Imprese e Territorio n. 04/2019

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M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N F A R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

Passo dopo passo Le cittĂ , i territori, le grandi sfide

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editoriale

Essere protagonisti dei cambiamenti è una scelta di

DAVIDE GALLI PRESIDENTE CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE

RESPONSABILITÀ Una provincia “nuova” alla quale restituire una nuova visione e, soprattutto, nuove politiche di sviluppo industriale. Abbiamo scelto di dedicare i primi sette mesi del 2019 alla scoperta, alla conoscenza, all’analisi e all’ascolto del territorio per scrutare con i numeri e ascoltare dalla voce della quotidianità i cambiamenti in atto. Tanti, forse troppi per far rientrare negli attuali confini le trasformazioni e il rafforzamento di città che, con le loro strade, i loro obiettivi, il loro circondario di riferimento e caratteristiche sempre più peculiari, fanno di Varese una terra fortemente policentrica. L’evidenza, l’ennesima, è maturata nel corso dalle cinque settimane di Territori in Tour, un progetto di cammino avviato con VareseNews per toccare con mano le città di Luino, Varese, Gallarate, Busto Arsizio e Saronno. Venti giorni di incontri con persone e realtà differenti e affascinanti: Pmi, industrie, startup, ferrovie, strade, associazioni del terzo settore, istituzioni, uomini di chiesa, esponenti del mondo della formazione, dell’università e della “società civile”. Decine e decine di occasioni utili a combinare al quadro realista restituito dall’analisi “La Provincia di Varese – Scenari di futuro” di TEH Ambrosetti la visione iperrealista di ciascuna singola identità mico-territoriale: dal Luinese, sempre più proteso verso la Svizzera e il turismo, a Varese, capitale dei servizi e della cultura; da Gallarate, un po’ delusa da Malpensa e un po’ centro di riferimento della logistica fino a Busto Arsizio, che alla forza della formazione ha saputo combinare investimenti in produttività. E a Saronno, sempre più periferia dove tutto sa di interconnessione, vivacità e meneghinità. Queste ultime, tra l’altro, strette nell’abbraccio so-

lido della città metropolitana di Milano, che con il biglietto integrato ha reso più vicino il suo centro a due delle sue “periferie” più strategiche. Strade e direttrici: duemila e duecento chilometri di asfalto e 225 chilometri di ferrovia (+ 80 oggi dismessi) che portano il Luinese sempre più vicino alla Svizzera, che impongono a Varese di confrontarsi con il Nord Europa e Malpensa attraverso la linea Arcisate-Stabio (trasporto passeggeri), che spingono Gallarate a dialogare sull’asse Nord Europa-Genova per il trasferimento merci via ferro e con il resto del mondo tramite Cargo City. E fanno di Busto Arsizio e, ancora di più, di Saronno, centri di interconnessione fondamentali per quanti cercano la città metropolitana anche fuori dalle mura del suo centro. È questo il territorio che oggi ci stimola a guardarne le interconnessioni, rompendo le certezze del confine politico e identificando nuove frontiere dell’economia e della società. Serviranno, per questi “territori”, politiche differenziate e mirate, uno sviluppo infrastrutturale in grado di assecondare le spinte centrifughe e centripete. Occorreranno interventi per accompagnare i cambiamenti sociali attraverso l’innesto del welfare aziendale e il rafforzamento di politiche di formazione e riqualificazione adeguate alle nuove direttrici di sviluppo. Sarà utile insistere affinché progetti come “Aree di Confine” superino lo scoglio parlamentare e vincano le perplessità del territorio (o di una sua parte). E bisognerà, di nuovo, investire su piani industriali innovativi, in grado di riassumere le identità in una vocazione forte. In grado di supportare le micro-identità e di dare loro ancora maggior valore. È una sfida impegnativa. Irrinunciabile e non rinviabile.


SOMMARIO editoriale

primo piano

ESSERE PROTAGONISTI DEI CAMBIAMENTI È UNA SCELTA DI RESPONSABILITÀ_______________03

LA SECONDA VITA DEI COMUNI. NUOVI PROTAGONISTI DELLO SVILUPPO_____________________05 PICCOLI CENTRI. GRANDE VOGLIA D’IMPRESA____________________________________________08 L’AGENDA DEL CONTROESODO DI FRACCARO PARTE DALLE PMI___________________________ 10 L’URBANISTICA POST INDUSTRIALE. IL MODELLO È TORINO INNOVAZIONE SOCIALE___________ 11 IDENTITÀ DI QUARTIERE_______________________________________________________________ 13 DAI CAVI ALL’INNOVAZIONE: OPEN INCET________________________________________________ 14 CAMBIARE PER ATTIRARE. LA SOLUZIONE È SMART_______________________________________ 15 RIQUALIFICARE È MEGLIO CHE COSTRUIRE______________________________________________ 16

Inchieste

L’INDUSTRIA ARRETRA VARESE È ENTERTAINMENT BUSTO ARSIZIO CAPITALE DELLA PRODUTTIVITÀ_______________________________________________________ 18 VALORE AGGIUNTO. L’ASSE NORD-SUD È DIVENTATO CENTRO - PERIFERIA___________________20 IL “CIGNO NERO” DELLA DOMINAZIONE CINESE___________________________________________22 DAVIDE NON VA CONTRO GOLIA. CI LAVORA_____________________________________________24 CONSIGLI PER L’USO DELL’ESTREMO ORIENTE___________________________________________26 LA PLASTICA DI BANDERA TIRA LA VOLATA ALL’ECOLOGIA________________________________28

approfondimenti

PAROLA D’ORDINE: AUTONOMIA E FLAX TAX_____________________________________________30 NOI, I RAGAZZI DELL’ITS INCOM DI BUSTO_______________________________________________32 I BIG DATA HANNO BISOGNO DI UN ANALISTA. MA DI SOLITO NON LO TROVANO_______________34 DUEMILA E DUECENTO CHILOMETRI DI ASFALTO__________________________________________36 IL MASTER “IN FAMIGLIA” HA BISOGNO DI WELFARE_______________________________________38

rubriche

L’INVESTIMENTO DEI BIG. I LIBRI DA NON PERDERE_______________________________________40 CENERENTOLA È DIVENTATA REGINA___________________________________________________42

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese - Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONI Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli

Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico e impaginazione - Confartigianato Imprese Varese Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.500 copie - Chiuso il 26 Luglio 2019 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


primo piano

La seconda vita dei

COMUNI SVILUPPO

Nuovi protagonisti dello

L’analisi del presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Toccherà alle città medie assumere il ruolo guida che era delle Province, anche in ambito economico. Lo spazio c’è, ora servono coraggio e lo spirito giusto»

GIUSEPPE DE RITA PRESIDENTE DEL CENSIS


primo piano

ANDREA ALIVERTI

Gli enti intermedi devono recuperare ruolo e anima. E in testa ci sono i sindaci. «Nelle medie città, dove c’è tanta forza, c’è anche tanta ricchezza e i Comuni devono fare da traino alle realtà locali, come Milano fa da traino alla Lombardia»

6 | imprese e territorio

«I Comuni, agenti di sviluppo locale sui territori. Toccherà alle città medie assumere il ruolo guida che era delle Province, anche in ambito economico. Lo spazio c’è, ora servono coraggio e lo spirito giusto». Delinea un nuovo «protagonismo» per gli enti locali territoriali il professor Giuseppe De Rita, presidente del Censis nel presentare le risultanze della ricerca dal titolo “Il ruolo della dimensione regionale nell’evoluzione del mosaico territoriale italiano”. «Il rapporto tra Comuni e territorio va ripreso - sintetizza De Rita - non solo come luogo dell’ecologia e dell’ambiente, ma è la realtà dell’economia locale che va affrontata giorno per giorno. Se è giusto rilanciare la rappresentanza, gli enti locali devono occuparsi di questioni economiche, nel loro ruolo esterno e non solo interno all’istituzione». Insomma, devono tornare a incidere sull’economia locale, colmando il vuoto lasciato dalle Province e cogliendo il vento del ritorno alle autonomie locali dopo gli anni dei tentativi di disintermediazione a scapito degli enti intermedi.


primo piano

Cos’è successo in questi anni? La disintermediazione. Non solo un ri-accentramento ma una distruzione della dimensione locale, per non lasciare nulla tra lo Stato e il cittadino. Niente più Province, Camere di Commercio, Comunità Montane. Eliminata la dimensione intermedia, in anni di accentramento e di governo carismatico, ora ci troviamo nel deserto di partecipazione, con gli enti locali delegittimati anche nella loro reputazione. Oggi le strutture fondanti dell’economia italiana hanno meno potere e meno reputazione. Ma la curva si sta invertendo. La disintermediazione ha fallito? Assisteremo a un ritorno all’intermediazione, a un ritorno a una cultura dell’autonomia vera. Ora è essenziale lavorare sulla lunga durata: la realtà non accetta più la dimensione della cronaca, che modifica i meccanismi decisionali e mortifica le autonomie locali.

cambiamenti

do, da un’ideologia e non da un’onda di cultura collettiva, e non hanno sfondato. Così quello spazio che hanno avuto le Province potrebbe essere preso dai Comuni, specialmente quelli che sono centrali nelle zone in declino. La nostra ricerca mostra come sia in aumento il differenziale interno delle Regioni, a livello di valore aggiunto, nuove imprese e infrastrutture. A questo chi ci pensa?

I campi di intervento? «Tutta l’economia laterale al welfare, il welfare integrativo, che va garantito; tutta l’economia legata alla manutenzione, che oggi è una questione sentita; e tutta l’economia legata alla cultura del circolare, dove non servono grandi investimenti»

Lo scenario però è ancora da ridefinire... La decostruzione delle Province ha lasciato il vuoto. Le Province non si occupavano soltanto di strade provinciali e di istituti tecnici, ma anche di tante altre questioni, dalla promozione del territorio alla formazione, che adesso non toccano più, perché da una parte devono recuperare almeno la capacità di vivere, ancora non scontata, e dall’altra definire un ruolo diverso dal passato, con qualche tentazione di fare amministrazione. Un protagonismo provinciale distrutto dalla campagna stampa sugli sprechi e sui “poltronifici”, perché il ruolo attivo era della parte elettiva: se non c’è più quella, rimane solo una parte organizzativa e di gestione. Chi si assumerà quel ruolo, con le Province ancora nel limbo delle riforme? Le Regioni non scaldano il cuore della gente: sono nate a fred-

I sindaci? Un Comune che sappia reinterpretare sé stesso come agente di sviluppo locale, senza delegare ad altri, e non solo come amministratore: è questa la strada. Nelle medie città, dove c’è tanta forza, c’è tanta ricchezza, i Comuni devono fare da traino alle realtà locali, come Milano fa da traino alla Lombardia. Sono destinati a prendere, seppur in modo diverso, la responsabilità che era delle Province. Anche perché oggi i processi di sviluppo si fanno senza le amministrazioni comunali, che sono sempre a rimorchio delle associazioni, delle grandi imprese e della politica nazionale, come se fossero spettatori non paganti. Ma oggi lavorare nei Comuni implica nuove responsabilità e i poteri di un ruolo politico, non ci si può limitare alla spartizione delle competenze.

Di quali policy dovrebbero occuparsi i Comuni? Almeno tre: tutta l’economia laterale al welfare, il welfare integrativo che va garantito; tutta l’economia legata alla manutenzione, che oggi è una questione sentita; e tutta l’economia legata alla cultura del circolare, dove non servono grandi investimenti. Su questi temi si può lavorare: per i Comuni c’è lo spazio per recuperare un potere, non attraverso il “balletto” sulle competenze e sulle risorse, ma con un po’ di coraggio e con lo spirito giusto. imprese e territorio | 7


primo piano

PICCOLI CENTRI D’IMPRESA Grande voglia

Il presidente di Ifel, Guido Castelli: «Occorrono servizi con standard diversi rispetto a quelli delle aree urbane, ma anche connessioni e collegamenti, virtuali e materiali. Non può essere un atto di eroismo abitare o lavorare qui»

8 | imprese e territorio


primo piano

Piccoli Comuni, grandi potenzialità. «Meno tasse e semplificazione burocratica per tornare ad essere attrattivi». Dicono no allo spopolamento e alla desertificazione economica, i sindaci dei piccoli Comuni e delle aree interne, che quest’anno si sono ritrovati a Gornate Olona, nel Varesotto, per la conferenza annuale organizzata dall’Anci. Le loro proposte le hanno messe nero su bianco su un documento, “il Manifesto di Gornate”, che contiene una serie di richieste di provvedimenti concreti per stimolare il “controesodo”, ovvero il ritorno di famiglie e imprese a popolare le realtà che stanno subendo la desertificazione. Al centro, c’è l’invito al Governo a introdurre «una fiscalità di vantaggio per le aree marginali», perché l’occupazione è «essenziale contro lo spopolamento».

