Imprese e Territorio n. 05/2019

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M A G A Z I N E D I I N F O R M A Z I O N E D I C O N F A R T I G I A N AT O I M P R E S E VA R E S E

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05


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editoriale

Il nuovo bene comune impone

RISPETTO MICHELE MANCINO VICEDIRETTORE DI VARESENEWS

delle persone e delle diversità Sono passati trent’anni dal giorno in cui l’informatico inglese Tim Berners-Lee ha messo in rete il primo server per il World Wide Web e, nell’era di Internet, trent’anni sono un tempo infinito. Da allora è successo di tutto, si è passati dalla costruzione di siti all’esperienza dei blog, per approdare più recentemente alle piazze virtuali dei social network e alle piattaforme digitali che stanno cambiando radicalmente l’utilizzo della rete e con essa gli equilibri economico-sociali del mondo reale. Non c’è nulla di cui stupirsi perché Internet è per definizione il luogo dell’innovazione che viene costantemente rimessa in gioco dal progresso tecnologico. Una simbiosi così efficace da ridefinire persino gli effetti di strutture logico-matematiche che risalgono alla notte dei tempi. Basti pensare ai tanto citati e sconosciuti algoritmi che, solo grazie alla potenza di calcolo delle nuove macchine, sono diventati, nel bene e nel male, la nuova frontiera. Dire, come ha fatto il sindacato, che «l’algoritmo va contrattato», significa riconoscere alla Rete e a tutti i suoi sottoinsiemi, di cui il world wide web fa parte, la natura di bene comune che, come tale, andrebbe non solo condiviso ma anche gestito con trasparenza e senso di responsabilità. Ci sono miliardi di soggetti, comprese moltissime aziende, che si confrontano, si aggregano e scam-

biano beni e servizi sulle grandi piattaforme che colonizzano la galassia internettiana. Quindi, porsi la questione circa la natura dell’evoluzione dei codici dei cosiddetti unicorni, come per esempio Facebook, Google e Amazon, è tutto tranne che un esercizio retorico. In questo passaggio il ruolo dei designer della rete è strategico: se vogliono essere protagonisti del cambiamento devono plasmarla in questa direzione. Per passare da una dimensione individuale a una dimensione plurale e comune, bisogna attivare nella progettazione una sensibilità orientata al rispetto della persona e al tempo stesso delle diversità e dei molteplici interessi collegati. Mentre oggi l’architettura delle grandi piattaforme è funzionale solo al loro modello di business. Tutto il resto sono esternalità negative, un prezzo da pagare a prescindere, direbbe un economista. Non si tratta di fermare un meccanismo tecnologico, che peraltro funziona molto bene, quanto piuttosto di cambiarne la logica dall’interno. Forse trent’anni fa sir Tim Berners-Lee, quando dava vita al più importante servizio di Internet, non immaginava nemmeno lontanamente tutte queste evoluzioni. Ma oggi, per il bene del mondo, è di tutto questo che ci si deve occupare.


SOMMARIO editoriale

primo piano

IL NUOVO BENE COMUNE IMPONE RISPETTO DELLE PERSONE E DELLE DIVERSITÀ_______________03

NON SOLO FAKE. LA MIA RETE RENDERÀ IL MONDO PIÙ DEMOCRATICO______________________05 DA UNIONE A FEDERAZIONE L’EUROPA PIÙ FORTE DEVE CAMBIARE E INNOVARE LA PRODUZIONE__08 STRIGLIATA DI FRANCIA. BASTA PAROLE. SERVONO DECISIONI_____________________________ 10 I CEO D’AMERICA HANNO SCOPERTO IL “MODELLO PMI”___________________________________ 12 MOSSA IPOCRITA. IL PIL NON PUÒ CRESCERE SOLO CON IL “GREEN”________________________ 14

Inchieste

IL DIGITALE È RELAZIONE. IL DIGITALE È UMANITÀ________________________________________ 16 MERCI IN TRANSITO. IL FERO BATTE DOVE L’AFFARE CONVIENE. CON HUPAC E FNM GROUP____ 18 LA SCUOLA DEI TECNICI. ALLA SCOPERTA DELL’ “ITS” FACTOR TRA AREONAUTICA E LOGISTICA___20 IL FUTURO È GIOVANE________________________________________________________________22 LE TRASFORMAZIONI CHE RACCONTANO L’IDENTITÀ DI UN PAESE__________________________24 LA CAPITALE DEL TERZIARIO PUNTA SULLA MANIFATTURA_________________________________26 NELLA MILANO 2030 L’ECONOMIA URBANA È PRODUTTIVA________________________________28 IDENTITÀ DI QUARTIERE. LA CITTÀ TORNI UNA RETE DI SOCIALITÀ__________________________30

approfondimenti

NON METTETECI I BASTONI TRA LE ALI. NO A CONCORRENZA SLEALE O A “DECRETI LINATE”____ 32 IL CAPITALE UMANO SALVERÀ L’ITALIA E LE NOSTRE PENSIONI_____________________________34 LA RIVOLUZIONE DOPO IL DRAMMA. GENOVA È SMART____________________________________36 LAVORO DI SQUADRA A FILO D’ACQUA__________________________________________________38 BIONDA 4.0. LA BIRRA CAMBIA E DIVENTA “ECO” E DIGITALE_______________________________40

rubriche

SOCIAL MEDIA TRAP__________________________________________________________________42

Magazine di informazione di Confartigianato Imprese Varese. Viale Milano 5 Varese - Tel. 0332 256111 - www.asarva.org INVIATO IN OMAGGIO AD ASSOCIATI E ISTITUZIONI Autorizzazione Tribunale di Varese n.456 del 24/1/2002 Direttore Responsabile - Mauro Colombo Presidente - Davide Galli

Caporedattore - Davide Ielmini Progetto grafico e impaginazione - Confartigianato Imprese Varese Stampa Litografia Valli Tiratura, 8.535 copie - Chiuso il 23 Settembre 2019 Il prezzo di abbonamento al periodico è pari a euro 28 ed è compreso nella quota associativa. La quota associativa non è divisibile. La dichiarazione viene effettuata ai fini postali


primo piano

Non solo FAKE

LA MIA RETE renderà il MONDO più DEMOCRATICO

«Il web rende più facile compiere azioni, buone e cattive. Dobbiamo combattere gli usi criminali per evitare di distruggere tutto ciò che abbiamo costruito»

SIR TIM BERNERS-LEE INFORMATICO CREATORE DELLA RETE


primo piano

MARILENA LUALDI

Riappropriarsi dei dati che sembrano in balìa dei colossi si può. E anche costruire un mondo migliore attraverso la Rete, com’essa si proponeva di fare. Parola di Sir Tim Berners-Lee, il “papà del www”

6 | imprese e territorio

Foto e video in quantità, ma niente selfie. Una premessa, che già illumina la filosofia di Sir Tim Berners-Lee quando si affaccia al Campus Party in Fiera Milano. Un baronetto, che scatena la platea dei giovani e sogna, anzi progetta un futuro più roseo: leggi, democratico. Perché questo fa ancora l’informatico britannico: progettare, non nutrirsi di generiche speranze o lasciarsi andare al disfattismo. Riappropriarci dei dati che sembrano in balìa dei colossi, si può. E costruire un mondo migliore attraverso la Rete, com’essa si proponeva di fare. Perché ci colpisce la raccomandazione iniziale? Selfie è lontano anni luce dal nome che è un programma: world wide web, che il britannico ha creato con il collega Robert Cailliau. L’individuo da una parte – con un narcisismo che profuma di chiusura spesso – e il mondo che con la Rete condivisa può crescere nella conoscenza. Che messaggi affida a noi che oggi clicchiamo “www” con abitudine inconsapevole? Perché questo è (anche) Ber-


primo piano

ners-Lee. Noi siamo connessione e il World Wide Web – questa ragnatela globale che abbraccia il mondo – è tenuto ufficialmente a battesimo il 6 agosto 1991, quando l’inglese pubblica il primo sito web. Ci vollero 17 giorni per avere la prima visita di un utente. Tutto però – racconta lo stesso Sir Tim – inizia un paio d’anni prima al Cern (l’organizzazione europea per la ricerca nucleare). A Ginevra la sfida non è da poco: «Stavamo lavorando senza essere connessi, dovevamo avere sempre assistenza per tracciare i nostri documenti, con sistemi diversi. Da un problema è arrivata la soluzione. Presentai il documento “Information Management: A Proposal” un progetto, costruire un sistema per mettere in relazione». Il punto cruciale era come non perdere informazioni. Da allora, però, qualcosa si è perso. Troppo. La privacy, ad esempio. Detto questo, Berners-Lee non demonizza ciò che è il web oggi. Resta uno strumento, e dunque siamo noi a fare la differenza con il nostro utilizzo.

scenari

e sempre efficaci: «Buoni contenuti, buoni link. Questi ultimi entrano ed escono, ecco allora un buon post, che significa lettori e valore del web». Sì, ma intanto ormai non abbiamo perso troppo, a partire dalla privacy di cui sopra? No, tant’è che trent’anni dopo, Berners-Lee lavora ad altro: a Solid. Una piattaforma che tiene però i dati degli utenti al sicuro, quando entrano nelle app e in tutti i servizi. Un progetto che presenta e come eccitante, e che viene alla luce al Mit (Massachussetts Institute of Technology). L’obiettivo è ribaltare ciò che accade oggi nel mondo dell’applicazione: con reale proprietà personale dei dati, strappati così ai giganti del web. Solid – spiega – significa “Social linked data” dunque un set di convenzioni e strumenti che permettano di realizzare applicazioni decentralizzate. «Solid is about choice» ripete Sir Tim. E la parola chiave, che dobbiamo tenerci stretta anche in questo ambito della vita che è ormai diventato trasversale, è proprio questa: scelta. Con Solid l’obiettivo è dare all’utente la libertà di decidere

«Ci sono una serie di situazioni critiche – riconosce - Il web rende più facile compiere azioni, buone come cattive. Dobbiamo combattere con determinazione gli usi criminali per evitare di far distruggere tutto ciò che abbiamo costruito». Solo così si può guardare avanti con fiducia. Anche analizzando momenti di scontro come durante la campagna elettorale americana, c’è qualcosa che accomuna: democratici e repubblicani sono ugualmente a favore (e preoccupati) della neutralità della rete. Ecco perché Berners-Lee ci rassicura, ma soprattutto ci sprona: «Non ho previsioni sul futuro del web, ma speranza. Si può costruire un web migliore, dove verità e spirito costruttivo dominino sull’odio e sulle fake news. Possiamo usarlo per risolvere i problemi del mondo: sostenere le nostre democrazie e affrontare le emergenze come quella del cambiamento climatico».

dove riporre i suoi dati e a chi fornire accesso ad essi. Le applicazioni vengono infatti “disaccoppiate” dai dati che producono. La startup Inrupt sta realizzando un ecosistema commerciale, proprio per sostenere il successo di Solid e definire così un’altra fase del web. Un piccolo passo, l’ha chiamato Berners-Lee. Ma proprio questa definizione oggi, a 50 anni dallo sbarco sulla Luna, fa venire in mente un’altra frase riecheggiata allora e le sue implicazioni: a volte, un piccolo passo per l’uomo può rappresentare un percorso rivoluzionario per l’umanità. Questa appunto la sua speranza: che il web torni connessione, in senso virtuoso. Non manca un consiglio ai giovani, startupper e non solo: «Scegliete con cura da chi imparare e con chi volete lavorare. E su tutti i livelli, non soltanto su un singolo aspetto. Questo

Chi costruisce un circolo virtuoso? Noi. Ingredienti semplici

permette di creare comunità più unite e capaci». imprese e territorio | 7


primo piano NICOLA ANTONELLO

Da UNIONE a FEDERAZIONE l’Europa più forte deve

CAMBIARE E innovare la PRODUZIONE

Mauro Campus, docente universitario, saggista, è uno dei massimi esperti italiani di storia internazionale. Lo abbiamo intervistato sul futuro dell’Europa e sulle ricadute che si potranno avere in Italia e nelle piccole e medie imprese. Professor Campus, con l’economia tedesca in frenata, i prossimi potrebbero essere mesi complicati. Come dovrebbe agire l’Unione europea per evitare che, con l’arrivo di un’altra crisi, si rimedi con l’improvvisazione, come avvenuto in passato? La Commissione affronterà una serie di problemi che riflettono le fibrillazioni politiche registrate negli ultimi anni nei Paesi dell’Unione e dovrà confrontarsi con il rallentamento della congiuntura globale e l’arresto della locomotiva tedesca. La squadra di Ursula von der Leyen ha un programma ambizioso che dà spazio a temi come la lotta al cambiamento climatico e la sostenibilità sociale, che fino a oggi non erano centrali nell’agenda della Commissione. Certo è che, con la nomina di Christine Lagarde alla guida della BCE, il senso di un’Unione a guida franco-tedesca è confermato. È dunque ragionevole immaginare che l’equilibrio dei prossimi cinque anni non sarà ‘rivoluzionario’. La Germania che oggi è in panne ha tratto un vantaggio effimero dall’aumento del costo unitario del lavoro e 8 | imprese e territorio

