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Marco Leo
Marco Leo
I libretti di Salvadore Cammarano per Mercadante: alla ricerca della forma (e della riforma)
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È risaputo, e riconosciuto dalla critica coeva e successiva, nonché dichiarato dallo stesso compositore, che Saverio Mercadante, a cavallo degli anni Trenta e Quaranta dellʼOttocento, abbia pensato, provato a realizzare e, in seguito, in un certo senso, accantonato, un progetto di riforma del melodramma italiano che perseguiva una maggiore aderenza della struttura musicale alla drammaturgia del testo.1 In una lettera a Francesco Florimo, spesso citata come manifesto della riforma, Mercadante, a proposito di Elena da Feltre, afferma:
Ho continuata la rivoluzione principiata nel Giuramento: variate le forme – Bando alle Gabalette triviali, esilio aʼ crescendo. Tessitura corta: meno repliche – Qualche novità nelle cadenze – Curata la parte drammatica: lʼorchestra ricca, senza coprire il canto – Tolti i lunghi assoli neʼ pezii concertati, che obbligavano le altre parti ad essere fredde, a danno dellʼazione – Poca gran cassa, e pochissima banda –.2
E Santo Palermo, nel ritratto biografico che precede la pubblicazione dellʼepistolario mercadantiano, non manca di riferire come lʼoriginalità delle opere
1 Evidenza di questa lettura critica si ha anche da una fonte enciclopedica quale il Dizionario biografico degli italiani (cfr. voce Saverio Mercadante, a cura di Carlida Steffan, online <https:// www.treccani.it/enciclopedia/saverio-mercadante_%28Dizionario-Biografico%29/>, ultima consultazione 21 settembre 2021). Essa ricorre in tutti i ritratti biografici del compositore stesi negli ultimi decenni che si è avuto modo di consultare, ed è oggetto di specifici studi specialistici. Il presente contributo, concepito e steso in tempo di pandemia, non si è potuto avvalere di una consultazione sistematica delle fonti bibliografiche, ma si è dovuto principalmente fondare su fonti reperibili online o già a mani dellʼautore, e sugli studi svolti in occasione della tesi di dottorato mArCo leo, I libretti di Salvadore Cammarano, Università degli
Studi di Torino, 2013. 2 Lettera di Saverio Mercadante a Francesco Florimo del 1° [gennaio] 1838, cit. in SANTo pAlermo, Saverio Mercadante. Biografia. Epistolario, Fasano, Schena, 1985, p. 179.
di quegli anni sia stata rilevata tanto dalle cronache delle prime rappresentazioni, quanto dai critici che assistettero alle rare riprese novecentesche.3 I prodromi di questa riforma si possono ravvisare in diverse partiture del compositore, già nella prima metà degli anni ʼ30, ma il suo fulcro, stando alle stesse parole di Mercadante, va fatto coincidere con la porzione di catalogo che si apre con Il giuramento (1837), e comprende Le due illustri rivali (1838), Elena da Feltre (1838), Il bravo (1839), La vestale (1840). Mentre, nei successivi titoli composti per la piazza napoletana, lʼevidenza di questi progetti di riforma si attenuò, a favore di una maggiore aderenza alle convenzioni formali del melodramma coevo che potrebbe sembrare una sorta di involuzione stilistica. Non è questa la sede per definire e approfondire le caratteristiche della riforma di Mercadante;4 mi limiterò a rammentare uno dei suoi tratti essenziali, che è bene tener presente nel prosieguo della lettura. Pur non rinnegando la concezione del melodramma come successione di numeri musicali, il compositore si allontanò da quella che era la loro struttura formale di prassi nellʼopera italiana del suo tempo, oggi conosciuta come ʼsolita formaʼ.5 Questa, secondo una convenzione che si era affermata nel tardo periodo rossiniano e predominò nei decenni del melodramma romantico italiano, prevedeva che il singolo numero musicale si articolasse in una scena (talvolta definita, con vocabolo ormai anacronistico, «recitativo»), un eventuale tempo dʼattacco, un cantabile, un tempo di mezzo e una cabaletta (ripetuta con variazioni), posti pressoché invariabilmente in questʼordine. Mercadante, nelle opere della propria riforma, con frequenza omise alcune parti della ʼsolita formaʼ o ne alterò la successione, nellʼintento di plasmare il piú possibile lʼintonazione musicale sulla dimensione psicologica dei personaggi.
La collaborazione tra Mercadante e Cammarano
In occasione di Elena da Feltre, cioè dellʼopera comunemente riconosciuta come emblema della riforma di Mercadante, iniziò la collaborazione tra il musicista di Altamura e Salvadore Cammarano (1801-1852). Il sodalizio con il poeta napoletano – che usciva da un triennio di cooperazione quasi esclusiva con Donizetti, durante il quale erano nate sette opere – avrebbe accompagnato entrambi gli artisti sino
3 Ivi, pp. 31ss. 4 Tra gli studi che hanno affrontato lʼargomento, si ricorda kAreN m. BryAN, An Experiment in
Form. The Reform Operas of Saverio Mercadante (1795-1870), Ann Arbor, umI, 1994. Diversi contributi che trattano, piú o meno direttamente, il tema della riforma mercadantiana si trovano in Saggi su Saverio Mercadante, a cura di Gian-Luca Petrucci e Giacinto Moramarco, Cassano delle Murge, Messaggi, 1992. 5 Questa felice locuzione, coniata piú o meno casualmente da Abramo Basevi scrivendo dei duetti verdiani nel 1859, è tornata in auge negli ultimi decenni a seguito di uno studio di Harold
S. Powers, ed è oggi abitualmente usata non solo dagli studiosi, ma anche dai melomani. Cfr.
ABrAmo BASeVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, Tofani, 1859; HArold S. poWerS,
“La solita forma” and “The Uses of Convention”, «Acta Musicologica» lIX, 1987, pp. 65-90.