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territori, introducendo regimi di vantaggio laddove l’attrattività è inferiore. «Flat Tax territoriale significa modulare la tassazione in base alle esigenze del territorio - fa notare il presidente di Ifel Guido Castelli, sindaco uscente di Ascoli Piceno - i piccoli Comuni e nelle aree interne non sono una sorta di biodiversità urbana, ma un pezzo d’Italia, grande come il Portogallo, di cui non si può fare a meno. Servono ragioni per restare, per tornare e per arrivare. Occorrono servizi, con standard diversi rispetto a quelli delle aree urbane, ma anche connessioni e collegamenti, virtuali e materiali. Non può essere un atto di eroismo abitare o lavorare in queste realtà». L’appello lanciato da Gornate fa il paio con la proposta di legge di iniziativa delle fasce tricolori “Liberiamo i Sindaci”, che

Secondo l’Anci Piccoli Comuni, coordinata dal sindaco di Cerignale (Piacenza) Massimo Castelli, «una fiscalità differenziata per le imprese del territorio rappresenta una leva e un incentivo di maggiore impatto rispetto alla stessa previsione di contributi: le imprese hanno bisogno di interventi stabili e duraturi nel tempo». Secondo i “micro-sindaci”, «una fiscalità di vantaggio, proporzionale e differenziata per territorio, è un mezzo indispensabile per mantenere in vita le attività economiche esistenti, per attrarne di nuove, per incentivare investimenti». Non è un privilegio, ma «ha un valore compensativo rispetto alle gravi deficienze di infrastrutture e servizi che purtroppo caratterizzano le piccole comunità delle aree interne». Tra le ipotesi concrete emerse al tavolo di Gornate Olona, l’estensione degli incentivi “Io resto al Sud” «a tutti i Comuni che hanno perso più del 50% della popolazione negli ultimi 40 anni» (sono più di 300) e la cosiddetta “Flat Tax territoriale”, ovvero l’estensione dell’aliquota agevolata del 15% «alle imprese con sedi operative nei Comuni maggiormente spopolati».

chiede semplificazione e più autonomia per

Le mini-amministrazioni i capi delle comunità locali. «Se ripartiamo dai Comuni possiamo sbloccare il Paese e rilanvogliono tornare ciarlo - ne è certo il vicepresidente vicario ad essere competitive di Anci Roberto Pella, deputato e sindae attrattive co di Valdengo (Biella), ma anche piccolo imprenditore - la leva fiscale è decisiva, se per le imprese vogliamo incentivare gli imprenditori a invecon meno tasse stire in aree prive di infrastrutture e reti di e semplificazione trasporto, generando quell’occupazione che burocratica: è il è indispensabile per mantenere popolazione “Manifesto di Gornate” e servizi scolastici nei piccoli Comuni. Serve

Un principio che ricorda molto da vicino quello della proposta di legge sulle “aree di confine”, depositata alla Camera dei Deputati dal parlamentare varesino Matteo Bianchi a partire dal progetto lanciato da Confartigianato Imprese Varese. Il concetto di fondo è quello di rimodulare la pressione fiscale sul lavoro e sull’impresa in base alle necessità dei rispettivi

una differenziazione di normative, dando agli amministratori responsabilità nelle scelte e nella possibilità di dare risposte rapide alle imprese che vogliono investire, ad esempio con un’autonomia nella redazione dei piani regolatori, ma anche una differenziazione a livello fiscale, magari con un abbattimento totale dell’Imu e con una fiscalità di vantaggio che consenta ai Comuni di essere più competitivi delle grandi città». E per il “régional de l’étape” Matteo Bianchi, ex sindaco di Morazzone e vicepresidente di Anci con delega alle aree interne, si può alzare il tiro verso Bruxelles: «L’Europa ha fatto molto per le aree urbane, la cui dinamicità è sotto gli occhi, ora va posto a livello europeo il tema delle aree interne e periferiche, rivendicando l’autonomia degli enti locali».

A. Ali. imprese e territorio | 9


primo piano

cambiamenti

L’agenda del controesodo di Fraccaro

PARTE DALLE PMI «Una Flat Tax territoriale? Mi piace come proposta». Il ministro per i Rapporti con il Parlamento e la Democrazia Diretta Riccardo Fraccaro, ospite speciale a Gornate Olona dell’assemblea annuale dei piccoli Comuni Anci, non chiude la porta all’ipotesi di differenziare il carico fiscale a beneficio dei territori più disagiati e a rischio desertificazione e spopolamento, vale a dire piccoli Comuni e aree interne. «L’abbandono delle aree sempre più marginalizzate è preoccupante e la politica non può relegarlo a fenomeno incontrovertibile - sostiene il ministro - occorre un’agenda per il controesodo. Servono lavoro e reddito per invertire tendenza. Servono servizi e infrastrutture adeguate: salute, competenze, banda larga, trasporto pubblico, semplificazione amministrativa, incentivi per le realtà agricole, artigianali e per il turismo sostenibile». Ma un primo passo il governo lo ha già compiuto, rivendica Fraccaro, con le misure prese negli ultimi dodici mesi. «Dopo anni di austerità che lo Stato ha scaricato sui Comuni, e i più piccoli ne hanno sofferto enormemente, stiamo cercando di invertire questa tendenza - fa notare l’esponente del Movimento Cinque Stelle - abbiamo stanziato un miliardo e 900 milioni direttamente ai Comuni e, con sorpresa anche dei burocrati, questi soldi sono già stati quasi tutti spesi». Contrariamente agli investimenti infrastrutturali: sui «150 miliardi» inseriti nelle ultime tre Leggi di Bilancio, «solo il 4%» delle risorse sono state spese. Perché «i sindaci conoscono il loro territorio e sanno come investire per farlo crescere», pertanto «se diamo soldi direttamente ai sindaci, poi vengono spesi». Nel dettaglio: un miliardo di avanzi di amministrazione sbloccati ai Comuni virtuosi per fare investimenti; 400 milioni in Legge di Bilancio, distribuiti tra tutti i Comuni con meno di 20mila abitanti per interventi di 10 | imprese e territorio

RICCARDO FRACCARO MINISTRO PER I RAPPORTI CON IL PARLAMENTO E LA DEMOCRAZIA DIRETTA

messa in sicurezza di scuole, strade, edifici pubblici e patrimonio culturale; altri 500 milioni con il decreto crescita, ripartiti su tutti i Comuni sulla base del criterio del numero di abitanti, per opere da eseguire entro il 31 dicembre, anche per interventi di efficientamento, risparmio energetico, mobilità sostenibile e abbattimento di barriere architettoniche. I fondi già stanziati sono stati «quasi tutti utilizzati - rivela il delegato del governo Conte - sono confluiti sulle piccole e medie imprese per favorire lo sviluppo dell’economia di prossimità, per creare sviluppo e occupazione. Lo dimostra il +13% di investimenti fatto registrare dai piccoli Comuni in controtendenza rispetto al crollo del 37% degli ultimi dieci anni». L’equazione è lineare: risorse ai piccoli Comuni, linfa per le piccole opere, che coinvolgono le piccole imprese del territorio. «La logica di fondo è semplice ed efficace - fa sapere il ministro Fraccaro - Servono investimenti per il settore dell’edilizia e delle costruzioni, il più colpito dalla crisi. La priorità è rimettere le imprese al lavoro per costruire infrastrutture che aumentano capitale per lo sviluppo. Non nell’ottica di una crescita stile anni 60-70, ma ponendo al centro i temi della rigenerazione urbana e dello sviluppo sostenibile. Ripensando il modello di politica costruttiva verso il recupero e il restauro». La strada è tracciata e la strategia verrà confermata anche nella prossima Legge di Bilancio, in cui Fraccaro delinea due priorità, da un lato «potenziare gli investimenti, sostenibili dal punto di vista ambientale e diffusi sul territorio», dall’altro «ridurre le tasse per dare ossigeno alle imprese e alle famiglie». Con lo sguardo alla trattativa con Bruxelles sui conti: «Chiediamo margine a livello centrale per trasferirlo ai Comuni».


primo piano

cambiamenti

L’urbanistica POST INDUSTRIALE Il modello Torino è

INNOVAZIONE SOCIALE GABRIELE NICOLUSSI

«L’innovazione sociale è bottom-up, cresce dal basso. Bisogna passare dalla politica tradizionale delle regioni, che era quella di dare finanziamenti indistinti al territorio, alla creazione di poli ben distinti che fungano da catalizzatori dell’innovazione»

imprese e territorio | 11


primo piano

cambiamenti MARIO CALDERINI DOCENTE DI INNOVAZIONE SOCIALE AL POLITECNICO DI MILANO

Giorgio de Chirico diceva di Torino che era «la città più profonda, più enigmatica, più inquietante, non d’Italia, ma del mondo». Monumentale e mitteleuropea, appoggiata ai piedi delle Alpi, negli anni ha sempre mantenuto il suo fascino da città di confine. La sua storia, si sa, è legata a doppio filo a quella della Fiat e del grande sviluppo industriale del secondo dopoguerra. Ma quel modello, come il modello dei distretti del nordovest o delle grandi imprese familiari del nordest, con il tempo, la globalizzazione e l’arrivo di nuove tecnologie, ha iniziato ad assopirsi. Torino ha quindi dovuto interrogarsi, a cavallo del nuovo secolo, su quale sarebbe stato il suo futuro dopo l’auto. E forse, da qualche anno, ha trovato una risposta. È l’innovazione sociale, che lavora su ambiti come formazione, diminuzione dell’inquinamento, economia circolare, social housing, sharing economy. E la rete di Torino Social Impact ne è la prova più evidente.

dare finanziamenti indistinti al territorio, alla creazione di poli ben distinti che fungano da catalizzatori dell’innovazione. Ci vuole un’amministrazione locale che voglia giocare un ruolo nuovo, il cui compito sia quello di creare situazioni abilitanti in cui i soggetti riescano ad esprimere liberamente e dal basso l’imprenditorialità». In pratica semplificare le regole e puntare sulle infrastrutture.

Torino Social Impact è una piattaforma formata da un centinaio di soggetti. Mario Calderini (docente di innovazione sociale al Politecnico di Milano): «Il nostro obiettivo era organizzare gli attori locali e fare di Torino uno dei posti migliori al mondo per fare impresa a impatto sociale». Varese ha qualcosa da imparare?

Nata a Fine 2017 dall’idea di attori pubblici e privati (tra cui Camera di Commercio, Comune, università), TSI è una piattaforma formata da un centinaio di soggetti (startup, imprese, cooperative, fondazioni, associazioni) che operano nell’area metropolitana torinese nel campo dell’innovazione sociale e della finanza a impatto sociale. «L’obiettivo – spiega Mario Calderini, professore di Innovazione Sociale al Politecnico di Milano, School of Business e tra i principali promotori del progetto – era auto organizzare gli attori locali e fare di Torino uno dei posti migliori al mondo per fare impresa a impatto sociale. Torino Social Impact non è una società o un’associazione e non vuole soldi. Il territorio gli porta le idee e la piattaforma è il veicolo attraverso il quale queste idee vengono portate ai grandi decisori, che prendono questa modalità e la sfruttano per allocare risorse». Calderini propone di superare il modello top-down, che è calato dall’alto ed è tipico delle aziende (la Fiat ne è un ottimo esemplare) e della pubblica amministrazione. «L’innovazione sociale è invece bottom-up, cresce dal basso. Bisogna passare dalla politica tradizionale delle regioni, che era quella di 12 | imprese e territorio

Il successo a livello globale dell’innovazione sociale (e la ragione per cui anche Torino ci sta scommettendo) nasce da un’esigenza anch’essa sociale: abbattere le disuguaglianze. «Abbiamo grandi concentrazioni di ricchezza in pochissimi territori. Di conseguenza vaste porzioni della società ne son tagliate fuori e questo ha provocato rabbia, soprattutto negli ultimi 30 anni. La mia tesi è che in molti territori italiani abbiamo due grandi reti: quella del saper fare, costituita dagli artigiani e dal piccolo commercio, e quella dell’imprenditorialità sociale. Dobbiamo fare leva su di esse, provando a immaginare che iniettando un po’ di innovazione e tecnologia, si possa ripartire per costruire una politica di economia industriale che non sia lacerante come lo sono state tutte quelle a cui ci siamo affidati in passato». E pensare quindi a quelle reti come a dei grandi incubatori d’impresa diffusi.

Il modello dell’imprenditorialità sociale sta negli anni diventando sempre più un valore aggiunto anche per i grandi investitori. È innegabile: se devo scegliere chi finanziare, a parità di profitti che ne otterrò, sceglierò un’azienda che contribuisce a migliorare la società. «Il grande obiettivo – conclude Calderini - è esser visti all’estero. Gli investitori sceglieranno l’ecosistema, prima della singola impresa, e un progetto come Torino Social Impact, che si racconta e si promuove, aiuta a rilanciare la città come un luogo in cui è facile fare impresa sociale. E credo che questo sia fondamentale per attrarre capitali»..


