Seminario di aggiornamento Compliance 231, antimafia, anticorruzione e concorrenza

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SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO COMPLIANCE 231, ANTIMAFIA, ANTICORRUZIONE E CONCORRENZA

Atti del convegno 18 ottobre 2019 Cappella Farnese, Palazzo D’Accursio - Bologna



CONSORZIO INTEGRA ringrazia tutti i relatori che hanno preso parte al seminario di aggiornamento: “Compliance 231, antimafia, anticorruzione e concorrenza�.



SEMINARIO DI AGGIORNAMENTO COMPLIANCE 231, ANTIMAFIA, ANTICORRUZIONE E CONCORRENZA Indice D.LGS. N. 231 p. 4

Recenti novità legislative e giurisprudenziali in materia di responsabilità degli enti Dott. Salvatore Dovere Consigliere di Cassazione, Sezioni unite penali

ANTIMAFIA p. 9

Controllo giudiziario, commissariamento prefettizio e tutela dei contratti pubblici in caso di tentativi di infiltrazione mafiose Prof. Costantino Visconti Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Palermo

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Le interdittive antimafia generiche e ‘a cascata’ tra vecchi e nuovi dubbi di incostituzionalità Prof. Giuseppe Amarelli Associato di Diritto penale, Università degli Studi di Napoli Federico II

ANTICORRUZIONE p. 30

Millantato credito e traffico di influenze illecite alla luce della riforma del 2019

Dott. Raffaele Piccirillo Magistrato addetto all’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione Capo della delegazione italiana presso il Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (GRECO)

CONCORRENZA p. 39

La compliance antitrust

Prof. Pietro Manzini Ordinario di Diritto dell’Unione Europea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna

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D.LGS. N. 231 Recenti novità legislative e giurisprudenziali in materia di responsabilità degli enti Dott. Salvatore Dovere Consigliere di Cassazione, Sezioni unite penali

1. Nel corso del 2019 gli interventi della giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità da reato degli enti morali (d.lgs. n. 231/2001) sono stati sollecitati, come di consueto, soprattutto da questioni di ordine processuale, afferenti in principal modo i provvedimenti di natura cautelare. Per ciò che concerne lo statuto sostanzialistico di tale responsabilità, si deve registrare come la Corte di cassazione proceda nell’implementazione dei principi posti dalle Sezioni Unite (sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261113), a partire da quello secondo il quale si tratterebbe di una forma di responsabilità non riducibile né a quella penale né a quella amministrativa, in quanto connotata da aspetti del tutto peculiari. È stato quindi ripetuto che essa “configura una sorta di tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza”. All’origine di tale responsabilità si ravvisa “la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, … fondata, nel sistema introdotto dal d.lgs. n. 231 del 2001, sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”. Quanto al ruolo assunto dai modelli organizzativi in seno all’illecito dell’ente, è stato ribadito che “una volta accertata la commissione di determinati reati da parte delle persone fisiche che esercitano funzioni apicali, i quali abbiano agito nell’interesse o a vantaggio delle società, incombe sui predetti enti l’onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. Sez. 3, n. 18842, 24.1-6.5.2019. 2. Anche il dibattuto tema dell’atteggiarsi del nesso di imputazione dell’illecito all’ente costituito dall’essere stato commesso il reato nel suo interesse e vantaggio quando a venire in considerazione sono reati colposi (in origine i soli reati menzionati dall’art. 25-septies; allo stato anche quelli di cui all’art. 25-undecies) risulta affrontato sulla falsariga di quanto statuito dal massimo organo giudiziario. Si è nuovamente sostenuto che l’interesse o il vantaggio di cui all’art. 5 del decreto l.gs. n. 231/2001, sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il secondo ha una connotazione es6


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senzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito; che per non svuotare di contenuto la previsione normativa che ha inserito nel novero di quelli che fondano una responsabilità dell’ente anche i reati colposi i criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all’evento, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito, essendo possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente. A maggior ragione vi è perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l’ente. Tali criteri di imputazione oggettiva, da riferire nei reati colposi di evento entrambi alla condotta del soggetto agente e non all’evento, ricorrono allorquando l’autore del reato abbia violato la normativa cautelare con il consapevole intento di conseguire un risparmio di spesa per l’ente, indipendentemente dal suo effettivo raggiungimento, o qualora abbia violato sistematicamente le norme antinfortunistiche, ricavandone oggettivamente un qualche vantaggio per l’ente, sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso Sez. 4, n. 28097, 21.3-27.6.2019 Ancora quanto alla concreta consistenza del vantaggio, solitamente identificato nel settore prevenzionistico in un risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione, con valenza più generale (si pensi ai reati ambientali di cui all’art. 25-undieces) è stato affermato che il vantaggio dell’ente può ben consistere nella velocizzazione degli interventi manutentivi … e nel risparmio sul materiale di scarto. 3. In un caso è stato ritenuto che il modello organizzativo adottato, sebbene conforme alle norme BS OHSAS 18001:2007, non fosse stato efficacemente attuato. Da ciò potrebbe ricavarsi che: a) è stato implicitamente indicato che la conformità del modello a tali norme vale a rendere idoneo il modello, secondo la previsione, invero non di cristallina chiarezza, dell’art. 30, co. 5 d.lgs. n. 81/2008; b) all’idoneità deve comunque accompagnarsi l’efficace attuazione del modello. In realtà, quanto al primo aspetto, si tratterebbe di una deduzione probabilmente ultronea. La giurisprudenza è stabilmente orientata a considerare come non decisiva la corrispondenza tra modello di organizzazione adottato dall’ente e quanto suggerito da linee guida; anche nel caso in cui si tratti di quelle menzionate dall’art. 30, co. 5 d.lgs. n. 81/2008, nonostante la ben più impegnativa formula legale (“In sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNIINAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti. Agli stessi fini ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere indicati dalla Commissione di cui all’articolo 6”). In realtà, nel caso qui evocato, la Corte di cassazione non ha avuto necessità di soffermarsi sul tema della idoneità, risultando assorbente il profilo della inefficiente attuazione. Anche in merito a questo secondo aspetto la Corte di cassazione ha svolto affermazioni importanti, rimarcando la non riducibilità del modello al sistema di gestione della sicurezza del lavoro incentrato sulla valutazione dei rischi. In replica alla difesa che lamentava come il modello fosse stato ritenuto attuato in modo non efficace solo perchè erano risultate violazioni di norme prevenzionistico, la Corte di cassazione ha osservato che il giudice di 7