dei prezzi registrato nella maggior parte dei Paesi dell’Eurozona. Si tratta di un vantaggio effimero perché non è spendibile. Inoltre, il paese centrale dell’economia dell’Unione si trova con un eccessivo avanzo delle partite correnti che indica un rigetto della “solidarietà” intereuropea e un guasto dell’economia continentale, non una virtù dei tedeschi. Ma i segnali di un’inversione di rotta della politica tedesca sono ancora ambigui. Quanto alle improvvisazioni del passato, l’Unione di oggi è meno pietrificata nei suoi dogmi di quanto non fosse cinque anni fa. Le conseguenze politiche della crisi economica hanno portato – fra l’altro – all’istituzione del Fondo europeo per gli investimenti strategici oltre che a una serie di aggiustamenti procedurali che rendono l’amministrazione dell’Unione più dinamica. La strada giusta sarebbe far sì che dagli aggiustamenti attuati in stato di emergenza si passasse a un grado più profondo d’integrazione. E le minacce di una nuova crisi economica dovrebbero far maturare un’Unione che abbia l’obiettivo di diventare Federazione. A suo avviso, il caos legato alla Brexit, ha rafforzato la coscienza dell’Italia per cui l’appartenenza all’Ue e all’euro non dovrebbe essere messa in discussione? L’Italia è un Paese che ha un radicato senso di appartenenza all’Unione. La maggioranza dei cittadini italiani non sarebbe


primo piano

COSA aspettarsi DALL’UE

MAURO CAMPUS DOCENTE UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE

disposto a lasciare l’edificio comunitario che ha contribuito a costruire. Le flessioni nel sentimento di attaccamento all’Unione sono fisiologiche, e quelle registrate dall’Eurobarometro negli ultimi anni sono spiegabili se messe in relazione con la contrazione delle attività economiche e l’aumento percepito e reale delle diseguaglianze manifestatasi con la crisi esplosa nel 2007. L’Euro è una moneta imperfetta perché incompleta, ma ha dimostrato di essere meno fragile di quanto non si temesse solo dieci anni fa. La soluzione per l’economia italiana non è il suo abbandono. Non esiste alcun “piano B” credibile per la semplice ragione che qualunque “piano B” sarebbe un cataclisma di proporzioni incalcolabili per il sistema economico internazionale e per l’economia italiana. Rinominare l’enorme debito pubblico italiano in una “nuova lira” post-euro equivarrebbe a un default. In questi anni di stallo la tenuta del sistema economico italiano è stata garantita all’interdipendenza con l’Unione. In questo senso le analogie col Regno Unito rimontano alla stagnazione che i due paesi sperimentano da decenni. Al di là dei risvolti grotteschi di come l’élite britannica sta gestendo i risultati del referendum sulla Brexit, quell’esempio tragico dovrebbe essere ben presente a chi sostiene strade alternative all’Unione. La nuova Commissione potrà essere più “tenera” con l’Italia e, in generale, portare avanti politiche meno di austerità? È auspicabile un allentamento delle politiche di austerità che costituiscono un grave errore della dottrina economica trasferito in decisioni politiche irragionevoli come quelle che hanno portato all’adozione del fiscal compact. A dirlo sono i risultati che tali politiche hanno avuto nei differenti Paesi dell’Unione con l’unica tangibile conseguenza di aumentare le diseguaglianze fra i 28 e interne ai 28. La cosiddetta flessibilità non va interpretata come libertà di spesa tout court, ma come necessità di calibrare politiche economiche diverse secondo le peculiarità nazionali. L’Italia, con un debito pubblico che supera il 130% del Pil, non può adottare volumi di spesa in deficit simili a quelli della Francia poiché l’eventuale risultato positivo che ne deriverebbe è legato a troppi fattori aleatori imponderabili. In ogni caso, posta l’inadeguatezza delle politiche di austerità e la necessità di politiche espansive, credo che una migliore disposizione nei confronti dell’Italia possa essere guadagnata solo con una maggiore serietà e competenza delle classi dirigenti italiane. Dirsi europeisti non basta. È indispensabile che la voce italiana pesi quanto l’Italia pesa davvero e ciò si può ottene-

re solo se chi rappresenterà gli interessi del Paese esprimerà un’idea d’Europa chiara e compatibile con l’interdipendenza politico-economica maturata negli ultimi 70 anni. Oggi occorre disegnare l’Unione del 2040 e solo se l’Italia dialogherà da pari con i maggiori paesi europei dimostrando di sapere intervenire sui troppi nodi sospesi del suo sistema produttivo e affrontando una manovra di ristrutturazione del suo debito pubblico, otterrà dall’Unione la flessibilità di cui ha bisogno. Quale salto di qualità dovrebbe compiere l’Europa per poter fare meglio impresa in Europa? Il salto di qualità troppo a lungo rimandato sarebbe un investimento in istruzione, ricerca e innovazione e una nuova strategia dedicata all’armonizzazione della geografia produttiva del continente. Per farlo è necessario trasformare il Patto di stabilità in uno strumento meno rigido e inserire una Golden rule: l’esclusione parziale degli investimenti pubblici dai parametri di deficit. Per rimanere competitivi nel sistema internazionale occorre innovare la produzione e per farlo l’unica strada è la promozione di investimenti pubblici in istruzione e ricerca. La coesione territoriale poi è una delle chiavi dello sviluppo civile dell’Unione e tale coesione si può rafforzare solo con adeguati interventi perequativi: far coesistere zone differenti rinunciando a correggerle affidandosi fideisticamente alle virtù (immaginarie) del mercato o dimostrandosi incapaci di spendere i contributi dell’Unione, è un atto di condanna per il progetto d’integrazione. Ovviamente tali strategie sarebbero più efficienti se attuate in seguito al potenziamento del bilancio dell’Eurozona possibilmente corredato da un’autonoma capacità di imposizione fiscale dell’Unione. La guerra dei dazi Usa-Cina, è un problema o un’opportunità per l’economia europea e italiana? Un problema assai grave. Per economie di trasformazione integrate come quelle europee l’attuazione delle misure annunciate dall’amministrazione Trump significherebbe la perdita di consistenti fette di mercato soprattutto per i semilavorati. I primi a pagarne le conseguenze sarebbero i consumatori e le piccole imprese e, a catena, tutto il sistema produttivo. Il commercio internazionale ha bisogno di regole negoziate. La World Trade Organization è uno strumento che va perfezionato come pure gli altri due pilastri della cooperazione economica internazionale: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario. imprese e territorio | 9


primo piano

Le parole del titolare transalpino dell’Economia Bruno Le Maire: «Sono un codardo? si chiedeva l’Amleto di Shakespeare. La nostra risposta è no. Non siamo codardi. Pensiamo che il coraggio debba essere al centro di tutte le politiche»

Strigliata di

FRANCIA Basta parole. Servono decisioni 10 | imprese e territorio


primo piano

La Francia ci osserva. E – secondo il ministro dell’Economia Bruno Le Maire – con noi vuole costruire un’Europa dove competitività e solidarietà siano le strade maestre. Con investimenti e mentalità che richiedono anche coraggio. E riconoscendo una scossa da dover imprimere all’Unione Europea: basta parlare e parlare, bisogna decidere. Uno degli interventi clou dell’ultimo Forum Ambrosetti a Cernobbio è stato quello dell’esponente dell’esecutivo francese. In un momento in cui il nuovo Governo italiano stava accendendo i motori, gli occhi erano puntati con particolare attenzione su Parigi. Che, non dimentichiamo, rappresenta una fetta di mercato fondamentale per l’Italia e per il nostro territorio. La Francia è il secondo partner commerciale per il Varesotto, anticipata dalla Germania e seguita dal Regno Unito. La prima, alle prese con il rallentamento che ha intrappolato il 2019, il secondo con tutte le tribolazioni legate alla Brexit. Se dunque quello francese non rappresenta un porto sicuro (i 525 milioni di export nel primo semestre segnano un passo indietro pari al 6,2%), garantisce qualche certezza in più Ma quali sono i punti cruciali secondo Le Maire, per l’Europa e l’economia?

VOCI D’EUROPA

chiedeva l’Amleto di Shakespeare. La nostra risposta è no. Non siamo codardi. Pensiamo che il coraggio debba essere al centro di tutte le politiche. Di cambiare il sistema, intervenire a livello fiscale e di pensioni… ci possono essere opposizioni, noi l’abbiamo vissuto con la protesta dei gilet gialli e penso che si sia imparata la lezione. Bisogna restare fedeli alla strada della riforma e spiegare, non imporre, perché c’è bisogno di tempo». Il tempo manca però, prima di tutto all’Europa. Per questo ci vuole un cambio di marcia, invita Le Maire. «È tempo di decidere – mette a fuoco - Esaminiamo i nuovi scenari economici che affrontiamo in Europa. Crescita lenta, inflazione bassa e tassi di interesse a zero

«La gente aspetta, mentre la Commissione Europea parla, parla… Intanto Cina e Stati Uniti si muovono. Il mondo non sta aspettando noi che stiamo discutendo»

Il messaggio che il Governo francese consegna alla politica italiana è netto: «Abbiamo un nuovo Governo italiano e penso sia un’opportunità unica per i rapporti tra i nostri Paesi, sulle istanze economiche dell’Unione Europea. Abbiamo bisogno dell’Italia. Perché è sempre stata e dev’essere il nucleo dell’Europa». In questa fase ci sono prove di dialogo sulle politiche di competitività europea, politiche che annaspano tra i giganti asiatici e americano. «Speriamo che l’Italia vi avvicinerà – rincara la dose il ministro – Un punto chiave per i nostri popoli e la leadership europea». C’è un punto che sta particolarmente a cuore alla Francia (e che ha dato vita a tensioni con gli americani): «Sì, la tassazione digitale. Noi abbiamo fatto proposte concrete per affrontarlo a livello nazionale, ma vogliamo prima possibile porlo anche a livello europeo». Per compiere questo passo – e non solo – occorre scuotersi con una domanda che affonda le radici nel tempo e nella drammaturgia: «Sono un codardo? Si

e a volte negativi. Dobbiamo decidere di cambiare mentalità e prendere decisioni». Tra le necessità importanti, quella di regole e di ridurre il debito pubblico, le spese dove occorre. Peraltro – come documenta “Il libro nero dello spreco”, di Jean Baptiste Leon con un’associazione di contribuenti, il pregresso francese non è virtuoso, visto che la spesa pubblica inghiotte il 56% del Pil. Bisogna dunque mettere mano, tutti, e in fretta: «Noi riduciamo il livello delle nostre spese, chiediamo di farlo anche agli altri». «Non possiamo aspettare anni – dice il mini-

stro francese – La gente aspetta, mentre la Commissione europea parla, parla… Intanto Cina e Stati Uniti si muovono. Il mondo non sta aspettando noi che stiamo discutendo». Per questo motivo Francia e Germania si confrontano sulla necessità di investimenti e la consapevolezza di dover imprimere il nuovo ritmo all’Europa è avvertito – assicura Le Maire – anche dagli imprenditori tedeschi che ha incontrato a Berlino. Ma importante è anche il concetto di solidarietà che il ministro non teme di inserire in un’analisi economica, anzi lo ritiene cruciale. Una crescita accelerata, una crescita condivisa, che faccia sentire più vivi che mai i valori originari dell’Europa

Ma. Lu. imprese e territorio | 11


primo piano

Stefano Bartolini, docente di economia politica e della felicità all’Università di Siena, commenta l’ingresso dell’economia sociale in azienda veicolato dal manifesto della Business Roundtable. «Da provincialisti non ci rendiamo conto che gli americani vorrebbero essere come il capitalismo italiano»

I CEO d’America hanno scoperto il

“MODELLO PMI” 12 | imprese e territorio


primo piano

SVOLTA? IO DICO SI’

STEFANO BARTOLINI DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA E DELLA FELICITÀ ALL’UNIVERSITÀ DI SIENA

«È la vittoria del nostro modello di capitalismo. Gli americani ci stanno dicendo che siamo all’avanguardia e noi nemmeno ce ne rendiamo conto». È la lettura che dà Stefano Bartolini, professore associato all’università di Siena, dove insegna economia politica ed economia della felicità, al “manifesto” della Business Roundtable che ha tenuto banco nelle scorse settimane per la scelta di portare la responsabilità sociale in azienda da parte dell’associazione della Corporate America che conta oltre 180 imprese che impiegano milioni di dipendenti. «Purtroppo questa cosa non è stata presa così, ma è l’ennesimo sintomo del nostro provincialismo». Sta dicendo che la svolta dei Ceo delle grandi multinazionali guarda al nostro modello di capitalismo? In realtà, quello che questa gente propone è una cosa che noi ci siamo inventati molto tempo fa, a partire da figure di spicco come Adriano Olivetti, e che ha caratterizzato un intero sviluppo industriale italiano, a volte anche senza esserne del tutto consapevole, come tutto il capitalismo di piccola impresa e quello dei distretti industriali, molto legato al territorio e alla comunità. Quelli che nel linguaggio della Roundtable si chiamano stakeholders, ma che noi è da tanto che teniamo in considerazione. È davvero una svolta? Nel nostro contesto questo statement avrà poco impatto, perché il capitalismo delle public companies è poco presente in Italia, dove il problema della remunerazione dell’azionista è sempre stato più o meno legato alla remunerazione della famiglia titolare dell’impresa. Ma tantissimo impatto avrà in termini di dichiarazione di principio. Da provincialisti quali siamo, non ci rendiamo nemmeno conto che gli americani ci stanno dicendo che vorrebbero essere come il capitalismo italiano. Non è poco... In questo confronto che ha animato gli ultimi 30-40 anni, alla fine è un’ammissione di sconfitta nei confronti di quel capitalismo europeo, e mediterraneo, basato su un decente rispetto per il territorio, per la comunità e per la qualità della vita di chi lavora. Naturalmente, non lo ammetteranno mai e la “venderanno” come una brillante innovazione del capitalismo americano, quando in realtà ci stanno dicendo “vorremmo essere come voi”. Poi il problema è capire se è tutto vero o se è soltanto un’operazione di facciata.