alla morte, dando vita a otto titoli: alle già citate Elena da Feltre e La vestale seguirono Il proscritto (1842), Il reggente (1843), Il vascello De Gama (1845), Orazi e Curiazi (1846), Medea (1851), Virginia (1850, ma rappresentata solo nel 1866 per ragioni di censura). E, anche negli ultimi mesi di vita, il compositore lavorava su un vecchio libretto di Cammarano, del quale riuscí a terminare solo poche scene (Lʼorfana di Brono). Durante gli anni della loro collaborazione, Mercadante fu il compositore per cui Cammarano scrisse piú versi, e Cammarano fu il librettista alla cui mano Mercadante affidò la stesura della maggior parte dei propri melodrammi.
Come implicitamente riconobbe John Black quando scelse di intitolare la propria monografia su Cammarano The Italian Romantic Libretto, 6 il poeta napoletano può essere considerato lʼincarnazione per antonomasia del librettista romantico, per come seppe assimilare e sublimare con la massima raffinatezza stilistica quei tratti del genere letterario che erano richiesti dai compositori dʼopera e dal pubblico dei suoi anni: enfasi, immediatezza del sentimento, regolarità della metrica, musicalità del verso. Ne è testimonianza la stima che gli era riconosciuta dai musicisti coevi – Verdi in primis – e che gli è stata restituita negli ultimi decenni, a dispetto di alcuni fraintendimenti critici novecenteschi. Lʼinsieme dei libretti di Cammarano, stesi in un arco di tempo inferiore ai due decenni, si presenta al lettore come un corpus unitario, nel quale minute evoluzioni stilistiche si innestano sulla convinta adesione alle caratteristiche del melodramma romantico italiano, e in particolar modo alla sua suddivisione in numeri musicali articolati secondo la ʼsolita formaʼ.7 Si potrebbe affermare, con un paradosso solo apparente, che Cammarano seppe realizzare, con perfezione formale classica, il prototipo del libretto romantico italiano. Mercadante trovò certamente in lui un vero poeta in grado di fornirgli i versi torniti e limati e le equilibrate architetture strofiche che non era affatto scontato rinvenire presso altri librettisti di quegli anni. Ma come si conciliarono la poetica di un librettista cosí legato alla struttura formale, e i progetti di un musicista che proprio allora voleva superare le forme convenzionali? Quale evoluzione ebbe il loro sodalizio artistico? Senza alcuna pretesa di esaustività e senza svolgere una trattazione sistematica, proverò, attraverso alcuni esempi, a illustrare come la forma e la riforma si incontrarono, o scontrarono, nelle opere intonate da Mercadante su versi di Salvadore Cammarano.
6 JoHN BlACk, The Italian Romantic Libretto. A Study of Salvadore Cammarano, Edinburgh, The
University Press, 1984. 7 Benché la ʼsolita formaʼ sia definita nelle sue segmentazioni sulla base di caratteristiche musicali, la sua presenza è perfettamente percepibile nellʼarticolazione metrica del libretto, che i poeti strutturavano in funzione dellʼintonazione che sarebbe seguita, conoscendo le richieste, o le generiche attese, dei compositori e del pubblico. Questo non significa, come si vedrà, che lʼarticolazione formale pensata dal librettista coincidesse sempre con quella effettivamente realizzata dai compositori; ma, nella gran parte dei casi, la coincidenza si verificava.
Elena da Feltre
La collaborazione tra i due artisti, si diceva, iniziò nel cuore della riforma di Mercadante. E non stupisce che proprio Elena da Feltre sia il titolo nel quale maggiormente si apprezza il contrasto tra le loro poetiche. Chi ne leggesse il libretto ignorando la partitura, avrebbe lʼimpressione di trovarsi davanti a unʼopera perfettamente costruita secondo le convenzioni della ʼsolita formaʼ, e tale avrebbe verosimilmente dovuto essere, nelle aspettative di Cammarano. Tuttavia, Mercadante sistematicamente alterò la struttura del testo che gli era stato fornito, per ricostruirlo in forme nuove e inattese.8 Sicché sembra ironico il compositore quando, in una lettera indirizzata al librettista, afferma:
LʼElena da Feltre per la mia parte è stata compiuta e consegnata. Non saprei a chi raccomandarla meglio che allʼautore del dramma. Piú che me ne occupai, piú fui soddisfatto della buona condotta, misura, poesia, energia. Siate indulgente verso di me se ho malʼinterpretato qualche cosa, e persuadetemi che ho fatto quanto ho saputo e potuto per meritarmi la vostra particolare stima.9