primo piano

cambiamenti GIANFRANCO PRESUTTI DIRIGENTE AREA INNOVAZIONE, FONDI EUROPEI E SMART CITY DEL COMUNE DI TORINO

IDENTITÀ di quartiere

GABRIELE NICOLUSSI

Uno dei soggetti che fanno parte di Torino Social Impact e che ben rappresenta tutte le anime della transizione in atto è Open Incet, il centro di innovazione aperta della città. Si tratta infatti di un’area industriale dismessa (la Incet - Industria Nazionale Cavi Elettrici Torino), inserita in un quartiere periferico e difficile (Barriera di Milano), che il Comune ha deciso di riqualificare. Lo ha fatto pensando che affidare quegli spazi a imprese che lavorano nell’ambito dell’innovazione sociale (anziché costruirci per esempio un centro commerciale o una semplice area industriale) fosse la scelta giusta per ricucire le fratture che sono emerse negli anni in seguito alla deindustrializzazione. Un po’ di storia: il progetto Urban Barriera Non si può parlare di Open Incet senza raccontare il contesto in cui si è sviluppata. Corso Vigevano è un grande vialone che

separa due quartieri periferici di Torino: Barriera di Milano e Aurora. Il corso, trafficato ma ben alberato, rappresenta uno spartiacque. Da un lato (quartiere Aurora) ci sono i 90 mila metri quadri della Officine Grandi Motori (o, come la chiamano a Torino, il Lingottino). Costruita a cavallo tra ‘800 e ‘900 da Fiat e Ansaldo, ora non è altro che edifici abbandonati e un enorme piazzale vuoto. Dall’altro (Barriera di Milano) c’è piazza Teresa Noce, dove dalle ceneri della Ex-Incet tra il 2014 e il 2016 sono nati una scuola d’infanzia, una caserma dei carabinieri e Open Incet. Le due realtà, separate solo da una lingua d’asfalto, si guardano da vicino e rappresentano, in maniera lampante, due lati della stessa medaglia. La riconversione di questa ex-area industriale (23mila mq tra esterni ed interni) rappresenta uno degli interventi più importanti e complessi del progetto Urban Barriera, iniziato dal Comune di Torino nel 2007 con l’obiettivo di cambiare volto al imprese e territorio | 13


primo piano

cambiamenti PATRIZIA SAROGLIA FONDAZIONE GIACOMO BRODOLINI E PROJECT MANAGER DI OPEN INCET

quartiere. Rientra nei modelli di riqualificazione “urban” che, basati sugli orientamenti della Commissione Europea, propongono sviluppo innovativo per la riconversione delle aree cittadine. Stiamo parlando di interventi che creino posti di lavoro nei settori della cultura o dei servizi, che puntino all’integrazione delle classi sociali svantaggiate, che sviluppino sistemi di trasporto green e così via. La città propone il progetto e, se rispetta i requisiti e li mette in atto in un tempo predefinito (in genere sei anni), viene in parte finanziata dall’Ue tramite il fondo Fesr (Fondo europeo di sviluppo regionale). Nello specifico, in Urban Barriera (che è un Pisu, un Piano integrato di sviluppo locale) sono rientrati 34 interventi (Ex-Incet è uno di questi) spalmati su 2,3 chilometri quadrati, per un totale di 30 milioni di euro di investimenti pubblici e sei di investimenti privati. «Il modello urban – spiega Gianfranco Presutti, dirigente di Area innovazione, fondi europei e smart city del Comune di Torino – nasce nella metà degli anni ’90 e credo che la città l’abbia colto in pieno, sia nella programmazione ‘93-‘99, quando ci siamo occupati di Porta Palazzo con il progetto The Gate, sia con quella successiva, tra il 2000 e il 2006, con Urban 2 a Mirafiori». La città non è quindi nuova a questo tipo di esperienze che, è giusto dirlo, prendono anche spunto da casi concreti realizzati all’estero. «Gli anni 2000 sono anni in cui abbiamo iniziato a occuparci di innovazione sociale. Abbiamo cercato gli esempi migliori (tra cui Londra, Marsiglia, Barcellona e Brighton) per capire come costruire una partnership diversa tra pubblico e privato. Abbiamo copiato le esperienze che ci sembravano più utili e da lì abbiamo messo assieme il nostro modello, in cui si lascia più responsabilità al privato, che deve sostenere una nuova economia». L’amministrazione locale si occupa degli investimenti di riqualificazione, toccherà poi agli imprenditori creare le proprie attività. Il ritorno per il Comune non è da sottovalutare: riesce a sfruttare i fondi europei per rilanciare la città; con il tempo rientra in parte nelle spese, grazie all’affitto (calmierato) che fa pagare a chi occuperà gli spazi; sceglie la destinazione d’uso più consona ai propri obbiettivi, che in questo caso è l’innovazione sociale. 14 | imprese e territorio

Dai cavi all’innovazione:

OPEN INCET Dove prima si facevano cavi elettrici, ora si crea innovazione. All’interno di Open Incet, gestito da una cordata di sei soggetti pubblici e privati (Fondazione Giacomo Brodolini, Conform, Forcoop, Il Nodo, Italia Camp, Sti Soluzioni Turistiche Integrate / JoBonobo), ci sono le realtà più varie. Si va dalla cultura (Accademia delle Belle Arti) al mondo della ristorazione (Edit e Condivido Spa), dalla comunicazione digitale (Disko) al coworking (Impact Hub Torino), passando per l’eco-design (Izmade) e servizi di accelerazione per aziende e startup (The Doers). Nel nuovo complesso, che si sviluppa su più di 4 mila metri quadrati, ci sono anche due sale eventi, due sale formazione e una riservata alle riunioni. «Abbiamo scelto di rispondere alla chiamata della città sull’innovazione sociale – spiega Patrizia Saroglia di Fondazione Giacomo Brodolini e Project manager di Open Incet – perché crediamo sia un buon approccio per riuscire a rivitalizzare il tessuto sociale e per portare soluzioni nuove a problemi collettivi». Un esempio è la falegnameria Izmade, formata da architetti, designer e artigiani, che oltre a realizzare arredamenti e installazioni, è di fatto una società di servizi. «Abbiamo un maker space aperto al pubblico – spiega uno dei cofondatori, Giuseppe Vinci - dove con 2,50 euro all’ora le persone possono usare i nostri spazi e attrezzi. Proponiamo corsi non professionalizzanti e workshop con target diversi, per diffondere il sapere del fare e del design. Organizziamo anche eventi legati alla diffusione dell’artigianato, che lentamente rischia di perdersi». La riqualificazione, assicura Saroglia, ha di certo fatto bene al quartiere, su tutti i fronti. «Ci sono per esempio programmi per le scuole e per aiutare gli immigrati nel percorso di avvicinamento all’imprenditoria, è stato appena aperto un garden e c’è una piazza dove le persone possono passeggiare e sedersi. È diventato un punto di incontro, un segno che dice a chi abita qui che il quartiere sta vivendo una trasformazione positiva e con uno sguardo sul futuro». Se pensiamo che prima era un edificio abbandonato e che prima ancora era una rimessa di auto rubate, è chiaro come questa fetta di città abbia cambiato volto. G. Nic.


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CAMBIARE ATTIRARE per

La soluzione è smart

«La caratteristica principale per essere attrattivi è essere pronti ad accettare cambiamenti e soluzioni. Questa è una fase storica, è in atto una rivoluzione digitale e nel real estate sta avvenendo con nuovi format e proposte». A parlare è Marco Savio, co-fondatore di Planet Idea, start-up italiana nata a Torino nel 2015 (e facente parte del gruppo internazionale Planet Holding), che opera a livello internazionale come competence center sulle smart city. In pratica fornisce consulenza strategica e sviluppa progetti per integrare l’innovazione in ambito urbano. Un paio di esempi sono la prima smart city in social housing al mondo, che è in via di costruzione a Sao Goncalo do Amarante in Brasile, o la prima piazza smart in Italia, creata proprio nel capoluogo piemontese. «Siamo in Torino Social Impact anche perché abbiamo ideato Planet App, applicazione smartphone al servizio del cittadino e delle pubbliche amministrazioni, che rende accessibili e interconnessi tutti i servizi presenti in una smart city. Pensando a un quartiere, permette per esempio di prenotare gli spazi comuni, dove fare la festa di compleanno del figlio o dare delle lezioni gratuite di inglese o di yoga». Sempre nell’ottica di creare coesione tra i cittadini e migliorarne lo stile di vita. A questo punto sorge una domanda, che vale non solo per

smart city e social housing, ma per tutta l’innovazione sociale: come se ne misurano gli effetti benefici? Come si fa a capire se sta agendo in modo efficace sulla società? La risposta ce la dà Savio: «Noi, come competence center, abbiamo studiato soluzioni da adottare in vari contesti e abbiamo bisogno di uno strumento che vada a calcolare quello che effettivamente avviene quando si mettono in atto. E Torino Social Impact lo sta facendo». È stato infatti creato un osservatorio che ha come obbiettivo proprio quello di monitorare l’evoluzione dell’ecosistema impact sul territorio metropolitano, per comprendere le dinamiche e l’evoluzione delle imprese e degli investimenti a impatto sociale. Torino Social Impact è importante anche per altri motivi. Come ricorda Savio, «il tuo progetto è legittimato quando è coordinato da varie competenze. Far parte di questi tavoli ti dà inoltre la possibilità di essere visibili anche al di fuori dei propri contatti commerciali e allo stesso tempo rappresenta un modo per confrontarsi e aggiustare la ricetta che viene proposta. Si nasce volenterosi di fare qualcosa di positivo, ma bisogna sempre essere in grado di mettersi in discussione». G. Nic. imprese e territorio | 15


primo piano

LIDIA ROMEO

RIQUALIFICARE COSTRUIRE è meglio che

Se riqualificare diventa più conveniente che costruire ex novo. A questo punta la delibera proposta dall’Assessore al Territorio e Protezione Civile Pietro Foroni e approvata dalla giunta Fontana e che ora il Consiglio regionale ha il compito di tradurre in una norma per la riduzione del consumo di suolo. Un’esigenza ambientale e di riqualificazione delle città che diventa anche uno strumento di incentivo economico capace di incidere su dinamiche sociali, produzioni, manifatture e modelli di business anche delle piccole aziende. «Purché la parte pubblica non rinunci al suo ruolo di regia» avverte Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e studi urbani del Politecnico di Milano dove insegna Tecnica e pianificazione urbanistica.

Il direttore del dipartimento di Studi Urbani del Politecnico e la nuova legge regionale contro il consumo di suolo: bene servizi, materiali e manufatti necessari ai cantieri

In che senso un piano di riqualificazione urbana incide sull’economia del territorio? Per moltissimo tempo lo sviluppo economico delle nostre città è stato legato a nuove costruzioni, con conseguente consumo di suolo. A cominciare dalla crisi dell’edilizia, partita una 16 | imprese e territorio

dozzina di anni fa, si è resa sempre più urgente la capacità di pensare e costruire una struttura economica urbana differente, basata su riuso, riqualificazione e costruzione su costruito. Se recuperare l’esistente diventa più vantaggioso che costruire ex novo, le città non solo cambiano aspetto. Abbandonare la logica dell’espansione incide anche sui processi sociali ed economici. Ci sono esempi significativi di politiche simili cui ispirarsi? A livello europeo abbiamo assistito negli ultimi anni a significativi interventi di riqualificazione su grandi aree dismesse, ferroviarie e produttive, favoriti da interventi legislativi mirati. Penso ad esempio a Olanda e Germania, oppure Parigi in Francia. Anche in Italia ci sono validi esempi di un simile lavoro, a cominciare dalla legge regionale dell’Emilia Romagna di un paio di anni fa che ha previsto diversi incentivi e favorito le partnership tra pubblico e privato, fino agli interventi spot su piccole aree ben delimitate ad esempio a Milano in zona Bicocca, Isola, Lambrate o via Mecenate.


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cambiamenti

Autore:Renato Cerisola | Copyright:Edison Spa

Qual è un buon punto di partenza? Accade spesso che i i percorsi di rigenerazione urbana nascano come processi spontanei dal tessuto sociale ed economico della città, ed è prioritario ascoltare e dare risposte a queste esigenze. Ma perché il risultato sia efficace è indispensabile una regia pubblica unitaria.

Concretamente come possono essere coinvolte le aziende? Diversi sono i terreni. Servizi, materiali e i manufatti necessari ai cantieri e poi la grande opportunità di ampliare o spostare l’attività, modificare le destinazioni d’uso di aree dismesse anche piccole. A Varese ad esempio sembra essersi finalmente riaperta la questione dell’ex Macello civico, una grande area da riqualificare a partire dalle esigenze della comunità.

di ridurre gli oneri di urbanizzazione. In questa fase di sempre minore disponibilità economica delle amministrazioni locali, gli oneri di urbanizzazione sono l’unico strumento capace di garantire qualità alla riqualificazione urbanistica con una serie di interventi volti all’effettiva vivibilità del nuovo contesto, a cominciare dalle esigenze reali delle persone che lo vivono.

e finanziato dal programma europeo Horizon 2020. L’idea di fondo è realizzare un quartiere “smart” a emissioni quasi zero, per rispondere alle principali sfide ambientali delle città e migliorare la vita quotidiana dei suoi abitanti. Tra i tre principali obiettivi del piano, quello di definire modelli di business replicabili in altri territori.