Un po’ di marketing per stare sull’onda delle crescenti sensibilità ambientali e sociali? Qualche sospetto è lecito averlo, anche perché le facce di quelli che propongono questa “svolta” sono le stesse che hanno funestato il mondo e portato alla crisi del 2008. Del resto, negli ultimi decenni i meccanismi di selezione della ruling class economica hanno messo ai vertici delle compagnie gente senza scrupoli. Che adesso gli scrupoli siano proprio loro a raccomandarli qualche dubbio rimane. La stessa Corporate Social Responsibility degli ultimi anni è stata in gran parte una bufala, se pensiamo che la Enron ne aveva combinate di tutti i colori ma aveva un rating di responsabilità sociale molto alto. Il rischio che sia solo marketing c’è, però non sottovalutiamo questo segnale. Qualcosa sta cambiando davvero, quindi? Culturalmente è una svolta. Un segnale molto forte del fatto che questa gente si sta rendendo conto che non si può più andare avanti come prima: il potere e il controllo sociale stanno scappando dalle loro mani, e nell’opinione pubblica c’è un clima infernale contro le grandi multinazionali e la finanza, spesso visti come dei veri banditi. Hanno bisogno di un’immagine diversa, e questo è di per sé molto significativo. Se poi sarà solo un’operazione di facciata o porterà ad azioni concrete, ai posteri l’ardua sentenza. Se è così però, potrebbe generare benefici a cascata per il nostro mondo delle Pmi, più vicine a quel modello “sano” che si vuole prendere a nuovo paradigma? Io mi sento di raccomandare ottimismo. Il capitalismo di piccola impresa italiano ha avuto una brutta botta con la crisi del 2008, si è ridimensionato, ma quello che è rimasto in piedi è fortissimo, competitivo, esporta e in fin dei conti è l’ossatura della seconda manifattura d’Europa. Le armi per competere ce le abbiamo tutte. Potrebbe aiutare una maggiore consapevolezza di quello che siamo, della natura del nostro capitalismo e del fatto che funziona. Il problema è la colonizzazione culturale. Dovremmo credere di più nel nostro modello? Continuiamo a sentire inviti ad imitare il capitalismo americano: dovremmo avere imprese più grosse, seguire le loro regole, come se loro fossero l’avanguardia e noi la retroguardia. Ma è un provincialismo che dobbiamo levarci di dosso. Perché in realtà l’avanguardia è il nostro modello. A. Ali. imprese e territorio | 13


primo piano

Mossa IPOCRITA Il PIL non può crescere solo con il

“GREEN”

Lo scetticismo di Franco Debenedetti allo statement della Business Roundtable: «Che ci siano dei problemi lo sappiamo, ed è un bene che le aziende non siano indifferenti, ma da questo a dire che lo scopo dell’azienda non è più “l’ultima riga in basso a destra”, il profitto, non è così» 14 | imprese e territorio


primo piano

«Svolta etica? Io direi un po’ ipocrita. Ma anche i clienti hanno delle sensibilità, di cui bisogna tenere conto». La pensa così Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, imprenditore e già senatore per tre legislature, a proposito del recente statement della Business Roundtable, dipinto come una svolta etica verso un nuovo modello di capitalismo. «In realtà del tema della responsabilità sociale di impresa si parla da almeno 70 anni: ne parlò Friedman, secondo cui l’impresa ha uno scopo solo, fare profitti, ma in conformità con le regole base della società, sia quelle scritte nelle leggi sia quelle rispondenti a principi etici. Niente di nuovo, dunque, anche se ci si domanda qual è la ragione per cui un tema così ampiamente dibattuto venga ripreso oggi con argomentazioni abbastanza banali ottenendo una eco relativamente importante». Si è dato una risposta? Io la ritengo una mossa difensiva e un po’ ipocrita, che intercetta tutto quello che la gente ha da dire contro il capitalismo: dalla globalizzazione, al riscaldamento globale, alle disuguaglianze. Dal momento che la politica stenta a dare risposte su questi grandi temi, bisogna prendersela con qualcuno. Ma che cosa c’entrano le aziende?

SVOLTA? IO DICO NO

del potenziale positivo, perché riorientare le politiche aziendali può avere dei vantaggi. Ma il punto è altrove, anche per quanto riguarda le disuguaglianze. Qual è, secondo lei? Occorre contestualizzare la questione nel passaggio dal fordismo all’economia della conoscenza: la faticosa, a volte conflittuale, trasformazione storica delle società avanzate. Veniamo da un modello fordista, che aveva bisogno di manodopera abbondante e poco qualificata, mentre oggi c’è bisogno di persone acculturate: parteciperanno dei benefici della nuova economia e quindi guadagneranno di più. La vecchia classe media poco qualificata è sostituita da un’altra classe media molto qualificata: quella era largamente indifferente alla condizione di chi sta sotto, così è per questa nuova classe media. Il passaggio dall’operaio della catena all’impiegato dell’economia della conoscenza richiede dei salti culturali e di competenze che non si fanno in una generazione.

«L’imprenditore, il grande come il piccolo, ha dei clienti: sono quelli da cui dipende il suo profitto. Deve quindi conoscere la loro mentalità, gli interessi e i principi che orientano le loro scelte»

Non tocca dunque al mondo delle imprese dare risposte su questi temi? Le cose da fare e i costi da sopportare non sono a livello aziendale, a volte neanche a livello statale, se pensiamo alle controversie tra Paesi in via di sviluppo e Paesi avanzati sui costi connessi agli accordi sul clima di Kyoto e Parigi.

Forse è una mossa per creare consenso attorno al mondo dell’industria? Che ci siano dei problemi lo sappiamo, ma per questo tutti possiamo fare qualche cosa, anche a livello micro. È un bene che le aziende non siano indifferenti, ma da questo a dire che lo scopo dell’azienda non è più “l’ultima riga in basso a destra”, quindi il profitto, non è così. Perché anche molti di quei problemi si risolvono con la crescita del Paese. Pensiamo al caso dell’Italia, dove il Pil non cresce. Questo come lo risolviamo? Magari anche con la rivoluzione “green”, che come tante altre azioni ha

Ma non intravede una svolta nel modello economico? Prendiamo ad esempio lo scandalo degli oppiacei che rischia di travolgere la Johnson&Johnson’s: è stata mancanza di responsabilità dell’azienda o errore del board e del management che non ha capito che si stava correndo un rischio che ora minaccia l’esistenza stessa dell’azienda? Si tratta di avere lo sguardo lungo: la shareholder value, intesa correttamente, deve tener conto dei rischi futuri delle azioni presenti. Vale anche nel mondo della piccola impresa? Certamente. L’imprenditore, il grande come il piccolo, ha dei clienti: sono quelli da cui dipende il suo profitto. Deve quindi conoscere la loro mentalità, gli interessi e i principi che orientano le loro scelte. Oggi la maggior parte di loro riterrà che ci sono dei problemi di inquinamento, di disuguaglianza, di inefficienza, di ignoranza, in ordine ai quali tutti abbiamo delle responsabilità. L’immagine di un’azienda conta, le sensibilità contano, sono anche quelle che determinano la scelta di andare da un fornitore piuttosto che da un altro. Le problematiche macro si riflettono anche a livello micro. imprese e territorio | 15


inchieste

Il digitale è relazione Il digitale è

UMANITÀ A Udine nasce il master in Filosofia del Digitale per superare la visione puramente tecnicistica dell’innovazione

«Essere digitali è soprattutto un modo di pensare che permette di sfruttare al meglio le condizioni di esistenza di qualsiasi modo di produzione»

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inchieste

prospettive d’impresa LUCA TADDIO DIRETTORE MASTER FILOSOFIA DEL DIGITALE E DOCENTE DI ESTETICA ALL’UNIVERSITA’ DI UDINE

Com’è umano, questo digitale. Perché investe profondamente la nostra vita, il lavoro, ogni passo del nostro cammino e se colto pienamente nel suo significato traccia scenari preziosi per le aziende. All’università di Udine non a caso hanno deciso di avviare un master di “Filosofia del digitale”. Per creare figure professionali, utili a tutte le imprese, e prima ancora per riflettere su questa trasformazione. Lo racconta Luca Taddio, direttore del master e docente di Estetica nell’ateneo: «L’idea è nata dal bisogno di superare una visione puramente tecnica del digitale, per cercare di comprendere gli aspetti più “umani” e filosofici dell’espansione planetaria del digitale. Non c’è nulla di più umano (nel bene come nel male) della tecnica. Il “pericolo” non risiede in essa, ma in come l’uomo la produce e la governa, o si illude di farlo». Anche nelle imprese e nel mondo del lavoro bisogna porsi con attenzione la questione. Con consapevolezza, ma consci anche delle chance che si offrono: «L’espansione dell’intelligenza artificiale e della robotica ci pongono dinanzi a una quantità enorme di problemi. Tuttavia, dobbiamo guardare a queste sfide cercando di cogliere le opportunità che le nuove tecnologie ci offrono – spiega Taddio - Non c’è dubbio che la tecnologia stia non solo trasformando il lavoro ma anche, attraverso i processi di automazione, sostituendo l’uomo. L’intero sistema sta mutando pelle. Per questi motivi è fondamentale una “consapevolezza” non tanto del fattore tecnologico del digitale, quanto di quello culturale, sociale, economico e politico». Il master è calato dunque nella realtà e nei bisogni delle imprese di oggi. Si uniranno aspetti teorici, pratici e progettuali. E sono previsti stage in azienda. Con un segnale che risuona forte: «L’idea di specializzazione è stata il mantra di un sistema di produzione governato per settori specifici e relativamente autonomi. Invece il digitale, senza negare l’efficacia dei saperi settoriali e specialistici, si evolve attraverso dinamiche sempre più complesse: è inevitabile rimescolare i ruoli, i saperi e le esperienze. Essere digitali significa essere continuamente disposti a costruire relazioni, a superare ostacoli e a rimettere in discussione persino gli stessi successi di impresa». Ecco perché ne uscirà una figura professionale nuova, per gestire contenuti e strategie: «Il digitale potrà anche essere pensato come una tecnologia invasiva e pericolosa (che attraverso l’intelligenza artificiale, internet, i Cloud e i Big data sta occupan-

do l’intero pianeta), ma rimane il fatto che sta anche creando delle incredibili opportunità per tutti coloro che intendono sentirsi liberi e pronti a mettersi in gioco». A Luca Taddio chiediamo allora suggerimenti alle piccole imprese, che stanno affrontando l’evoluzione digitale. Come muoversi con maggiore efficacia? «Per stare al passo con i tempi, le imprese dovrebbero investire in particolare sui “nativi digitali” – consiglia il direttore del master - Bisogna comprendere che il digitale non nega le piccole realtà aziendali, ma anzi le innerva e le può aiutare a crescere. La questione del digitale non si risolve solo investendo in tecnologia, comprando computer o facendo corsi di gestione informatica. Essere digitali è soprattutto un modo di pensare che permette di sfruttare al meglio le condizioni di esistenza di qualsiasi modo di produzione, senza necessariamente introdurre logiche di innovazione tali da snaturare la produzione o il prodotto». Bisogna dunque soppesare le parole e in questo la filosofia aiuta più che mai. Dobbiamo imparare ad ascoltarci mentre parliamo: «Informatica deriva da informazione e l’informazione è ciò che avviene nella relazione tra soggetti e oggetti in comunicazione tra loro e quando si comunica si è già all’interno di una dimensione sociale. Possiamo allora chiederci quale sia il significato di questa nuova “società digitale”: dove, proprio perché tutto è “comunicazione”, tutto è relazione. Se comprendiamo questo aspetto relazionale non possiamo più affermare che quanto accade dall’altra parte del globo non ci riguardi». Proprio perché il digitale non è un frammento a sé, ma un tema complesso, globale, mantenere lo sguardo critico sull’intero fenomeno è vitale. Secondo Taddio, questa sfida ha un potere: quello di rinsaldare la «frattura tra saperi umanistici e tecnico-scientifici e ci conduce ad esaminare le trasformazioni in atto e il senso stesso di questa trasformazione. Tutto ciò può sembrare un discorso che si limita a un piano astratto, in realtà il “digitale” è quanto di più concreto oggi stia avvenendo nel mondo». Con una raccomandazione: «Il processo di trasformazione non solo è in atto, ma è anche estremamente veloce: per questo è indispensabile una riflessione, ma anche porre il tema del digitale all’interno di un progetto e di una visione d’insieme. imprese e territorio | 17


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MERCI IN TRANSITO

Il ferro batte dove l’affare conviene. Con HUPAC e FNM GROUP

Hupac e Malpensa Intermodale, è Busto Arsizio l’hub delle merci trasportate via ferro. Una città con due terminal, collegati all’Europa, per l’interscambio dei container dai treni ai camion. Così la logistica è un asset strategico per lo sviluppo del territorio. Il polo di Busto Arsizio fa parte a pieno titolo di quella che gli esperti del settore definiscono come la “Regione Logistica Milanese”, che “cuba” oltre 1500 imprese e 13 miliardi di fatturato nell’area tra la metropoli meneghina e l’hinterland, oltrepassando i confini amministrativi della Città Metropolitana fino a toccare Busto, ma anche Saronno, Gallarate e Malpensa.

il tunnel della Tav Torino-Lione). Il player storico della logistica di questa “area vasta” dal 1992 è Hupac, che è anche il principale operatore di rete nel trasporto intermodale in Europa. Un colosso da mezzo miliardo di euro di fatturato nel 2018 (con un incremento, rispetto all’anno precedente, di ben il 19,4%), dotato di una rete che comprende 130 treni al giorno con collegamenti tra le principali aree economiche europee, la Russia e l’Estremo Oriente.