merito avesse invece rilevato: a) la mancata previsione di istruzioni operative per l’attività di rilevamento dei difetti della linea di lavorazione; b) l’inadeguatezza dell’attività di monitoraggio rispetto ai rischi esistenti e alla realizzazione di un sistema di vigilanza da parte del competente organismo, con riferimento all’attuazione del modello organizzativo; c) il difetto nelle previsioni concernenti l’aggiornamento delle procedure per effettuare i controlli. Sez. 4, n. 29538, 28.5-8.7. 2019. 4. Un ulteriore chiarimento è venuto dalla sentenza che ha preso in esame la questione se l’omessa adozione del modello di organizzazione e gestione da parte dell’ente sia, di per sé, costitutivo della colpa di organizzazione in capo alla società, senza che assuma rilevanza il fatto che la società si sia dotata di un sistema di controlli di procedure, di procure e deleghe per la prevenzioni fatti analoghi a quelli verificatisi. Questione che trova il proprio postulato nel principio, condiviso dai più, secondo il quale l’ente non a l’obbligo di adottare i modelli organizzativi; sicché esso potrebbe dimostrare di avere adottato altre misure necessarie ad impedire la commissione di reati del tipo di quello realizzato. La Corte di cassazione non ha affrontato sul piano teorico il tema della rilevanza della funzionalizzazione in senso prevenzionale dell’organizzazione dell’ente attraverso misure non racchiuse in un modello di organizzazione; ma ha chiaramente indicato come la lettera della legge assegni valore esimente proprio e solo all’adozione e alla efficace attuazione del modello organizzativo che abbia il contenuto minimo previsto dall’art. 6 (ovvero dall’art. 30 d.lgs. 81/2008 in campo prevenzionistico). Ne consegue, a meno di non voler ammettere una frattura sulla quale aleggerebbe il sospetto di illegittimità costituzionale, che colpa di organizzazione e (inidoneo ed inefficace) modello di organizzazione e gestione costituiscono le due facce di una sola medaglia. Sez. 3, n. 11518, 23.1.-15.3.2019 5. Ancorchè pubblicata nell’ultimo scorcio del 2018 merita una citazione in questa sede anche la sentenza Sez. 6, n. 54640 del 25/09/2018 - dep. 06/12/2018, Pacucci, perchè ha delineato le differenze che corrono, quanto al ruolo dei modelli organizzativi, a seconda che il reato sia commesso da soggetto apicale o da soggetto a questo sottoposto. Ricorderemo che mentre l’art. 6 afferma che l’ente non risponde del reato commesso nel suo interesse o vantaggio se dimostra di aver adottato ed efficacemente attuato ante delictum un modello di organizzazione di gestione i cui contenuti minimi sono delineati dalla medesima disposizione, l’art. 7 prevede, per il caso che il reo non sia soggetto posto in posizione apicale, che l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione e di vigilanza e che tale inosservanza è esclusa se l’ente ha adottato ed efficacemente attuato prima della commissione del reato un modello di organizzazione e di gestione volto a prevenire i reati della specie di quello verificatosi. La Corte ha rilevato che nel caso di reato commesso da soggetto apicale la mancata adozione è di per sé bastevole al fine di suffragare la responsabilità dell’ente; nel caso di soggetto non apicale, la circostanza che l’adozione del modello organizzativo valga ad escludere ai sensi dell’art. 7 la responsabilità dell’ente implica che in tale ipotesi il legislatore abbia ritenuto non addebitabile all’ente un profilo di colpa di organizzazione, tale da rendere ravvisabile un’effettiva immedesimazione della responsabilità, dovendosi quindi considerare il reato come estraneo alla sfera di operatività e concreta interferenza dell’ente. Nel caso di reato commesso da soggetto non apicale, in assenza di un modello organizzativo idoneo, la colpa di organizzazione risulta comunque sottesa ad un deficit di direzione o vigilanza - incentrata su un sistema di 8


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regole cautelari -, che abbia in concreto propiziato il reato. Ne risulta che l’assetto organizzativo deve essere comunque in grado di assicurare un’azione preventiva; pertanto, nel caso dei soggetti di cui all’art. 5, co. 1 lett. b) solo il concreto ed effettivo esercizio di un mirato potere di direzione e controllo può valere a scongiurare la responsabilità; in questo senso deve essere inteso il riferimento contenuto nell’art. 7 all’inosservanza dei doveri di direzione e vigilanza. Conclude la Corte che “nel caso di mancata adozione di modelli organizzativi, i presupposti della responsabilità dell’ente, a seconda che si tratti o meno di soggetto apicale, differiscono solo alla condizione che sia concretamente attestato un assetto, ispirato da regole cautelari, destinato comunque ad assicurare quell’azione preventiva, in tal caso essendo necessario provare che il fatto sia stato propiziato dall’inosservanza nel caso concreto della necessaria azione di direzione o vigilanza”. Sembra di poterne dedurre che, per la Corte, in assenza di modello, ove l’ente abbia previsto poteri-doveri di direzione e di vigilanza idonei allo scopo di prevenire reati, per renderlo responsabile del reato è necessario che venga data dimostrazione del fatto che la commissione di questo è stata resa possibile dalla violazione di quei poteri-doveri. Mentre se manca l’attribuzione di mirati poteri e doveri in grado di esercitare un’azione preventiva, non è necessario dimostrare anche la violazione di una regola cautelare, potendosi ricavare da quella assenza che la commissione del reato da parte del soggetto non apicale sia derivata dagli obblighi di direzione e vigilanza. 6. In questo torno di tempo è stato nuovamente affrontato il tema dell’applicabilità all’ente della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. per il caso di particolare tenuità del fatto. È opportuno rammentare che in proposito sono state sostenute due opposte tesi. Secondo una prima, fondata sul tenore letterale dell’art. 8 lett. b) del decreto 231 (“La responsabilità dell’ente sussiste anche quando: … b) il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia”), nel raggio di applicazione della nuova disposizione cade anche la responsabilità dell’ente, poiché essa non considera espressamente le cause di non punibilità (quale quella prevista dall’art. 131bis cod. pen.) tra le ipotesi che la lascerebbero sussistere. Secondo un’alternativa tesi non sarebbe ragionevole il fatto che l’ente non sia esente da responsabilità nelle ipotesi, indicate dall’art. 8, lett. b) di estinzione del reato per cause diverse dall’amnistia e non anche quando il reato sia accertato ma non punibile, come nei casi stabiliti dall’art. 131 bis cod. pen., la cui applicazione comporta conseguenze anche pregiudizievoli quali l’iscrizione della sentenza nel casellario giudiziale e l’effetto di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso nei giudizio civile o amministrativo di danno ai sensi dell’art. 651-bis cod. proc. pen. Con una prima decisione (Sez. 3, n. 9072 del 17/11/2017 (dep. 2018), PG. in proc. Ficule, Rv. 272447) è stato ritenuto che la causa di non punibilità della quale parliamo non sia applicabile anche all’ente e che non sussista alcun automatismo tra il riconoscimento della particolare tenuità del fatto commesso dalla persona fisica e il riconoscimento della particolare tenuità dell’illecito dell’ente. Sicché, qualora nei confronti dell’autore del reato presupposto sia stata applicata la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131 bis cod. pen., il giudice deve procedere all’autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall’accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento 9


emessa nei confronti della persona fisica. La posizione è stata ribadita con una recente decisione. La Corte ha osservato come la disposizione in esame evidenzi che sia stata considerata l’esistenza di un reato completo di tutti i suoi elementi (oggettivi e soggettivi) per il quale l’autore persona fisica non risulti punibile (perché non imputabile o non identificato) ovvero che per varie ragioni si estingua (per una causa diversa dall’amnistia). L’art. 8 prende in considerazione solo le cause di estinzione del reato e non anche le cause di esclusione della punibilità, poiché nella relazione ministeriale viene testualmente specificato: “è appena il caso di accennare al fatto che le cause di estinzione della pena (emblematici i casi di grazia o di indulto), al pari delle eventuali cause non punibilità e, in generale, alle vicende che ineriscono a quest’ultima, non reagiscono in alcun modo sulla configurazione della responsabilità in capo all’ente, non escludendo la sussistenza di un reato. Se la responsabilità dell’ente presuppone comunque che un reato sia stato commesso, viceversa, non si è ritenuto utile specificare che la responsabilità dell’ente faccia permanere quella della persona fisica. Si tratta infatti di due illeciti, quello penale della persona fisica e quello amministrativo della persona giuridica, concettualmente distinti, talché una norma che ribadisse questo dato avrebbe avuto il sapore di un’affermazione di mero principio”. Per il giudice di legittimità, anche l’interpretazione letterale dell’art. 8 milita nel senso di escludere l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. alle ipotesi di responsabilità degli enti di cui al d.lgs. 231/2001. Pertanto, la eventuale declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto nei confronti dell’autore del reato presupposto non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell’ente, né ad esso può applicarsi la predetta causa di non punibilità. Sez. 3, n. 11518, 23.1.-15.3.2019 7. Con specifico riferimento ai reati ai quali è dedicato l’odierno seminario, merita una citazione la pronuncia che ha puntualizzato in cosa consista il profitto del reato di riciclaggio: “dal momento che il riciclaggio ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato è l’intero ammontare delle somme che sono state “ripulite” attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall’imputato”. Si è ance precisato che il fatto che un imputato abbia goduto solo in parte del profitto del riciclaggio non esclude ce sia l’intera somma riciclata a costituire il profitto del reato, stante la responsabilità di tipo concorsuale. Nella medesima occasione è stato ribadito che l’eventuale autonomo provvedimento di sequestro avente ad oggetto beni delle società, utilizzate dall’imputato per commettere le truffe aggravate poste a fondamento della confisca per equivalente, non incide sull’operatività e sulla misura della confisca per equivalente che deve colpire il patrimonio personale dell’imputato, trattandosi di sanzione autonoma e differente rispetto alla confisca ex d.ls. n. 231/2001. La confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso. Sez. F., n. 37120, 1.8-5.9.2019