Rispetto alla struttura formale di Cammarano, infatti, Mercadante aveva «malʼinterpretato» quasi tutto; anche se lo aveva fatto con lʼintenzione di perseguire una maggiore fedeltà alla verità drammatica e psicologica. Il numero musicale che piú emblematicamente mostra le forzature apportate da Mercadante alla ʼsolita formaʼ del libretto è il n. 8, Scena e aria di Ubaldo, che occupa la terza e la quarta scena del III atto. Ubaldo ha saputo che il tiranno Boemondo ha fatto uccidere il padre di Elena, rendendo vana la trama da lui tessuta per sposare la donna, di cui si era invaghito senza essere corrisposto. La rabbia, lʼorrore, lʼaffanno, il rimorso e il desiderio di vendetta si succedono nelle riflessioni di Ubaldo, al quale a un certo punto si unisce il coro dei seguaci. Questo il testo approntato da Cammarano:10
8 Elena da Feltre, riconosciuta come opera-simbolo della riforma mercadantiana, è stata oggetto di diversi studi. Si ricorda kAreN m. BryAN, Mercadanteʼs Experiment in Form: the Cabalettas of Elena da Feltre, «Donizetti Society Journal» 6, 1988, pp. 37-56 . In tempi piú recenti,
Giovanni Cassanelli ha dedicato allʼopera unʼintera monografia, nella quale analizza, numero per numero, libretto e partitura, individuando le divergenze tra le strutture formali immaginate da Cammarano e quelle realizzate da Mercadante; anche se, a onor del vero, non sempre mi trovo dʼaccordo con Cassanelli circa le suddivisioni formali individuate. Cfr. GIoVANNI
CASSANellI, Mercadante e la sua riforma. Elena da Feltre, Bari, Mario Adda Editore, 2012. 9 Lettera di Saverio Mercadante a Salvadore Cammarano del 1° gennaio 1838, cit. in pAlermo,
Saverio Mercadante cit., p. 178. Nel prosieguo, Mercadante raccomanda di non permettere
«alterazioni, tagli, mutilazioni» in sede esecutiva, e afferma di aver «tenuto un genere declamato ed espressivo». 10 I testi dei libretti citati nel presente saggio, con la relativa numerazione dei versi, sono tratti da leo, I libretti di Salvadore Cammarano cit. Dal suddetto studio è ripresa anche lʼimpaginazione
Ubaldo SCeNA III Appartamenti di Ubaldo, come allʼatto I. uBAldo
540
545
550 Egli si avanza a passi rapidi, incerti, vacillanti: è coperto di pallore, le sue membra sono tremanti, inorriditi gli sguardi. Oh inaudita perfidia!… Oh sanguinoso orribil tradimento!… Nella profonda sotterranea volta, in cui fu tratto Sigifredo, io mossi, onde affrettar lʼistante che i lacci suoi scioglier dovea… Ma quale, ahi! qual sʼofferse a me vista ferale! Al chiarore di lugubri tede vidi un palco di sangue bagnato!… E balzar del carnefice al piede il suo capo dal busto troncato!... Quella cruda, terribile scena ho presente al pensiero tuttor!… Ed un gel mi ricerca ogni vena!… I capelli mi drizza lʼorror! Si getta a sedere. Un momento di silenzio.
del testo (ad eccezione di un piccolo dettaglio relativo allʼallineamento delle didascalie in corsivo, qui modificato per ragioni tipografiche), sulla quale merita richiamare lʼattenzione. Si osserverà, infatti, che i testi sono disposti mettendo in evidenza, con uno spazio interlineare bianco, la successione delle sezioni della ʼsolita formaʼ nel testo del libretto. Per la precisione, è messa in evidenza lʼarticolazione formale concepita dal librettista, anche nei casi in cui, come il presente contributo mette in luce, essa non coincide con lʼarticolazione realizzata dal musicista in partitura. Infatti, con il conforto degli studi di discussione metodologica degli ultimi decenni (cfr. La filologia dei libretti. Tavola rotonda coordinata e introdotta da Lorenzo Bianconi, in Lʼedizione critica tra testo musicale e testo letterario. Atti del Convegno internazionale (Cremona, 4-8 ottobre 1992), a cura di Renato Borghi e Pietro Zappalà, Lucca, lIm, 1995, pp. 421-482. A seguito di tale convegno, la riflessione metodologica e le sue applicazioni hanno accompagnato ogni edizione filologicamente curata di libretti dʼopera italiani), ho ritenuto che unʼedizione librettistica debba restituire il libretto come testo a sé stante, cosí come uscito dalla penna del poeta, anche nella sua articolazione formale. Porre in evidenza la struttura formale realizzata dal musicista equivarrebbe difatti a contaminare fonti librettistiche e fonti musicali.
Ubaldo 555
560 Quando fia noto lʼorrido inganno, qual della figlia sarà lʼaffanno!… Ahimè! ché prezzo della sua mano Sorgendo. era la vita del genitore! Dunque io la perdo!… ho dunque invano Di grave colpa macchiato il core!… Or che mi resta? – Che? Vendicarmi. Olà?
Ubaldo
Coro
Ubaldo
Coro 565
570
575
580 Miei prodi, sorgete allʼarmi… Lo sdegno guelfo che in sen vi cova, sbocchi a vendetta di molte offese… –Elena ancora veder mi giova… Ma sʼella nega… ma sʼella apprese… O Boemondo, dellʼempio eccesso ragion col ferro ti chiederò. Lʼardir sopito, lʼodio represso, un sol tuo grido in noi destò.
Se deggio perdere lʼamato oggetto, la vita un peso divien per me; siccome al reprobo, al maledetto, che la speranza del Ciel perdé… –Ma trema, infame, ho brando e core… Fiumi di sangue scorrer farò…. Giuro commettere qualunque orrore… Piú scellerato di te sarò. Giunse il momento vendicatore!… E Cielo e terra colui stancò. Partono.
SCeNA IV uBAldo e la sua gente.