Con Alptransit «ci aspettiamo un consistente aumento di efficienza e produttività a vantaggio dell’ulteriore trasferimento del traffico pesante dalla strada alla rotaia»

Nel 2005, il ministero delle infrastrutture e dei trasporti identificò il sistema area vasta attorno a Busto Arsizio con la denominazione di “Hub Malpensa e Corridoio V”, mettendo in luce l’importanza dello snodo in termini di mobilità e logistica di un territorio che si trova all’incrocio tra i corridoi europei TEN-T Reno-Alpi (con i treni a sagoma alta dell’Alptransit che arriveranno a Gallarate-Busto via Luino) e Mediterraneo (quello che attende 18 | imprese e territorio

Solo dal terminal di Busto-Gallarate lo scorso anno Hupac ha «trasferito 450 mila unità dalla strada alla rotaia», mentre a metà luglio di quest’anno è partito il primo servizio diretto verso Xi’An, in Cina, con un tempo di transito di 18 giorni. Definito dalla compagnia italo-elvetica come un «primo treno-test per incoraggiare una nuova collaborazione tra Europa e Cina e per aprire le porte al mercato internazionale», nell’alveo degli accordi della “Nuova Via della Seta”. «L’obiettivo a lungo termine di Hupac è una frequenza settimanale. Per questo periodo di prova il treno circolerà con una frequenza mensile o bimensile». Se la Cina si avvicina, per Hupac


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L’HUB DELLA logistica

è decisiva la scommessa dell’Alptransit: a Busto-Gallarate arriveranno treni più lunghi, più pesanti e con la sagoma più alta. «Con l’entrata in funzione del corridoio di 4 metri attraverso le gallerie del Gottardo e del Ceneri nel 2021 - sottolinea il ceo del Gruppo Hupac Bernhard Kunz - ci aspettiamo un consistente aumento di efficienza e produttività a vantaggio dell’ulteriore trasferimento del traffico pesante dalla strada alla rotaia». Significativa in un’ottica di rete è la recente riattivazione, da parte del Gruppo Fnm, del Terminal intermodale di Sacconago, sempre a Busto Arsizio, realizzato nel 2008 grazie a 10 milioni di euro in gran parte frutto di fondi europei intercettati proprio nell’ambito della programmazione strategica d’area vasta dello “Hub Malpensa-Corridoio V”. Con l’avvio di servizi di collegamento da Gent in Belgio, «ha già “tolto dalla strada” 60 camion a settimana su una tratta complessiva di oltre 900 chilometri - spiega il presidente della società controllata da Regione Lombardia, Andrea Gibelli - questo comporta una riduzione di emissioni di CO2 di oltre il 90%: da 58 a 5 tonnellate per ogni treno». Fnm, che opera nel trasporto merci su ferro con le società DB Cargo Italia (in cui è presente al 40%), FuoriMuro (49%) e Locoitalia (51%), lo scorso dicembre ha costituito Malpen-

sa Intermodale, controllata al 100%, proprio per valorizzare il terminal di Sacconago e offrire servizi di logistica al territorio. «È un cammino appena intrapreso ma con ampi margini di crescita, in termini di qualità, innovazione e sostenibilità» sostiene il presidente Gibelli, mostrando la volontà di Ferrovie Nord, che ad inizio anno ha acquisito dalla Provincia di Varese la proprietà della struttura di Sacconago, di «rilanciare» il Terminal intermodale. Il polo, 48mila metri quadrati di aree con cinque binari per le operazioni lungo la linea Fnm Novara-Saronno, si trova ai confini della zona industriale di Nord-ovest di Busto Arsizio, ma per almeno un decennio dopo la sua inaugurazione è stato fortemente sottoutilizzato. I primi servizi di collegamento sono stati avviati da DB Cargo Italia per conto di Volvo con carri convenzionali adibiti al trasporto di autovetture. La sfida di Malpensa Intermodale è di «offrire al mercato dell’intermodalità e della logistica soluzioni innovative e strutturate sulle esigenze del cliente». Il terminal si trova in una posizione strategica: è raccordato con la rete Fnm interconnessa con quella Rfi a Busto (a 3 chilometri tramite il raccordo X) e collegato con Novara (19 chilometri) e Seregno (35 chilometri), oltre a beneficiare di un’area di sviluppo per servizi e logistica di oltre 200mila metri quadrati. A. Ali. imprese e territorio | 19


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La scuola dei TECNICI Alla scoperta dell’

“ITS” FACTOR Tra aeronautica e logistica

Con gli Its si entra nell’era delle competenze. «La formazione? Non conta solo il diploma, ma la certificazione delle competenze». Ad affermarlo è Angelo Candiani, presidente della Fondazione Its Lombardo Mobilità Sostenibile, che a Case Nuove di Somma Lombardo, esattamente a metà strada tra i due terminal dell’aeroporto di Malpensa, è il primo polo (sia anagraficamente che per numero di percorsi proposti) della formazione tecnica superiore in provincia di Varese. Dal 2011, qui si preparano al mondo del lavoro i tecnici nei settori della manutenzione e delle costruzioni aeronautiche, della logistica e della meccatronica. Percorsi formativi di una «elasticità concretissima, con corsi progettati per competenze che nascono di anno in anno dal dialogo sulla base delle esigenze del mercato del lavoro», che hanno già accompagnato verso una buona occupazione 238 dei 265 tecnici superiori diplomati. E il presidente Candiani, che conosce i suoi studenti «uno ad uno», è in grado di snocciolare i motivi particolari che allontanano dal 100% la percentuale degli esiti occupazionali positivi. Tra i manutentori e i tecnici di progettazione e montaggio si

viaggia al 95%, un po’ meno nella logistica che però finora ha visto solo una classe completare il percorso. Successi che smuovono la sensibilità sia delle famiglie, visto che per i cinque corsi che partono in autunno sono arrivate più di 200 preiscrizioni per circa 150 posti a disposizione («sono colpitissimo da quanti ragazzi hanno colto questa opportunità» ammette Candiani), sia delle aziende, che continuano a bussare alla porta per chiedere figure professionali formate da inserire in organico.

«Dico sempre di puntare al massimo ma anche di non catalogare questo percorso come inferiore a quello universitario. C’è un futuro interessantissimo per chi si mette su questa strada»

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«Bruciamo le richieste con una velocità impressionante». Addirittura, in alcuni casi, rivela il presidente della Fondazione, si fa fatica a trattenere i ragazzi per l’intero biennio in Its (o triennio, nel caso dei manutentori) e a convincere le aziende che li accolgono in stage - «ma più spesso, i loro consulenti del lavoro» - del valore dell’apprendistato finalizzato all’acquisizione di un titolo di studio, piuttosto di un’assunzione diretta. Così il polo di Case Nuove, che nel Varesotto è l’unico Its con una propria sede dedicata, è pronto a crescere ancora. Soprattutto sul fronte dell’offerta nel campo della logistica. «È


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ISTRUZIONE SUPERIORE/SECONDA TAPPA

questo uno degli asset di sviluppo di questo territorio - ragiona Angelo Candiani - basti pensare agli investimenti che sono in corso alla Cargo City di Malpensa. Solo Dhl con il suo nuovo hub in costruzione inserirà più di 400 dipendenti». Serviranno tecnici specializzati, e l’Its Lombardo Mobilità Sostenibile è pronto a formarli. «Siamo partiti con la figura del tecnico in supply chain & operations management, la più richiesta nel settore visto che si caratterizza per una conoscenza ampia sulla movimentazione delle merci in ambito aeronautico - racconta il presidente - da lì abbiamo avviato una serie di relazioni con un’infinità di soggetti che hanno fatto emergere altre esigenze».

tempo è già in fase di progettazione anche l’ampliamento degli spazi nel quartiere delocalizzato di Somma Lombardo. Tra la premialità ministeriale e i meccanismi di Regione Lombardia, che incentivano il consolidamento dei percorsi che riscuotono più successo, le potenzialità di sviluppo della “scuola” di Case Nuove potrebbero avere un andamento esponenziale. Nel futuro del sistema Its Angelo Candiani vede «più investimenti e più autonomia alle Fondazioni», perché la priorità è «riconoscere dignità agli Its» che sono «la cosa più bella degli ultimi 40 anni». Vale a dire, dare un ruolo più definito alla formazione duale nel sistema scolastico italiano, mettendola al riparo dai “chiari di luna” della burocrazia e della politica. Perché quella dignità il sistema Its se l’è conquistata con le storie dei tanti ragazzi che, partendo da queste aule, hanno avviato una brillante carriera all’interno delle aziende. «A tutti loro - ricorda il presidente Candiani - dico sempre di puntare al massimo, ma anche di non catalogare questo percorso come inferiore a quello universitario. C’è un futuro interessantissimo per chi si mette su questa strada». A. Ali.

La Fondazione Its Lombardo Mobilità Sostenibile di Case Nuove è il primo polo della formazione tecnica superiore in provincia di Varese e sta per potenziare i corsi dedicati alla logistica

Grazie ai meccanismi di premialità previsti nei contributi che lo Stato mette a disposizione del Sistema Its (a Case Nuove sono stati assegnati 336mila euro), verranno autofinanziati nuovi corsi Its e Ifts nell’ambito della logistica (gestione del magazzino delle merci in aziende produttive), che verranno avviati a Milano, in una nuova location in via Ampére, zona Città Studi. «Perché molte della realtà che operano in questo settore si trovano a Milano e hinterland». Nel frat-

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IL FUTURO È GIOVANE «Formare i giovani al lavoro, un problema culturale che la politica deve aiutare ad affrontare». Un appello, rivolto in primis al nuovo Governo, a sostenere con forza il sistema duale in Italia, a partire dagli Its, dall’apprendistato e dall’alternanza scuola-lavoro, arriva da Francesco Pastore, professore associato di Economia all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli, ricercatore dell’istituto di economia del lavoro Iza ed editorialista de Lavoce.info.

Gli Its vanno sostenuti maggiormente? Quello degli Its è un tassello che sembra piccolo ma in realtà è molto importante, in un Paese dove i giovani stentano a trovare un lavoro e le industrie stentano a trovare personale qualificato. Oggi ci sono una domanda e un’offerta forti, e c’è un grande cambiamento in corso, se consideriamo i numeri della quarta rivoluzione industriale, di cui a dire il vero si parla più in Europa che in Italia...

Due anni fa scriveva che questi tre elementi «sono i tasselli di un sistema d’istruzione adeguato al lavoro del futuro». È stato capito dalla politica italiana? Dall’epoca del Piano Calenda, che rilanciò gli Its, in tandem con il mondo delle imprese, quello che è cambiato non è tanto il comportamento del Governo precedente, che si è reso conto solo in un’ultima fase di quanto fossero utili per stimolare la crescita economica e l’innovazione le misure del ministro Calenda, a partire dai superammortamenti e dalla formazione, che era un aspetto importante del Piano Industria 4.0. Ora la speranza è che il nuovo Governo, per ora una “mina vagante” su questi temi, possa riprendere quel filo. Per ora ci sono dei segnali importanti, come la nascita di un Ministero dell’innovazione, accanto ad altri segnali di incertezza.

Rischiamo di restare indietro? Gli altri si preparano, noi arranchiamo. Ma il modo per prepararsi al futuro è formare i giovani. La nuova rivoluzione industriale comporta una maggiore integrazione tra le conoscenze in aula e le conoscenze in azienda, perciò occorre affermare il principio duale nella formazione.

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Nei numeri oggi siamo ancora quasi all’anno zero, con 13mila iscritti agli Its contro 800mila in Germania. Per lei è un problema culturale o politico? Entrambi i fattori sono decisivi, è indubbio che il fattore culturale è grande come una casa, perché purtroppo il sistema duale non è facile da importare dalla Germania, se pensiamo che la Francia lo sta adottando dal 1991 con risultati non del tutto brillanti. Là è un sistema che risale alle “gilde”, le associazioni


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ISTRUZIONE SUPERIORE/IL PUNTO FRANCESCO PASTORE PROFESSORE ASSOCIATO DI ECONOMIA ALL’UNIVERSITÀ DELLA CAMPANIA “LUIGI VANVITELLI” DI NAPOLI

degli artigiani tessili tedesche addirittura in epoca medievale, ma anche noi in Italia, pur non avendo la cultura del principio duale, abbiamo avuto sia l’apprendistato in azienda che gli istituti tecnici professionali, poi sciaguratamente travolti da una furia ideologica iconoclasta contro quella che veniva descritta come la scuola delle classi inferiori. Fu un grande errore. Questo spiega come mai siamo così indietro, la politica però ci potrebbe mettere un po’ del suo, perché anche superare i fattori culturali “ha un prezzo”.

che dalla decisione calata dall’alto di un ministero, perché poi solo così le esperienze hanno successo, ma deve poi essere spinta dall’alto da chi governa, almeno in una fase transitoria, per garantire il consolidamento di queste esperienze. Non sarebbero soldi sprecati, almeno in questo caso.

«Abbiamo bisogno di innovatori e idealisti, presidi, insegnanti e imprenditori in trincea, per diffondere l’importanza del ruolo del sistema duale»

Significa che il Governo dovrebbe investire per sostenere la formazione duale? L’impressione è che con gli Its, l’apprendistato scolastico e l’alternanza scuola-lavoro ci sia stato un tentativo di imporre il sistema duale dal basso, buttando dei germi all’interno della società, con la speranza che si diffondano e riescano a sviluppare una cultura coerente. Ma temo ci sia in atto una sorta di circolo vizioso, perché senza una spinta da parte della politica, anche in termini di incentivazione economica, sia per le scuole che per gli studenti, difficilmente questi limiti culturali si supereranno. È giusto che questa sensibilità nasca dal basso, dal fabbisogno reale delle imprese piuttosto

Così si trascineranno anche le famiglie? Oggi è ancora forte la tendenza a considerare il lavoro intellettuale superiore a quello manuale, ma ormai spesso l’alternativa è tra il lavoro intellettuale e la disoccupazione. Il che dovrebbe spingere molti ragazzi ad intraprendere la strada degli Its, che garantiscono un’occupazione vicina al 100%. Ma oggi c’è una domanda insoddisfatta anche da parte delle famiglie.

