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Busby Berkeley tra coreografia e regia negli anni ’30
Patrizia Veroli
«È LA MACCHINA DA PRESA CHE DEVE DANZARE»:1 BUSBY BERKELEY TRA COREOGRAFIA E REGIA NEGLI ANNI ’30
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Coreografo? Regista? Come definire Busby Berkeley, il più reputato, imitato e famoso dance director della cosiddetta “epoca classica” del musical di Hollywood? Quando, negli anni ’60, i prestigiosi «Cahiers du Cinéma» gli chiesero se fosse d’accordo nell’essere ritenuto un regista anziché un coreografo, lui rispose:
Credo che nella vostra mente il termine coreografo sia associato al balletto come lo si faceva alcuni anni fa. A New York ci chiamavamo dance directors e la parola coreografo apparve solo quando Agnes De Mille cominciò a dirigere balletti e spettacoli. Oggi tutti sono coreografi. Ma è certo che quello che conta per me sono molto meno le danze e i passi propriamente detti, che quello che ci si fa colle risorse del cinema.2
Gene Kelly, il danzatore e coreografo che intuì molto presto che il cinema offriva possibilità straordinarie alla danza, si è posto il problema di come filmarla ed ha firmato e co-firmato alcune regie di portata innovativa,3 per quanto riguarda il ruolo innovatore di Berkeley nell’ambito del musical ebbe a dire:
Berkeley ha mostrato quello che si può fare colla macchina da presa […], è lui che ha eliminato l’arco di proscenio […] nel musical cinematografico. Molti se ne attribuiscono il merito, ma è stato lui che l’ha realizzato. E se qualcuno vuole imparare quello che si può fare colla macchina da presa, deve mettersi a studiare ogni sua sequenza. Perché lui le ha fatte tutte.4
Un coreografo come Jack Cole, tra i più reputati maestri di danza jazz, non si fece scrupoli nell’affermare:
Busby Berkeley non aveva alcun coinvolgimento con la danza. Non so perché, quando si parla dei suoi film, si parla di danza. Era interessato solo a catturare colla macchina da presa dei disegni e a fare lunghe carrellate, peraltro assai bene. Aveva la pazienza di costruire una lunga ripresa dall’alto, e poi di metterla in prova davvero e di continuare a provarla fino a quando era esattamente come lui la voleva. Non guardava mai a quello che le girls facevano. Gli interessavano solo i segni della macchina da presa in rapporto alle battute musicali. Creava solo carta da parati.5
1 Berkeley in PATRICK BRION – RENÉ GILSON, A Style of Spectacle. Interview with Busby Berkeley, «Cahiers du Cinéma in English» 2, 1966, p. 28. 2 Ivi, p. 35. 3 I film più famosi coreografati e co-diretti da Kelly sono On the Town (1949) e Singin’ in the Rain (1952). 4 Kelly nel documentario That’s Dancing, 1985, cit. in LARRY BILLMAN, Film Choreographers and Dance Directors. An Illustrated Biographical Encyclopedia with a History and Filmographies, 1893 through 1995, Jefferson -NC and London, McFarland & Company, Inc., 1997, p. 233. 5 Cit. in JEROME DELAMATER, Interview with Jack Cole, in ID., Dance in the Hollywood Musical, Ann Arbor, UMI Research Press, 1981, p. 196.
Berkeley è rimasto famoso soprattutto per le sequenze filmate in cui in cui un notevole numero di girls e talora anche di boys, inquadrati “a piombo” da un’altezza elevata, compongono forme astratte, caleidoscopiche, in movimento: ed è sicuramente ciò a cui alludeva Cole quando faceva riferimento ai «segni della macchina da presa in rapporto alle battute musicali». L’equiparazione di quelle immagini a niente più che «carte da parati», cioè a carte stampate con morfologie decorative, risente tuttavia di un duplice inganno: da una parte mostra un chiaro malanimo rispetto a una personalità come Berkeley, il cui lavoro ha non solo influenzato il cinema musicale dei propri tempi,6 ma non ha cessato di assediare il pensiero dei cineasti fino a epoca recente. Basti pensare alle palesi citazioni berkeleyane presenti in The Big Lebowsky dei Fratelli Coen (Il grande Lebowski, Working Title Films, 1998), laddove il protagonista sogna di volare dentro il “corridoio” formato dalle gambe allargate delle girls disposte una davanti all’altra. L’invenzione assolutamente osé di Berkeley era stata quella di spostare la macchina da presa tra le gambe aperte delle ragazze, che configurano una “V” rovesciata, fino a prendere un primo piano dei volti della coppia di protagonisti stesi bocconi a terra: si guardi alle battute finali del numero «I’m Young and Healthy» in 42nd Street.7 La variazione ancora più audace dei Fratelli Coen è quella di far volare il protagonista tra le gambe delle girls in posizione supina, mentre guarda beatamente verso l’alto.