Per le aziende «è una sostanziale opportunità di ampliare o spostare l’attività, La regia del pubblico sta in una norma? modificare Per cominciare. Una legge regionale che permetta semplificazioni burocratiche capaci di le destinazioni d’uso Quali sono i percorsi che permettono alle aziende di sfruttare la riqualificazione urridurre tempi e documenti, che preveda incendi aree dismesse bana? tivi fiscali e volumetrici o sostegno economianche piccole» Un valido esempio è Sharing Cities, progetto co per bonifica del suolo, efficienza energetica o qualità dei materiali sarà un ottimo punto A Varese occhi puntati che coinvolge l’area di Porta Romana e Chiadi partenza. Mi lascia invece perplesso l’idea sull’ex Macello Civico ravalle a Milano, assieme a Londra e Lisbona

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Nel sud della Provincia, l’industria pesa ancora di più del settore dei servizi a livello di produttività (62.273 euro contro 41.753) Il “sistema Varese”, a quota 48.672, si mantiene al di sopra della media nazionale (46.575), mentre Luino conferma le sue difficoltà

L’industria arretra Varese è entertainment

BUSTO ARSIZIO PRODUTTIVITÀ fa la capitale della

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L’ANALISI DELL’ISTAT

Produttività, Milano batte tutti. Dai dati sul valore aggiunto per addetto del Frame Territoriale Istat spunta qualche sorpresa: Varese ultima tra i capoluoghi per la produttività dell’industria ma al top nell’entertainment, Busto Arsizio fuori dalla top 50 nazionale dei sistemi locali del lavoro, Origgio Comune più produttivo in provincia di Varese. La produttività apparente del lavoro è un indicatore che l’Istat ricava calcolando il valore aggiunto per addetto. Con i dati della nuova infrastruttura informativa dell’istituto, il Frame Territoriale che aumenta il livello di accuratezza, granularità, flessibilità e coerenza delle informazioni prodotte da Istat a livello territoriale, la “fotografia” della produttività può essere scomposta in modo più capillare, delineando il quadro provinciale del Varesotto “pixel per pixel”, ovvero Comune per Comune. A livello generale, emerge prepotentemente la conferma di una tendenza verso quello che è stato già ribattezzato come “il secolo delle città”. «In Italia il 50% del Pil deriva dai sistemi locali del lavoro urbani - sottolinea Stefano Menghinello, direttore centrale per le statistiche economiche dell’Istat - Il che significa che le città tornano ad essere al centro della creazione di valore aggiunto. Milano in particolare è un catalizzatore di crescita, con una forte vocazione terziaria. Nella manifattura lombarda, c’è un cuore milanese dei servizi, in particolare nei servizi ad alto contenuto di conoscenza Milano ha un ruolo decisivo: operano al servizio della stessa manifattura lombarda». La metropoli meneghina è in testa alla graduatoria dei capoluoghi, in termini di valore aggiunto per addetto. Con 72.303 euro guida una “top 20” in cui entrano altre quattro città lombarde (Monza, Cremona, Lodi e Brescia), mentre Varese si posiziona appena sotto all’eccellenza nazionale, con 48.687 euro, sesto capoluogo lombardo, davanti a Bergamo.

capoluogo in regione, dopo Cremona, Brescia e Pavia. Alta produttività, a sorpresa, per le attività artistiche, sportive di intrattenimento e divertimento, dove Varese primeggia in Lombardia con 158.349 euro di valore aggiunto per addetto (più del doppio di Milano e superata in Italia solo da Udine e La Spezia), ma pure per i servizi di informazione e comunicazione (79.571 euro, anche se Varese è solo sesta in Lombardia). In Lombardia, il “sistema Milano” primeggia quasi senza rivali: con un valore aggiunto per addetto pari a 66.778 euro, l’area metropolitana distanzia tutti gli altri sistemi locali del lavoro di almeno 10 “punti”, al netto di qualche performance di micro-realtà come Sannazzaro de’ Burgundi (Pavia), Vestone (Brescia) e Sondalo (Sondrio), e trascina il dato della Lombardia (57.430), che si conferma la regione trainante. Tra i tre sistemi locali del lavoro nei quali è suddivisa la provincia di Varese (Luino, Varese e Busto Arsizio), il più competitivo è Busto Arsizio, che sfonda i 50mila euro per addetto (50.520), però rimane fuori dalla “top 50” nazionale, posizionandosi al 55esimo posto su oltre 600 SLL.

In Lombardia, Milano primeggia quasi senza rivali: con un valore aggiunto per addetto pari a 66.778 euro, l’area metropolitana distanzia tutti gli altri sistemi locali del lavoro di almeno dieci punti

Da notare come nella Città Giardino l’industria sia in forte arretramento rispetto ai servizi: Varese è ultima tra i capoluoghi lombardi per produttività apparente nel manifatturiero, 59.784 euro per addetto, mentre con 45.049 euro recupera terreno nei servizi, al quarto posto in Lombardia dopo Milano, Lodi e Monza. Scavando nelle specializzazioni, spunta qualche dato curioso. Ad esempio, nel settore delle costruzioni la produttività è bassissima, appena 33.414 euro per addetto: in Lombardia solo a Cremona e Mantova fanno peggio. Decisamente più produttivo il settore dei trasporti e magazzinaggio: con 56.692 euro per addetto, Varese è quarto

Nel “sistema” del sud della Provincia, l’industria pesa ancora decisamente di più del settore dei servizi, a livello di produttività (62.273 euro contro 41.753). Il “sistema Varese”, a quota 48.672, si mantiene ben al di sopra della media nazionale (46.575), mentre Luino conferma le sue difficoltà in termini di desertificazione economica, con un valore aggiunto di appena 34.856 euro per addetto. L’analisi dell’Istat arriva a valutare la produttività apparente del lavoro in ogni singolo Comune: sul podio della provincia di Varese si piazzano Origgio (98mila euro), Vizzola Ticino (93mila) e Samarate (74mila). Sopra i 60mila euro di valore aggiunto per addetto, in ordine, anche Gorla Maggiore, Gornate Olona, Brunello, Vergiate, Venegono Inferiore, Albizzate, Buguggiate Comerio, Caronno Pertusella, Casale Litta, Malgesso, Comabbio, Biandronno e Solbiate Arno.

Si conferma anche la tendenza ad un incremento della produttività proporzionale all’aumento della classe dimensionale delle attività. In Lombardia, ad esempio, le 811 unità locali con più di 250 addetti hanno una produttività apparente che supera gli 80mila euro ad addetto, più del doppio di quella (39.402) delle oltre 800mila unità locali di dimensioni comprese tra gli 0 e i 9 addetti. Va detto però che tra le classi dimensionali “medie”, quella tra i 10 e i 49 addetti vede in Lombardia un valore aggiunto per addetto superiore ai 60mila euro. imprese e territorio | 19


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VALORE AGGIUNTO L’asse Nord-Sud è diventato centro-periferia

«Investimenti in tecnologia e in capitale umano, ma anche collaborazioni di rete e percorsi di crescita: così le Pmi possono risalire le classifiche della produttività». È la lettura del professor Fabio Antoldi, ordinario di Strategia Aziendale e di Imprenditorialità all’università Cattolica del Sacro Cuore (sede di Piacenza e Cremona) e direttore del Cersi, il Centro di Ricerca per lo Sviluppo imprenditoriale dell’ateneo, rispetto ai dati del frame territoriale Istat sul valore aggiunto per addetto.

performanti. Come ovviare a questo gap? Fabio Antoldi sottolinea tre aspetti cruciali su cui riflettere. «Il primo è il tema dell’Information and Communication Technology, su cui il nostro Paese sconta un gap fortissimo in termini di produttività rispetto ad altri Paesi europei, legato al fatto che a livello di digitalizzazione, intesa come ingresso di strumenti e competenze informatiche, la piccola e media impresa italiana (dai 10 addetti in su) è anni luce indietro ai concorrenti francesi e tedeschi, e non solo prendendo a benchmark la Silicon Valley o il Giappone».

«Il dato che salta all’occhio, seppur riferito a un’annata di crescita del Pil, è che da un lato la Lombardia, e il Nord in generale, si conferma locomotiva del Paese in termini di imprenditorialità, produzione economica e produttività - sottolinea Antoldi – Dall’altro cambia la concentrazione del valore aggiunto nelle aree urbane, con una polarizzazione verso aree metropolitane e distretti. Allo storico asse Nord-Sud, si affianca sempre più un asse centro-periferia, tra aree urbane e periferie di provincia, più evidente nei servizi ma in parte anche nel settore manifatturiero. Una nuova polarizzazione che penalizza non tanto i centri medi ma soprattutto quelli più piccoli, creando una contrapposizione tra grandi città versus piccoli paesi».

Bastano due dati per chiarirlo: «Solo metà degli addetti delle aziende italiane vede un pc in una settimana media e solo una azienda su sei impiega uno specialista in software nel proprio organico», come fa notare il professore della Cattolica. «Occorre intensificare l’adozione di pratiche, strumentazioni e competenze digitali: non solo Industria 4.0 ma anche solo no alla manualità in tutte le pratiche quotidiane del fare impresa». Antoldi cita lo studio di Luigi Zingales e Bruno Pellegrino, “Diagnosing italian disease”, in cui «la mancanza di investimenti tecnologici in Ict pesa ancor più della pressione fiscale o del malfunzionamento della giustizia».

In tema di produttività del lavoro c’è anche un dualismo tra grandi e piccole imprese, con le prime tendenzialmente più

Il secondo spunto riguarda il capitale umano, su cui sempre Zingales e Pellegrino puntano l’indice: «Le imprese familiari, ma

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L’ANALISI DELL’ISTAT

ancor di più il familismo, che si esplica nella tendenza a non assumere le figure dirigenziali e manageriali in base al merito e alle competenze - spiega il professor Antoldi - le imprese familiari ci sono anche in altri Paesi, dove però si prediligono logiche meritocratiche nella scelta di chi deve andare a rivestire i ruoli di responsabilità. Investire nel capitale umano è importante: oggi c’è una fatica strutturale da parte delle Pmi nell’accedere ai giovani talenti, che spesso non mandano nemmeno i curricula alle piccole e medie aziende, né queste ultime saprebbero come gestire la carriera di queste persone».

competere a livello domestico, il problema potrebbe anche essere superabile, non più però quando la competizione, anche nei servizi, si allarga a tutto il sistema europeo». E in questo senso non sorprende che «a risentirne meno siano le aree metropolitane e i sistemi distrettuali, dove le collaborazioni di rete tamponano le scarse disponibilità finanziarie e di investimenti lungimiranti, o dove c’è un mercato del lavoro in grado di intercettare più facilmente le competenze».

«Non sposo né il concetto di “piccolo è bello” né la criminalizzazione della piccola impresa, ma è un fatto che l’Italia ha moltissime microimprese che non hanno adeguata capacità di investimento»

Infine, c’è la “solita” questione delle dimensioni. «È la stessa Istat a mostrare una scarsa propensione all’investimento in virtù delle piccole dimensioni d’impresa - ammette il docente di strategia aziendale - io non sposo né il concetto di “piccolo è bello” né tantomeno la criminalizzazione della piccola impresa, ma è un fatto che l’Italia ha moltissime microimprese che non hanno adeguata capacità di investimento sia in termini di risorse finanziarie disponibili che di capacità di fare investimenti lungimiranti in una logica di sviluppo. Finché si tratta di

La collaborazione di rete è una ricetta? «È una strada da percorrere, nelle forme più varie - dai sistemi locali alle filiere verticali, dai contratti di rete ai consorzi per l’export o per la ricerca, fino alla stessa collaborazione all’interno delle associazioni imprenditoriali, creando un clima associativo positivo basato sulle strette di mano e sulla fiducia reciproca, ma - il monito di Antoldi - non è un’alternativa tout court alla necessità di accompagnare le imprese in un percorso di crescita, senza paura». «Anche perché l’Italia sconta il vincolo di un mercato finanziario che non ha molta capacità di investire in equity sulle Pmi». imprese e territorio | 21


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IL “CIGNO NERO” della dominazione cinese

«Quando si parla di Cina, alla persona comune vengono in mente tanti stereotipi, poi se quella stessa persona va in Cina, gli stereotipi saltano e si ridimensionano. Senza conoscenza diretta di un argomento, non ci si può che basare su quelli che si ritengono, magari a torto, esperti e competenti»

ANGELO PANEBIANCO PROFESSORE ORDINARIO DI SCIENZA POLITICA ALL’UNIVERSITÀ DI BOLOGNA 22 | imprese e territorio


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la cina È FRA NOI

«Non vi fidate di chi prevede che tra vent’anni la Cina dominerà il mondo». Angelo Panebianco, professore ordinario di scienza politica all’università di Bologna, dove insegna geopolitica e relazioni internazionali, è noto per la misuratezza con cui analizza i fatti della politica nazionale ed internazionale nei suoi editoriali sul Corriere della Sera. Il suo è un invito alla prudenza nelle analisi geopolitiche, e a diffidare di chi ha la verità in tasca, perché il punto non è se la previsione potrà, o meno, verificarsi davvero, ma è l’impossibilità di avere delle certezze nell’individuazione dei trend. «In italiano si usa lo stesso termine, previsione, per definire quello che in inglese viene detto con due parole diverse, prevision e forecasting. Non a caso le previsioni meteo sono più attendibili quanto più sono vicine nel tempo - spiega Panebianco - ecco perché non ci si può fidare quando qualcuno vi dice cosa succederà tra 20 anni, perché chi osserva una tendenza non sa quali elementi interverranno a controbilanciarla. È il problema del caso, il “cigno nero”, che è l’imprevedibile, ciò che cambia la storia, affascinante e centrale per chiunque si occupi di scienze umane e sociali. Ci obbliga al dovere della modestia: possiamo capire cosa è accaduto, ma dobbiamo essere molto cauti a pensare cosa accadrà. Qualche volta si possono fare previsioni negative, ad esempio possiamo ipotizzare che, dove le risorse sono concentrate nelle mani dello Stato, non si svilupperà una democrazia di tipo occidentale, incompatibile con un’economia statalizzata, ma quasi mai si possono fare previsioni positive». La Cina però fa paura a molti... Quando si parla di Cina, alla persona comune vengono in mente solo stereotipi, poi se quella stessa persona va in Cina, gli stereotipi saltano e si ridimensionano. Senza la conoscenza diretta di un argomento, non ci si può che basare su quelli che si ritengono, magari a torto, esperti e competenti. Rendersi conto che meccanismi psicologici che muovono gli altri sono simili a quelli che muovono noi è la prima regola per chi fa il mio mestiere. Così anche il crinale attuale tra società aperta e chiusa, tra globalisti e protezionisti, è meno scosceso di quel che appare? È una questione di dosaggi e di mix tra apertura e chiusura, perché anche i fautori dell’apertura devono accettare qualche chiusura, così come i protezionisti non sono disposti a rinunciare ad alcune aperture. Ad esempio, l’Europa, che per molti è sinonimo di apertura, per molto tempo ha finanziato l’agricoltura praticando un protezionismo verso l’esterno,

verso quei Paesi che avevano bisogno di esportare. La globalizzazione però oggi viene messa in discussione da più parti. Reggerà questo modello? Quel che sappiamo è che i processi di crescita delle interconnessioni dei mercati, volgarmente detti globalizzazione, hanno bisogno di una spalla politica che li sostenga. La prima globalizzazione, quella del periodo tra il 1870 e il 1914, ha dietro di sé la Gran Bretagna, che tiene aperti i mercati e i mari, mentre la seconda, quella post 1945, è “sponsorizzata” dagli Stati Uniti. Per consentire gli interscambi serve un qualche tipo di garanzia politica: la globalizzazione non vive nel vuoto, ma ha bisogno di una forza politica che la sostiene. Oggi sta venendo a mancare? La seconda globalizzazione oggi è in difficoltà, ed è plausibile ipotizzare che questo fenomeno possa essere messo in relazione con un relativo declino della potenza americana. Una difficoltà che si sta manifestando con l’aumento della pressione verso una riduzione delle aperture dell’interconnessione internazionale. Non da oggi, perché già prima dell’elezione di Trump era quintuplicato, nel mondo, il numero delle misure protezionistiche. Segno che l’apertura dei mercati cominciava già ad essere messa in discussione. Abbiamo capito che è meglio evitare di fare delle previsioni, ma il rischio di un arretramento nell’apertura dei mercati internazionali c’è? Se è vera, e sottolineo “se”, la tesi del declino irreversibile degli Stati Uniti, allora dobbiamo aspettarci un indebolimento, una perdita di forza, della globalizzazione. L’Europa in questo quadro è destinata a contare sempre meno? L’Europa è un vaso di coccio, ora non è più dominante come lo diventò improvvisamente nel 1500 quando si impose ai grandi imperi dando il là a un’industrializzazione che in Cina non avvenne, e non ha nemmeno più gli strumenti per esserlo. L’Europa ha un futuro, e potrebbe averlo a lungo termine, anche molto importante, ma all’interno del mondo occidentale, perché se il mondo occidentale si frantuma, il rischio è che quella frantumazione cresca anche in Europa.