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ANTIMAFIA Controllo giudiziario, commissariamento prefettizio e tutela dei contratti pubblici in caso di tentativi di infiltrazione mafiose Prof. Costantino Visconti Ordinario di Diritto penale, Università degli Studi di Palermo

Sommario: 1. Premessa: il sotto-sistema delle misure “diverse dalla confisca” nel Codice antimafia. - 2. I presupposti del controllo giudiziario “volontario” nelle prime applicazioni giurisprudenziali: critica. - 3. Una possibile alternativa. - 4. Modello “retrospettivo-stigmatizzante” vs modello “prospettico-cooperativo”. - 4.1.1. La giurisprudenza di merito. - 4.1.2. La giurisprudenza di legittimità. - 4.2.1 La familiarità con il sistema 231. - 4.2.2. La familiarità con istituti francesi, britannici e statunitensi. - 4.3 Area grigia e rapporti mafie-imprese nelle ricerche sociologiche. - 5. Riassumendo, conclusivamente.

1.Premessa: il sotto-sistema delle misure “diverse dalla confisca” nel Codice antimafia Il controllo giudiziario “volontario” costituisce la novità più “innovativa” contenuta nella riforma del Codice antimafia del 2017. È, infatti, l’unica misura di prevenzione applicata su istanza della parte privata, posta a chiusura della parte del Codice dedicata alle forme di intervento patrimoniale “diverse dalla confisca”. Un ambiente normativo, questo, caratterizzato nel suo insieme da una precisa vocazione fortemente rilanciata dall’ultima riforma. L’idea, cioè, che nello specifico settore delle attività economiche e delle aziende, laddove non ricorrano gli estremi per procedere alla confisca e tuttavia si riscontrano commistioni tra mondi criminali e realtà imprenditoriali, è possibile provare a sostenere le imprese in un’opera di bonifica interna che le metta al riparo da futuri condizionamenti o infiltrazioni illeciti. E così, nel caso di “contiguità” più spesse (in termini di agevolazioni imprenditoriali in favore di interessi criminali o di condizionamenti mafiosi delle attività economiche), l’art. 34 prevede che la magistratura requirente possa chiedere al Tribunale l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria, ossia uno spossessamento gestorio, selettivo e limitato nel tempo, finalizzato a realizzare “il programma di sostegno e di aiuto alle imprese amministrate e la rimozione delle situazioni di fatto e di diritto” all’origine della misura. Mentre, nel caso in cui tale agevolazione risulti meno spessa, cioè “occasionale” ma accompagnata dal “pericolo concreto di infiltrazioni mafiose idonee a condizionarne l’attività”, l’art. 34 bis prevede che, sempre a richiesta della parte pubblica, il Tribunale possa applicare il “controllo giudiziario”: una forma di tutoraggio dell’azienda che senza sottrarre la gestione ai titolari persegue l’obbiettivo di adottare ogni tipo di “iniziativa finalizzata a prevenire specificamente il rischio di tentativi di infiltrazione o condizionamento mafiosi”, tra cui anche un modello di organizzazione ai sensi della disciplina prevista dal d.lgs. 231/2001. In questo quadro si colloca il “controllo giudiziario volontario” previsto dal comma 6 dell’art. 34 bis: stavolta è appunto la parte privata, in particolare un’impresa colpita da interdittiva antimafia, che chiede l’applicazione del “controllo giudiziario” al fine di ottenere la sospensione degli effetti del provvedimento prefettizio fintantoché perduri la misura1. 1 Per un rapido commento d’insieme, sia consentito rinviare a C. Visconti, in C. Visconti-G. Tona, Nuove pericolosità e nuove misure di prevenzione: percorsi contorti e prospettive aperte nella riforma del codice antimafia, in www. lalegislazionepenale.eu, 14 febbraio 2018.

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Ebbene, nei primi due anni di vigenza della riforma, è proprio il “controllo giudiziario volontario” ad avere avuto i maggiori riscontri applicativi, sollevando però non pochi quesiti interpretativi che hanno trovato risposte diversificate nella giurisprudenza di merito e di legittimità. Qui si intende analizzare un nodo fondamentale: la precisazione dei presupposti in presenza dei quali il Tribunale può accogliere la richiesta di ammissione alla misura avanzata dall’azienda “interdetta”. Come vedremo, lungi dal risolversi in una mera disputa esegetica, la questione incide non solo sulla definizione dei confini applicativi dell’istituto ma anche sulla generale strategia politico-criminale che si intende perseguire nel cruciale campo del contrasto alle infiltrazioni mafiose nelle attività imprenditoriali. 2. I presupposti del controllo giudiziario “volontario” nelle prime applicazioni giurisprudenziali: critica È uno degli aspetti che più ha impegnato gli interpreti alle prese con un dato normativo invero sfuggente, aperto a soluzioni diverse. Dopo aver fissato quale requisito per l’istante “l’impugnazione del relativo provvedimento del prefetto”, la legge si limita infatti ad affermare che “il tribunale, sentiti il procuratore distrettuale competente e gli altri soggetti interessati (…) accoglie la richiesta, ove ne ricorrano i presupposti”. Ma quali sono tali “presupposti” non meglio precisati dal legislatore? Ora, un orientamento diffuso nella giurisprudenza di merito2, avallato ai primi passi dalla Cassazione3, ha sposato la tesi secondo cui anche per la versione “volontaria” del controllo giudiziario occorre accertare i presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 34 bis per la versione – per dir così – ordinaria, ossia applicata su proposta del pubblico ministero o d’ufficio. Sicché, il Tribunale potrebbe ammettere al “controllo giudiziario volontario” soltanto le imprese che, per un verso, hanno impugnato in sede amministrativa il provvedimento interdittivo che le ha colpite, e, per altro verso, non hanno oltrepassato la soglia della “agevolazione occasionale” rispetto agli interessi mafiosi, non siano cioè indiziate di qualcosa di più gravemente compromettente e duraturo sul piano dei rapporti con le sfere criminali. Una simile impostazione - di per sé non imposta dal (ma neanche in contrasto con il) dettato legislativo - rischia però di appannare la proiezione politico-criminale dell’istituto, di non coglierne la portata innovativa e le potenzialità applicative. E ciò perché spinge il Tribunale a “vivere” la misura alla stregua di un beneficio da concedere a una azienda per quel che si ritiene essa sia e non invece per quel potrebbe diventare per effetto proprio dell’applicazione del controllo giudiziario. In altre parole, per questa via i giudici guardano al passato, non al futuro. Mentre, in realtà, al sistema della prevenzione giurisdizionale spetta il compito di “prevenire” la commissione di reati non di stigmatizzare alcunché, e gli elementi di fatto su cui si basa il giudizio non costituiscono oggetto di rimprovero, bensì indicatori utili per formulare prognosi. 3. Una possibile alternativa Cambiando quadrante ermeneutico, è invece possibile accedere ad una diversa interpretazione di più ampio respiro che in questa sede si intende patrocinare. Volendo sintetizzare: di fronte alla richiesta privata, il Tribunale è chiamato a verificare sì la sussistenza dei presupposti, ma nel senso che dovrà valutare se la misura del controllo giudiziario è suscettibile o meno di 2 Di cui è capofila Tribunale di S. Maria C.V., 14 febbraio 2018, in Giur. It., 2018, 1518, con il commento di T. Alesci, I presupposti ed i limiti del nuovo controllo giudiziario nel codice antimafia; per una più ampia spiegazione di tale orientamento cfr. F. Balato (peraltro estensore del provvedimento appena citato), La nuova fisionomia delle misure di prevenzione patrimoniali: il controllo giudiziario delle aziende e delle attività economiche di cui all’art. 34 bis Codice antimafia, in Dir.pen.cont., 3/2019, 61 ss. 3 Cass., sez. V, 2 luglio 2018, Eurostrade s.r.l, n. 34526. 12