L’altro inganno in cui cadeva Jack Cole riguarda la natura stessa del cinema, che non offre che testi audiovisivi, i quali richiedono allo spettatore una partecipazione immaginativa, associativa e àptica per poter intuire l’esistenza dello spazio là dove lo spazio non è percorribile e assaporabile col proprio corpo. Vero è che lo spazio creato da Berkeley nei suoi numeri caleidoscopici è fortemente appiattito, e ricalca quello del fotogramma. E non è un caso che in più d’uno dei numeri musicali in cui si avvalse di questo tipo di figurazioni Berkeley abbia riprodotto proprio il funzionamento dell’obiettivo fotografico, colle lamelle circolarmente disposte attorno al foro centrale. Si guardi ad es. «What a perfect combination», in The Kid From Spain (Goldwyn/United Artists, 1932).8 L’obiettivo fotografico non è del resto esemplato sul funzionamento dell’occhio umano? Se un gran numero di film musicali è per sua struttura autoriflessivo, perché riprende in molti modi la struttura dei generi di teatro musicale da cui proviene, si può affermare che Berkeley ha creato numeri autoriflessivi per eccellenza, poiché riprendono, metaforizzandolo, il funzionamento stesso della macchina da presa e dell’occhio sia del fotografo sia dello spettatore.
Rispetto a coreografi come Jack Cole, la cui tecnica di danza è stata trasmessa da ballerini che si sono fatti poi strada nella commedia musicale a teatro e al cinema, Berkeley halegato il proprio nome alla fattura spettacolare di numeri che hanno giocato programmaticamente un ruolo autonomo rispetto al plot. Il gusto per questo tipo di musical, dal formato equiparabile alla rivista, è andato molto scemando dopo gli anni
6 Uno per tutti Hermes Pan nel numero finale di gruppo, «The Piccolino», in Top Hat (Cappello a cilindro, RKO, 1936). 7 <https://www.youtube.com/watch?v=mSvQtAnh_CI> (ultima consultazione 7 febbraio 2021). 8 <https://www.youtube.com/watch?v=dCCB1KEhRz8&t=103s> (ultima consultazione 7 febbraio 2021).
’40, quando si affermò un tipo di musical cosiddetto “integrato”, in cui i numeri di canto e ballo erano incardinati in modo da far parte del plot. Anche dopo il ’40, tuttavia, Berkeley sarebbe ancora riuscito a mettere a segno qualche numero straordinario, come «The Lady in the Tutti-frutti Hat», in cui le girl giocano con gigantesche banane (in The Gang’s All Here, in Italia circolato come Banana Split, Fox, 1943),9 nonché i cosiddetti numeri “della fontana” e “del fumo” in Million Dollar Mermaid (La ninfa degli antipodi, MGM, 1952), in cui si produceva in virtuosismi strabilianti la diva “acquatica” di quegli anni, Esther Williams. Sicuramente, come lui stesso non ebbe problemi ad ammettere, Berkeley non aveva mai praticato le tecniche di danza della sua epoca: in anni in cui jazz e balletto dominavano colle loro tecniche e i loro virtuosismi sia Broadway che il musical hollywoodiano, è stato facile espellere Berkeley dal mondo della danza.
Il fenomeno Berkeley è in effetti complesso. Il suo stile di movimento di per sé stesso non è particolarmente innovativo, e lo si constata in quei numeri che si svolgono su una scena e che sono ripresi per lo più frontalmente. Tuttavia la sua capacità di ragionare in termini di ritmo – sia della danza sia dell’immagine – è spesso sorprendente. E quando Berkeley realizza forme caleidoscopiche (riprendendo le chorus lines da un’altezza atta a trasformarne i corpi in forme astratte), i movimenti che costruisce e prescrive si svolgono con ritmi che si pongono in vari rapporti rispetto alla musica, e sono pensati e assemblati esclusivamente per la macchina da presa, implicando capacità registiche e coreografiche. È infatti con i cosiddetti “top shot”, le angolazioni a piombo della ripresa, che del resto inizia a realizzare sin dal suo primo film, Whopee! (Goldwyn/United Artists, 1930), che Berkeley creò un tipo di danza che non è possibile mettere in scena in teatro. Berkeley ha avuto del coreografo la capacità di costruire i movimenti delle girls, sagomandoli dal punto di vista spaziale e ritmico, ed ha avuto del regista la capacità di concettualizzare le modalità drammaturgiche e tecnologiche del numero nello spazio-tempo del film. Nei suoi numeri caleidoscopici, il movimento dell’interprete si de-espressivizza e il gesto tende al geroglifico.