Il mondo della scuola riuscirà a fare questo scatto in avanti? In Germania non c’è abbandono scolastico e c’è piena occupazione giovanile. Perché la scuola garantisce ai ragazzi una prospettiva di lavoro. Noi abbiamo bisogno di innovatori e idealisti, presidi, insegnanti e imprenditori in trincea, per diffondere l’importanza del ruolo del sistema duale. imprese e territorio | 23


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Le trasformazioni che raccontano

L’IDENTITÀ di un PAESE

L’esempio di Pirelli Bicocca Dove c’erano le catene di montaggio, ci sono l’università e il teatro. La fabbrica che un tempo produceva oggetti, ora produce idee

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geografia d’impresa

La letteratura industriale non come rifugio nella nostalgia, bensì come sostegno della ricerca dell’identità perduta o sfilacciata. Il professor Giuseppe Lupo ha affrontato un viaggio affascinante tra le aree produttive che si sono trasformate nel nostro Paese: alcune molto vicine a noi. Lo scrittore e docente di Letteratura italiana all’Università Cattolica, è tra i massimi studiosi in questo campo. Dall’ex fabbrica dell’Alfa Romeo di Arese alla Bassetti di Rescaldina, passando per Sesto, c’è un filo conduttore che segna le trasformazioni? E che può raccontare molto anche delle metamorfosi nel nostro territorio? «Sono trasformazioni – premette il professor Lupo – avvenute a partire dagli anni Ottanta, Novanta, scaturite dai processi di globalizzazione e dall’abitudine di delocalizzare molte fabbriche, nell’epoca della post industrializzazione. Io non ho gli occhi di uno storico economico o dell’industria, ma utilizzo la letteratura, che serve ad analizzare i cambiamenti e i passaggi di una società. Non è avulsa dalla realtà, ma ci aiuta a capire i processi di metamorfosi. Ecco che ho voluto cercare il sogno italiano che ha accompagnato il Paese dagli anni Cinquanta in poi. Un periodo unico, il passaggio verso la modernità». Unico, perché è cambiato uno stile di vita, testimoniato da frigoriferi, elettrodomestici, mobili e molto altro: «L’aspetto rilevante è che tutti hanno goduto democraticamente di questa trasformazione». Insomma, non un lusso per pochi, bensì una corrente che si è propagata alla popolazione. Un momento irripetibile, e per questo affascinante, ma guardare le aree di ieri e ciò che sono diventate non deve portare con sé la tentazione della nostalgia: «Piuttosto aiutare a ritrovare l’identità di una nazione». Anche sul nostro territorio possiamo vedere luoghi che raccontano quel passato e un presente ben diverso. Perché studiarli? «Perché siamo un popolo che facilmente dimentica tutto – mette in guardia il docente – La letteratura in questa fase di disorientamento ci aiuta a ritrovare quell’identità appunto. A riappropriarci della nostra coscienza». Il che è doveroso e salutare per guardare avanti. Tra gli esempi che ha incontrato il professor Lupo, autore di diversi libri, l’ha colpito molto quello dell’Alfa Romeo: «Dove

c’era la grande fabbrica meccanica, nello stesso spazio c’è un grandissimo spazio commerciale. I centri commerciali chiamati non luoghi da Marc Augé… Ma poi troviamo Pirelli Bicocca: dove c’erano le catene di montaggio, ecco l’università e il teatro. La fabbrica che un tempo produceva oggetti, ora produce idee». Questa dunque una storia molto diversa rispetto alle altre. Ci sono poi aree che suscitano altre sensazioni: «Come Sesto San Giovanni, fa una tenerezza infinita, parla di etica del lavoro industriale. Oppure l’Ilva Bagnoli, ora un deserto… ». Il professor Lupo si è anche soffermato su una realtà tessile confinante con il Varesotto, come la Bassetti di Rescaldina: «Forse tra le prime e più simboliche degli anni Sessanta, che ha sviluppato una nuova mentalità. Si usciva dall’epoca in cui il corredo era dato dalle monache e ora

Il professor Giuseppe Lupo ha condotto un viaggio tra le aree produttive che si sono trasformate e le ha raccontate senza nostalgia ma per riappropriarsi della nostra coscienza

ecco che veniva comprato. La Bassetti negli anni Cinquanta-Sessanta ha agito sulle tracce di Olivetti, perché era sensibile sui problemi dei dipendenti. E si prendeva cura del territorio. A Rescaldina il 60% della popolazione lavorava in quest’azienda, il paese vi si trasferiva praticamente il lunedì mattina». Un paese fabbrica, dove si ha la lungimiranza di realizzare un centro studi ricreativo (ecco un altro segnale di umanesimo, di attenzione al benessere dei lavoratori) e dove

si inaugura nel ’64 uno stabilimento all’avanguardia. Altro tratto significativo il rapporto con la politica, che può essere ritrovato in altri casi. In particolare, Piero Bassetti fu eletto primo presidente della Regione Lombardia. Oggi si parla di welfare, responsabilità sociale, ma prima aveva altri nomi, forse talvolta meno consapevolezza: però spesso era già presente. Anche a Rescaldina l’industria ha lasciato spazio ai centri commerciali. A un cambio di vocazione, rileva Lupo. Al quale piacerebbe puntare lo sguardo sul Varesotto. Affascinante il discorso dell’Ignis, ma anche lo stesso mondo tessile della nostra provincia, ricco di testimonianze visive, cambiamenti e suggestioni. Senza scordare il caso a sé di Malpensa: qui la brughiera trasformata in scalo proprio sotto la spinta dell’industria.

Ma. Lu. imprese e territorio | 25


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La capitale del terziario riscopre la manifattura. Per uno sviluppo più inclusivo. La sfida di Manifattura Milano, l’ambizioso programma lanciato due anni fa dall’Assessorato al Lavoro e alle attività produttive del Comune di Milano (guidato da Cristina Tajani) per riportare le imprese 4.0 a insediarsi nella metropoli della moda, del design e della finanza. «L’idea di fondo è semplice - spiega Annibale D’Elia, direttore Innovazione Economica e Sostegno all’impresa del Comune di Milano - la quarta rivoluzione industriale può essere una grande opportunità per le città. Ovunque, nel mondo occidentale, le metropoli stanno affrontando situazioni simili: concentrazione di persone, imprese e capitali, polarizzazione della ricchezza, un generalizzato aumento delle disuguaglianze. Il rischio è di assistere nei prossimi anni ad un progressivo allargamento del gap tra chi ha preso il treno dell’economia della conoscenza e chi lo ha perso e viene spinto ai margini. In questo quadro, le trasformazioni profonde che stanno investendo il mondo della produzione materiale – robotica avanzata, stampa 3D, Internet delle cose - non vanno considerate solo come una parte del problema. A certe condizioni, possono diventare una parte importante della soluzione». Intorno a questa intuizione è nata Manifattura Milano, un’iniziativa del Comune per contrastare questi fenomeni rendendo il capoluogo lombardo un luogo accogliente dove attrarre, far nascere e crescere imprese manifatturiere e artigianali di nuo26 | imprese e territorio

va generazione; l’obiettivo è tornare a creare posti di lavoro di buona qualità per la classe media. L’idea ha preso forma grazie a diverse fonti di ispirazione. «Il Comune ha iniziato a lavorare sul tema già nel 2014 – spiega D’Elia – con le prime iniziative in Italia in favore dei laboratori di fabbricazione digitale». Anche grazie alle politiche dell’Amministrazione, oggi Milano è una delle città in Europa con il maggior numero di Fablab e makerspace, diffusi soprattutto nelle periferie. «Nello stesso tempo, abbiamo iniziato a guardare con crescente interesse a quel che stava accadendo in altre metropoli del mondo, come Parigi, New York City e Barcellona; con modalità e strategie diverse, alcune città hanno puntato sul ritorno della manifattura come leva per la riqualificazione delle periferie e la creazione di lavoro, con un’attenzione particolare ai temi della sostenibilità sociale ed ambientale». Manifattura, lavoro e ambiente è un’associazione apparentemente insolita. Quando si parla di manifattura 4.0 il pensiero corre ai grandi impianti automatizzati e alle preoccupazioni per una consistente perdita di posti di lavoro nella media e grande industria. «Quando diciamo di voler riportare la manifattura a Milano ci riferiamo ovviamente a nuove modalità di produzione, compatibili con la vita di una metropoli del XXI secolo. Produzioni personalizzate e per piccoli lotti, rese possibili grazie all’impiego delle tecnologie digitali. Le stesse tecnologie che sostituiscono il lavoro umano possono essere utilizzate per abilitarlo e far sì che una micro o piccola impresa possa


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MODELLI DA IMITARE: MILANO

La CAPITALE del

TERZIARIO MANIFATTURA punta sulla

crescere migliorando quantità e qualità della produzione. Con Manifattura Milano vogliamo connettere queste nuove opportunità con le vocazioni del nostro territorio - il design, il saper fare, la conoscenza prodotta dalle università e dai centri di ricerca - per rivitalizzare la grande tradizione manifatturiera e artigianale milanese». «Ovviamente – sottolinea D’Elia – non si tratta di trasferire a Milano soluzioni nate altrove ma di elaborare un modello peculiare attraverso un approccio agile e sartoriale».

«Oggi, dopo due anni di lavoro e molte iniziative messe in campo - nonostante la scarsità di risorse a disposizione dei Comuni – i segnali incoraggianti non mancano – continua D’Elia - Sul fronte dell’occupazione innanzitutto. I dati più recenti su Milano fanno segnare un importante +65% in termini di creazione di nuove posizioni lavorative nel comparto manifatturiero». «Ma la più importante spinta a proseguire l’abbiamo ricevuta dalle imprese. Da quando abbiamo lanciato Manifattura Milano abbiamo incontrato centinaia di realtà straordinarie che hanno deciso di produrre in città scommettendo sul valore della prossimità, dalla vicinanza tra produzione e consumo. A ben vedere, è un fenomeno analogo a quel che accade ormai da anni nel settore del food: la riscoperta del Km zero, della filiera corta, delle vocazioni territoriali. Oggi troviamo quella stessa sensibilità nei settori più vari: elementi di arredo, biciclette su misura, tipografia di alta qualità, moda, gioielli, tessuti, pelletteria e molte altre cose ancora. Su queste premesse, crediamo che Milano abbia tutte le carte in regola per diventare un laboratorio dove esplorare queste opportunità in modo del tutto originale». In sintesi, una chance per Milano.

«Vogliamo connettere le nuove opportunità con le vocazioni del nostro territorio - il design, il saper fare, la conoscenza prodotta dalle università - per rivitalizzare la grande tradizione»

Una visione di lungo termine che si traduce in un sistema di interventi molto concreto. Dal punto di vista operativo, il programma si articola in 6 assi di intervento: dal sostegno alla nascita di laboratori e spazi di innovazione (come il Milano Luiss Hub nato nell’area di porta Garibaldi) al finanziamento di imprese manifatturiere e artigianali nelle periferie della città; dalla diffusione di competenze per il 4.0 attraverso i centri di formazione comunali agli interventi nel nuovo Pgt per favorire l’insediamento di nuove realtà manifatturiere, dalla ricerca sull’evoluzione della manifattura urbana nelle città del mondo agli incontri per mettere in rete le startup tech, le piccole e medie imprese e il variegato mondo dei maker e dei designer.

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Probabilmente entro il mese di ottobre Pierfrancesco Maran, assessore all’urbanistica, al verde e all’agricoltura del Comune di Milano, riuscirà a chiudere la partita strategica della variante generale al Piano di Governo del Territorio, lo strumento voluto dalla giunta di Giuseppe Sala per disegnare la Milano del 2030.

Insomma, una Milano che riscopre e rideclina al futuro la sua vocazione manifatturiera: «Ci stiamo lavorando - spiega Pierfrancesco Maran - soprattutto in ambito urbano c’è anche un tema di evoluzione dell’artigianato e della manifattura, in particolare con la cosiddetta manifattura 4.0, che sta avendo risultati interessanti. Noi abbiamo previsto una serie di

Nella Milano 2030 l’economia urbana è

PRODUTTIVA Una città più sostenibile, più verde, più inclusiva, ma anche più aperta a un ritorno da protagonista della manifattura. Perché tra gli obiettivi del Pgt messi in fila dall’assessore Maran c’è anche quello di «facilitare la rigenerazione del tessuto produttivo e il rinnovamento dell’economia urbana orientata ai giovani, grazie all’accorpamento delle attività economiche (produttivo, direzionale, ricettivo, servizi privati), al riconoscimento dell’innovazione come servizio, allo sviluppo della nuova logistica».

normative che tutelano e consentono di ricreare degli ambienti produttivi, ovviamente meno inquinanti delle vecchie soluzioni industriali, e quindi compatibili e coerenti non solo con questa nuova manifattura, ma anche con un pezzo di manifattura a redditività non particolarmente alta, che magari è stata delocalizzata nel corso del tempo». Nel recupero delle aree dismesse, c’è quindi spazio anche per il mantenimento di destinazioni produttive: «Stiamo assistendo a un’accelerazione di interventi edilizi nella nostra città, in controtendenza con il resto del Paese - rimarca l’assessore milanese probabilmente questo fenomeno non basta, da solo, per riconvertire o per gestire il fatto che purtroppo invece nel resto del Nord questa inversione di tendenza non sia ancora così rilevante. Però può essere, ed è già un modo, per consentire di “tirar su” una serie di piccole aziende che su Milano hanno fortunatamente tante commesse».