Bologna, 18.10.2019 - Prof. Costantino Visconti

perseguire l’obbiettivo di “bonificare” l’azienda nel caso di specie. Su questo crinale, il compito principale dei giudici non è cimentarsi nella qualificazione in termini occasionali o duraturi dei rapporti tra l’impresa e la criminalità mafiosa, quali risultanti dal provvedimento interdittivo e dalle deduzioni delle parti. Piuttosto, il Tribunale dovrà servirsi del materiale probatorio disponibile per decidere se l’azienda istante, grazie all’applicazione della misura, è in grado o no di attrezzarsi in modo adeguato al fine di scongiurare in futuro quegli «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa diretti a condizionare l’impresa» che - subiti in passato secondo le indagini prefettizie – hanno fatto scattare l’interdizione amministrativa. Così rivisitati i suoi presupposti, il controllo giudiziario “volontario” sembra rispecchiare autenticamente le prospettive teleologiche emergenti anche dal peculiare sotto-sistema normativo in cui l’istituto è collocato, ove la prevenzione delle infiltrazioni criminali è praticata non “contro” ma il più possibile “con” le imprese coinvolte, nel segno della prosecuzione delle attività economiche e della continuità aziendale. Beninteso, in uno scenario nel quale l’interesse specifico della singola impresa ad accedere alla misura si coniuga con l’interesse pubblico a salvaguardare l’integrità dei mercati e della produzione dalle incursioni criminali e dal necessario contrasto statale4. A maggior ragione se si tiene nella giusta considerazione che la misura è richiesta dalla stessa parte privata: aziende già attinte da un provvedimento “preventivo” di natura amministrativa e però fino a quel momento fuori dall’orbita della prevenzione giurisdizionale. Un conto, infatti, è limitarsi sul piano amministrativo a interdire - ex officio e generalmente inaudita altera parte - l’impresa ritenuta vulnerabile alle infiltrazioni mafiose dall’avere rapporti economici con la pubblica amministrazione; altro conto è sostenerle nella loro volontà di mettersi al riparo dai condizionamenti criminali con programmi di compliance e monitoraggio sotto la guida dell’autorità giudiziaria. Grazie alla stessa iniziativa della parte privata, cioè, l’azione di prevenzione giurisdizionale arriva dove altrimenti non sarebbe potuta giungere, a beneficio dell’intero sistema economico; e, al contempo, l’azienda ottiene una chance di continuità produttiva al costo di un’ingerenza statale nella gestione e affrontando il rischio di mettersi “a nudo” di fronte all’autorità giudiziaria, la quale rimane libera di applicare eventualmente ulteriori misure più invasive ove ne emergano i presupposti (dall’amministrazione giudiziaria ex art. 34, alla confisca ex art. 24). 4. Modello “retrospettivo-stigmatizzante” vs modello “prospettico-cooperativo” Arrivati a questo punto, si può dire che ci troviamo, grossomodo, innanzi a due modelli praticabili in sede applicativa: l’uno, quello affacciatosi in alcune pronunzie giurisprudenziali e più su criticato, che per comodità definiamo “retrospettivo-stigmatizzante”; l’altro, qui preferito, che invece definiamo “prospettico-cooperativo”. Ebbene, a sostegno di quest’ultimo modello, nel prosieguo esploreremo in modo cursorio tre versanti. Il primo (infra, 4.1), giurisprudenziale, per ricavare un doppio riscontro: a) gli argomenti impiegati dalle pronunzie favorevoli al primo modello sono tutt’altro che irresistibili; b) a uno sguardo più attento, nella giurisprudenza di merito e di legittimità, si rinvengono approcci diversificati che sembrano in realtà ispirati maggiormente al secondo modello. Il secondo versante (infra, 4.2), comparatistico, ove si rinviene una spiccata familiarità del controllo giudiziario volontario con altri istituti. Sul piano domestico, basti pensare alle molteplici occasioni che il sistema 231 offre agli enti coinvolti in un procedimento di attenuare le 4 Come non manca di osservare T. Bene, Dallo spossessamento gestorio agli obbiettivi di stabilità macroeconomica, in Arch. Pen., 2018, spec. Riforme, 383 ss., secondo cui «l’oggetto della tutela preventiva tende a preservare la stabilità macroeconomica del sistema assicurando la continuità della produzione di beni e servizi». 13


conseguenze sanzionatorie e cautelari grazie a condotte in senso lato “riparatorie” anche per il tramite della predisposizione di adeguati modelli organizzativi finalizzati a prevenire reati, nonché a recenti prospettive riformistiche avanzate in dottrina volte proprio ad ampliare tali occasioni in chiave consensuale. Sul piano extradomestico, altrettanta familiarità la ritroviamo nella francese Convention judiciarie d’intérêt public, e negli istituti di Pre-trial diversion britannici e nordamericani. Il terzo versante (infra, 4.3), a carattere socio-criminologico, offre infine molteplici spunti “sul campo” a conforto della opportunità di adottare il modello “prospettico-cooperativo”. Gli studi più recenti e accreditati sui rapporti tra economia lecita e criminalità mafiosa e in particolare sulla c.d. “area grigia”, infatti, danno conto di un dato essenziale: lungi dal presentarsi uniformi nella loro morfologia, tali rapporti non si prestano a classificazioni schematiche e – soprattutto – richiedono strategie ben più articolate sotto il profilo del contrasto statale, non riconducibili, per dir così, alla semplice alternativa bianco/nero, colpevole/innocente. 4.1.1. La giurisprudenza di merito A ben vedere, al fondo dell’orientamento che identifica i presupposti del controllo giudiziario “volontario” nell’accertamento dei requisiti previsti dal comma 1 dell’art. 34 bis, non giacciono rilevanti tracciati esegetici o solidi argomenti sistematici. La scelta di guardare a quei requisiti sembra per lo più dettata dall’esigenza, emersa prepotentemente in sede di prima applicazione, di individuare un appiglio normativamente afferrabile per confutare la tesi dell’automatismo applicativo avanzata dalle difese e, insieme, di affidarsi a una bussola per orientare le proprie decisioni di volta in volta senza cadere in sorta di horror vacui con margini di discrezionalità ingestibili. Lo stesso Tribunale di S. Maria C.V, leader di tale orientamento, d’altro canto, mostra un’elevata consapevolezza dei molteplici profili problematici connessi a una simile opzione. Tanto che nei provvedimenti successivi al primo5 fornisce preziose indicazioni rispetto alla necessità di tenere in maggior considerazione le potenzialità di “self cleaning” delle aziende richiedenti in un’ottica più generale di tutela pubblicistica del mercato e della continuità produttiva, con significativi rimandi alle peculiarietà dei contesti ambientali6. Pervenendo, perfino, alla decisione di applicare il controllo giudiziario a un’azienda a cui lo si era rifiutato poco tempo prima, sulla base di una sapiente presa d’atto del mutamento delle condizioni in cui versava l’attività economica scrutinata7. Del resto, va pure osservato che il percorso ermeneutico che conduce all’adozione dei requisiti dell’agevolazione occasionale anche per il controllo giudiziario volontario, non ha dalla sua alcun esplicito sostegno esegetico. Anzi, rischiando la sbrigatività, ben si potrebbe sostenere il contrario: se il legislatore avesse voluto prendere posizione in quel senso, avrebbe completato il riferimento ai “presupposti” con il tipico richiamo “di cui al primo comma”. Si aggiunga che l’inserimento nella norma della locuzione “verificandone i presupposti” è opera del Parlamento (la Commissione ministeriale che ha congegnato l’istituto8,

5 V. antea, nt. 2. Nello stesso senso, ma con non irrilevanti sfumature diverse, cfr. inoltre Trib. Napoli, 1 giugno 2018, Polisportiva Antimo a.r.l.; Trib. Milano, 17 luglio 2018, Farmacia fiduciaria Milano s.r.l.; Trib. Bologna,6 marzo 2018, La Nazionale Elettronica s.r.l. 6 Trib. S. Maria C.V., 2 maggio 2018: «[…] non può sottacersi che una cosa è fare impresa in realtà territoriali storicamente interessate da fenomeni di natura criminale, altra cosa è farla in territori da questo punto di vista più vergini». 7 Trib. S. Maria C.V., 22 ottobre 2018: «[…] tutto ciò consente di ritenere che buona parte delle criticità evidenziate nel provvedimento interdittivo e ritenute non destituite di fondamento nell’originario provvedimento di rigetto, siano state, almeno formalmente, eliminate e consentano di ammettere la società al richiesto controllo giudiziario». 8 Cfr. Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata: la prima relazione della Commissione Fiandaca, in www.penalecontemporaneo.it, 12 febbraio 2014. 14