Si tratta, con ogni evidenza, di unʼaria con interventi corali articolata in una ʼsolita formaʼ di limpidezza cristallina. A una scena in endecasillabi e settenari sciolti («Oh inaudita perfidia!... Oh sanguinoso») segue, al v. 547, una strofa in decasillabi anapestici per il cantabile («Al chiarore di lugubri tede»). Terminata questa stasi narrativo-meditativa, si apre il tempo di mezzo in doppi quinari (dal v. 555, «Quando fia noto lʼorrido inganno»), nel corso del quale compie il suo ingresso il coro. La
scena termina con una cabaletta, sempre in doppi quinari, dal v. 571 («Se deggio perdere lʼamato oggetto»).11 Tuttavia, mettendo in musica la scena, Mercadante la scandisce in modo del tutto differente. Dopo unʼintroduzione orchestrale, attacca il Recitativo12 di Ubaldo, che prosegue fino al v. 556, quindi ben oltre la porzione in endecasillabi e settenari sciolti, arrivando a coprire lʼintera strofa in decasillabi anapestici e il primo distico in doppi quinari. Al v. 557 («Ahimè! ché prezzo della sua mano») si apre unʼoasi meditativa, un Andante sostenuto il cui accompagnamento farebbe presagire lʼinizio del vero cantabile; ma si tratta di un arioso che si esaurisce in poche battute di musica e tre versi di testo, dal momento che al v. 560 riprende il recitativo, che termina con la chiamata del coro. Con il v. 563 («Lo sdegno guelfo che in sen vi cova», e secondo il progetto di Cammarano si sarebbe già dovuti essere a metà del tempo di mezzo) ci si trova in un Allegro giusto dal ritmo marziale e vigoroso, di sapore cabalettistico. Tuttavia, la cabaletta, come si vedrà, viene dopo, e chiamare questa porzione ʼtempo di mezzoʼ sarebbe improprio, non esistendo un cantabile che lo precede. Quindi, per restare alle parti della ʼsolita formaʼ, si potrebbe definire questa sezione una sorta di ʼtempo dʼattaccoʼ (presenza assai rara nelle arie solistiche). A partire dal v. 571, sulla strofa di doppi quinari dove Cammarano aveva immaginato una cabaletta, Mercadante costruisce la vera e propria aria, articolata in due sezioni contrastanti: i primi quattro versi («Se deggio perdere lʼamato oggetto») – un Andante un poco sostenuto su cui si distende il solista con un cantabile espressivo legato – costituiscono la sezione cantabile, cui segue, senza tempo di mezzo, la vera e propria cabaletta, «Ma trema, infame, ho brando e core», in Allegro, provvista di intervento corale e regolare ripetizione. Come si può osservare, la scansione musicale ordita da Mercadante vuole rispecchiare non la scansione metrica del libretto, bensí il contenuto drammaturgico del testo. La strofa in decasillabi anapestici non è altro che la prosecuzione di una narrazione iniziata nella scena in versi sciolti, e come tale è trattata dal compositore. I passi in cui la mente di Ubaldo corre a Elena, meditando tra rimorso e angoscia sulle azioni che lo hanno condotto a perderla, sono resi con cantabili di profonda espressività.
11 Lʼomometria di tempo di mezzo e cabaletta può lasciare aperto un dubbio su quale dovesse essere, nella mente del librettista, il vero inizio dellʼultima sezione, che si potrebbe anticipare al v. 563 («Lo sdegno guelfo che in sen vi cova»), immaginando una cabaletta con ripetizione su versi differenti. Tuttavia, questa ipotesi pare da scartare, perché comporterebbe una diversa lunghezza delle due strofe della cabaletta (sei versi piú due del coro la prima strofa, otto versi piú due del coro la seconda strofa). 12 Cosí definito in partitura, a guisa di indicazione agogico-espressiva. Il numero musicale è invece definito «Scena ed Aria Ubaldo». Cfr. SAVerIo merCAdANTe, Elena da Feltre, partitura manoscritta conservata presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli [dʼora in poi
I-NC), consultabile online <https://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu. jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT%5C%5CICCU %5C%5CMSM%5C%5C0151124&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU> (ultima consultazione 21 settembre 2021), carte 138r-153v.
I momenti in cui prevale il sentimento di vendetta sono appannaggio di melodie assertive e ritmi marziali. Infine, è bene aggiungere che lʼarticolazione formale di questʼaria non si può considerare tout court unʼinvenzione di Mercadante, poiché di fatto riprende lo schema dellʼaria in due parti (tipicamente un Andante e un Allegro) posta al termine di una scena di recitativo, che era in voga nei decenni tra fine XVIII e inizio XIX secolo; ma allʼascoltatore del 1838, assuefatto alla ʼsolita formaʼ, doveva sembrare, tanto piú se teneva tra le mani il libretto di Cammarano, rivoluzionaria.