A ottobre il via libera al nuovo Pgt. In arrivo scelte strategiche come quelle dei “poli del lavoro”, come l’ambito Bovisa-Goccia, in cui gli spazi del lavoro saranno integrati con gli istituti di ricerca e il campus universitario

Tra i capisaldi del nuovo Pgt, su questo fronte, si trovano principi come quello dell’indifferenza funzionale e dell’integrazione delle funzioni, per facilitare il mix funzionale e semplificare, e favorire, i cambi di destinazione d’uso, oppure scelte strategiche come quelle dei “poli del lavoro”, come l’ambito Bovisa-Goccia, in cui gli spazi del lavoro saranno fortemente integrati con gli istituti di ricerca e il campus universitario, o l’ambito Stephenson, spazio di mix tra funzioni produttive, economiche e commerciali in prossimità della nuova fermata della “Circle Line”. O ancora l’inserimento nel “Catalogo dei Servizi” di nuove tipologie di luoghi e forme di produzione innovativa (come i fab-lab) e le imprese sociali, per parificare l’innovazione ad un servizio pubblico. 28 | imprese e territorio

Non c’è dunque solo terziario, commerciale e residenziale nella “nuova” Milano che guarda al 2030: «Questo sviluppo terziario - riconosce Maran - si porta dietro anche l’elemento manifatturiero. Se è un fatto che ad oggi la crescita è più legata alla cosiddetta economia della conoscenza, c’è però da dire che chi si occupa di economia della conoscenza di solito è molto


inchieste

MODELLI DA IMITARE: MILANO PIERFRANCESCO MARAN ASSESSORE ALL’URBANISTICA, AL VERDE E ALL’AGRICOLTURA DEL COMUNE DI MILANO

poco pratico di come si sostituisce una finestra, ed è più propenso però a sostituirla, e anche questo credo che in fin dei conti sia d’aiuto». Tra le potenziali connessioni sinergiche tra lo sviluppo di Milano e quello della provincia di Varese gioca un ruolo fondamentale l’aeroporto di Malpensa, che sorge sul nostro territorio ma è gestito da una società (Sea) di cui il Comune di Milano è azionista di maggioranza. Il dualismo con Linate fa parte del passato: «Tutto il sistema aeroportuale negli ultimi cinque anni è stato in crescita, con dati non dissimili che arrivano da Orio al Serio e Linate, tanto che proprio ora è stato finanziato il primo intervento di ripensamento generale dell’aeroporto di Linate, non certo fatto né per uno stress test sulla crescita di Malpensa né per tenere un maxi-concerto di Jovanotti, ma perché avevamo bisogno che anche Linate si consolidasse. Ha il suo “zoccolo” di dieci milioni di passeggeri. Se dieci anni fa discutevamo di chiudere Linate e concentrare tutto il traffico su Malpensa, oggi solo un pazzo lo direbbe». Ma per Malpensa, dopo l’anno del record di passeggeri e il Bridge, l’assessore Maran immagina una crescita intelligente: «È la fabbrica logistica del Nord e credo che il Masterplan debba ascoltare le istanze del territorio. Ragionando in modo più ampio sulla chiave logistica di questo Paese. Ad esempio, non si può non decidere di investire sull’alta capacità e l’alta velocità ferroviaria».

Parla l’assessore Pierfrancesco Maran: «Se è un fatto che ad oggi la crescita è più legata alla economia della conoscenza, c’è però da dire che chi si occupa di economia della conoscenza di solito è molto poco pratico di come si sostituisce una finestra, ma è anche più propenso a sostituirla»

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inchieste

IDENTITÀ DI QUARTIERE

La città torni una RETE di socialità

L’urban designer Joseph Di Pasquale – docente del Politecnico e autore del Guangzhou Circle Mansion di Guangzhou, in Cina – rilegge il concetto di “periferie”: «Lo zoning, cioè la tendenza a separare secondo funzioni le diverse aree della città, ha generato “non luoghi”» LIDIA ROMEO

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inchieste

città a misura di pmi

Non più periferie ma quartieri, non più distretti funzionali ma identitari: la strategia che blocca il consumo di suolo diventa occasione per rilanciare una socialità vera tra le persone e con essa quell’economia di prossimità, fatta di reti di piccole e medie imprese, che sta nel Dna del nostro territorio, così come nelle dinamiche del web. Questa lettura della realtà è anche l’auspicio dell’urban designer Joseph Di Pasquale di fronte al cambio di passo suggerito dalla proposta di legge sulla riduzione del consumo di suolo già approvata dalla giunta e ora al vaglio del consiglio regionale. Docente al Politecnico di Milano e grande esperto della Cina dove ha realizzato il famoso Guangzhou Circle Mansion, Di Pasquale dedica parte del suo lavoro alla lettura delle città, criticandone ampiamente lo sviluppo razionalista. Perché il consumo di suolo non è solo un problema di carattere ambientale? Le città umane si sono evolute per quattromila anni in maniera assolutamente naturale. Poi il pensiero illuminista applicato all’architettura, in un periodo storico di grande difficoltà di coabitazione tra produzione e residenzialità, ha portato al razionalismo urbano e allo zoning, cioè alla tendenza a separare secondo funzioni le diverse aree della città separando aree produttive e aree residenziali, da cui deriva un consumo di suolo che non genera città ma una serie di non-luoghi e, con essi, di non-persone.

l’economia di prossimità destinata a rifiorire nel prossimo futuro grazie al nuovo cambio di passo nello sviluppo urbano. Come cambia una città che sceglie di riqualificare piuttosto che costruire ex novo? Perché il cambiamento sia significativo non è sufficiente fermare il consumo di suolo. Bisogna ridare libertà allo sviluppo urbano e lasciare che le aree dismesse siano riconvertite per rispondere alle esigenze di chi vi abita attorno. Un approccio che si sta sperimentando con successo a Milano da qualche anno e che permette alla città di non essere centrica, ma policentrica, con le periferie che tornano ad essere quartieri dotati di identità, in una rete di centralità diffuse, tutte collegate tra loro, come insegna il modello digitale.

Serve un cambio di rotta, che si reidentifichi con il tessuto di piccole e medie imprese: «Bisogna cambiare linguaggio, smettere di parlare di periferie ma prendere in considerazione i quartieri come tanti centri di un’unica città a rete»

Il dilagare del tessuto urbano è quindi responsabile anche di problemi sociali ed economici? Certamente sì. L’antitesi tra centro e periferia si è sostituita a quella tra nuclei urbani e campagna, costringendo le persone a passare buona parte della loro giornata in auto, per spostarsi dal luogo di residenza distante parecchi chilometri da quello di lavoro, mentre i servizi sono concentrati in altre zone ancora. La razionalizzazione urbana per funzionalità di Le Corbusier è stato un esperimento genetico andato male. Di fatto questo modello di città ha polverizzato le relazioni non solo sociali ma anche economiche. Mi riferisco ad esempio al dilagare di grandi centri commerciali che hanno messo in seria difficoltà

Come influisce questa dinamica sul tessuto economico? Per le nostre città si tratta in un certo senso di tornare alle origini di realtà con molti centri diffusi sul territorio e collegati tra loro, dove sia possibile abitare e lavorare e fruire di tutti quei servizi anche commerciali di cui ciascuno ha bisogno quotidianamente. In realtà il tessuto economico lombardo, fortemente caratterizzato e trainato dalla piccola e media impresa, è particolarmente funzionale a questo modello di sviluppo urbano che riproduce lo stesso schema razionale del digitale. Una rete di realtà economiche fortemente connesse tra di loro e integrate nel tessuto sociale e possibilmente anche urbano del territorio. Anche portando la città in campagna, o la campagna in città, se necessario. Quali sono i passi da compiere perché questo cambiamento urbano e quindi economico e sociale si verifichi? I piani di governo del territorio delle città e le leggi cui fanno riferimento devono essere meno rigidi e lasciare che si generino dei flussi naturali e identitari per la destinazione d’uso degli spazi. Bisogna anche cambiare linguaggio, smettere di parlare di periferie ma prendere in considerazione i quartieri come tanti centri di un’unica città a rete. imprese e territorio | 31


approfondimenti

NON metteteci

I BASTONI TRA LE ALI No a concorrenza sleale o a “decreti Linate”

Con Andrea Giuricin, docente di economia dei trasporti in Bicocca e consulente senior della Banca Mondiale in tema trasporti, parliamo del futuro dello scalo con l’ombra di Alitalia che incombe

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approfondimenti

Tra crescita inarrestabile, “Bridge” di Linate e nuova Alitalia, quale futuro per Malpensa? «Il mercato l’ha fatta ripartire, grazie agli investimenti delle compagnie che ci hanno creduto: ora la politica romana non faccia concorrenza sleale per favorire Alitalia» il monito, che è anche un implicito invito a fare pressione “politicamente” su questo tema, è di Andrea Giuricin, professore associato di economia dei trasporti all’università di Milano Bicocca e consulente senior della Banca Mondiale per il tema dei trasporti, da sempre molto critico sulla piega presa dal salvataggio “pubblico” dell’ex compagnia di bandiera. Vediamo quali conseguenze potrà comportare per il nostro scalo di casa. Se il 2018, nel ventennale della “grande Malpensa”, è stato l’anno della definitiva rinascita, con la ripresa della crescita interrotta dieci anni prima dallo scellerato dehubbing di Alitalia e il nuovo record di passeggeri a quota 24,7 milioni, il 2019 per lo scalo Sea in provincia di Varese potrebbe rappresentare un “turning point” ancora più decisivo nella sua storia. Perché se da un lato il “Bridge” di Linate, con lo spostamento per tre mesi (fino al 26 ottobre) di tutto il traffico del city aiport milanese in ristrutturazione, rappresenta una sorta di prova generale per sostenere quelle che l’amministratore delegato di Sea Armando Brunini definisce «grandi ambizioni di crescita futura» per Malpensa, dall’altro incombe la vicenda Alitalia, con l’atteso “closing” dell’operazione di salvataggio ad opera della cordata capitanata da Ferrovie dello Stato, in cui sono stati coinvolti anche il Mef, Delta Airlines e Atlantia, che dovrebbe arrivare in autunno. «Non credo che, anche cambiando il piano presentato da Fs-Delta come richiesto dall’ad di Atlantia Giovanni Castellucci, possa cambiare granché per gli scali milanesi - fa notare Andrea Giuricin - Da parte dei nuovi soci Alitalia continuerà ad esserci interesse su Linate, dove da quel che si capisce non hanno intenzione di perdere l’attuale posizione dominante (il vettore tricolore “copre” almeno il 60% dell’operatività del city airport, ndr), mentre Malpensa continuerà ad essere uno scalo residuale, del resto Alitalia lo ha praticamente abbandonato da oltre un decennio». Insomma, il principale aeroporto del Nord e l’ex compagnia di bandiera perdureranno nell’indifferenza reciproca, eppure un possibile effetto-Alitalia genera più di un timore in brughiera. Giuricin non lo nega: «Per un ritorno di Alitalia su Malpensa non

IL futuro di MALPENSA

ci sono spazi, anche perché il piano di salvataggio parte con molti pochi soldi, non più di 7-800 milioni di euro cash, con cui nel trasporto aereo attuale non si fa nulla. Ma c’è il rischio che con altri provvedimenti, come la legge delega sul trasporto aereo o le tariffe aeroportuali, si sfavoriscano le altre compagnie per favorire Alitalia». Una riedizione dei tanto vituperati “decreti Linate”, che in passato sacrificavano gli interessi generali del mercato alla necessità di proteggere gli interessi di Alitalia, privilegiando Linate a scapito di Malpensa. «Mantenere in vita Alitalia con iniezioni di soldi pubblici crea concorrenza sleale nei confronti degli operatori che provano a vivere con le proprie forze sugli altri aeroporti e in generale nel mercato aereo italiano - spiega l’esperto dell’università di Milano Bicocca - Di fatto, i diversi governi, favorendo Alitalia, sfavoriscono le altre compagnie. Vedremo se l’Unione Europea definirà aiuto di Stato il prestito ponte da 900 milioni di euro che tiene in piedi Alitalia, ma a Roma si sente spesso ripetere il falso mito che tutte le compagnie aeree vanno male, per giustificare il sostegno pubblico ad Alitalia. Anche da esponenti politici che rappresentano i territori del Nord, dove Alitalia ha solo Linate, che si manterrebbe in vita da solo anche senza il vettore targato AZ, mentre i suoi competitor hanno investito molto, come easyJet e Air Italy su Malpensa o Ryanair su Bergamo e Malpensa». Sembra che ancora una volta prevarrà quella che Giuricin ribattezza «la strategia del calcio alla lattina: si tira in avanti il problema, con una compagnia che continuerà a perdere, ma tra due-tre anni saremo punto e a capo. Era meglio la soluzione Lufthansa, che avrebbe rilevato Alitalia non per difendere delle posizioni ma per un reale business». Malpensa finora ha dimostrato di essere più forte della miopia della politica, ma ci sono voluti dieci anni per rimpiazzare l’abbandono dell’ex compagnia di bandiera e di Air Italy, che l’ha scelta come proprio hub, «preoccupano i conti» in rosso. Sarebbe anche ora che ci fosse qualcuno che si prendesse l’impegno di far volare definitivamente lo scalo Sea, senza più bastoni tra le ali.