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la Commissione parlamentare antimafia9 e il Governo, invece, lo avevano configurato in termini “automatici”), sulla base di un documento presentato dalla Direzione nazionale antimafia in cui, salvo un generico riferimento alla necessità di evitare un indebolimento indiscriminato della prevenzione amministrativa, non v’è alcuna indicazione più stringente sui contenuti dei presupposti medesimi10 (e lo stesso può dirsi per i lavori parlamentari). Se, poi, passiamo in rassegna la giurisprudenza dei vari Tribunali che si sono misurati con il problema interpretativo in questione, ci si rende conto che il panorama è frastagliato e i giudici hanno fornito risposte tutt’altro che univoche. Sotto questa angolazione, si segnala anzitutto il Tribunale di Reggio Calabria, particolarmente autorevole per quantità e qualità della casistica affrontata, che fin dai primi passi ha individuato i “presupposti” della misura nella verifica della sussistenza o meno di un “interesse pubblico”, identificato nel proseguimento delle opere pubbliche eventualmente interrotte per effetto dell’interdittiva prefettizia11. Soluzione certamente discutibile per le ricadute potenzialmente discriminatorie tra le aziende richiedenti (anche se meglio impostato nelle pronunzie più recenti12), ma comunque fuori dalla “gabbia” del comma 1 dell’art. 34 bis. Altrettanto autorevole la giurisprudenza del Tribunale di Catanzaro, al quale si deve il coraggio di aver colto pienamente lo spirito “recuperatorio” dell’istituto, puntando l’attenzione prevalentemente sulla verifica della capacità delle imprese di liberarsi in futuro del condizionamento mafioso, anche in base alla tipologia di commistione criminale rilevata e in forza del sostegno “controllante” e “prescrittivo” dell’autorità giudiziaria. Più in particolare, i giudici catanzaresi utilizzano il requisito dell’occasionalità alla stregua di un indice “quantitativo” che esprime un «condizionamento criminale di modesta entità» tale da presentarsi “bonificabile” mediante, per l’appunto, un programma di compliance predisposto in sede di applicazione del controllo giudiziario13. Anche stavolta, pertanto, un giudice “senza torcicollo”, che guarda al passato non a fini stigmatizzanti ma soltanto in funzione di una prognosi per la riuscita in futuro delle misure da adottare. Un approccio puramente e semplicemente “prospettico-cooperativo”, improntato alla prognosi delle chances di bonifica dell’azienda istante, lo ritroviamo infine sinteticamente scolpito in una decisione del Tribunale di Firenze. Rifiutando la prospettiva di far dipendere la decisione dalla qualificazione come “occasionale” o meno dei rapporti tra l’azienda e interessi mafiosi, i giudici fiorentini fondano l’applicazione della misura su una valutazione di merito 9 Cfr. Codice antimafia e delle misure di prevenzione: in cantiere una riforma organica, in www.penalecontemporaneo.it, 2 dicembre 2014. 10 Cfr. Osservazioni a margine dei lavori del Senato sull’iter di approvazione dell’AS n. 2134 recanti modifiche al Codice delle leggi antimafia. La posizione della Procura nazionale, in www.penalecontemporaneo.it, 28 giugno 2016. 11 Tribunale di Reggio Calabria, 31 gennaio 2018, A. & C., ove i giudici fanno leva su una concezione di interesse pubblico circoscritta alla prosecuzione di opere e appalti pubblici. 12 Tribunale di Reggio Calabria, 13 marzo 2019, ove invece si estende lo spettro valutativo prendendo in considerazione «il rilevante numero di dipendenti attualmente posti in aspettativa» dell’azienda richiedente, nonché «il fatto che la società risulta operare nel Porto di Gioia Tauro, infrastruttura di primaria importanza». 13 Tribunale di Catanzaro, 9 luglio 2018, ove si afferma tra l’altro che «il controllo giudiziario a iniziativa privata non può prescindere da una valutazione del Tribunale sulla capacità dell’impresa di poter attuare dall’interno una bonifica dalle anomalie, riferite alla composizione societaria e/o alla amministrazione e gestione, accertate nell’informazione antimafia interdittiva e segnalate come fattori di rischio di infiltrazione e condizionamento mafioso ovvero come situazioni che potrebbero porsi come propedeutiche all’insorgenza di contaminazione esterna ad opera di soggetti appartenenti o gravitanti in contesti associativi a connotazione mafiosa”; più di recente, con provvedimento del 15 aprile 2019, i giudici catanzaresi hanno precisato che il requisito dell’occasionalità fa riferimento ai casi in cui “il tentativo o pericolo di infiltrazione o condizionamento delle scelte imprenditoriali sia di modesta o ridotta intensità e, in ogni caso, tali da rendere possibile o consentire la eliminazione delle anomalie riscontrate mediante interventi attuati all’interno e dall’interno direttamente e autonomamente dall’impresa destinataria di interdittiva antimafia. In tale ambito, il controllo giudiziario assolve a una funzione di supporto all’impresa che si è affidata al giudizio del Tribunale affinché venga accertata e valutata la sua capacità di emendamento e bonifica […]». 15


tesa ad accertare «l’esistenza di una realtà imprenditoriale effettivamente operativa per la quale sia possibile e utile un controllo giudiziario in assenza di situazioni ostative di qualsiasi genere (per esempio fallimento, procedure concorsuali, impresa direttamente o indirettamente sottoposta sequestro o ad altre misure di prevenzione, nuove istanze delle parti ecc.)»14. 4.1.2. La giurisprudenza di legittimità Nella giurisprudenza di legittimità non constano particolari approfondimenti sulla questione dei “presupposti”. La prima sentenza in argomento si limita ad avallare l’iniziale impostazione del Tribunale di S. Maria C.V., senza aggiungere alcunché sul piano motivazionale15. Le decisioni successive, pur impegnate su altri problemi di natura processuale, sembrano accogliere tralaticiamente tale opzione senza soffermarsi funditus. Salvo qualche obiter dictum sparso qua e là che fa comprendere che ai piani alti della giurisdizione non è ancora né chiara né omogenea la visione sulla natura dell’istituto. Colpisce, ad esempio, la stentorea quanto apodittica affermazione secondo cui «il controllo giudiziario è quindi ontologicamente connotato dalla natura occasionale del “contagio mafioso” poiché se non ricorresse tale condizione non si verterebbe nell’alveo del controllo giudiziario ma in altre fattispecie e non avrebbe allora senso l’inserimento del comma 6 nel tessuto dell’art. 34 bis»16. Sommessamente, al riguardo basterà ricordare, senza scomodare le biblioteche giuridiche, che la tradizione legislativa e la dogmatica corrente ben conoscono “la norma a più fattispecie”, in cui ciascuna fattispecie rivendica appunto una sua specialità rispetto all’archetipo comune: nel nostro caso, è il contenuto della misura e la sua finalità a costituire “l’alveo” condiviso, mentre i presupposti rimangono suscettibili di rispondere a matrici diverse. Così come lascia perplessi un’altra decisione della Cassazione che nel sostenere la non impugnabilità del provvedimento di rigetto o di accoglimento adottato nel merito, finisce per svilire l’istituto configurandolo alla stregua di un mero strumento di tutela cautelare ancillare o meramente aggiuntivo al procedimento amministrativo relativo all’interdittiva prefettizia, in quanto tale non correlato «all’esercizio di diritti di rango costituzionale» e azionabile «in qualunque momento del complesso iter amministrativo». E ciò, soggiungono i giudici di legittimità, pur riconoscendo condivisibilmente che «le aziende e imprese costituiscono sia per la compagine soggettiva che per il dinamismo che ne caratterizza l’operatività, soggetti giuridici che possono attivare positive sinergie per la rimozione di quelle condizioni di infiltrazione e agevolazione criminale e che, pertanto, possono avviarsi sulla via della bonifica adottando modelli di organizzazione e gestione risanati»17. Verrebbe da dire: appunto! Ripetutamente, oltretutto, in tali pronunzie ci si imbatte nell’affermazione secondo cui andrebbe praticato un approccio restrittivo o quantomeno prudente all’istituto per evitare forme di “aggiramento” degli effetti interdittivi del provvedimento prefettizio: un argomento, questo, tanto suggestivo quanto infondato, per la verità. Agitare lo spettro pauroso di un fraudolento “aggiramento” da parte delle aziende richiedenti, infatti, significa svalutare del tutto i rischi che corre l’impresa “consegnandosi” ai controlli del Tribunale di propria sponte, oppure non avere fiducia sulla capacità di monitoraggio dei giudici della prevenzione e addirittura sui poteri di sorveglianza e iniziativa che rimangono ben saldi nelle mani dei pubblici ministeri, coinvolti a ogni piè sospinto nella procedura. Un’impostazione sensibilmente diversa, anche stavolta più incline al modello che si è qui definito “prespettico-cooperativo”, la troviamo in una altra recente sentenza della Cassazione che, pur riguardando un problema di competenza, non tralascia di intervenire sugli aspetti 14 15 16 17 16