La vestale
A proposito di Elena da Feltre, Mercadante scriveva a Florimo: «Camerano mi ha spedito unʼargomento [sic] Elena degli Uberti, che mi piace, trovandoci forti passioni, movimento rapido di azione e buona distribuzione generale, benché troppe Arie»,13 mettendo in luce lʼantipatia che in quel momento provava verso una forma statica quale lʼaria solistica. In occasione della sua successiva collaborazione con Cammarano, il compositore ottenne un libretto nel quale i protagonisti non intonano alcuna aria, e, dei tre numeri solistici presenti (riservati a personaggi collaterali), uno solo è strutturato secondo la ʼsolita formaʼ. E non si tratta dellʼunico dettaglio per cui La vestale pare il libretto nel quale Cammarano maggiormente piega la propria scrittura alle esigenze riformistiche di Mercadante. Tuttavia, la volontà di questʼultimo di costruire una partitura aderente al dramma psicologico dei personaggi lo porta ancora in alcuni casi a confliggere con la struttura testuale approntata dal librettista. Ne è un esempio il duetto di Emilia e Giunia che segue immediatamente il coro dʼapertura dellʼopera (seconda e terza scena del I atto). Emilia apprende dallʼamica Giunia che il proprio fidanzato Decio, che credeva morto in battaglia, è invece sopravvissuto e rientra a Roma dopo aver trionfato sui Galli. Poiché, a seguito della falsa notizia della sua morte, Emilia aveva scelto di farsi vestale, alla gioia per il ritorno dellʼamato si sovrappone la disperazione dovuta alla consapevolezza che quella relazione è ormai divenuta impossibile. Giunia cerca di consolare lʼamica, invitandola al contempo alla prudenza.
13 Lettera di Saverio Mercadante a Francesco Florimo senza data (presumibilmente aprile 1837), cit. in pAlermo, Saverio Mercadante cit., p. 173.
Gran Vestale
Emilia
Gran Vestale
Emilia Giunia
Emilia
Gran Vestale
Emilia Giunia Emilia Giunia
Emilia Giunia Emilia
Giunia Emilia
Giunia 10
15
20
25
30 SCeNA II La GrAN VeSTAle e dette.
Sí, ministre dellʼara, Vesta terrà lʼalta promessa: il brando invitto di Quirino nuovi allori mietea. Decio ritorna, deʼ Galli vincitor. Decio!… che parli!… Vivamente colpita. E grido non suonò, che spento in campo giacque lʼeroe? La fama il ver mentiva; egli ferito cadde, non estinto fra lʼarmi. Reggimi… Oh Dei!… Sommessamente fra loro. Mancarmi sento il respiro… Dellʼeterna fronda a noi si aspetta coronar quel prode: alla pompa solenne sʼappresti ognuna. Entra nel tempio, seguita dal coro. Empio destin!… Che avvenne!… Morir potessi… Qual tremendo arcano chiudi nel petto?… Allʼamistà lo svela. Tremendo, sí! Quel Decio… Ebben? Che sorge vittorïoso dallʼavello… Ah! forse?… Era lʼanima mia… Bugiarda voce la sua morte parlò… Roma, la terra un deserto mi parve, e disperata corsi aʼ piè degli altari. Oh sventurata!… Ben ti compiango. Ma di Vesta or sei!
Emilia
Giunia
Emilia
Giunia
Emilia
Giunia 35
40
45 Dal cor profondo svellere ti dei lʼinsidiosa immago, ed obbliarla eternamente. Ahi! Come? Se al nome, al solo nome del mio perduto bene tutte mi sento ribollir le vene?
Di conforto un raggio solo non mi avanza in tanto duolo! Non ti resta, o sconoscente, dʼamistade unʼalma ardente? Congiurati aʼ danni miei tutti a gara son gli Dei!… Le mie preci ascolteranno… dí piú lieti sorgeranno. Spento al gaudio è questo core… pianto eterno io spargerò. Fia diviso il tuo dolore, teco almeno io piangerò.
Coro
Emilia
Giunia
Emilia
Coro SCeNA III Il Coro delle VeSTAlI e dette.
50
55 Vestali andiam… di popolo carche le vie già sono, il vincitor annunzia già delle trombe il suono. (O Decio!…) Con tutta la forza di un cieco trasporto. Insana!… Sommessamente ad Emilia. (Decio, vederti ancor potrò!…) Che fia! di viva porpora quel volto fiammeggiò! Piano fra esse.
Emilia
Giunia
Coro 60
65
70
75 (Perché di stolto giubilo mi balzi, o cor, nel petto?… Vive lʼamato oggetto, ma spento egli è per me! Condanna questi palpiti il mio dover, la sorte… il palpito di morte meglio sʼaddice a te!) Andiam… ti frena Emilia, Come sopra. atti componi e volto… che in te non sia rivolto un guardo sol non vʼè! Pensa che sfidi, incauta, lʼire dʼorrenda sorte… pensa che infamia e morte la Dea minaccia a te. Ad incontrar quel forte omai si tragga il piè. Partono.
La scena in endecasillabi e settenari sciolti, cui partecipa anche la Gran vestale, è seguita, al v. 38 («Di conforto un raggio solo»), da una strofa di dodici ottonari, articolata in distici (i primi quattro a rima baciata, gli ultimi due a rima alternata) che costituiscono gli interventi alterni di Emila e di Giunia, le quali proseguono il dialogo intrapreso nel ʼrecitativoʼ. La posizione della strofa nel numero musicale è quella occupata dal cantabile, ma la sua struttura dialogica farebbe propendere piú per una funzione di tempo dʼattacco (al quale non seguirebbe, nel libretto, un vero cantabile: una soluzione minoritaria, ma non certo unica, alla quale si ricorreva quando si voleva conferire maggiore brevità al duetto). Nellʼintonazione musicale, da questa strofa di ottonari, unitaria dal punto di vista metrico, Mercadante ricava i due momenti canonici del tempo dʼattacco e del cantabile, facendo coincidere il primo (Andante mosso) con i quattro distici a rima baciata e il secondo (Tempo piú trattenuto, accompagnato dallʼarpa) con i distici conclusivi a rima alternata («Spento al gaudio è questo core»).14 Mercadante potrebbe qui sembrare piú tradizionalista di Cammarano, nel ripristinare le consuete partizioni della ʼsolita formaʼ; ma occorre
14 Cfr. SAVerIo merCAdANTe, La vestale, partitura manoscritta conservata presso I-NC, consultabile online <https://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww. internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT%5C%5CICCU%5C%5CMSM%5C%5C 0151126&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU> (ultima consultazione 21 settembre 2021), carte 8r-24r.