Berkeley ha ripreso, sviluppato e trasfigurato una componente cruciale della commedia musicale di Broadway, la chorus line, che negli anni ’30 era alquanto in declino. C’è riuscito esaltando la qualità ritmica dei corpi, delle linee, del tempo della danza e del tempo musicale, della ripresa filmica e del montaggio. Per questo si può dire che in un certo senso sia stata proprio la sua macchina da presa a danzare, come lui voleva. Da Broadway al cinema Quando nel 1930 arrivò a Hollywood, Berkeley aveva già lavorato come dance director a Broadway dal 1925 al 1930. Molti dei numeri cinematografici per cui è rimasto famoso costituiscono proprio il risultato della sua riflessione sui meccanismi spettacolari della commedia musicale americana, e sull’ideologia etnica e di genere che la caratterizzava. A Hollywood vigeva la segregazione razziale: gli africano americani erano scritturati solo in ruoli che li rappresentavano come idioti, irresponsabili, servili
9 <https://www.youtube.com/watch?v=TLsTUN1wVrc> (ultima consultazione 7 febbraio 2021). Berkeley si era ispirato ovviamente al famoso, succinto gonnellino colle banane, indossato da Josephine Baker nella leggendaria Revue Nègre del 1925.
o violenti. La “Berkeley girl” è “bianca”:10 solo una volta il regista utilizzerà ragazze africano americane, e in un rango servile, rappresentandole mentre sventagliano, pettinano e cospargono di olii le girls (il tutto mentre Eddie Cantor canta il chorus del song in blackface).11 Le impiega anche in una brevissima chorus line, senza inclusione di “bianche”. Gruppi di ragazze “bianche” e “nere” si giustappongono ma non si mescolano.
Usando le potenzialità del cinema, Berkeley porterà certi effetti teatrali ad estremi fino ad allora mai toccati e tuttora emblematici. Alcuni elementi del suo stile, che diventeranno per antonomasia suoi,12 si erano già visti in teatro per opera di altri dance director e registi. Così, ad esempio, i profili illuminati al neon dei violini bianchi che sessanta chorines fanno mostra di suonare nel numero «The Shadow Waltz» di Gold Diggers of 1933 (La danza delle luci, Warner Bros., 1933) riprendevano gli effetti che già negli anni ’10 si erano realizzati applicando il radio ai costumi delle girl. Berkeley, del resto, usò spesso gli strumenti musicali nei suoi numeri: ad es. in «The words are in my heart», un numero di Gold Diggers of 1935 (Donne di lusso, Warner Bros., 1935), cinquantasei ragazze siedono alla tastiera di pianoforti bianchi. Già a fine 800 si erano viste parate di girls ognuna delle quali era trasformata dal costume in uno strumento musicale e, per venire a più recenti spettacoli di Broadway, nelle Ziegfeld Follies del 1927 il dance director Sammy Lee aveva posto venti girls alla tastiera di venti pianoforti dorati.
Anche l’uso di praticabili e di strutture di enorme formato era invalso da tempo in teatro: si guardi alla struttura di scale curvilinee da cui scendono le chorines suonando il violino in “«The Shadow Waltz» (Gold Diggers of 1933): anche nel cinema si era giocato, fin dagli inizi del musical, sui contrasti di grandezza. Così nel film a due colori, King of Jazz (Il re del jazz, Universal, 1930), la Rhapsody in Blue di George Gershwin viene eseguita da più pianisti alla tastiera di un enorme pianoforte dentro cui, su una piattaforma, è tutta l’orchestra di Paul Whiteman (all’epoca noto come “re del jazz”). A un certo punto essa si solleva dall’interno della cassa. Berkeley ha una speciale predilezione per il giocare sulle differenze di formato. I suoi spazi si pongono spesso al di fuori di ogni riferimento realistico, e definiscono un tempo non meno fantasmatico:13 lo provano i suoi stessi caleidoscopi, che minimizzano la taglia dei corpi e delle loro
10 Utilizzo questo aggettivo (e il suo opposto, “nero”) solo per comodità e tra virgolette per sottolinearne la problematicità semantica. Di fatto su di esso è stato costruito negli Stati Uniti tutto un sistema di pensiero discriminante rispetto alla popolazione africano americana. Sulle connotazioni sociali di questa terminologia e le sue implicazioni nella musica jazz, vedi STEFANO ZENNI, Che razza di musica. Jazz, blues e le trappole del colore, Torino, EDT, pp. 3-30. 11 L’uso del blackface proveniva dal minstrel show, una forma di spettacolo itinerante che ha dominato gli Stati Uniti fin dall’800. In esso furono i “bianchi” a tingersi inizialmente il volto di nero per prendere in giro i “neri”. Dopo la guerra civile e la fine della schiavitù, gli africano americani entrarono nel circuito teatrale e si tinsero anch’essi il volto di nero, parodiando la parodia di sé stessi. Il blackface, ripreso dal vaudeville, si è trasmesso nel cinema, dove è stato adottato fino agli anni ’50. 12 MARTIN RUBIN, Showstoppers. Busby Berkeley and the Tradition of Spectacle, New York, Columbia University Press, 1993, pp. 9-26. 13 Non a caso è stato messo in relazione col surrealismo (JEROME DELAMATER, Busby Berkeley. An American Surrealist, «Wide Angle» 1, primavera 1976, pp. 30-37).
parti. Prima di lui inquadrature dall’alto delle chorus girls che danzano sul palcoscenico si erano realizzate a Hollywood. Ma il modo in cui le configurazioni di chorines possono trasformarsi se inquadrate da considerevole altezza o con un’angolazione a piombo della ripresa porta a effetti visivi di altro tipo, producono slittamenti verso una dimensione altra, propriamente di sogno, di reverie.