A. Ali.

imprese e territorio | 23


inchieste

Davide non va contro Golia.

CI LAVORA DAVIDE IELMINI

Se un Paese rallenta, non vuol dire che sia in crisi. Non lo è la Cina, nonostante il calo nella crescita del 6,2%. È per questo che Sheng Laiyun - vicedirettore dell’Istituto nazionale di statistica del Paese - in un’intervista esclusiva all’Economic Daily parla di «stabilità economica». Che ci sarà fino a quando «il tasso di crescita continuerà ad essere positivo». Fatto sta che quel 6,2%, che si riferisce al secondo trimestre 2019, è il peggior dato mai registrato in questi ultimi ventisette anni. La performance un po’ meno entusiastica rispetto al passato – nei due precedenti periodi si era al 6,4% - non è da considerarsi come una battuta d’arresto, ma come un cambiamento nelle prospettive di crescita del Paese. In questi anni interessato da una forte urbanizzazione, dall’aumento della capacità di acquisto della classe media, da stili di vita che guardano all’Occidente e ai suoi status symbol. Firmati anche Made in Italy.

il raddoppio del Pil e del reddito pro capite entro il 2021, e la trasformazione della Cina «in un Paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, avanzato culturalmente e armonioso entro il 2049». Ecco perché la Cina è, e rimane, la seconda economia al mondo dopo gli Stati Uniti, sempre più proiettata verso l’Africa e il grande bacino del Mediterraneo. Se la terra del presidente Xi Jinping “coccola” l’Italia per il suo ruolo strategico di base logistica della “Nuova via della seta” (con i porti di Genova e Trieste) e le sue Pmi, anche lo Stivale non nasconde i suoi interessi: la Cina è la settima destinazione per l’export italiano, e in questi ultimi due anni il commercio tra le due nazioni è aumentato del 14%. Il mercato cinese fa gola a tutti. Non solo alla grossa industria.

«In Cina si svolgono quelle lavorazioni artigianali che in Italia stanno scomparendo e dalle quali dipende la produzione di modellini della Bbr»

Nei piani del presidente Xi Jinping non ci sono solo il contrasto alla guerra commerciale aperta dagli Stati Uniti (che ha indebolito gli investimenti e l’export cinesi), le azioni poste a difesa del proprio “fortino” in un’economia globale friabile e la preoccupazione di una popolazione votata all’invecchiamento (la politica del “figlio unico” introdotta nel 2015 ha portato al crollo delle nascite e alla riduzione della forza lavoro giovane), ma anche 24 | imprese e territorio

Le piccole e medie imprese si sono attrezzate sapendo che il rapporto tra loro e il colosso d’Oriente sta nell’ordine di un Davide contro Golia. Però la storia biblica va rivista: qui Davide vuole negoziare perché non può vincere. E la vittoria, quando arriverà, sarà quella che si registra sul fatturato estero. Cristiano Peroni, sales manager della Peroni Ruggero (azienda fondata dal padre nel 1979), in Cina ci va due volte l’anno. Ma è come se fosse sempre lì grazie a Giada Chen, che a Shangai ci vive ed è la figura chiave delle azioni e degli sviluppi


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la cina È FRA NOI

La vittoria, se ci sarà, si quantificherà in un aumento di fatturati da una parte e in un incremento di qualità dall’altra. Ce lo raccontano alcune Pmi che hanno scoperto come trattare con il gigante estremorientale

commerciali in Cina per questa azienda leader nella produzione di macchinari per sistemi di archiviazione in scuole e uffici. Perché Giada non solo parla la lingua ma, dei cinesi, conosce anche abitudini, costumi e cultura. Grazie a questa trentaduenne, oggi la Cina rappresenta il 40% del fatturato dell’azienda varesina. Il perché lo spiega il giovane imprenditore: «Giada si confronta direttamente con chi decide, ti accompagna lungo le trattative articolate e infinite, sa come confrontarsi con gli amministratori locali, mantiene gli equilibri. È una presenza rassicurante e indispensabile», dichiara Cristiano Peroni. Che ha fatto crollare qualsiasi resistenza da parte dei cinesi: «Ora credono anche loro nell’automazione e alle fiere riconoscono il brand Peroni Ruggero, un’azienda che ha migliorato la proprio qualità e le proprie performance grazie anche alle pretese dei clienti orientali». L’automotive è uno fra i settori chiave del mercato cinese. Sarà anche per questo che ai modellini delle auto – supercar (le DIE-CAST in metallo e in resina) e vintage – si guarda con particolare affezione. Nando Reali della Bbr Models di Saronno, in Cina è arrivato nel lontano 1998 «perché quello era il futuro». Oggi ci va una volta al mese, dove ad attenderlo ci sono tre imprese diverse con le quali collabora: «I cinesi non dicono mai no. Inoltre, in Cina si svolgono quelle lavorazioni artigianali che in Italia stanno scomparendo e dalle quali dipende la produzione di modellini della Bbr. In Italia uno stampo lo posso avere in due o tre mesi; in Cina nell’arco di tre settimane

ho il pezzo. Inoltre, in Cina è possibile realizzare anche un solo modello con tutta la tecnologia a disposizione». Il mercato è giovane, sfrenato e i clienti facoltosi non mancano. Ma i cinesi «vogliono spendere poco e guadagnare tanto. Ecco perché è importante – prosegue Reali – mantenere un contatto stretto e definire bene le proprie esigenze». Ad oggi, il fatturato della BBR con la Cina rappresenta l’80% del totale. Con la politica dei prezzi, ha fatto i conti anche Marco Civelli della Almar. In Cina è atterrato per la prima volta nel 2013: un territorio vergine per chi, come l’impresa di Gavirate, produce tutto ciò che sta in una cabina doccia. Ad oggi, con il mercato cinese, la Almar fa un fatturato del 3% ma – dice l’imprenditore - «ogni anno c’è un piccolo incremento. Certo paghiamo lo scotto di non essere presenti, fisicamente, con un Centro di Assistenza Tecnica a Shangai (con un commerciale che parli il cinese) e di non avere una struttura retail. Però, puntando al mercato luxury, siamo riusciti a portare i nostri prodotti per allestire le cabine doccia in alberghi nuovissimi con tante camere». Come procurarsi i clienti? «Con agenti e distributori locali, ma anche attraverso semplici mail dai toni friendly seguite da ripetuti contatti diretti. L’acquisto della merce avviene su un nostro listino prezzi con una scontistica dedicata: il cinese, per cultura, punta sempre al prezzo più basso ma una volta chiarite le dinamiche da lì non ci si sposta», rimarca l’imprenditore. imprese e territorio | 25


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CONSIGLI

per l’uso dell’Estremo Oriente

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la cina È FRA NOI

Il mercato è appetibile, ma per arrivarci non basta volerlo. Stefania Spigarelli, docente di Economia Applicata al China Center dell’Università di Macerata, parte da un concetto assodato: «Non si può prescindere dalla Cina». Non lo fanno le imprese che, lì, «fanno approvvigionamenti di strumentazioni (ora anche componentistica) e prodotti; quelle che in Cina ci vanno direttamente o indirettamente (pensiamo a tutta la filiera del tessile-abbigliamento) e quelle, infine, che tentano la via dell’export», sottolinea la professoressa. Il verbo “tentare”, però, qui sta per programmare, definire e conoscere. In tutto questo, le piccole e medie imprese come si devono comportare? Il direttore del China Center non ha dubbi e snocciola consigli D.Iel.

I contatti conoscitivi possono durare da alcuni mesi fino ad un anno, perché per i cinesi il tempo è un concetto circolare e relativo

italiani che sono e lavorano in Cina

7 AVERE TANTA PAZIENZA I cinesi sono diffidenti, e per loro è fondamentale affidarsi ad un forte coordinamento politico.

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RIVOLGERSI ALL’AMBASCIATA ITALIANA A PECHINO

ACCETTARE LE DIVERSITÀ

3 Il vero valore lo si ottiene se ci si misura e ci si confronta direttamente con i potenziali clienti

6 MAI AFFIDARSI AI PROFESSIONISTI

AFFIDARSI AL PROPRIO PERSONALE, IN LOCO

4 APRIRE UN ACCOUNT SU WECHAT

2

1

COSTITUIRSI IN CONSORZIO

CONOSCERE LA LINGUA NON BASTA

Per le piccole e medie imprese è fondamentale mettersi insieme, investire direttamente sul territorio cinese e aprire una propria sede

Se il cliente cinese nota un supporto istituzionale alle spalle dell’azienda, cambia prospettiva. È per questo che la presenza, in Cina, di Germania e Francia è molto istituzionale

Per lavorare con la Cina, bisogna diventare un po’ cinesi. Quindi immedesimarsi nella cultura e nel funzionamento delle istituzioni. Questo lo devono fare tutte le imprese, perché le politiche cinesi sostengono liberamente gli investimenti in alcuni settori, li agevolano altri mentre in altri ancora li scoraggiano

Inutile insistere alla ricerca di soluzioni alternative che, in realtà, possono recare più danni che vantaggi. Siamo nell’epoca della connessione globale, vero, ma tradurre il sito aziendale in lingua cinese non serve. Con WeChat i cinesi ci fanno di tutto: le imprese che utilizzano questa App possono entrare nelle reti giuste perché ci sono pagine dedicate alla vendita

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La plastica di Bandera tira la volata all’

ECOLOGIA Nei capannoni di Busto è in corso una rivoluzione per la filiera della plastica, chiamata a rispettare la direttiva UE che imporrà dal 2021 lo stop agli articoli in plastica monouso (come le vaschette per gli alimenti) ma anche una nuova sensibilità per la sostenibilità

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Bandera traccia la strada dell’innovazione per il settore della plastica: nel futuro c’è l’Economia Circolare. Bio-polimeri e riciclo delle materie plastiche: nei capannoni di Busto la ricerca e gli investimenti vanno in quella direzione. Una rivoluzione per la filiera della plastica, chiamata a rispettare la direttiva UE che imporrà dal 2021 lo stop agli articoli in plastica monouso (come le vaschette per gli alimenti) e una nuova sensibilità per la sostenibilità che si sta diffondendo nel mercato. In provincia di Varese, il settore della gomma-plastica è sempre stato uno dei più significativi nell’ambito del manifatturiero, dietro alle “regine” incontrastate del tessile e della meccanica: attualmente conta circa mezzo migliaio di imprese e dà lavoro a più di diecimila addetti. Con alcuni primati: Varese è la terza provincia in Italia per addetti del settore, e la quarta per flussi di esportazioni. Le imprese del settore non sono tantissime, ma garantiscono un numero importante di posti di lavoro, sia nell’industria che nell’artigianato. Secondo l’osservatorio del mercato del lavoro di Confartigianato Varese, quello della chimica, gomma e plastica è il quarto settore più rappresentativo tra le aziende, dopo meccanica di produzione, edilizia e altri servizi alla persona e alle imprese, con un peso significativo soprattutto in termini di addetti, pari all’8,5% del campione considerato (a fronte del 5% nel totale delle aziende). Uno dei riconosciuti “campioni” nel settore si trova lungo la statale del Sempione a Busto Arsizio, un’azienda che rappresenta un punto di riferimento in provin-


inchieste

filiera dopo filiera

cia, la Costruzioni Meccaniche Luigi Bandera, con oltre 70 anni di storia e una dinamica di crescita guidata dall’innovazione e testimoniata da un fatturato che negli ultimi vent’anni è passato da 60 a 120 milioni di euro. «Nata occupandosi di progettazione e costruzione di impianti per la sola estrusione, Bandera è passata alla progettazione e costruzione di impianti complessi per la trasformazione delle materie plastiche, prevalentemente al servizio dell’industria del packaging e del converting, con un forte accento sul tema del recycling - sintetizza Andrea Rigliano, direttore sales e marketing - oggi realizziamo impianti che determinano risparmio energetico, riduzione del peso degli imballaggi e utilizzo di materiali riciclabili e riciclati». Oggi l’azienda - che vede al vertice i figli del fondatore, Piero e Franco Bandera, ma che ha già inserito la terza generazione di famiglia - impiega poco più di 200 dipendenti diretti, ma soprattutto mobilita un indotto di terzisti quantificabile in circa 600-700 persone, tra artigiani e imprese piccole, medie e grandi che gravitano attorno alla Bandera. Investire e innovare sono le parole d’ordine che consentono alla Bandera di essere sempre all’avanguardia. «Non rincorriamo più i tedeschi, storicamente al top nel settore, ma facciamo le nostre proposte - sottolinea Piero Bandera - non abbiamo più nulla da invidiare ai nostri competitor». Sul fronte degli investimenti, dopo quello del 2015 per la realizzazione dell’ambizioso centro di ricerca e sviluppo tecnologico “The House of Extrusion”, in cor-