considerare che la stasi lirica conclusiva non mira a introdurre un momento marcatamente melodico secondo lo standard dei cantabili coevi, quanto ad assecondare il contenuto psicologico del testo poetico, che, dopo una porzione esplicitamente dialogica, lascia spazio alle riflessioni interiori delle soliste, che si sovrappongono e intrecciano senza che vi sia piú uno scambio di battute. La forma, dunque, viene reintrodotta, rivisitata, a servizio della riforma. Con lʼingresso del coro delle vestali (v. 50, «Vestali andiam… di popolo») inizia il tempo di mezzo, in versi settenari, che conduce alla cabaletta (v. 58, «Perché di stolto giubilo»), sempre in settenari, articolata in una strofa di otto versi (due quartine) per ciascuna delle due protagoniste, e distico conclusivo del coro. Dal punto di vista testuale, si tratta della struttura piú favorevole per unʼintonazione canonica che preveda una melodia spigliata prima affidata separatamente alle soliste e poi ripresa a due. Tuttavia, proprio nei versi che Cammarano aveva inequivocabilmente pensato come cabaletta, Mercadante riserva – come già era accaduto nellʼesempio che si è tratto da Elena da Feltre – le sorprese piú inattese. Infatti, lʼAllegro agitato dal ritmo pulsante che sembra aprire una tipica cabaletta virtuosistica, non si protrae che per poche battute (coincidenti con la prima quartina di Emilia), e al v. 62 («Condanna questi palpiti») lascia il posto a un Molto trattenuto quasi Andante in cui la voce della protagonista si dispiega in una melodia distesa e legata. In questa oasi meditativa – quasi un cantabile che interrompe a metà il fluire impetuoso della cabaletta – interviene Giunia, come una voce della coscienza, intonando porzioni testuali tratte principalmente dalla seconda quartina della propria strofa. Gli interventi di Giunia hanno una consistenza piú simile al pertichino che alla voce paritaria di un duetto, e la sua strofa non è intonata per intero, dal momento che i primi versi sono anticipati al termine del tempo di mezzo, in una frase raccomandata come un recitativo, declamato, animato e piano ad Emilia, e il seguito è preso a frammenti, senza peraltro che ella intervenga in alcun modo durante lʼAllegro agitato che apre la cabaletta. Terminata lʼoasi meditativa, il duetto scivola in un Allegro assai (nel quale alle due voci si unisce il coro) che, come una rapida stretta, senza che sia prevista una ripetizione integrale, conclude il numero musicale. Dunque, in un duetto che Cammarano aveva pensato come potenzialmente privo di cantabile, Mercadante introduce ben due stasi melodiche, per tradurre in musica il pensiero introspettivo della protagonista.
Orazi e Curiazi
Nelle opere successive alla Vestale si osserva un riavvicinamento di Mercadante alle strutture formali consuete, che è stato talvolta visto come unʼinvoluzione della sua poetica e una rinuncia al progetto di riforma del melodramma. Ma, come scrive Giovanni Cassanelli, le opere tarde di Mercadante sono in realtà «lavori che spesso, lungi dallʼaver dimenticato lʼesigenza di modellare la musica sulla vita emotiva dei personaggi, si pongono idealmente in linea di continuità con i melodrammi della piena maturità, salvo il cedere alla tentazione dellʼutilizzo di formule pienamente
possedute alle quali non si impedisce, tuttavia, di essere in taluni casi plasmate secondo nuovi criteri».15 In altre parole, Mercadante accantonò quella «rivoluzione» dichiarata alcuni anni prima, tornò ad accogliere gli assoli nei concertati e le cabalette «triviali» che voleva bandire dalle proprie partiture; e intonò i libretti di Cammarano senza sconvolgere dalle fondamenta la loro struttura basata sulla ʼsolita formaʼ e senza chiedere al librettista di praticare forzature al suo stile. Tuttavia, non rinunciò alla ricerca di una profonda corrispondenza tra intonazione musicale e drammaturgia, che perseguí nellʼambito di una maggiore adesione alle convenzioni del melodramma. Una via sperimentata da Mercadante in questa fase per coniugare forma e riforma fu quella della dilatazione: i numeri musicali non sono piú decostruiti alterando la successione delle loro porzioni melodico-drammaturgiche, bensí espansi fino a comprendere al proprio interno scene complesse e variegate. Questa tecnica, già usata in titoli precedenti,16 assume una particolare rilevanza in Orazi e Curiazi, i cui pezzi rispettano le scansioni formali consuete ma, spesso, si rivelano pagine assai lontane dagli standard. Ne è esempio la seconda aria di Camilla, che funge al contempo da finale del II atto (di cui occupa quinta e sesta scena). La giovane romana, fidanzata con il guerriero albano Curiazio, è lacerata a causa dello scontro che si deve tenere tra il proprio fidanzato e i propri fratelli per risolvere la contesa tra Alba Longa e Roma. In una caverna ai piedi dellʼAventino si attende che un oracolo comunichi se la tenzone mortale si debba combattere o meno, e la risposta è affermativa: nel cuore di Camilla la trepidazione orante lascia il posto allʼira e alla disperazione.