Berkeley amava le trasformazioni a vista, altro elemento che appartiene al teatro musicale americano (ed anche a quello europeo, in particolare italiano) fin dalla fine dell’800. Potendo gestire proprio lo sguardo dello spettatore, Il cinema gli consente la realizzazione di effetti impensabili in teatro: così, ad esempio, in 42nd Street (Quarantaduesima Strada, Warner Bros., 1933), il primo film in cui collabora con la Warner Bros., si vede Ruby Keeler danzare il tip-tap a figura intera finché la macchina da presa, arretrando, non mostra che si trova in verità sul tettuccio di un taxi. La trasformazione più clamorosa di questo film si ha però sul finale, quando le girls salgono sui gradini di una scalinata e si girano verso lo spettatore nascondendosi man mano del tutto dietro il poster che hanno portato con sé, ognuno dei quali raffigura un grattacielo di diversa grandezza. In questo modo le differenze di profondità tipiche della scala si eliminano e a comparire è il tipico paesaggio newyorchese, bloccato in una prospettiva (stampata) bidimensionale, con i palazzi riprodotti in formati diversi a seconda della distanza.14
Forse nessun coreografo americano, al pari di Berkeley, ha risentito del topos della macchina, che, come è noto, ha costituito uno dei leit motiv delle avanguardie moderniste a partire dai futuristi. Nella loro mancanza di conoscenza delle pratiche di movimento, i futuristi italiani non erano stati capaci di proporre uno stile di danza propriamente futurista: il Manifesto della danza di Marinetti (1917) rimase una enunciazione.15 Il topos della macchina è stato centrale quant’altri mai nella società sia americana sia europea dei primissimi decenni del 900, giacché era innestato sulle ricerche che, mirando alla massima efficienza dell’impiego del corpo nel lavoro, aveva portato all’utilizzo industriale, da parte di Henry Ford, della catena di montaggio parodiata da Charlie Chaplin nel film muto da lui stesso prodotto Modern Times (Tempi moderni, 1936). La razionalizzazione del movimento, mirante alla minima dispersione delle energie e per quanto possibile alla riduzione della fatica, era stato un obiettivo di scienziati, analisti del lavoro e della guerra sin dall’800, e aveva avuto il suo banco di prova nella Prima guerra mondiale. Non a caso Angelo Mosso, uno dei maggiori sostenitori della necessità della ginnastica in Italia, aveva scritto: «la catastrofe di Sedan rappresenta nella storia il trionfo delle gambe tedesche».16 Grazie alla cronofotografia di
14 Per una approfondita descrizione e interpretazione di questa scena, vedi PATRIZIA VEROLI – GIANFRANCO VINAY, “42nd Street” (1933). Un musical cinematografico tra danza, musica e politica, «CoSMo. Comparative Studies in Modernism» 16 (monografico: Gli sponsali controversi. Musica e danza nel convito delle arti), 2020, p. 68. <https://www.ojs.unito.it/index.php/COSMO/article/view/4623> (ultima consultazione 2 febbraio 2021) 15 Cfr. PATRIZIA VEROLI, The Futurist Aesthetics and Dance, in International Futurism in Art and Literature, a cura di Gunther Berghaus, Berlin–New York, Walter De Gruyter, 2000, pp. 422-448. 16 Cit. in ANSON RABINBACH, Human Motor. Energy, Fatigue, and the Origins of Modernity, s.l., Basic Books, Inc., 1990, p. 224. Fin dai primi dell’800 la Germania aveva impostato e resa obbligatoria la ginnastica.