so Sempione sta sorgendo una “torre” da 34 metri di altezza per il montaggio e il collaudo di linee complete di estrusione dei film in bolla, mentre è già stata installata l’innovativa Condor Line®, che integra diverse tecnologie ausiliarie (come rivestimento e laminazione) in un unico sistema, per ottenere un’ampia varietà di prodotti finali. «Una linea meravigliosa, l’Amerigo Vespucci dei nostri clienti» la chiama così colui che l’ha progettata, Enrico Venegoni, chief technical manager, da 49 anni alla Bandera. Un progetto che lancia «una sfida per l’industria di trasformazione, a raggiungere obiettivi innovativi di produzione, in particolare con materiali riciclabili e biodegradabili, nell’ottica dell’Economia Circolare». Perché con la nuova direttiva UE «dobbiamo pensare ai bio-polimeri, in alternativa alla materia plastica». Scatole di plastica per alimenti, e non solo, che si potranno buttare nell’umido, utilizzando polimeri fatti di amido di mais, glucosio e altri componenti naturali. Ad aggiungersi alle tecnologie studiate da Bandera che già oggi permettono di riciclare le bottiglie di plastica e che vanno verso la creazione di prodotti in plastica costituiti da massimo uno-due polimeri, per favorire il recupero. In Bandera sono pronti: «Sia perché lo vogliamo noi, sia perché il mercato va in quella direzione - ricorda Piero Bandera - se ne parla molto male, spesso a sproposito, ma della plastica non si può fare a meno. Non va sprecata e bisogna studiare come recuperare i contenitori nel modo migliore per rimettere il materiale in circolo». imprese e territorio | 29


approfondimenti

Parole d’ordine:

AUTONOMIA E FLAT TAX «La Flat Tax? In legge di bilancio. E l’autonomia delle Regioni è la chiave per fare la spending review». Non lascia trasparire alcuna preoccupazione il viceministro dell’economia Massimo Garavaglia, leghista di lungo corso del Magentino che ha alle spalle un’esperienza da amministratore locale, parlamentare e assessore all’economia di Regione Lombardia. A chi obietta sui rischi di uno scontro con Bruxelles, ricorda che «l’impennata del rapporto debito/Pil c’è stata da Mario Monti in poi, di 10 punti. Noi dobbiamo mostrare con i numeri che il deficit può scendere, e che sarà possibile arrivare al 2,1% anziché al 2,5% previsto». Ma soprattutto sfodera numeri positivi e fatti concreti. Da un lato, «un indice che non sbaglia mai, l’indice Pmi manifatturiero (Purchasing managers Index, l’indice dei direttori acquisiti che monitora l’attività manifatturiera, ndr). A maggio siamo arrivati a 49,7 punti, massimo livello da otto mesi, in crescita e maggiore rispetto alle previsioni, mentre l’Eurozona si è fermata a 47,7, in calo, e la Germania a 44,3%. Vuol dire che siamo vicini alla svolta: sopra quota 50 è crescita. Significa che il nostro sistema di piccole e medie imprese ha mostrato vera resilienza». Dall’altro, fa notare che i provvedimenti economici del Governo «funzionano. Con il primo avvio di flat tax sui minimi, invece degli sfracelli che qualcuno prevedeva, ci ritroviamo con maggiori entrate e 200mila partite Iva in più. La deducibilità dell’Imu sugli immobili strumentali, un passo fatto, verso l’obiettivo di 30 | imprese e territorio

demolire la patrimoniale da 21 miliardi. E l’intervento sull’Ires, con l’abbassamento dal 24 al 20%. Nel decreto crescita abbiamo sistemato la norma, rendendola semplicissima: lasci i soldi in azienda? Paghi meno tasse». Ora il viceministro assicura che il Governo ha l’intenzione di andare avanti su questa strada, passando agli «step successivi». Come lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione, al di là dell’idea dei “mini-Bot”: «Il tema è molto semplice, a noi interessa pagare questi debiti. Questo è uno strumento come tanti altri, troviamo il modo per farlo e siamo tutti contenti». Ma anche la Flat Tax sui redditi sotto i 55mila euro: «La facciamo comunque in legge di bilancio», afferma Garavaglia. Al di là delle discussioni sulle risorse da reperire. Una delle opzioni per mettere finalmente a “dieta” i conti pubblici è l’autonomia delle Regioni. «Il federalismo fiscale e l’autonomia sono in realtà il modo intelligente per fare la “mitica” spending review - afferma il vice di Giovanni Tria - Significa che la “ditta”, lo Stato, deve diventare più efficiente. Noi non vogliamo rubare niente a nessuno: qui si parla di competenze della “ditta”, dello Stato, che in una parte vengono fatte a un costo, dall’altra a un doppio del costo, con un’efficienza inferiore e con servizi inferiori. Basta mettere un po’ d’ordine, ma nella ditta. Il mondo delle imprese su questo è d’accordo». Perché, rimarca Massimo Garavaglia, «il problema dell’Italia non è l’entità della spesa, che al netto della spesa per interessi


Il viceministro all’Economia Massimo Garavaglia agli imprenditori: si va avanti. «Con l’indice Pmi manifatturiero a maggio siamo arrivati a 49,7 punti, massimo livello da otto mesi. Siamo vicini alla svolta: sopra quota 50 è crescita. Significa che il nostro sistema di piccole e medie imprese ha mostrato vera resilienza»

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MANOVRE DI GOVERNO

MASSIMO GARAVAGLIA VICEMINISTRO DELL’ECONOMIA

è di molto inferiore alla media europea. Quindi l’Italia non ha un problema di quantità di spesa, ma di qualità della spesa. L’autonomia migliora la qualità della spesa». E potrebbe essere questa la chiave per liberare il sistema Italia dalla zavorra dei conti pubblici sempre sotto esame e per far ripartire la crescita. Il viceministro lo spiega così: «La Regione Lombardia ha il rating superiore a quello dello Stato, quindi capisce anche un bambino delle elementari che più “roba” fai fare a Regione Lombardia, più lo Stato ci guadagna. Non solo dal punto di vista del rating, ma anche dell’efficienza. Il costo dello Stato per fare lo Stato per abitante in Regione Lombardia è 1500 euro meno della media nazionale, quindi basterebbe che tutta Italia avesse i costi di Regione Lombardia per arrivare a risparmiare almeno 60 miliardi di euro all’anno. Sa cosa vuol dire? Fine del deficit, del debito, fine di tutto... però purtroppo la Lombardia è una». Per Garavaglia il percorso può partire: «È nel contratto di Governo. E prima si avvia, prima lo Stato ci guadagna, poi se le altre Regioni vogliono continuare con il modello attuale ci dispiace per loro. Se Regione Lombardia, insieme al Veneto, all’Emilia-Romagna e a chi vuole, vuole invece essere più efficiente, più veloce, più vicina alle imprese e alle famiglie, meglio per loro».

A. Ali. imprese e territorio | 31


approfondimenti

Noi, i

RAGAZZI ITS dell’

Incom di Busto

«Tornassi indietro, rifarei questo percorso cento volte» ammette Riccardo Mazzocchi, originario di Acqui Terme, capitato all’Its Incom di Busto Arsizio «in modo puramente casuale» al termine degli studi superiori all’istituto tecnico chimico-biologico. «I miei coetanei stanno studiando nelle più svariate università, ma hanno ancora una mentalità “scolastica” - sottolinea il giovane neodiplomato Its in Metodi e tecniche per lo sviluppo cloud - Fanno gli esami per prendere il voto, non tanto per la conoscenza da acquisire. Io sono più pratico e il fatto di frequentare le lezioni da manager d’azienda o da specialisti del settore piuttosto che da docenti universitari, per me è stato un valore aggiunto». La mattina degli esami finali del corso Its, all’Ite Tosi di viale Stelvio, Riccardo era di fretta perché aveva già un appuntamento di lavoro subito dopo pranzo: lavora nell’azienda hi-tech che lo ha accolto per i due stage previsti nel programma del corso, che lo sta impiegando come consulente esterno presso un’azienda cliente con il ruolo di data analyst. Anche per questo, Riccardo non ha alcun rimpianto di non aver intrapreso una carriera universitaria: «Le competenze che ho acquisito in questi due anni non avrei potuto ottenerle in nessun altro modo - sottolinea il neodiplomato originario del 32 | imprese e territorio

Piemonte - è vero, oggi gli Its non sono ancora molto ricercati e attrattivi, perché l’idea fissa di chi esce dalle superiori rimane ancora l’università, ma è solo questione di tempo, prima che tutti si rendano conto della validità di questi percorsi di formazione». Tra i neo-qualificati dell’Its c’è anche chi, come Lazar Milosevic, 29 anni appena compiuti, ha ricevuto un’offerta non proprio scontata per chi termina il proprio percorso di studi: «Da subito, un contratto a tempo indeterminato» in una grande azienda di It consulting del territorio che è tra i soci fondatori di Its Incom. «Mi sono sentito con il mio “vecchio” docente di informatica dell’Itis per promuovere questo corso Its - racconta Lazar, che si era diplomato alle serali dell’Itis a indirizzo informatico per completare gli studi superiori - molti ragazzi potrebbero prenderlo come direzione futura. L’Itis spesso viene visto come una scuola di seconda scelta ma l’Its è un percorso che completa la formazione di base e offre opportunità almeno di due tacche superiori rispetto a quelle del semplice diploma in informatica». La storia di Lazar - serbo di origine, vive in provincia di Varese dal ‘99 - è particolare ed emblematica: ha scelto di rimettersi in gioco con l’Its dopo un’esperienza lavorativa non soddisfacente, fatta in seguito all’abbandono degli studi al liceo classico. «Fu un periodo vissuto male.


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Ma avevo voglia di specializzarmi, e dopo il diploma l’Its mi è sembrata l’opzione migliore in termini di opportunità successive e di tempistiche». Ma le storie di successo, tra chi si forma negli Istituti Tecnici Superiori, sono tutt’altro che una rarità. All’Its Incom il 95% degli studenti trova lavoro prima della fine del percorso formativo, percentuali analoghe a quelle (tra il 90 e il 95%, con punte fino al 97%) registrate dall’Its della Fondazione Lombardia Mobilità Sostenibile di Case Nuove a Somma Lombardo. A livello nazionale, l’80% dei diplomati Its è occupato a un anno dalla fine del corso di studi, ma solo uno su dieci non trova lavoro. Numeri che parlano da soli e sfidano clamorosamente le statistiche su una disoccupazione giovanile ancora sopra il 30%. Anche perché, come fa notare Rina Sartorelli, direttrice dell’Enaip di Busto Arsizio che ha attivato un percorso Ifts (annuale), quella di chi si forma negli Its «è buona occupazione, che scaturisce una competizione al rialzo». Gli Its rappresentano infatti «il punto terminale del percorso di formazione professionale», offrendo opportunità concrete per chi si diploma negli istituti tecnici e professionali. Ma non solo, visto che circa due iscritti su tre «provengono da percorsi non tecnici, come diplomati ai licei o universitari che hanno interrotto la carriera», come spiega Maria Rosaria Ramponi, direttrice dell’Its Incom. Tra i vantaggi del sistema duale, ancora marginale in Italia, il fatto che le imprese partner partecipino attivamente, mettendo a disposizione non solo stage, ma anche docenti, aule e risorse. «La struttura dei corsi è molto più elastica e lavora sulle filiere professionali – sintetizza Ramponi - la motivazione degli studenti è molto più alta». Ecco perché il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che definisce gli Its «una punta di eccellenza» del nostro sistema scolastico, ha anticipato di qualche mese la firma (attesa per settembre) del decreto che stanzia 32 milioni di euro che le Regioni potranno destinare al fondo per il finanziamento degli Its. Ma per rendere questi percorsi più attrattivi «serve un cambiamento culturale», come sottolinea il presidente della Fondazione Its Incom Benedetto Di Rienzo, storico preside dell’Ite Tosi di Busto Arsizio. «Per programmare più corsi non c’è un problema di risorse, ci vorrebbe più disponibilità da parte delle famiglie a indirizzare i loro ragazzi verso questi percorsi. Ma oggi l’Its è ancora una scelta residuale rispetto all’università».

