCITORI E VINTI

Spunti dallo studio “Scenari e politiche sull’innovazione per le Pmi e la manifattura. Il caso dell’ecosistema lombardo”

Dovremo cambiare tutti perché l’innovazione coinvolge e riguarda tutti: dalla politica al sistema delle associazioni, dalla società civile alle imprese. Se ne è parlato il 21 maggio in occasione dell’incontro “I luoghi dell’Innovazione” promosso da Confartigianato Varese con Fondazione Giannino Bassetti. Due i punti di partenza dell’analisi: l’innovazione oggi va più veloce che in passato e i suoi confini superano quelli delle province o del vecchio sistema di “vicinato”. Spunti emersi della ricerca “Scenari e politiche sull’innovazione per le Pmi e la manifattura. Il caso dell’ecosistema lombardo”, realizzata da Giancarlo Vecchi e Marco Di Giulio del Politecnico di Milano per definire se esistano o meno politiche dell’innovazione in grado di assecondare davvero il cambiamento. Tra le righe del Policy Delphy, la considerazione che le istituzioni (“le politiche”), hanno assolto sino a oggi a un compito arduo con mezzi, strumenti e modalità che rischiano di risultare inadeguate perché, tutto attorno, il mondo è cambiato. Al tavolo della riflessione, accanto a Piero Bassetti, il direttore generale di Confartigianato Imprese Varese Mauro Colombo, il direttore della Fondazione Giannino Bassetti Francesco Samoré, l’assessore alle attività produttive del comune di Milano Cristina Tajani, Paolo Mora, direttore generale dell’area Sviluppo Economico di Regione Lombardia, gli esponenti delle Confartigianato di Vicenza, Udine, Cuneo e della Lomellina, stakeholder e istituzioni. Tutti accomunati da iniziative volte a rispondere alla domanda di innovazione anche attraverso l’azione di mediatori – i “broker dell’innovazione” – in grado di favorire il trasferimento delle competenze, della ricerca e dello sviluppo. È il caso, per Confartigianato Imprese Varese, del ruolo assunto da Fa-

berlab. Spiega Mauro Colombo, direttore generale di Confartigianato Varese: da un processo di innovazione «inteso come attività indotta dall’esterno e supportata dalla genialità dell’imprenditore o da chi vicino a lui coglieva l’opportunità del cambiamento in tempi anche dilatati e in dimensioni circoscritte al rapporto fornitore-cliente, si è arrivati a una innovazione fulminea, che va colta nel momento in cui si presenta e va acquisita con rapidità, per rimanere agganciati a una locomotiva che si muove senza soste». In questo magma di sollecitazioni, le piccole e medie imprese scontano l’impossibilità di strutturare al proprio interno le competenze necessarie a gestire i processi di innovazione e manifestano il bisogno di attingere all’esterno formazione e sapere. La ricerca dei nuovi “luoghi dell’innovazione” è inevitabile e non rinviabile. Ma cosa sono i luoghi dell’innovazione? Uno “spazio” che maturerà dal cambiamento, dalla personalizzazione delle soluzioni fornite dalle “politiche” e dall’acquisizione di quelle nuove competenze che, nelle parole del presidente della Fondazione, Piero Bassetti, «il nuovo non ha, e il vecchio ha, ma non per gestire il nuovo». Il cortocircuito di un «potere spiazzato» di fronte alla cavalcata dell’innovazione, affida dunque ancora una volta alle imprese il ruolo di avamposto, «abituate come sono a operare e a ragionare con ciò che l’innovazione è per antonomasia: imponderabile». E se, dunque, alla politica andrà chiesto di gestire, anche con nuove competenze, «il cambiamento e non la prassi», una cosa andrà considerata in tutti i processi di riorganizzazione: è «giusto che ciascuno si guardi dentro senza avere paura di sfidarsi».


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