A. Ali. imprese e territorio | 33


approfondimenti

IL

Riflessione con l’economista Anton Hemerijck, tra i massimi esperti europei di welfare, sul futuro del Paese e le sue scelte, anche da parte dei privati. «Investire sulle nuove generazioni costa ma va colta l’importanza in prospettiva»

CAPITALE UMANO PENSIONI salverà l’Italia e le nostre

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approfondimenti

IL LAVORO CHE CAMBIA/1

ANTON HEMERIJCK ECONOMISTA OLANDESE

«Il capitale umano ci salverà. Ma bisogna investire». Così Anton Hemerijck, economista olandese, tra i massimi esperti in Europa di welfare, professore di scienza politica e sociologia allo European University Institute di Fiesole, suggerisce di investire sulla formazione delle nuove generazioni. «Investimenti che l’Unione Europea dovrebbe considerare un’eccezione al Patto di Stabilità e di Crescita». Nei giorni in cui lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella invoca una revisione di uno dei pilastri dell’edificio comune di Bruxelles, il professor Hemerijck rilancia la sua proposta per mettere al sicuro il futuro del nostro Paese. Il suo ragionamento parte da una considerazione teorica: «Ogni tipo di welfare state nel XXI secolo, più che mai prima d’ora, deve svolgere tre funzioni - la lezione del docente olandese La prima è facilitare il flusso delle transizioni del mercato del lavoro, considerando che le donne lavorano e che i giovani vogliono avere dei figli, quindi occorre facilitare il flusso dalla vita alla cura, organizzandolo in modo più efficace; la seconda è la funzione tradizionale di “buffer”, di tampone, che è fondamentalmente protezione sociale, ma che oggi deve essere molto più inclusiva, visto che ad esempio in Italia finisce largamente in spesa previdenziale mentre in Paesi come Olanda o Danimarca è rivolta a sostenere più le persone che sono fuori dal mercato del lavoro, i cosiddetti “outsider”, che non quelle che un lavoro ce l’hanno, gli “insiders”. La terza e ultima funzione, quella su cui le eccezioni al patto di stabilità possono essere importanti, riguarda la manutenzione dello stock di capitale umano, ora più che mai necessaria, perché siamo società della conoscenza e siamo società che invecchiano. Le società della conoscenza richiedono personale con buone qualifiche e competenze, mentre le società che invecchiano richiedono una buona produttività per poter pagare le pensioni ora e in avanti». In questo quadro cosa possono fare oggi gli Stati? «La funzione di buffer è qualcosa di cui i sistemi nazionali di welfare sono molto gelosi, ciascuno ci tiene ad avere il proprio sistema di protezione sociale e di salario minimo. In Italia ad esempio la riforma Fornero si è concentrata sulla parte strutturale del sistema: l’Unione Europea può dare indicazioni ma tocca ai singoli Stati decidere come organizzare questa funzione. La funzione di flusso, se guardiamo agli esempi oltre confine, come in Germania, non è così costosa, mentre è quella di stock la più costosa,

perché presuppone di investire nelle generazioni future e attendere 10 o 20 anni per vedere i ritorni di questi investimenti. È su questo fronte che la Ue può aiutare molto». Togliendo queste spese dal calcolo del deficit? «È un tema che sta bloccando il dibattito politico europeo, perché dopo la crisi economica ogni Stato ha deciso di tagliare laddove era possibile, e spesso si è sacrificato l’investimento sul capitale umano più che la spesa “tampone” del welfare, politicamente più sensibile. Così ci troviamo in una situazione in cui il flusso non viene implementato, il buffer è bloccato e non ci sono nuovi investimenti nel capitale umano. Che è quello che serve ad una grande economia europea. Siamo al paradosso che un Paese come la Germania, che accoglie nel suo mercato del lavoro tanti giovani italiani su cui l’Italia ha investito in formazione, sta beneficiando di questo investimento fatto dall’Italia ma allo stesso tempo sta imponendo all’Italia di non investire in capitale umano, il che è negativo per l’Italia ma in fondo anche per la Germania stessa». In concreto, che tipo di azioni si potrebbero compiere in termini di investimenti sociali? «Dagli asili nido per i bambini alla formazione per la riqualificazione professionale, ad un lifelong learning più inclusivo dell’attuale, che si rivolge solo a profili stabili e con occupazioni di alto livello. E finché i tassi di interesse resteranno bassi, come si prevede per il prossimo decennio, si può fare molto». Il welfare aziendale può essere una soluzione? «E’ un buon punto da cui partire. Coinvolgere società civile, fondazioni e privati è importante, perché non è qualcosa che possa essere sviluppato solo a un livello statale. Una delle cose dignitose nel welfare italiano è la sanità, mentre secondo molte ricerche sul fronte della cura dei bambini e delle politiche attive del lavoro le performance dell’Italia sono meno soddisfacenti. In mancanza di uno Stato dotato della capacità di mobilitare investimenti sociali nel welfare, le fondazioni e il terzo settore e i privati sono molto importanti, purché la loro opera sia inclusiva e vada al cuore del problema, che è la costruzione dell’infrastruttura sociale. È su quel fronte che occorre puntare l’enfasi degli investimenti». E, ancora: «Dato che il lavoro in Italia non potrà essere più economico che nell’Est Europa o nel Sud-Est Asiatico, la cosa migliore da fare è investire sulle nuove generazioni: è un messaggio politico molto più forte se si spiega che saranno loro in futuro a sostenere il peso della spesa previdenziale». A. Ali. imprese e territorio | 35


approfondimenti

La rivoluzione dopo il dramma.

GENOVA È SMART

Smart working, il modello Genova: «Il lavoro “agile” produce benessere e garantisce benefici concreti per le organizzazioni». L’esperienza del Comune sotto la Lanterna nelle parole di Arianna Viscogliosi, assessore al personale e alle pari opportunità della giunta del sindaco Marco Bucci, capofila di una rete pubblico-privata per lo sviluppo delle forme di lavoro “smart” che rappresenta un benchmark di riferimento a livello nazionale. La tragedia del crollo del Ponte Morandi, che ha causato notevoli disagi alla mobilità cittadina, ha accelerato la concretizzazione di iniziative già avviate. La rete Genova Smart Working, infatti, è nata quando il Comune del capoluogo ligure, insieme ad altre pubbliche amministrazioni locali (Città Metropolitana, Asl, Camera di Commercio, Università, A.Li. Sa Liguria), si è candidato a partecipare al progetto “Lavoro agile per il futuro della Pa”, promosso dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

na Viscogliosi - è partito un lavoro di connessioni tecniche che ha richiamato l’attenzione di molte imprese innovative in città che spontaneamente si sono candidate a partecipare. La Rete cittadina nel 2018, anche a seguito del crollo del ponte Morandi, si è ampliata con l’adesione di altri Enti e aziende, arrivando alla sottoscrizione di un protocollo tra tutti i soggetti, con finalità condivise per lo sviluppo dello smart working e di benessere organizzativo nel territorio di Genova». Oggi la Rete include altri soggetti pubblici e privati, come Regione Liguria, IIT, Abb, Rina, Esaote, Costa Crociere, Siemens, Tim, Leonardo, Ospedali Galliera, Iren. Ma si prospetta la possibilità di allargarla anche alle Pmi: «Stiamo coinvolgendo le varie associazioni di categoria - rivela l’assessore - il percorso potrà essere articolato ma certamente affrontabile». I numeri del “lavoro agile” sono già importanti: più di 500 dipendenti del Comune di Genova, circa il 10% dell’organico, possono operare da casa per quattro giorni al mese, ma altri progetti sono già in fase di sperimentazione nelle aree più penalizzate dagli effetti del crollo del ponte Morandi e per consentire ai “red workers”, che in caso di allerte meteo o calamità dovrebbero

Il Comune della Lanterna ha puntato sul lavoro “agile” e oggi è un benchmark di riferimento a livello nazionale per le aziende e le Pa. Tutto si è concretizzato dopo il crollo del Ponte Morandi

Il progetto coordinato dal Comune di Genova è risultato tra le 10 Pa beneficiarie, a livello nazionale, del supporto allo sviluppo di iniziative di smart working. «Da lì - rimarca l’assessore Arian36 | imprese e territorio


IL LAVORO CHE CAMBIA/2

approfondimenti

ARIANNA VISCOGLIOSI, ASSESSORE AL PERSONALE E ALLE PARI OPPORTUNITÀ DEL COMUNE DI GENOVA

astenersi dal lavoro, di svolgere regolarmente le loro attività con gli strumenti dello smart working. Assessore Viscogliosi, su quali tematiche specifiche si sta concentrando la Rete? Ha attivato Tavoli che lavorano concretamente su coworking, mappatura di spazi di lavoro condivisi in città e nell’area metropolitana, mappatura dell’insediamento di smart working in città e localizzazione dei lavoratori in smart working, kit di formazione e learning per smartworkers ed eventi sulle risorse umane. Quali sono state le reazioni dei dipendenti e delle imprese pubbliche e private? I rapporti sono improntati alla massima collaborazione e scambio grazie anche ad un coordinamento del Comune con uno “stile” di relazione friendly, inclusivo e partecipativo. Avete riscontrato dei benefici concreti anche in termini di produttività e motivazioni del personale o in termini organizzativi? Assolutamente sì, dai questionari e dai focus realizzati dagli uffici i benefici riscontrati durante le giornate di lavoro “agile” riguardano innanzitutto un aumento del “benessere personale” del dipendente, dovuto al fatto di non doversi spostare per raggiungere la sede di lavoro e poter dedicare questo tempo pre-

valentemente al riposo e alla cura della famiglia. Lo smart working permette ai “lavoratori agili” di svolgere la loro attività con maggior concentrazione e autonomia organizzativa e con una diminuzione dell’errore, che può diventare più frequente con l’aumento dell’età media. E poi si lavora per obiettivi e risultati. Pensa che questo modello possa incidere anche nell’ordinarietà del lavoro quotidiano, al di là delle situazioni critiche? L’esperienza nasce prima della tragedia del Morandi, certamente il crollo del ponte ha causato un’accelerazione dei processi di facilitazione e di conciliazione. Il nostro intento è potenziare queste modalità organizzative che sono motore di innovazione e di cambiamento culturale organizzativo. Il modello della rete smart working andrebbe applicato per altre iniziative anche perché emerge che oggi è più facile e c’è maggiore disponibilità a comunicare tra pubblico e privato e in molti casi non è solo il pubblico che apprende dal privato ma anche viceversa. Non si può parlare di innovazione nella Pubblica Amministrazione se non si lavora innanzitutto sulle persone, quindi occorre riattivare sui dipendenti della Pa tutti quegli strumenti di sviluppo positivo ed agevolare lo scambio tra Pa, settore privato e Università. Il privato e gli studenti devono giocare un ruolo attivo nella PA che deve diventare uno strumento in grado di far vibrare una città al pari di città come Londra, Amsterdam, ecc. imprese e territorio | 37


approfondimenti

Lavoro di SQUADRA a

MARILENA LUALDI

FILO D’ACQUA «Nel canottaggio non puoi smettere di remare, altrimenti tutta la barca si ferma. Non ti puoi nascondere, nel bene e nel male, ma sei costretto a chiedere aiuto». Dal metodo alla metafora: così si impara a lavorare meglio uniti Ne parliamo con il campione mondiale di canottaggio Edoardo Verzotti

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Si chiama team building: sviluppare (o migliorare) uno spirito di squadra in un’azienda conduce facilmente a ispirarsi allo sport. A partire dalle discipline che di questi tempi mostrano più saldamente questo valore, con tutti i sacrifici che porta. Dal rugby alla pallavolo, si vedono esperienze nelle aziende, e spesso anche nelle Academy per formare i nuovi dipendenti. Ma è meglio prevenire, che curare. E far capire alle persone che chiedere aiuto non è umiliante: piuttosto, è un gesto prezioso per far crescere sé stessi e la squadra tutta. Parola di RowinTeam, che si è specializzata in queste operazioni attraverso il canottaggio e a cui abbiamo chiesto dei suggerimenti. Perché lavorare in squadra è il cuore dell’azienda. Lo dimostra anche la nascita della figura (in America ma poi in Europa a partire dalla Danimarca) del Cho, ovvero il manager della felicità. Il benessere dei dipendenti non può prescindere dal rapporto con i colleghi. A volte succede non esattamente il contrario, ma che le due strade si incontrino. Proprio come nel caso di RowinTeam, fondata da due campioni mondiali di canottaggio: Edoardo Verzotti e Livio La Padula. Remare insieme, è una realtà e una metafora che calza a pennello in un’impresa. Ma è anche e soprattutto un metodo che i due atleti, ora imprenditori hanno diffuso tra aziende e associazioni: mettendo in acqua le persone che lavorano insieme. Sono partiti da Como ma stanno organizzando in altre zone, anche in questo territorio contando sulla disponibilità dei Canot-


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tieri, da Varese a Luino, da Gavirate a Corgeno. Proprio sul lago di Varese, Verzotti ha anche realizzato quest’anno con “La Casa di Chiara onlus” un evento in memoria della piccola: sulla barca i familiari, i medici dell’ospedale Del Ponte, le persone chiave nella storia della sua breve ma preziosa vita, facendo volare insieme un aquilone a forma di farfalla. Ma il team building – rafforzare dunque lo spirito di squadra – è necessità solo per le grandi aziende? Nelle piccole insomma, fare squadra è già nel Dna quindi è un processo inutile? Chiediamo ai campioni qualche consiglio per le nostre imprese. «No – spiega Edoardo Verzotti – E si può sempre migliorare. A volte quello che manca è la consapevolezza di essere un grande gruppo, bisogna allora mettere i puntini sulle i». Risvegliare questa coscienza è un primo passo. Ma chiediamo quale sia la prima minaccia a un team affiatato, secondo l’esperienza di RowinTeam: «Nelle aziende – risponde - il problema più grande è la mala comunicazione. Il che significa prima di tutto non saper ascoltare. La conseguenza di questo atteggiamento è comunicare male e non capire i problemi degli altri». Portare titolare e lavoratori o una sezione dell’azienda nella stessa barca manda dunque una serie di messaggi: «Nel canottaggio non puoi smettere di remare, altrimenti tutta la barca si ferma. Non ti puoi nascondere, nel bene e nel male. Sei costretto a chiedere aiuto». Dal metodo alla metafora per lavorare meglio uniti, insomma. Bisogna fermarsi per capire il problema,