Muybridge e Marey, le analisi del movimento umano avevano portato alla considerazione dell’importanza del ritmo, come fattore che collega tempo e spazio e decide dell’efficienza non solo delle azioni quotidiane, ma anche del lavoro, oltre che della danza. Negli anni ’10 e ’20 il ritmo fu al centro di nuove pratiche di movimento a fini sia d’arte che di allenamento corporeo e non meraviglia che gruppi di ballerine come le Tiller Girls, addestrate dall’inglese John Tiller, furono viste dal grande sociologo e teorico del cinema tedesco, Siegfried Kracauer, come le perfette rappresentanti d’un lato delle teorie di efficienza tayloriste e dall’altro della possibilità di uno spazio utopico in cui l’individualismo venisse abbandonato a favore dell’unità e della coesione del gruppo.17 Le Tiller Girls erano state del resto una attrazione delle Ziegfeld Follies del ’22, uno spettacolo che ebbe più successo di tutti i precedenti della serie (ed anche dei successivi), totalizzando 67 settimane di repliche a New York e ben 40 on the road. 18 Non è possibile che Berkeley non fosse rimasto colpito dalla straordinaria precisione di questo gruppo di danzatrici, la cui rigorosa disciplina mirava a trasformare quanto più possibile il movimento tridimensionale del corpo in una segnaletica tutta visiva. Esse esplicitavano anche quel riferimento ai plotoni militareschi e alle parate che costituiscono una delle fonti figurative di Berkeley, il quale, attivo come sottotenente dell’esercito americano in Francia durante la Prima guerra mondiale, era stato incaricato di inquadrare e far marciare sei batterie di soldati, 1200 uomini in totale. Lo aveva fatto impostando un ritmo specifico per ogni batteria e richiedendo ai soldati di fare il conto in silenzio. I vari gruppi erano stati disposti in modo da formare in marcia diverse figure geometriche.19 Più volte questa componente del suo stile si ritroverà nei numeri per il cinema, come in «Yes Yes My Baby Said Yes Yes», di Palmy Days (Il re dei chiromanti, Goldwyn/United Artists, 1931) e in «All’s Fair in Love and War» di Gold Diggers of 1937 (Amore in otto lezioni, First National Pictures, 1936). File di girls in marcia che si compongono e si scompongono, duplicandosi, triplicandosi, formando linee, cerchi o triangoli: anche questo si faceva in teatro da decenni, ma è certo che il cinema ha offerto a Berkeley la possibilità di realizzare modi speciali con cui dar vita ai suoi squadroni femminili danzanti, proprio per la possibilità di creare continuamente spazi non realistici.
17 Non è un caso che le formazioni soprattutto circolari di ragazze che compiono gli stessi movimenti ritmicamente sarebbero state promosse dalle dittature di tutta Europa (cfr. PATRIZIA VEROLI, Docile Bodies and War Machines. The Metamorphosis of Dalcroze Rhythmic Gymnastics in Italy from the Liberal Era through Fascism, «The Annual of CESH. European Committee for Sport History», 2004, pp. 29-55). 18 RICHARD ZIEGFELD - PAULETTE ZIEGFELD, The Ziegfeld Touch. The Life and Times of Florenz Ziegfeld, Jr., introduzione di Patricia Ziegfeld Stephenson, Harry N. Abrams, Inc., 1993, p. 102-103. Una routine delle Tiller Girls, in un costume esemplato sulla divisa militare, è oggi visibile in un numero del film Half Shot at Sunrise, del 1930 (<https://www.youtube.com/watch?v=Mldt0Vcvl60> ultima consultazione 5 febbraio 2021) 19 Berkeley si era anche fatto assegnare a un corpo militare aereo (JEFFREY SPIVAK, Buzz. The Life and Art of Busby Berkeley, Lexington, The University Press of Kentucky, 2011, pp. 22-23). Le vedute aeree gli avevano certamente fatto capire come dall’alto la plasticità del corpo diventasse segno, lezione che gli tornerà utile a Hollywood per i suoi caleidoscopi.