15 CASSANellI, Mercadante e la sua riforma cit., p. 65. 16 Un esempio evidente si trova nel Bravo, dove lʼaria di Foscari del I atto vede lʼinterposizione della romanza «A te, mio suolo ligure», cantata fuori scena da Violetta, tra la prima esposizione della cabaletta «Abbellita da un tuo riso» e la sua ripetizione.
SCeNA V Orrida caverna a piè dellʼAventino, a cui si discende per lunga serie di scalini incavati nel vivo masso: le dense tenebre che vi regnano son qualche tratto rischiarate appena da incerta luce, che penetra da un forame praticato nellʼalto. In fondo una porta di bronzo chiusa.
Dopo lungo e terribile silenzio, vedesi camilla scendere tutta sola nella misteriosa spelonca.
Camilla
365
370
375
380 Ecco il delubro! Accennando alla porta. Innanzi al sacro limitar della caverna svenan lʼofferta i sacerdoti… Osai fra queste arcane ombre temute io sola, divo Apollo, venirne… amor mi mosse! E prima giunger volli, ad implorar la tua pietà. Gli Eterni, del par che onnipossenti, giusti son, son clementi; né tu, Nume, vorrai chieder lagrime eterne a questi rai.
La mia prece, il pianto accogli, abbian fine i miei spaventi: regolar tu puoi gli eventi, un tuo detto è lʼavvenir. Lʼempia pugna tu distogli… in te fida il cor tremante… non costringermi lʼamante o i fratelli a maledir!
SCeNA VI I SACerdoTI, gli orAZI, ed i CurIAZI, accompagnati da molti duci delle due armate, sabina con seguito di nobili romane, e detta.
Tutti
385
Voce 390 O voce del fato, se vietan gli Dei la pugna prescritta, svelar tu ne dei: il santo responso, fraʼ mistici rombi, in questo rimbombi – abisso dʼorror. Odesi un cupo muggito sotterraneo. Dallʼime latèbre del pallido speco sʼinnalza fremente un murmure, un eco! È lʼaura del Nume, che intorno già mosse, e lʼalme percosse – di sacro terror! Il muggito fa sentirsi piú vicino. Tutti si atterrano. Spalancasi la porta, e lascia vedere parte del febeo delubro, mentre una voce tonante pronunzia la fatidica parola. Tremate, o genti! A voi deʼ Numi il [Nume neʼ miei tremendi oracoli favella! Si pugni: tal sta scritto in quel volume ove sillaba mai non si cancella! La porta si rinchiude: Camilla cade tramortita.
Sacerdoti
Gli Orazi
Curiazio
Gli altri Curiazi Curiazio
Sabina
Donne 395 Obbedite. Agli Orazi, ed ai Curiazi. Allʼarmi… Movendosi per uscire. Osservando lo stato di Camilla. Alcuno fu di me piú sventurato?… Vieni, seguine… opportuno è lʼistante!… Avverso fato!… Tutti escono, tranne Sabina, e le altre donne rimaste intorno a Camilla. Sposo?… Ahi misera!… Ritornando presso la svenuta. Lʼaita… Quante vittime la sorte oggi chiese!…
donne sabina
camilla
sabina donne camilla
donne sabina
camilla
sabina
donne 400
405
410
415 Camilla si riscuote. Riede in vita!… Al supplizio, a lunga morte ella riede! Quale orrendo vel mi cinge!… Deh!… Fa cor. Riconoscendo gli oggetti a poco a poco. Lʼantro!… il tempio!… Ed essi?… [Ah!… intendo!… Con grido acutissimo. Sventurata!… Oh mio terror!…
Nella piú viva disperazione. Arde già lʼatroce guerra!… Gronda il sangue, gronda omai!… E non tʼapri o dura terra?… Cielo, un fulmine non hai?… Se dʼun cor che a morte anela Nume alcun pietà non sente, sia deʼ Numi piú clemente, e mʼuccida il mio dolor. Sol tʼascondi, e lʼempia cela sanguinosa, orrenda scena… Ahi! che piange a tanta pena ogni ciglio, ed ogni cor! Camilla esce qual dissennata; tutte la seguono.