Così Tribunale di Firenze, 28 maggio 2018, Società Servizi Re s.r.l. V. antea, nt. 3. Cass. sez. II, 13 febbraio 2019, Consorzio soc. Coin, 3. Cass. sez. VI, 4 aprile 2019, Consorzio Go Service, 13.


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sostanziali della misura. Secondo la prima sezione, infatti, «l’azienda che fino a quel momento ha operato liberamente sul mercato, a fronte della notifica dell’interdittiva può decidere di “consegnarsi” al tribunale della prevenzione, consapevole del fatto che se da un lato ciò può rimuovere le inibizioni alla prosecuzione dell’attività (art. 34 bis comma 7), dall’altro si apre una fase di “gestione condivisa” con l’amministratore nominato dal Tribunale, cui spettano penetranti poteri di ricostruzione degli assetti economico-finanziari, esercitando i quali può addivenirsi all’applicazione di più gravosa misura di prevenzione». Stando così le cose, proseguono i giudici di legittimità, «le verifiche che il Tribunale della Prevenzione è tenuto a fare riguardano – essenzialmente – la rispondenza o meno della misura richiesta alle finalità cui si ispira la disciplina di legge», mentre «non appare strettamente necessaria la qualificazione in tale fase del nesso esistente tra i soggetti portatori di pericolosità esterni e l’attività aziendale, posto che tale nesso può e deve essere oggetto di approfondimento nel corso della misura, con eventuale: a) revoca del provvedimento, lì dove l’azienda sia ritenuta immune dal pericolo di contaminazioni; b) aggravamento della misura, lì dove si ritenga che non ci si trovi in presenza di un’agevolazione meramente occasionale quanto di una agevolazione stabile, con transito, in tal caso, nella diversa misura della amministrazione giudiziaria, ai sensi della medesima previsione di legge»18. In sintesi, la prima sezione della Cassazione rifiuta - analogamente all’approccio dei giudici fiorentini più su riportato – la tesi secondo cui l’accoglimento della domanda privata dipende dalla possibilità di inquadrare o meno il caso di specie nel tipo “agevolazione occasionale”, prospettando al contrario tale inquadramento quale eventuale risultato dell’applicazione della misura: e soprattutto, coglie perfettamente la natura prognostica del giudizio devoluto al Tribunale, volto cioè a valutare la praticabilità del controllo giudiziario in relazione ai fini di bonifica additati dalla legge. 4.2.1 La familiarità con il sistema 231 Usciamo ora dal recinto delle misure di prevenzione per esplorare il mondo della responsabilità da reato degli enti alla ricerca di elementi di familiarità, non dimenticando che lo stesso art. 34 bis lancia un ponte in questa direzione visto che tra le prescrizioni previste ai fini dell’implementazione del controllo giudiziario si fa proprio riferimento ai modelli organizzativi ex d.lgs. 231/2001. Ora, che il “sistema 231” costituisca un prodotto normativo tra i più moderni e avanzati sfornati dalla fabbrica legislativa italiana degli ultimi decenni è valutazione abbastanza diffusa nella scienza giuridica, pur tra innumerevoli critiche e distinguo19. Altrettanto generalizzata è la constatazione, tuttavia, che l’impatto sulla prassi è risultato deludente, e in questa sede sarebbe davvero azzardato provare a sondarne le molteplici ragioni. È possibile, però, convenire su una considerazione di base: è la stessa filosofia che fa da sfondo alla riforma del 2001 a non aver trovato verosimilmente un’adeguata comprensione e condivisione tra gli attori giudiziari e imprenditoriali. L’idea, cioè, di promuovere una sorta di “prevenzione partecipata” tra pubblico e privato, fondata sulla distinzione tra “attività criminali dell’impresa” vs “attività dell’impresa 18 19

Cass. sez. I, 7 maggio 2019, Tif Solar s.r.l. Tra i lavori più recenti, v. l’affresco tratteggiato, anche in chiave comparatistica, da A. Fiorella-N. Selvaggi, Dall’«utile» al «giusto». Il futuro dell’illecito dell’ente da reato nello ‘spazio globale’, Torino, 2018; nonché Aa.Vv., Responsabilità da reato degli enti. Un consuntivo critico, a cura di R. Borsari, Padova, 2016; attualissimo rimane il dibattito raccolto in Aa.Vv., La responsabilità da reato degli enti collettivi: a dieci anni dal d.lgs. n. 231/2001, a cura di A.M. Stile-V. Mongillo, Napoli, 2013.