Durante il suo lavoro in teatro Berkeley aveva mostrato quello che era il principale dei suoi talenti, e che nel cinema avrebbe poi esaltato a dismisura: il senso del ritmo. Così come altri dance directors, da Sammy Lee a Le Roy Prinz e Seymour Felix, aveva cercato di emanciparsi dalle regole di Ned Wayburn, che a fine anni ’20 si erano trasformate ormai in convenzioni scontate. Wayburn era stato un gigante nel campo delle chorus lines, stabilendo le coordinate visive, corporee, drammaturgiche e di tecnica di danza necessarie per realizzare queste formazioni con gli effetti visivi più attraenti.20 Berkeley mirò a un qualcosa di inedito, ad esempio introducendovi senso dello humor. Così, ad esempio, nella commedia musicale Street Singer le girls stanno accucciate per ben sei chorus, dall’entrata in scena fino alla fine, e questa posizione va contro la prescrizione di Wayburn secondo cui l’entrata e l’exit step dovevano essere diversi dai movimenti fatti al centro della scena. In altri numeri Berkeley aggiunse alla chorus line una pony (così Wayburn aveva classificato le ragazze di corporatura più piccola, a cui erano riservati esercizi acrobatici e danza di precisione), che commetteva errori deliberati, in un atteggiamento che rompeva la riga.21 Oppure aveva creato “endurance lines”: le girls correvano a perdifiato allacciate l’una all’altra o saltavano con ritmi che non coincidevano, complicando la visualità. Commentando i numeri della commedia musicale Present Arms (1928), John Martin, che avrebbe svolto un ruolo cruciale nella teorizzazione e divulgazione della danza moderna americana, notava che nelle sue configurazioni Berkeley «[esplorava] la struttura ritmica del jazz in una misura mai tentata prima».22
In molti casi alle danzatrici è richiesto di eseguire ritmi in senso contrario e in un numero anche di eseguire simultaneamente due ritmi, l’uno contrario all’altro e anche contrario alla musica. Nelle Earl Carroll Vanities ci sono difficoltà simili, come contare 5 invece che 4, e poi 3 invece che 4, con un terzo ritmo da aggiungere colle braccia, dopo che gli altri due sono stati incorporati.23
Berkeley sfrutterà questa sua abilità nel cinema fin dal suo arrivo a Hollywood. Utilizzerà infatti il doppio ritmo nel numero “Stetson”, di Whopee!: le Goldwin Girls eseguono ripetutamente coi piedi un veloce offbeat time-step, 24 mentre colle braccia muovono lentamente i cappelli da cowboy (i cosiddetti stetson) sottolineando la quarta e
20 BARBARA STRATYNER, Ned Wayburn and the Dance Routine. From Vaudeville to the “Ziegfeld Follies”, Albuquerque, NM, Society of Dance History Scholars, 1996. 21 ROBERT MOULTON, Choreography in Musical Comedy and Revue on the New York Stage from 1925 through 1950, Ph.D. thesis, Minneapolis, University of Minnesota, 1958, pp. 47-49. Le girls erano divise a seconda dell’altezza e della corporatura in “show girls”, le più appariscenti; “chickens”, le cui evoluzioni danzate incorniciavano i solisti sulla scena, e, appunto, “ponies”. 22 ALLISON ROBBINS, Let’s Face the Music and Dance. Hollywood Musicals and the Mediatization of Broadway 1933-1939, Ph.D. thesis, Charlottesville, University of Virginia, 2010, p. 135. A Hollywood Berkeley farà ancora qualche gioco di questo tipo: ad es. in «Who’s Your Little Who-Zis» (Night World, 1932), alcune girls della chorus line sono distratte e, mentre le altre cantano, parlano tra loro. 23 Ivi, pp. 135-136. 24 La struttura del passo è in MARK KNOWLES, The Tap Dance Dictionary, Jefferson, NC and London, McFarland & Company, Inc., 2012, p. 218.
l’ottava battuta di ogni frase di 8.25 Nello stesso film, in «Song of the Setting Sun», la frase di danza non asseconda il metro della musica e appare sincopata.26
La fabbrica dei numeri musicali alla Warner Bros. (1933-39)
Dopo alcune esperienze in altri Studios, nel ’33 Berkeley fu scritturato dalla Warner Bros. ed è questo Studio, dove lavorò ininterrottamente per sei anni, che gli dette le possibilità realizzare pienamente le sue idee coreografiche e registiche.27 È qui che realizzò pienamente le sue idee.
Berkeley aveva capito bene che, a differenza che in teatro, dove l’occhio dello spettatore è libero di andare dove vuole, nel cinema è l’occhio della cinepresa a guidarlo. Già alla Goldwyn aveva rifiutato di usare le quattro cineprese con cui si riprendeva la danza. Una sola macchina da presa gli era sufficiente: la sua idea era programmare la ripresa in modo talmente preciso, da fare i tagli direttamente mentre filmava.28 Divenne questo il suo stile di lavoro. Era cruciale razionalizzare il lavoro di ripresa, e rendere inesorabile la precisione necessaria al suo stile spettacolare. Berkeley ideò una struttura di palcoscenici concentrici rotanti (brevettata nel 1932), che, una volta realizzati, resero possibile che circoli concentrici di danzatori si spostassero ognuno a un ritmo diverso da quello dell’altro, senza le imprecisioni che sarebbero state inevitabili qualora a muoversi avessero dovuto essere dei corpi umani.29 Buzz, così veniva chiamato alla Warner, ideò anche una monorotaia su cui il dolly poteva spostarsi orizzontalmente e verticalmente, senza bisogno che diversi operatori azionassero il braccio mobile della cinepresa.30 Elevava normalmente il dolly fino a circa diciotto metri da terra, ma ottenne anche di potere, se necessario, forare il soffitto dello studio dove realizzava i numeri.31 Rendendo la macchina da presa così straordinariamente flessibile, poté creare per la danza gli inventivi e metamorfici spazi che Gene Kelly avrebbe lodato.