Il testo steso da Cammarano rispecchia la struttura della ʼsolita formaʼ, con una scena in endecasillabi e settenari sciolti, cui segue un cantabile in ottonari («La mia prece, il pianto accogli», v. 374). Balza allʼocchio la portata del tempo di mezzo, che non si risolve nella consueta scena di transizione, ma si articola in tre parti: una strofa corale in doppi senari («O voce del fato, se vietan gli Dei», v. 382), una quartina di endecasillabi che costituisce la voce dellʼoracolo («Tremante, o genti! A voi deʼ Numi il Nume», v. 390) e, infine, la porzione dialogica in ottonari («Obbedite», v. 394) che costituisce il piú convenzionale ponte verso la cabaletta conclusiva della protagonista, ancora in ottonari («Arde già lʼatroce guerra», v. 406). Lʼintonazione di Mercadante rispetta le proposte testuali del libretto, accentuandone gli elementi di espansione rispetto allʼossatura classica del numero musicale, tanto che unʼesecuzione di questʼaria dura circa venticinque minuti. Un lungo preludio a
tinte cupe apre la scena, descrivendo lʼambiente tenebroso e lo stato dʼanimo della protagonista, e conduce al Recitativo17 di Camilla: questo, a dispetto della definizione, è una profonda scena introspettiva nella quale lo stile declamato tragico si apre a passaggi di virtuosismo drammatico. Il successivo cantabile, un Andante in 12/8 che costituisce la preghiera di Camilla ad Apollo, accompagnato dallʼarpa e dal corno inglese, si pone come il naturale proseguimento della scena introduttiva. La sua struttura, ABAʼ – dove la sezione intermedia B (che è indicata in partitura come poco piú animato e declamato e interrompe la melodia cullante della sezione A) coincide con la seconda quartina della strofa di ottonari, mentre Aʼ è una ripresa variata della prima quartina –, mostra un Mercadante esperto elaboratore di forme, poiché, a ben vedere, egli altro non fa che inserire nella cornice della ʼsolita formaʼ ottocentesca una versione ripensata dellʼaria seria settecentesca. Il lungo tempo di mezzo è una scena articolata che annovera un frequente avvicendarsi di tempi e andamenti: non sono semplicemente distinti la scena dellʼoracolo (Andante mosso) dal tempo di mezzo stricto sensu, ma questʼultimo si presenta prima con un Allegro (partenza dei combattenti, vv. 394-402a) e poi con un recitativo drammatico cangiante (vv. 402b-405) nello stile declamatorio della scena introduttiva, che inizia col rinvenimento di Camilla e conduce, senza stacchi e senza introduzione melodica, alla cabaletta (provvista di consueta ripetizione) che conclude lʼatto, un Allegro giusto dal respiro lento che richiede una vocalità drammatica dʼagilità. Ci si trova, quindi, davanti a unʼaria-finale dʼatto (o, si potrebbe quasi dire, a un finale dʼatto inserito in unʼaria solistica) che rispetta formalmente le scansioni consuete del numero musicale coevo, ma ne espande le dimensioni fino a trasformarlo in una grande scena-quadro dotata di profonda coerenza drammaturgica.
Un avvicinamento tra due poetiche?
La tecnica dellʼespansione del numero musicale trova in Orazi e Curiazi lʼapplicazione piú sistematica. In altri frutti tardi della collaborazione tra Cammarano e Mercadante non si può negare che si verifichi talvolta unʼadesione piú stretta alle convenzioni della ʼsolita formaʼ, ma anche in questi casi non manca di emergere qualche scarto che segnala lʼattenzione peculiare riservata dal compositore alla drammaturgia.18
17 Cosí definito in partitura. Cfr. SAVerIo merCAdANTe, Orazi e Curiazi, partitura manoscritta conservata presso I-NC, consultabile online <https://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIT% 5C%5CICCU%5C%5CMSM%5C%5C0155170&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU> (ultima consultazione 21 settembre 2021), vol. II, carte 81r-126r. 18 Si farà un solo esempio, tratto da Virginia. Nella cavatina della protagonista (I atto), i versi che
Cammarano riserva al coro nel tempo di mezzo sono in parte intonati già come pertichino del cantabile, e in parte ripresi come pertichino della cabaletta, prima della ripetizione di questʼultima. Il distico corale che il poeta aveva scritto come pertichino per la cabaletta «Addio,
Virginia, addio, | il giorno declinò» è intonato soltanto dopo la ripetizione della cabaletta
Insomma, parlare di involuzione stilistica, o di rinuncia tout court ai progetti di riforma, pare esagerato. Piuttosto, Mercadante cercò di ricondurre i propri intenti di riforma nellʼalveo della ʼsolita formaʼ, congeniale alla scrittura di Cammarano e attesa dagli ascoltatori del tempo. Quello degli orizzonti di attesa del pubblico coevo è sicuramente un tema da tenere presente quando si analizzino gli sviluppi dello stile mercadantiano negli anni ʼ40: probabilmente, il compositore aveva percepito che gli spettatori italiani in quel momento chiedevano immediatezza, melodia e passione piú che elaborazione intellettuale della partitura. Non è un caso che Verdi – grande conoscitore del mercato del melodramma, che, pochi lustri dopo, avrebbe alla propria maniera riformato il teatro dʼopera, con modalità e obiettivi non dissimili da quelli perseguiti da Mercadante – in quegli anni componesse seguendo la ʼsolita formaʼ nella sua configurazione piú icastica e stringata. In assenza di un carteggio tra Cammarano e Mercadante (che in quel periodo si trovavano a Napoli, e avevano la possibilità di discutere vis-à-vis), si possono avanzare soltanto ipotesi sul fatto che vi sia stata anche una riflessione poetica tra i due autori che li abbia portati a individuare una cifra stilistica comune. Ma è un dato di fatto che la ʼnuova via alla riformaʼ (cosí mi piace chiamarla, piuttosto che rinuncia alla riforma) percorsa dal compositore altamurano negli anni ʼ40 abbia avvicinato il suo stile a quello del librettista napoletano piú di quanto Cammarano non si fosse accostato alle esigenze riformistiche di Mercadante sul finire degli anni ʼ30; e che titoli come Orazi e Curiazi o Virginia rivelino un connubio particolarmente efficace di libretto e partitura. Se non fosse sopravvenuta la morte di Cammarano, nel 1852, la sua collaborazione con Mercadante avrebbe potuto proseguire, nella comune ricerca della coerenza tra dramma, poesia e musica.
stessa, quando le amiche di Virginia sono effettivamente in procinto di lasciare la scena.