Coach d’azienda

fare di tutto per migliorarsi e un altro dato interessante è che occorre tarare il livello del gruppo sul più debole. Quando appunto scatta la richiesta di aiuto, questa è una prima tappa per risolvere le problematiche. «Nel mondo del lavoro, al contrario dello sport dove l’obiettivo è vincere, si ha quasi vergogna delle conseguenze del chiedere aiuto – fa notare il campione - Quasi si temono le conseguenze, si ha paura di mostrarsi vulnerabili e inadeguati mentre è tutto l’opposto. Così si migliora la catena produttiva». In un’azienda infatti si può fare una piacevole scoperta – e in questo senso simili esperienze con lo sport spingono a visualizzare meglio il concetto – ovvero che realmente i colleghi sono pronti a raccogliere un Sos. Questo è importante per alimentare lo spirito di squadra: «Se sei in difficoltà ma fai tutto il possibile per migliorarti – assicura Verzotti – è più facile che le persone siano disponibili ad aiutarti. Non bisogna crearsi gli alibi, ripeto, gli altri sono disposti ad aiutarti se tu lo vuoi». C’è un campanello d’allarme per cui è meglio intervenire e riformare uno spirito sfilacciato di squadra? RowinTeam è convinta di un fattore: «Bisogna creare un ambiente che preceda il problema. Ad esempio, fare attività di gruppo extralavorativa già mostra un’apertura mentale. Aiuta a creare un clima che sia sereno e pulito, non tossico». Che sia un impegno sportivo oppure sociale, o a favore dell’ambiente, ciò che conta è farlo insieme. imprese e territorio | 39


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BIONDA 4.0 La birra CAMBIA e diventa “eco�e digitale

Fondamentali la specializzazione e la formazione, ma anche la tradizione, che sul territorio inizia da Poretti e aggancia modelli artigianali come 50&50 e Orso Verde 40 | imprese e territorio


approfondimenti

Lavoro a tutta birra. Ogni giorno sei persone trovano un posto nei birrifici: tradotto in altra cifra, in due anni gli occupati sono cresciuti di 4.400 unità, un incremento del 5%. Il doppio del trend generale in Italia. Un’evoluzione in quantità, ma che si lega alla qualità, anche delle diverse professionalità che emergono in questo settore. E se l’industria corre, le realtà artigianali si stanno moltiplicando. Un ritratto che emerge dallo studio “Le (insospettabili) professioni della birra” da Althesys per conto della Fondazione Birra Moretti. Quest’ultima è stata costituita nel 2015 da Heineken Italia e Partesa per dare un contributo nel rafforzamento della cultura della birra in Italia. Sono stati intervistati per la ricerca quasi settemila dipendenti di aziende lungo tutta la catena del valore: produttori operatori della fornitura di materie prime e di packaging, della logistica, della distribuzione all’ingrosso e al dettaglio e del mercato della ristorazione e bar.

Mestieri da conoscere

ro superiore di persone (il 42%) determinante per le tendenze del futuro, più ancora di nuovi gusti e innovazione digitale. Cruciale in questo percorso così dinamico è reputata la formazione. Non a caso, è nata l’Università della Birra a Milano, voluta da Heineken Italia, con approfondimento teorico e pratico. E nel nostro territorio? Varese ha una storia con profonde radici nel settore, il primo riferimento è il Birrificio Angelo Poretti, fondato alla fine dell’Ottocento. Non a caso, ha avuto una vetrina speciale a Expo2015. Ma anche i birrifici artigianali hanno molto da dire. E confermano come una passione possa diventare mestiere della vita: un esempio è “50&50”, fondato da Alberto Cataldo ed Elia Pina. Prima tenendo anche il lavoro originario, ora è full immersion. “Effimera” è il nome di una delle loro birre (accan-

Sei persone al giorno trovano posto in un birrificio: + 5% in due anni, il doppio del trend nazionale. E aumentano le specializzazioni green e tecnologiche

Sempre a livello quantitativo, si impone all’attenzione un dato: il 50% delle persone è assunto da più di dieci anni. E un altro 33% è in azienda da almeno cinque anni, quindi si registra una certa stabilità. Dei 3,49 miliardi di euro di valore aggiunto creato dal comparto, il 71% (2,47 miliardi di euro) viene destinato alla remunerazione lorda dei lavoratori. I requisiti più richiesti? Qualità manageriali (11%) – e da imprenditore (8%) – e di formazione del personale (14%). Questo si spiega anche perché si tratta di un settore spesso giovane e dinamico, tra nuove imprese e anche nuove interpretazioni di questo mondo. Molto gettonate infatti specializzazione (9%) e learning agility (8%).

to a Mr. Crocodile o Catasù), ma non la loro determinazione. «La fatica c’è tutta per una piccola impresa – spiega Alberto Cataldo ma c’è anche tanta crescita di interesse. Bisogna spiegare sempre meglio il prodotto e la gente dev’essere predisposta ad ascoltare. Anche il lavoro che c’è dietro. A Varese abbiamo un retaggio importante con Poretti. Proporsi come birra artigianale dovrebbe fare la differenza».

Che cosa servirebbe a una piccola realtà? «Riuscire a ottenere reali agevolazioni – spiega Cataldo – ad esempio all’accesso al credito, e una semplificazione a livello burocratico. Intanto certo abbiamo l’orgoglio di essere arrivati all’indipendenza dopo cinque anni, guadagnandosi da vivere con la nostra produzione». Si ven-

Si richiedono tecnici, ma non solo. Questo è un settore che cambia, che si deve raccontare, che deve anche saper “smanettare” per crescere. Ecco i 15 profili messi a fuoco dalla ricerca: mastro birraio, tecnologo alimentare (della birra), ingegnere chimico alimentare, responsabile laboratorio e controllo qualità, responsabile sicurezza, coordinatore sostenibilità, automation specialist, digital innovation manager, commerce specialist, tecnico grafico, brand ambassador, beer specialist, spillatore, barman, sommelier della birra. Insomma, in questo “cocktail” si vedono anche le nuove direzioni. Quello della birra è un mondo anche 4.0 e con un occhio puntato sulla sostenibilità. Quest’ultima è ritenuta da un nume-

de nel territorio, a partire dal Gallaratese, ma anche in Lazio, Emilia Romagna e Piemonte. E quindici anni è il traguardo tagliato dall’Orso Verde, il birrificio di Busto Arsizio che però ha conquistato anche Varese e Milano. A settembre celebrazioni a raffica nella sede bustese di via Petrarca, ma anche nel locale varesino Tap-Room e in quello il milanese. Il segreto, già declamato da Cesare Gualdoni? «Facciamo birra che prima di tutto deve piacere a noi stessi, ci mettiamo passione, serietà, usando le migliori materie prime (orzo, frumento, luppolo, lievito) e nessun additivo o conservante».

Ma. Lu. imprese e territorio | 41


rUbriche

CONSIGLI PER L’USO

SOCIAL MEDIA TRAP NICOLA ANTONELLO

Fin dai tempi della celebre conferenza stampa su “Strunz” e i giocatori nullafacenti del Bayern Monaco, Giovanni Trapattoni è considerato uno dei più grandi comunicatori. Ora, per i suoi ottant’anni, si è regalato l’apertura del profilo Instagram ma, oltre all’ennesima prova di come i personaggi pubblici e chi si rivolge a un pubblico, come le aziende, non possa fare a meno di essere presente sui social, il social-Trap offre anche uno spunto anche su come scegliere chi deve seguire i propri profili: «Nel caso di Trapattoni – dice Andrea Boscaro, partner di The Vortex – il responsabile del suo account è il nipote. Ciò ci aiuta a capire come, specialmente nelle Pmi, possano esserci professionalità interne, anche avanzate, senza rivolgersi al costoso mercato esterno. Non è una questione di nepotismo ma, dal mio punto di vista, per qualsiasi nuovo progetto o obiettivo, prima di guardare al di fuori della propria realtà, è bene guardarsi attorno. Le risorse più interessanti, formate e consapevoli, possono essere a portata di mano».

clienti, essere più tempestivi e ampliare le informazioni in modo più incisivo rispetto alla cara vecchia newsletter. Ma chiaramente, si è maggiormente esposti e, quindi, si possono raggiungere anche degli utenti esterni alla cerchia sociale pensata e, inoltre, i contenuti restano nel tempo. L’attenzione deve essere massima perché si rischia di essere poco comprensibili, addirittura indisponenti, mettendo anche repentaglio la reputazione dell’azienda».

L’esempio di mister Trapattoni per usare bene i social anche in una Pmi: scegliere professionalità interne, fare attenzione alla policy ed evitare il rischio di diventare indisponenti. Perché, con la Rete, tutto resta

In generale, invece, Boscaro individua qualche altra regola da seguire per avere successo nella comunicazione ed evitare pesanti scivoloni nel terreno minato dei social: «Innanzitutto bisogna pianificare delle regole chiare. Per esempio, si deve definire chi può operare negli ambienti che comunicano verso l’esterno: chi ci mette le mani, chi edita, chi sceglie i contenuti e risponde ai commenti privati o pubblichi. Alla base serve un documento, il social media policy, in cui si chiariscono tutti i compiti. I social permettono di fidelizzare i

Sul fronte della comunicazione interna, secondo Boscaro «il digitale rappresenta un’opportunità anche in una piccola e media imprese, perché con 31 milioni di italiani online, ormai vi è un’altissima dimestichezza con gli strumenti digitali e gli smartphone». Le persone sono già abituate a utilizzarli e quindi ciò favorisce la collaborazione e l’ottimizzazione dei tempi all’interno della cerchia dei propri collaboratori. In tal senso, due strumenti facili da utilizzare in una Pmi, secondo il partner di The Vortex, sono «il Dropbox, vale a dire un luogo dove poter mettere a disposizione di tutto il team, i documenti o di lavoro che, così, si possono consultare anche fuori dall’azienda, dai clienti o in altri momenti. E poi Google Drive, con cui si possono sempre condividere dei file, ma si ha un vantaggio in più: oltre a un immediato accesso, consente anche di collaborarvi e di intervenirvi direttamente. Così si risparmia tempo, si aumenta trasparenza e si diventa più efficaci e rapidi».


Area accoglienza clienti nelle filiali di UBI Banca

UBI Banca, al servizio delle imprese Varese, con la sua provincia, è considerata da sempre un territorio particolarmente industrioso nel quale operosità e capacità manageriale rimangono indubbiamente elementi caratterizzanti e distintivi. Le PMI hanno un ruolo fondamentale per la crescita economica e sociale: in questi ultimi anni molte di loro hanno investito, molte altre hanno puntato ai mercati esteri, ma quel che continua a pesare è una criticità che riguarda l’aspetto dimensionale. Crescita nella dimensione aziendale e digitalizzazione rimangono pertanto i filoni che i nostri imprenditori devono necessariamente perseguire per poter cavalcare la ripresa. In un contesto di sostanziale crescita del credito concesso, l’obiettivo di UBI Banca è quello di adeguare alle PMI servizi e strumenti dedicati sinora alle grandi realtà aziendali. Da una parte vogliamo essere preparati a cogliere le esigenze delle imprese con una capillare presenza sul territorio e conoscenza diretta delle persone. Per far ciò a fine 2017 la Banca ha ripensato il proprio modello distributivo per rispondere al meglio alle esigenze della propria clientela: le relazioni con le aziende sono concentrate su filiali specifiche in cui lavorano team specializzati per far fronte alla varietà e alla complessità delle richieste. Nella provincia di Varese sono 26 i team business dedicati ad aziende sino a 10 milioni di fatturato e 2 i Centri Imprese per le aziende più strutturate, con un complessivo di consulenti business pari a 115 unità, quotidianamente al servizio delle aziende per supportarle con strumenti finanziari tradizionali ed anche innovativi. Il tutto a conferma della volontà di UBI Banca di sostenere progetti virtuosi, andando quindi oltre il rifinanziamento del debi-

to e sostenendo l’ampliamento o il miglioramento del settore produttivo, l’apertura verso i mercati esteri, la digitalizzazione e gli investimenti connessi a Industria 4.0. La domanda di credito è oggi trainata soprattutto dall’innovazione tecnologica e dal rinnovamento dei macchinari a seguito anche delle agevolazioni fiscali previste dalle ultime leggi di stabilità. Settori come il manifatturiero, l’agroalimentare e meccanico hanno sicuramente importanti prospettive, ed in questi rileviamo spazi di assoluta necessità di rinnovamento. In questa direzione rientra l’accordo di collaborazione sottoscritto con Confartigianato Imprese Varese nel dicembre 2017 che apre le porte del welfare aziendale alle PMI industriali e artigiane varesine e ai loro collaboratori. UBI Banca è il primo istituto bancario italiano a entrare nel settore del welfare aziendale, con una visione che nasce dal suo essere banca del territorio attenta ai bisogni delle proprie comunità. L’accordo consente di mettere a disposizione delle imprese associate e loro dipendenti la consulenza, l’assistenza e il supporto necessari all’attivazione di un piano di welfare aziendale e di soluzioni full outsourcing. Una partnership che ci permette di consolidare la nostra visione di welfare aziendale come ecosistema di persone, imprese e territorio, nello specifico contribuendo all’innovazione e alla crescita nelle PMI artigiane di un territorio, quello varesino, a forte vocazione imprenditoriale e caratterizzato da una capillare presenza del nostro Istituto. La presenza UBI Banca in territorio varesino conta due Direzioni Territoriali, 73 filiali, 13 minisportelli e 2 Centri imprese, al servizio di circa 300.000 Clienti.

Nella foto: Luca Gotti - Responsabile Macroarea Territoriale Bergamo e Lombardia Ovest UBI Banca


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