Alla Warner Berkeley poté avvalersi con una certa continuità della coppia Harry Warren-Al Dubin (compositore-songster), del pianista accompagnatore Malcom Beelby e dell’arrangiatore Ray Heindorf, tutti e tre cruciali alla riuscita dei suoi numeri musicali in termini di ritmo. L’ingegnere del suono George Groves e il compositore
25 ALLISON ROBBINS, Busby Berkeley, Broken Rhythms and Dance Direction on the Stage and Screen, «Studies in Musical Theatre» 7/1, 2013, p. 80. 26 Robbins ne ha trascritto le battute (ROBBINS, Let’s Face the Music and Dance cit., p. 137). 27 Per la Warner Berkeley costruì numeri musicali nei film: 42nd Street, Gold Diggers of 1933 e Footlight Parade, tutti del 1933; Fashion of 1934, Wonder Bar e Dames nel 1934; Gold Diggers of 1935, In Caliente, Bright Lights, I Live for Love e Stars over Broadway nel 1936; Stage Struck, Gold Diggers of 1937, The Singing Marine e Varsity Show nel 1937; Hollywood Hotel, Gold Diggers in Paris e Garden of the Moon nel ’38. 28 «In tutta la mia esperienza nel cinema, non ho mai dovuto filmare due volte la stessa scena. Mi sono trovato ad aggiungere una scena, o a riscriverla, e l’ho quindi filmata nella nuova riscrittura, ma non l’ho mai filmata due volte. Il segreto del mio lavoro è nella preparazione, e questo costituisce i nove decimi della battaglia» (da un’intervista del 1969, cit. in DELAMATER, Dance cit., p. 30). 29 SPIVAK, Buzz cit., riproduzione, s.n.p. 30 Ivi, p. 71. 31 Berkeley in BRION – GILSON, A Style of Spectacle cit., p. 35.
Warren hanno ricordato lunghi incontri in fase di produzione, in cui Berkeley «schizzava col gesso ogni collocazione della macchina da presa su una lavagna e informava lo staff del numero di battute che gli era necessario e di quanta pellicola avrebbe consumato per quella particolare ripresa».32 Buzz usava schizzare i movimenti della macchina da presa su una lavagna: ad ogni intersezione delle linee poneva un gancio, su cui appendeva delle bamboline a indicare dove si sarebbero trovate le girls durante la ripresa. Berkeley ripercorreva tutto il numero con Heindorf, il quale si annotava i movimenti delle ragazze, a cui avrebbe cercato di adattare la musica. Il suo lavoro era abbastanza rapido, e sembra che in genere nel giro di una notte Heindorf riuscisse a produrre una orchestrazione del song in cui ogni chorus era in una certa misura diverso dall’altro.33 Gli arrangiamenti di Heindorf furono una componente vitale dell’estetica di Berkeley perché servivano a controbilanciare la qualità ripetitiva dei numeri, in cui la struttura del chorus si rigenera continuamente: in «I Only Have Eyes for You» e in «Dames» (Dames) questo accade per ben undici volte, e in «The Words Are in My Heart» (Gold Diggers of 1935) si verifica nove volte. Frequenti cambiamenti di chiave creavano varietà nel mentre assicurano quella memorizzazione del song che nel suo effetto ipnotico si innesta in modo quasi inesorabile, proprio come una filastrocca, nella mente degli spettatori.34 Compositore, orchestratore, paroliere e regista-coreografo lavoravano per un unico fine: le rime del testo, i ritmi musicali e quelli visivi dovevano incastrarsi in modo perfetto. Essi esaltavano le modalità del song stesso, come tipo di composizione musicale. Ha scritto Gianfranco Vinay a proposito dei song di Warren per 42nd Street:
La rima a tutti i costi fa parte di un meccanismo in cui la ripetizione è il principio fondamentale: ripetizione tematica, ritmica, ed anche e soprattutto ripetizione come fondamento della struttura formale. La formula AABA in frasi regolari […] è uno schema pressoché fisso.35
Per quanto riguarda l’intreccio tra ritmo sonoro e immagine visiva, Gerald Mast ha notato:
Il numero di Berkeley perfettamente sviluppato è un circolo perfetto. Comincia con una chiara dichiarazione visiva, si sviluppa in un’altra nel secondo chorus, e poi ancora in un terzo. Entra in un centro di forma libera (dal quarto, diciamo, fino all’ottavo chorus) e poi, nell’ultimo, ritorna passo dopo passo alla esatta immagine visiva, posizione della macchina da presa, e alle esatte frasi musicali dell’apertura.36
32 ROBBINS, Let’s Face the Music and Dance cit., p. 120. 33 «Quei numeri poi venivano assemblati abbastanza in fretta. In un certo senso si creavano da soli, erano ben fatti», ha ricordato Groves (ROBBINS, Let’s Face the Music and Dance cit., p. 110). 34 VEROLI – VINAY, “42nd Street”, cit., pp. 60-64. 35 Ivi, p. 61. 36 GERALD MAST, Can’t Help Singin’. The American Musical on Stage and Screen, Woodstock, NY, The Overlook Press, 1987, p. 128.