la formazione tecnica

I NUMERI DEGLI ITS IN ITALIA (dati monitoraggio Indire aggiornati al 30 aprile 2019) Its: 103 Percorsi attivi: 527 Iscritti ai percorsi attivi: 13.381 Soggetti partner: 2.465 (di cui Imprese: 892) ESITI OCCUPAZIONALI AD UN ANNO DAL DIPLOMA: » l’80% ha trovato lavoro (nel 90% dei casi in un’area coerente con il percorso di studi concluso); » del 20% dei non occupati o in altra condizione: il 10,3% non ha trovato lavoro, il 4,8% si è iscritto a un percorso universitario, il 2,1% è in tirocinio extracurricolare e il 2,8% è risultato irreperibile » le aree tecnologiche con le migliori performance occupazionali: Mobilità sostenibile (83,4%) e Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (82,5%). Tra gli ambiti del Made in Italy, Sistema meccanica (91,9%) e Sistema moda (86,3%) ottengono i migliori risultati IN PROVINCIA DI VARESE » Fondazione Its Incom, viale Stelvio, Busto Arsizio: corsi Its (biennali) in Metodi e tecniche di sviluppo cloud, Esperto di digital communication, Esperto in new media marketing; corso Ifts (annuale) in Tecniche per il networking » Fondazione Its Lombardia Mobilità Sostenibile, Case Nuove, Somma Lombardo: corso Its (triennale) in Manutentore di aeromobili, corsi Its (biennali) in Progettazione e montaggio nelle costruzioni aeronautiche, Supply Chain & Operations Management, Meccatronica per l’Industria 4.0 Meccanica e Aeronautica e Industria 4.0-Ricerca e Sviluppo in ambito Meccanico e Aeronautico; corsi Ifts (annuali) in Logistica integrata e intermodale, Gestione dell’ambiente e della qualità. » Fondazione Its Red (sede distaccata di Varese c/o Scuola Professionale Edile, via Monte Santo): corso Its (biennale) in Construction Manager (Risparmio energetico nell’edilizia sostenibile e nel cantiere) » Its Tosi, viale Stelvio, Busto Arsizio: corso Ifts (annuale) in Digital transformation e dematerializzazione dei documenti contabili » Enaip Busto Arsizio, viale Stelvio: corso Ifts (annuale) in Alta cucina e valorizzazione delle eccellenze enogastronomiche » CentroCot Busto Arsizio, piazza Sant’Anna: corso Ifts (annuale) in Textile innovation&new materials (Industrializzazione del prodotto e del processo nella filiera del tessile, pelle e nuovi materiali) imprese e territorio | 33


approfondimenti

I BIG DATA hanno bisogno di un analista Ma di solito non lo trovano

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approfondimenti

Già definito come «il lavoro più attraente del 21esimo secolo» dalla prestigiosa rivista Harvard Business Review, nell’ormai lontano 2012, oggi il Data Scientist è una delle figure professionali emergenti, e difficili da reperire, sul mercato delle imprese immerse nell’ambiente della cosiddetta “open innovation”. Di cosa si tratta, in soldoni? Il Data Scientist è la figura altamente specializzata che viene associata alla capacità di gestire i “Big Data” e di trarne informazioni rilevanti. «Conoscenza approfondita di modelli matematico-statistici e algoritmi, tecniche di programmazione necessarie per implementarli e capacità di raccontare le evidenze in modo sintetico e semplice, ecco qual è l’identikit del Data Scientist ideale» sintetizza Irene Di Deo, ricercatrice dell’Osservatorio Big Data Analytics & Business Intelligence del Politecnico di Milano, che rimarca come siano «ingegneria, informatica, economia, matematica e statistica, a livello di laurea magistrale o PhD», con l’aggiunta di «corsi di specializzazione» extra-accademici, i percorsi formativi «più gettonati» tra chi svolge questa professione, facendo notare che «per diventare Data Scientist occorre possedere competenze eterogenee, che spaziano dalla tecnologia alla conoscenza del mercato e del business, fino alla capacità di utilizzare tecniche di machine learning e linguaggi di programmazione».

gli introvabili

Europea». Eppure, quella di “scavare” nei dati è una che potrebbe aprire praterie sterminate, se pensiamo che ad esempio un’azienda come Tim «colleziona 57 miliardi di informazioni al giorno», come fa notare Enrica Danese, responsabile Customer Experience, Excellence & Innovation dell’ex monopolista della telefonia. Per sfruttarli «servono soluzioni applicative, che spesso noi troviamo nelle startup». Ma non sono solo i settori legati alla tecnologia a guardare a queste figure, ma anche un grosso player dell’immobiliare come Prelios Group, nel pianificare nuove assunzioni: «Anche noi cerchiamo molti Data Scientist» ammette Fabio Panzeri, chief operating officer del gruppo che una volta si chiamava Pirelli Real Estate. «Ci servono sempre più competenze cross». È una tendenza che appare ormai inarrestabile. «Il mondo di oggi - rimarca il rettore dell’Università Bocconi, Gianmario Verona è caratterizzato dall’open innovation. È fondamentale mettere insieme competenze complementari».

Siamo tutti in piena “open innovation” eppure il Data Scientist, mestiere noto e gettonato da diversi anni, è difficile da reperire sul mercato. “Colpa”, si fa per dire, di una preparazione molto complessa

Una sorta di trait d’union tra il mondo della tecnologia e quello degli affari, che deve sapere estrarre le informazioni ma anche darne un’efficace ed utile chiave di lettura. Una figura strategica, nell’epoca dei “Big Data”, ma ancora in larga parte mancante nel panorama del mercato del lavoro. «Nell’Ict in Italia ci sono circa 150mila posti vacanti perché non ci sono le figure professionali con le competenze giuste. Non solo programmatori e sistemisti, ma anche Data Scientist - spiega Silvia Candiani, amministratore delegato di Microsoft Italia, annunciando l’innovativo programma Ambizione Italia per la formazione di 500mila persone all’interno di laboratori specializzati nelle università - purtroppo l’Italia, in termini di digital skills, è solo venticinquesima su 28 Paesi dell’Unione

Ecco che il mondo accademico sta iniziando ad attrezzarsi, anche se nella logica delle “vecchie” specializzazioni questa nuova figura è difficile da incasellare. «I profili più richiesti sul mercato del lavoro delineano con chiarezza due tipi distinti di figure professionali di Data Scientist - sottolinea la presidente della Società Italiana di Statistica Monica Pratesi, inserendosi nel dibattito sulla proposta di una nuova laurea magistrale in Data Science - la prima con un focus sulla raccolta, gestione e trattamento dei dati di tipo complesso ad elevata dimensionalità; la seconda, invece, con un focus marcato sull’analisi dei dati e sulla costruzione di modelli analitici, di tipo interpretativo e predittivo, per dati di tipo complesso, quale necessario e indispensabile supporto alle decisioni nei diversi domini applicativi». L’unica certezza è che, se si vogliono cogliere le opportunità del futuro, queste figure professionali vanno formate e messe sul mercato. imprese e territorio | 35


approfondimenti

Quasi 63 chilometri di autostrade, 211 chilometri di strade statali, 629 chilometri di strade provinciali e 1.285 chilometri di strade comunali: questa è la rete infrastrutturale della mobilità su gomma della Provincia di Varese. Strisce d’asfalto che vengono quotidianamente percorse da oltre 600mila patentati, a bordo dei 740mila veicoli registrati sul nostro territorio. La strada in assoluto più battuta è l’Autolaghi, la

no percorrono la Pedemontana Lombarda. In attesa che si riaprano i cantieri, l’utilizzo delle nuove tratte è in crescita: a consuntivo 2018, rispetto all’anno precedente, più 13% sul tronco principale tra Cassano Magnago e Lentate sul Seveso, e più 2% sulla Tangenziale di Varese. Passando alle altre arterie statali e provinciali, su un ideale “podio” del traffico si posizionano la Sp1 del Lago di Varese, tra

Duemila e duecento chilometri di

ASFALTO prima autostrada d’Italia, che collega Milano a Varese e che è attraversata ogni giorno da 310mila veicoli effettivi, un sesto dei quali sono mezzi pesanti: di questi veicoli, circa 40mila transitano dalla barriera di Gallarate, mentre qualche migliaio in più si riversa sulla diramazione per Sesto Calende. Ancor di più sono quelli che percorrono la superstrada 336 per Malpensa, la statale in assoluto più congestionata del Varesotto: più di 47mila ogni giorno, secondo il dato Anas sul Traffico Giornaliero Medio Annuo (Tgma). Non a caso è anche una di quelle più a rischio incidenti e ingorghi, come dimostrano le cronache quotidiane, tanto che in occasione del “Bridge” di Linate (il trasferimento dei voli dal city airport milanese allo scalo Malpensa) il gestore aeroportuale Sea ha lanciato una campagna per indurre all’utilizzo della più comoda e meno congestionata alternativa della superstrada 336 Diramazione Malpensa-Boffalora, per collegare l’aeroporto in brughiera alla metropoli passando per la A4 Milano-Torino. Anche perché Anas ha recentemente fatto sapere con una nota ufficiale che, al di là dei lavori di ordinaria manutenzione, non sono in programma interventi di potenziamento e riqualificazione della “vecchia” 336 tra Busto e Malpensa, al di là della variante alla statale 341 che collegherà la Pedemontana con la 336 a Samarate (“bretella di Gallarate”). Sono invece più di 116mila, anche se per tratte brevi (il dato statistico sui veicoli teorici medi giornalieri si ferma a poco meno di 20mila transiti), i veicoli effettivi medi che ogni gior36 | imprese e territorio

Buguggiate e Gavirate, con oltre 27mila auto in transito ogni giorno, e la Sp20 tra Busto Arsizio e Cassano, che accoglie più di 26mila veicoli (quasi 4000 sono mezzi pesanti), tra cui anche molti dediti al “salto del casello” per evitare il pedaggio autostradale alla barriera di Gallarate della A8. Sopra i 20mila transiti giornalieri, tra le arterie di cui la Provincia e Anas hanno effettuato i conteggi, ci sono anche la Statale del Sempione (sebbene non siano disponibili rilevazioni ufficiali sul frequentatissimo tratto tra Castellanza e Vergiate), la “Varesina” tra Tradate e Varese (meno intasata nel tratto tra Saronno e Tradate), la già citata Malpensa-Boffalora e la Sp36 che corre a sud del Lago di Varese, appena sotto quota 20mila invece troviamo a Nord la Tangenziale Est di Varese e la Statale 394 che collega il capoluogo a Luino, a Sud la Sp19 che attraversa la Valle Olona e la Sp13 tra Legnano e Borsano. Quali investimenti per potenziarle? All’orizzonte c’è ben poco. Sull’Autolaghi, Autostrade ha in programma solo il completamento della quinta corsia tra Lainate e Arese (2,6 km), mentre per la tratta tra Gallarate e Legnano resta solo da sperare in un decongestionamento a Pedemontana completata. Sul fronte delle strade provinciali, nel bilancio 2019 di Villa Recalcati ci sono impegni per oltre 7 milioni di euro ogni anno tra valorizzazione del patrimonio viario e manutenzioni straordinarie, oltre ad una serie di opere di potenziamento delle piste ciclabili e di investimenti rivolti soprattutto alla zona dei laghi e delle valli.


approfondimenti

mobilità

VEICOLI TEORICI MEDI GIORNALIERI/VEICOLI EFFETTIVI MEDI GIORNALIERI AUTOSTRADE A8/A9 MILANO-VARESE E LAINATE-COMO/CHIASSO: 89.704 / 310.638 DIRAMAZIONE A8/A26 GALLARATE-SESTO CALENDE: 57.331 / 55.079 A36 PEDEMONTANA LOMBARDA: 19.737 / 116.059

LE STRADE PIÙ TRAFFICATE DAI MEZZI PESANTI, TOTALE VEICOLI PESANTI GIORNALIERI MEDI SP20 CASSANO-BUSTO ARSIZIO 3.887 SP1 BUGUGGIATE-GAVIRATE 3.108 SPEXSS233 TRADATE-VARESE 3.096 SS336 BUSTO ARSIZIO-MALPENSA 2.522 SP36 ISPRA-CAPOLAGO 2.106 SP19 TRADATE-CASTELLANZA 2.073 SPEXSS233 SARONNO-TRADATE 1.974 SS336 DIR. MALPENSA-BOFFALORA 1.782 SP17 VARESE-VERGIATE 1.671 SS712 TANGENZIALE EST DI VARESE 1.595

TRAFFICO GIORNALIERO MEDIO ANNUO SULLE STRADE STATALI, TOTALE VEICOLI (TRA PARENTESI IL PUNTO DI RILEVAZIONE) SS336 BUSTO ARSIZIO-MALPENSA (GALLARATE) 47.876 SS33 DEL SEMPIONE (CASTELLETTO SOPRA TICINO) 23.152 SS336 DIR. MALPENSA-BOFFALORA (LONATE POZZOLO) 22.316 SS712 TANGENZIALE EST DI VARESE (MALNATE) 19.862 SS394 VARESE-DOGANA DI ZENNA (CASCIAGO) 18.160 SS233 VARESE-LAVENA PONTE TRESA, (CUGLIATE-FABIASCO) 16.699 SS394 VARESE-DOGANA DI ZENNA (CASSANO VALCUVIA) 10.671 SS629 VERGIATE-GEMONIO (GEMONIO) 9.696 SS344 VARESE-PORTO CERESIO (BISUSCHIO) 9.494 imprese e territorio | 37


approfondimenti CHIARA FRANGI

«Chi diventa genitore ha bisogno di rinegoziare, di trovare nuovi equilibri. Nuovi modelli di paternità stanno venendo avanti, coglierli da parte delle aziende significa favorire tutti, uomini e donne, nella produttività e nella creatività sul lavoro»

IL MASTER WELFARE “in famiglia” ha bisogno di

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approfondimenti

Riflessioni sulla tecnologia

Responsabilità, visione del futuro, capacità di problem solving, di costruire alleanze, di motivare e di motivarsi. Sono solo alcune delle caratteristiche che sviluppa chi ha carichi di cura, specialmente chi diventa genitore: capacità che, le aziende se ne stanno accorgendo, fanno la differenza sul posto di lavoro. Ma per far fruttare queste trasformazioni positive è necessario un cambiamento culturale da parte di tutti: imprenditori, che devono saper cogliere e agevolare chi deve tenere insieme esperienze tanto forti fuori e dentro casa, ma anche lavoratori e lavoratrici, che devono ripensare i propri rapporti sociali, dalla famiglia agli amici, passando per colleghi e datori di lavoro. Un cambiamento epocale, da cogliere il prima possibile, perché a lungo termine migliora non solo le prestazioni dei singoli lavoratori o delle singole aziende, ma anche il tasso di natalità, con tutto quello che ne consegue in termini di equilibrio sociale. Tra i testi più conosciuti sull’argomento c’è quello di Andrea Vitullo e Riccarda Zezza, “Maam - La maternità è un master che rende più forti uomini e donne”, ma ormai gli studi sul rapporto tra genitorialità e lavoro si moltiplicano. Ne parla anche Marita Rampazi, docente di Sociologia della Globalizzazione all’Università di Pavia: «Avere figli segna l’irreversibilità della condizione di adulto. Oggi averne è una scelta fatta il più delle volte con cognizione, una scelta che segna la capacità di assumersi delle responsabilità e una consapevolezza del proprio posto nel mondo: due caratteristiche fondamentali per un lavoratore, che lo rendono in grado di far crescere un’azienda».

la conciliazione vita-lavoro con iniziative concrete e orari flessibili restituisce alle aziende dipendenti più motivati, produttivi e “attaccati alla maglia”. Lo conferma anche Sofia Borri, presidente di Piano C, un coworking che a Milano, oltre ad offrire spazi di lavoro condiviso a liberi professionisti in un modo pensato soprattutto per i neogenitori, porta avanti progetti volti al reinserimento delle donne nel mondo del lavoro. Non solo: una delle ultime iniziative è stata “Diamo voce ai papà”: una ricerca in cui la realtà milanese ha cercato di capire la visione dei “nuovi” papà, quelli che vogliono costruire un nuovo modo di essere padri, più presenti e collaboranti. Ma che si trovano a combattere, proprio per questo desiderio, contro stereotipi che li bloccano tanto quanto le loro compagne: «Da questa piccola ricerca è emerso un quadro che parla di un gruppo ben preciso, uomini che hanno un gran desiderio di condividere molto di più il carico di cura genitoriale, ma che non sanno ancora di essere una categoria vera e propria, che può chiedere di più, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti di conciliazione».