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criminale”20 e orientata a “curare” le prime e a mettere fuori gioco le seconde, separando così nettamente “l’errore dall’errante”(volendo così rievocare orizzonti non giuridici). Un universo di senso in cui dovrebbero prevalere, rispetto alla rigida dimensione sanzionatoria, l’ottica rimediale, recuperatoria, riparatrice, premiale, consensuale, negoziale, di fronte a un fatto “deviante” riconducibile all’ente collettivo. Tutte espressioni, queste, che certamente non risultano frequentemente coltivate nel lessico giuridico nostrano. E che invece sono essenziali per riconoscere, anzitutto, l’importanza cruciale del modello di organizzazione, gestione e controllo quale risorsa di fattura privata per mettere l’impresa al riparo da conseguenze sanzionatorie o per mitigarle nel corso del procedimento: basti pensare che nella già scarsa giurisprudenza in materia, sono rarissime le pronunzie che ne riconoscono in concreto l’idonea ed efficace attuazione21. Non a caso fioccano le proposte di riforma per sbloccare sotto molteplici punti di vista il “sistema 231”22, e una in particolare si segnala per la sua capacità di interpretare al meglio lo spirito originario del disegno normativo, puntando ad ampliare sensibilmente le già previste ipotesi di riconoscimento premiale delle azioni di ravvedimento dell’ente facenti leva, soprattutto, sulle attività di self cleaning organizzativo. Si propone, infatti, l’introduzione di una “messa alla prova” con sospensione del procedimento a carico dell’ente (e relativa estinzione del reato ove la probation si concluda positivamente), sulla falsariga del modello ampiamente praticato nel processo minorile (e di recente introdotto anche nel mondo degli adulti). Con le parole degli autori: «[…] nel caso in cui un modello, adottato prima della commissione del fatto ai sensi dell’art. 6, venga valutato non adeguato, l’impresa potrebbe chiedere la messa alla prova. Spetterebbe quindi al giudice accertare in concreto se quell’ente offra un reale affidamento sulla prospettiva di una riorganizzazione “virtuosa” […]. Il giudice ammetterà la messa alla prova solo se sia in grado di fare una prognosi favorevole sulla struttura dell’ente, ossia una prognosi sulla sua “pericolosità organizzativa” […]». In quest’ottica, soggiungono gli autori, «la messa alla prova dell’ente dovrebbe essere indirizzata al suo reinserimento nel mercato in una rinnovata veste di legalità», onde l’impresa «dovrebbe realizzare le condotte riparatorie e risarcitorie» e «correggere il modello organizzativo che sia stato giudicato non idoneo, alla luce del progetto presentato con la domanda di ammissione al rito e magari delle indicazioni che nel momento dell’autorizzazione del procedimento speciale potrebbero essere offerte»23. Ora, una simile proposta, non fa che esaltare, apprezzabilmente, la vocazione innovativa del “sistema 231” proprio sul versante dell’attivazione di positive sinergie tra pubblico e privato nell’ottica di una più efficace azione di prevenzione speciale, scandita da fondamentali passaggi improntati alla consensualità (frammista a elementi di negozialità operosa) e alla premialità. A ben guardare, tutti ingredienti che mutatis mutandis sono presenti nell’istituto del controllo giudiziario “volontario”, pur tenendo conto del diverso contesto normativo e fattuale in cui opera. Contesto che, tuttavia dovrebbe condurre gli interpreti a valorizzare ancor di più i profili consensuali e premiali dell’istituto, sol se si pensi che ci si trova innanzi a imprese raggiunte da un provvedimento di interdizione amministrativa, ma non attinte da alcuna iniziativa giudiziaria di qualunque tipo (penale, para-penale, preventivo): e che tuttavia chiedono al Tribunale di essere sottoposte a controllo al fine di “riparare” le proprie vulnerabilità rispetto a sospetti condizionamenti criminali. 20 Così F. Mucciarelli, Sanzioni e attività d’impresa: qualche nota, in La pena, ancora: fra attualità e tradizione. Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di Paliero, Viganò, Basile e Gatta, vol. II, 1150. 21 Sul punto, per tutti, v. S. Manacorda, L’idoneità preventiva dei modelli di organizzazione nella responsabilità da reato degli enti: analisi critica e linee evolutive, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2017, n. 1-2-, 49 ss. 22 V., tra i lavori più recenti, F. Centonze-M. Mantovani, La responsabilità «penale» degli enti. Dieci proposte di riforma, Bologna, 2017. 23 Così G. Fidelbo-Ruggiero, Procedimento a carico degli enti e messa alla prova: un possibile itinerario, in La responsabilità amministrativa soc. e enti, 4, 2016, 13 e 15; in chiave de lege lata, cfr.: Riccardi-Chilosi, La messa alla prova nel processo “231”: quali prospettive per la diversion dell’ente?, in www.penalecontemporaneo.it, 11 ottobre 2017. 18


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4.2.2. La familiarità con istituti francesi, britannici e statunitensi La stessa familiarità si ritrova negli istituti francese, britannico e statunitense menzionati in precedenza. Cominciando dal più recente “Convention judiciarie d’intérêt public”, introdotto in Francia nel 2016 dalla legge Sapin II (art. 41-1-2 c. proc. pèn), esso prevede che, in materia di corruzione e traffico d’influenze illecite, la persona morale può concludere un accordo con l’autorità requirente (prima o dopo l’inizio dell’avvio formale dell’azione penale), in virtù del quale il pubblico ministero «può imporre due principali adempimenti, quali il versamento di un’amende d’intérêt public […] e la sottomissione, per un massimo di tre anni, a un programma de mise en conformité sotto il controllo dell’AFA, sulla falsariga di ciò che la legge Sapin II già impone come misura preventiva alle imprese di grandi dimensioni», con il vantaggio, per l’impresa, di ottenere l’estinzione dell’azione penale una volta effettivamente adempiuti gli obblighi assunti. Ma non si tratta di un mero accordo tra pubblico ministero e parte privata, perché è demandata al presidente del Tribunale il controllo sulla correttezza e proporzionalità dei contenuti della proposta di convenzione, il quale in esito a un’udienza pubblica deciderà se validare l’intesa e in tal caso la relativa ordinanza «non ha né la natura né gli effetti di un giudizio di condanna» e, aspetto molto importante, essa non potrà essere iscritta «alla scheda n° 1 del casier judiciarie, consentendo all’impresa di sottrarsi agli effetti legali dell’iscrizione, in particolare l’esclusione dalle gare pubbliche di appalto»24. Stessa aria di famiglia si respira nell’ordinamento inglese con riferimento al Deferred Prosecution Agreements, di più recente introduzione, e nel sistema statunitense ove da lunga pezza sono attecchite forme di diversion, imperniate su attività negoziali tra prosecutors e ente indiziato di responsabilità, suscettibili di perfezionarsi in assenza (NPA) o con l’intervento del giudice (DPA)25. Pur nella loro diversità, tali istituti rispondono a direttrici politico-criminali tutto sommato comuni, che in estrema sintesi si possono ricondurre a obbiettivi non meramente deflattivi, bensì integrati da strategie regolative del mercato dal punto di vista della profilassi della devianza imprenditoriale: in cui assume un ruolo decisivo la collaborazione della singola azienda coinvolta nell’ottica di una compliance “patteggiata” e funzionale alla prevenzione dei reati. Proprio da questa prospettiva, è significativo rilevare che nel documento governativo britannico volto a orientare la prassi, e in particolare le scelte del prosecutors con riguardo al riscontro nel caso concreto di quei additional public interest factors la cui presenza è considerata rilevante ai fini della conclusione dell’accordo, si faccia riferimento all’obbiettivo di «incoraggiare una cultura della trasparenza e della cooperazione tra organizzazioni collettive e autorità» e di «incentivare positivamente l’adozione di compliance programmes atti a ridurre la probabilità di commissione di reti economici». Come ben rilevato in dottrina, «in altri termini non importa che la società non fosse sufficientemente compliant all’epoca in cui si è verificato il reato […], purché la stessa società, una volta scoperta l’attività criminosa compiuta “colga l’occasione” di reagire per colmare le lacune organizzative manifestatesi»26. Nello stesso senso, sostanzialmente, si orienta il sistema americano laddove si assiste a una «torsione delle funzioni dell’amministrazione della giustizia […]: non più una giustizia che interviene solo per 24 Così M. Galli, Giudicare l’avvenire. Uno studio a partire dalla convention judiciarie d’ «intérêt public», in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1290 ss., cui si rinvia per un completo esame dell’istituto, ivi compresi i ricchi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali e le raffinate (e condivisibili) riflessioni proposte; v. anche C. Ghrènassia-E. Sacchi, La convenzione giudiziaria di interesse pubblico (CJIP): aspettando la transazione penale, in www.penalecontemporaneo.it, 30 gennaio 2018, i quali, tra l’altro, mettono in luce i possibili rischi di “rigetto” della riforma da parte del sistema francese per incompatibilità culturali. 25 Un prezioso quadro d’insieme è tracciato da Fed. Mazzacuva, Deferred Prosecution agreements: riabilitazione “negoziata” per l’ente collettivo indagato. Analisi comparata dei sistemi di area anglo americana, in Indice pen., 2013, 2, 737. 26 Così Fed. Mazzacuva, La diversione processuale per gli enti collettivi alla luce del Code of Conduct inglese: spunti per alcune riflessioni de iure condendo, in Indice pen., 2015, 1, 197. 19