Effetti orchestrali come il mickey-mousing, colle sue rime sonore e visive, fanno credere che sia l’immagine a generare la musica e non il contrario, come invece accadeva.37
La parte musicale era in genere pre-registrata, né sarebbe stato possibile utilizzare un’orchestra che eseguisse in diretta la musica, mentre la macchina da presa si spostava continuamente o addirittura si trovava a vari metri da terra. Così come la parte danzata dei numeri di Berkeley non poteva e non può tuttora essere realizzata in teatro, altrettanto era impossibile l’uso regolare dell’orchestra. Era proprio la pre-registrazione ad assicurare la sincronizzazione perfetta: inquadrature e riprese erano pianificate e temporizzate molto prima che di fatto avvenissero. Per certi numeri musicali, tuttavia, si preferì ritornare alla registrazione standard. Le routine che non dipendevano da un beat rigoroso, come le sequenze di nuoto sincronizzato in «By a Waterfall», furono filmate senza musica. Per quel numero Berkeley dava i comandi al megafono per tenere le nuotatrici, circa un centinaio, assieme. In «Lullaby of Broadway» (Gold Diggers of 1935), i danzatori di tip-tap, essendo in così gran numero, producevano un suono talmente forte che si sovrapponeva al playback: fu necessario pertanto registrare live, disponendo l’orchestra in un angolo della vasta sala e i microfoni all’altezza dei danzatori.38 La potenza sonora dei gruppi di boys e girls, che si contrappongono in questo numero come veri e propri squadroni diversificati per genere, contribuisce a creare una drammaticità mai più raggiunta da Berkeley, e forse consonante coi tempi, politicamente segnati dalle minacciose parate naziste. Le sequenze di passi si rispondono in un serrato dialogo che il montaggio veloce rende più propriamente una lotta forsennata, o una guerra danzata a braccia sollevate. Inquadrature del primo piano delle gambe e dei piedi che battono il suolo sembrano la messa a fuoco di armi infallibili, mentre la ripresa dal basso dei corpi interi, sempre con angolazione obliqua, mostra i contendenti ora riuniti per genere, ora no, ed allineati in file che riempiono tutto lo spazio disponibile.39
Ma che rapporto aveva Berkeley coi suoi danzatori? Lui ha raccontato:
Prima di provare le grandi routine musicali, chiedevo alle girls di disporsi attorno a una lavagna e, come in una classe, chiedevo loro di sedersi e di guardarmi. mentre spiegavo i movimenti tramite un diagramma. Questo catturava sempre il loro interesse: spiegare quello che si proponeva una routine, dove si sarebbe trovata la macchina da presa, dove
37 ROBBINS, Let’s Face the Music and Dance cit., p. 115. Per i mutamenti di chiave ed il “mickeymousing” di «By the Waterfall» (Footlight Parade), vedi ivi, pp. 113 e 114. L’adattamento teatrale, tentato anche di recente, dei numeri di Berkeley (ad es. in 42nd Street, tra i musical cinematografici più famosi di tutta la storia del cinema) si è rivelato problematico anche per la parte musicale, giacché certi bilanciamenti di suoni strumentali erano creati dagli ingegneri del suono della Warner. La loro improbabilità nel mondo reale era parallela alla fantasmaticità della componente visiva. 38 «I danzatori non avevano le placche metalliche sotto le scarpe […], indossavano scarpe colla suola di legno per fare rumore, ma il suono era profondo, riverberante, quasi fragoroso, il che lo rende, credo, molto più eccitante, perché si sentiva la potenza di tutti quei passi che in scena andavano a ritmo» (G. Groves, cit. in ROBBINS, Let’s Face the Music and Dance cit., pp. 88). 39 Questa parte del numero è in <https://www.youtube.com/watch?v=tTgcMzRdmBY> (ultima consultazione 5 febbraio 2021).
sarebbero state loro. In genere facevo sempre anche uno schizzo dello shot finale. Questa procedura era particolarmente utile quando filmavo dall’alto pattern complicati.40
C’è da credere che le danzatrici (e i danzatori, quando coinvolti) avevano ben poca autonomia e possibilità di autodeterminazione. In questo senso bisogna ammettere che Berkeley nei suoi numeri musicali è andato il più vicino possibile a realizzare quella marionettizzazione del movimento a cui hanno puntato le avanguardie moderniste.
Le rime e i ritmi visivi di Berkeley non cessano di stupire, perché manipolano la percezione del tempo vissuto dall’osservatore, come certi giochi ottici dell’Ottocento. Alla dimensione di godimento tutta privata e all’esperienza plurisensoriale di quelli, Berkeley ha invece sostituito una dimensione eminentemente visiva e di massa, che anche per questo si è caricata degli echi drammatici della società del suo tempo.
40 Cit. in DELAMATER, Dance in the Hollywood Musical cit., p. 30.
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