Sono sempre di più gli studi che inseriscono la genitorialità tra le caratteristiche che un lavoratore può mettere a frutto a favore di una azienda: «Oggi si arriva a diventare genitori quando si è acquisita capacità professionale»

La professoressa cita il lavoro di una collega, Sveva Magaraggia, che nel 2015 ha pubblicato una ricerca dal titolo “Essere giovani, diventare genitori”: «L’età media in cui si ha il primo figlio è in aumento. Questo significa che si arriva a diventare genitori in un momento in cui si è raggiunta una certa capacità professionale, competenze preziose. Per questo – continua la professoressa Rampazi – è importante per le aziende fare un passo verso questi lavoratori: le iniziative di welfare aziendale per favorire chi ha carichi di cura aiutano a tenere in azienda dei talenti, personale formato e che, in più, sta facendo un “master” efficacissimo tra le mura domestiche, in grado di sviluppare soft skills che possono diventare decisive per la crescita dell’azienda». Non solo: favorire

Perché, sempre di più, la necessità di coniugare i tempi di vita e di lavoro non può restare una cosa solo per donne. «Nel quotidiano del nostro lavoro lo vediamo – dice Borri – chi diventa genitore oggi ha bisogno di rinegoziare, di trovare nuovi equilibri. Al lavoro, sicuramente, ma soprattutto nella coppia. Nuovi modelli di paternità stanno venendo avanti, coglierli da parte delle aziende significa favorire tutti, uomini e donne, nella produttività e nella creatività sul lavoro. E anche nella felicità globale, perché non possiamo più pretendere che il lavoro sia una parte “a sé” della vita. Non lo è mai stato». Le aziende, soprattutto Pmi, cosa possono fare? La risposta è banale a dirsi, molto meno da mettere in pratica: fare rete. «Per ora – conclude Borri – vediamo sempre più imprenditori che vanno incontro a queste esigenze, ma in modo spontaneo e isolato. Vanno aiutati con norme che li favoriscano». Secondo la professoressa Rampazi, si tratta di un processo «che si velocizza molto con il cambio generazionale. Anticiparlo porta vantaggi per tutti». imprese e territorio | 39


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L’investimento dei big

I LIBRI DA NO MARILENA LUALDI

Leggere è un investimento cruciale. Un esercizio raccomandato dai big di tutto il mondo, compresi imprenditori e manager di casa nostra. Un libro può addirittura aiutare a cambiare la vita. Lo racconta Enrico Moretti Pelegato, presidente e amministratore delegato di Diadora. Avvocato, l’azienda di famiglia era Geox ma lui cercava un proprio spazio. E quando si è trattato di doversi impegnare nel rilancio di Diadora, ha raccolto la sfida. Una premessa: Moretti Polegato parla più lingue, ovvero inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e – tiene a precisare - veneto. Sa anche i rudimenti di ebraico e greco, ora sta studiando greco moderno. Ma il testo che ama citare porta a Nord, e negli anni Settanta: «Si intitola “L’anno della lepre” – spiega – dello scrittore finlandese Arto Paasilinna. Narra la storia di un giornalista a bordo di un’auto, che investe una lepre, l’animale ferito scappa e il giornalista decide di abbandonare la macchina per seguirla». Ne scaturiranno una serie di incontri particolari: «Questa storia indica la capacità di staccarsi da tutto e da tutti per seguire un proprio progetto». Un coraggio che troviamo anche in un’altra lettura, indicata da Stefano Mainetti, Ceo di Polihub Servizi, l’incubatore di impresa del Politecnico di Milano. «Difficile leggere come una volta - premette – ma cerco sempre ispirazione. La lettura è 40 | imprese e territorio

indispensabile. Di recente ho letto il libro di Mark Cuban su come sia possibile vincere nel business considerandolo come uno sport». Cuban ha scritto “How to win at the sport of business” e altre opere tra cui “Kid start-up, how you can be an entrepreneur”. Parliamo di un imprenditore, che ha anche rilevato 19 anni fa la squadra di basket Dallas Mavericks. Ma Mainetti apprezza anche altri generi: «Sicuramente “L’alchimista” di Paulo Coelho, ispirazionale». Mettersi in viaggio, questa volta per un sogno. «Inoltre – aggiunge Mainetti – amo le biografie come “Open” del tennista Agassi. Arrivato alla leadership mondiale, il rapporto difficile con il padre… Mi piace citare questi libri ai miei ragazzi, così si offrono gli stimoli, con il cazziatone non vai da nessuna parte». Roberta Zivolo è un’imprenditrice segnalata dalla rivista Forbes tra le 100 donne che rappresentano il meglio dell’Italia al femminile 2019. Lei guida Progetto 2000 Group, impresa impegnata nel business process outsourcing: servizi come digitalizzazione e fatturazione elettronica. «Certo che riesco a ritagliarmi il tempo per leggere – racconta - in particolare in treno nel tratto Firenze Milano e ritorno in quanto ho il marito che vive a Firenze e l’azienda a Milano. Sento che per tutta la vita sono stata in formazione per accogliere degnamente quanto mi fa incontrare. Le letture che hanno inciso sin


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CONSIGLI PER L’USO

ON PERDERE

da quando avevo 15 anni sono state di carattere filosofico in particolare Rudolf Steiner e altri». Steiner è il fondatore dell’antroposofia, che vede la realtà universale come una manifestazione spirituale. Ma Roberta deve davvero tanto ai libri: «Una decina di anni fa leggendo “Monasteri del terzo millennio” di Maurizio Pallante ho capito che non ero sola, con la sua “Decrescita felice” ha denunciato quanto vivevo personalmente. Così mi sono chiesta: ma se non ci pensiamo noi imprenditori a una soluzione non abbiamo più tempo per aspettare che intervenga lo Stato... così mi sono rimboccata le maniche e ho investito tutto quello che ho realizzato nella vita lavorativa comprando la Tenuta di San Cresci a 30 chilometri da Firenze: propongo il Ben Vivere e il Bene Comune». Eppure, c’è un libro a cui tiene più di tutto: “Terra Patria” di Edgar Morin. Dipinge la situazione pesante del nostro pianeta, ma allo stesso modo sprona non solo a sopravvivere.

l’indipendenza e la concretezza del valore della competenza. Quando desideriamo fortemente qualcosa nella nostra vita, gli ostacoli assumono dimensioni variabili, quindi la volontà riesce a trovare ritagli di tempo altrimenti impercettibili».

Manager e imprenditori ci suggeriscono letture che fanno bene alla mente e allo spirito perché leggere è un investimento cruciale Lo stesso Obama dedicava ai libri almeno un’ora al giorno mentre era presidente

Interessanti anche le letture dell’international business manager Bruno Carenini. «Leggere mi identifica con la libertà,

Così si concede «almeno una sera e uno spazio nel weekend per delle buone letture generiche mentre giornalmente, 30 minuti per una rassegna stampa generale e specifica permette di restare connessi col mondo circostante». Lettura fresca? «“I Frantumi dell’America” di George Packer. Non è recente ma attraverso questo autorevole giornalista del New Yorker si ricostruisce il fenomeno del cambiamento sociale e politico degli ultimi otto anni. Lo consiglio a chi ama la politica internazionale. Infine un libro ha inciso nel mio modo di vivere la vita. “Le Vie dei Canti” di Bruce Chatwin. Ha ricongiunto l’interrogativo che ad ogni mio spostamento, viaggio o trasferimento di residenza mi ponevo. Perché l’uomo sin dalle sue origini ha questo irresistibile impulso a spostarsi, a migrare? Nei viaggi ho tratto la mia risposta ma anche forgiato la mia visione di vita». imprese e territorio | 41


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CONSIGLI PER L’USO

CENERENTOLA è diventata REGINA

La radio, spesso trascurata dalle aziende, si prende la rivincita e gioca in attacco: nessun calo di ascolti, grande fedeltà degli utenti e ottima possibilità di targettizzare i destinatari La radio, come mezzo di comunicazione, viene spesso trascurata dalle imprese, ma non è forse la scelta giusta a giudicare dai dati che emergono e che mostrano il mercato pubblicitario in continua crescita. Come si investe in radio? Quali sono i punti di forza di questo strumento? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Morello, docente di Linguaggio Radiofonico all’Università di Torino. «La radio negli ultimi anni si sta dimostrando un luogo di investimenti molto redditizi – spiega - Questo perché gode di tanta credibilità, molto più degli altri mezzi di comunicazione. Inoltre, il rapporto con gli ascoltatori è emotivamente più forte: si sente dire, per esempio, “Radio Deejay è la mia radio”, ma non capita di sentire “Italia 1 è il mio canale”. Il secondo dato riguarda l’ascolto, che è rimasto stabile negli anni e non cannibalizzato da altri media: circa 35 milioni di ascoltatori al giorno. Un bacino di utenza enorme, tanto più se sommato a un rapporto tra ascoltatore ed emittente di tipo emotivo. Questi elementi fanno sì che gli investimenti pubblicitari funzionino di più». Ed è il motivo per cui molte aziende scelgono di fare pubblicità solo in radio e su internet, bypassando giornali e televisioni. Dove si investe preferibilmente, nelle emittenti nazionali o locali? Si investe ormai preferibilmente su radio nazionali, perché i mercati di qualunque impresa, anche piccola, sono nazionali. Il paesaggio delle radio locali negli anni si è impoverito per mille ragioni e va via via semplificandosi. La piccola radio di città ormai è pressoché inesistente. Certo, quelle che resistono sono particolarmente efficaci per promuovere prodotti e servizi del territorio, anche se spesso si tratta di radio il cui bacino di utenza si estende su più Regioni o più Province. Non dimentichiamo però che anche le emittenti nazionali (come ad esempio Radio Lattemiele) permettono campagne pubblicitarie differenziate su base locale. Può capitare, infatti, che alcuni investitori cerchino un target specifico e vogliano puntare solo su quello.

ADRIANA MORLACCHI

Ci dà qualche dato del mercato pubblicitario della radio? Il mercato pubblicitario radiofonico è l’unico a crescere in questi anni di crisi assieme a quello di internet. Non ci sono ancora i dati completi del 2018, ma il dato aggiornato a ottobre segnala una crescita del 5%, che ragionevolmente sarà confermata se non addirittura ritoccata al rialzo con i dati completi di novembre e dicembre. Complessivamente il mercato pubblicitario radiofonico muove all’incirca 400 milioni di euro all’anno. In sintesi, perché la pubblicità radiofonica è interessante per le imprese artigiane? Per diverse ragioni. La prima certamente è la convenienza economica. Fare pubblicità in radio significa spendere meno che su altri media in relazione alla visibilità ottenuta. In termini tecnici significa un Grp (Gross Rating Point: indice della pressione pubblicitaria, ndr) più alto. Inoltre, a differenza della tivù che offre ormai un target anziano, di basso profilo e con poca capacità di spesa, la radio offre un target più giovane, più dinamico (molti ascoltatori si trovano in macchina e in generale la radio è legata alla mobilità) e più aperto ai prodotti innovativi. Inoltre, la radio permette, in alcuni casi, di raggiungere target locali, che immagino interessanti per una impresa artigiana radicata in un territorio e con un forte mercato di prossimità. Infine, come già accennavo, il rapporto degli ascoltatori con la radio è più “caldo” ed emotivamente più forte, per non tacere del fatto che tutte le ricerche riconoscono alla radio una credibilità sconosciuta ad altri media (anche rispetto a internet, regno delle fake news e delle bufale per eccellenza). Ancora: la radio, fondata sulla parola, è tendenzialmente ascoltata con più attenzione e meno distrattamente della tv, anche se non mancano modalità di ascolto da “sottofondo”. Accade quindi spesso che la pubblicità radiofonica resti più impressa di altre forme di comunicazione pubblicitaria.


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