la protezione dell’ordine precostituito, ma che al contrario seleziona le condotte che le imprese devono tenere nel mercato e le promuove per il tramite del processo (o per mezzo della minaccia dello stesso)»27. Insomma, anche questa rapidissima incursione comparatistica fa comprendere che guadagna sempre più posizioni il “modello prospettico-cooperativo” nel settore della responsabilità da reato degli enti quale strategia di fondo nella prevenzione della devianza aziendale: un modello, si ribadisce, che ruota attorno alla consensualità/negozialità, alla premialità e alla compliance che guarda al futuro. Non tutto rose e fiori, beninteso, sol se si pensi che un sensibile ritrarsi dello stigma penale è prontamente rimpiazzato da un neo-interventismo statale nel mondo economico, magari operato con i guanti di velluto. Vero è, d’altra parte, che comunque sia ci si trova innanzi a nuove forme di bilanciamento tra le esigenze sanzionatorie e di prevenzione del crimine, da un lato, e le esigenze di “mercato” e di continuità produttiva, dall’altro: forme di bilanciamento che da noi, in Italia, stentano ad avere un completo e diffuso riconoscimento di tipo anzitutto culturale, prima ancora che giuridico, visto che nel diritto positivo non mancano spazi e occasioni in tale direzione28. 4.3 Area grigia e rapporti mafie-imprese nelle ricerche sociologiche Sul versante socio-criminologico, grazie a una (ormai nutrita) pattuglia di agguerriti studiosi, la questione dei rapporti tra le organizzazioni criminali di tipo mafioso e l’habitat in cui si radicano, espandono e sviluppano è divenuta fondamentale nelle ricerche più recenti29. Da una prospettiva prevalentemente incentrata sulle caratteristiche “interne” dei sodalizi, a volte ricostruite come se fossero avulse dall’ambiente in cui vivono, si è passati alla ben più feconda analisi di contesto, condotta sul campo, da nord a sud e trasversalmente ai segmenti di società coinvolti. E ciò perché, presi dalla (storicamente) comprensibile esigenza di conoscere il più possibile la militanza mafiosa in senso stretto per meglio contrastarla, spesso è rimasta trascurata un elementare verità, ossia che il successo delle organizzazioni criminali dipende per lo più dall’accoglienza di cui godono nelle comunità o nei settori in cui operano, da quel fascio di rapporti di contiguità, cooperazione attiva e passiva che i mafiosi riescono a generare nei loro affari, sinteticamente definiti “area grigia” ma in realtà ricchi di numerose sfumature cromatiche. In quest’ottica, i molteplici e complessi rapporti tra economia lecita, illecita e organizzazioni criminali, tra imprenditori di vario livello e mafiosi, tra le specifiche dinamiche di mercato e le perfomances criminali, tra le aziende “legali” e i servizi offerti dalle imprese mafiose, hanno costituito il banco di prova per mettere a fuoco l’opportunità di adottare un doppio principio al fine di “scardinare” tale “area grigia”, mettendo da parte approcci inutilmente “moraleggianti”: a) «del “quanto necessario” in relazione all’applicazione della misura repressiva e alla sua invasività rispetto al tessuto economico»; b) della «riduzione del danno» in relazione 27 Così F. Ruggero, Scelte discrezionali del pubblico ministero e ruolo dei modelli organizzativi nell’azione contro gli enti, Torino, 2018, 114; sui problemi attuali della diversioni nordamericana v. J. Arlen, L’applicazione della legge penal-societaria negli Stati Uniti: l’uso delle transazioni per trasformare imprese potenzialmente criminali in tutori dell’ordine, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1-2, 2018, 1 ss. 28 Cfr. l’ampio dibattito raccolto in AA.VV., Criminalità d’impresa e giustizia negoziata: esperienze a confronto, Milano, 2017, e ivi – in particolare – i saggi di D. Pulitanò, Problemi del negoziabile nella giustizia penale, 21 e ss; di M. Donini, Compliance, negozialità e riparazione dell’offesa nei reati economici. Il delitto riparato oltre la restorative justice, 31 e ss.; nonché l’Introduzione di G. Forti, 17 ss. 29 Per citare solo alcuni dei lavori più recenti, si rinvia anzitutto ai due fondamentali volumi che raccolgono le ricerche dirette da R. Sciarrone: AA.VV., Le mafie nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel mezzogiorno, Roma, 2011 e Le Mafie del nord. Strategie criminali e contesti locali, Roma, II ed., 2019; e poi AA.VV., Affari di Camorra. Famiglie, imprenditori e gruppi criminali, a cura di C. Castellano-L. Brancaccio, Roma, 2015; L. Brancaccio, I clan di camorra. Genesi e storia, Roma, 2017; V. Martone, Le mafie di mezzo. Mercati e reti criminali a Roma e nel Lazio, Roma, 2017; e, infine, R. Sciarrone-L. Storti, Le mafie nell’economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, Torino, 2019. 20


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all’obbiettivo «di bonificare progressivamente dalla presenza mafiosa senza provocare l’interruzione del ciclo produttivo facendo uscire un’impresa dal mercato». Da questo punto di vista, l’impiego delle misure giudiziarie di tipo “terapeutico”, come il controllo giudiziario, potrebbe contribuire a «modificare assetti e prassi organizzative consolidate» attivando «un processo di risocializzazione dell’imprenditore o del fronte proprietario dell’impresa», nonché a «cambiare la collocazione dell’impresa rispetto all’ambiente istituzionale esterno e alle modalità con cui essa lo attiva e ne è condizionata: due processi essenziali per affrancarsi dalla criminalità organizzata». Secondo questi studi, insomma, sono prioritari «sia la conformazione dell’ambiente istituzionale sia le chance che esso offre alle imprese per non renderle vulnerabili alla mafia» 30. 5. Riassumendo, conclusivamente Giunti fin qui, vale la pena tracciare in estrema sintesi il perimetro all’interno del quale i giudici della prevenzione potrebbero gestire le domande di parte privata per l’applicazione del controllo giudiziario. Intanto va precisato che alle decisioni giudiziarie fa da sfondo certamente un “interesse pubblico” il cui apprezzamento, tuttavia, non dovrebbe costituire oggetto di valutazione specifica volta per volta, domanda per domanda, rischiando così di esporre la giurisdizione a valutazioni sconfinanti nei tipici poteri discrezionali della pubblica amministrazione. D’altronde, è un interesse pubblico già – per dir così – “bilanciato” che ha orientato le scelte del legislatore al momento dell’introduzione dell’istituto nell’ordinamento. Un bilanciamento, cioè, astrattamente compiuto dal Parlamento in virtù del quale si dà il via libera, a determinate condizioni, alla tutela degli interessi pubblici connessi alla prosecuzione dell’attività aziendale, di tipo produttivo e/o occupazionale e più genericamente di “mercato”, con temporanea e limitata compressione degli interessi di ordine pubblico sottesi al potere di emettere il provvedimento interdittivo da parte del prefetto. Un bilanciamento, quindi, non ribaltabile dal giudice ordinario con un apprezzamento caso per caso. Una volta escluso l’interesse pubblico quale terreno decisorio percorribile dal giudice della prevenzione, la verifica dei “presupposti” postulata dalla legge va dunque calibrata su una valutazione che abbia il suo fulcro nella praticabilità di un programma di “bonifica” dell’azienda istante, ossia un programma volto a rendere l’ente economico sufficientemente presidiato dal rischio di infiltrazioni mafiose. Da questo punto di vista, la decisione non potrà che risultare condizionata da una serie di fattori di contesto specifici, quali la tipologia di “contiguità” rilevata in sede prefettizia, le caratteristiche dell’azienda e dell’attività economica esercitata, e così via. Al riguardo, potrà pure aver rilievo la natura occasionale o duratura dei rapporti intrattenuti dall’azienda con la criminalità mafiosa, ma soltanto quale valutazione propedeutica alla prognosi circa le prospettive di “bonifica” dell’attività economica mediante l’applicazione del controllo giudiziario, con l’insieme di contenuti prescrizionali e poteri di sorveglianza previsti dalla lettera b) del secondo comma dell’art. 34 bis. E così, non va escluso a priori che in una situazione in cui è stata rilevata una forma di “agevolazione stabile”, l’azienda si presenti tuttavia potenzialmente in grado di liberarsi dalla commistione con interessi mafiosi. Pensiamo, ad esempio, a un’impresa di grandi o anche medie dimensioni che risulta condizionata stabilmente da interessi mafiosi nella selezione dei fornitori: basterà, in tal caso, individuare le persone fisiche responsabili ed estrometterle definitivamente dalla gestione, dotare l’organizzazione aziendale di un efficace corpo procedurale con relative unità funzionali dedicate alla qualificazione e analisi delle controparti, nonché monitorare nel tempo il funzionamento effettivo delle soluzioni adottate ai fini preventivi. 30

R. Sciarrone-L. Storti, Le mafie nell’economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, cit., 148 s. 21


Ebbene, oltre che auspicabile, è ragionevolmente prevedibile un progressivo accoglimento del modello “prospettico-cooperativo” come qui propugnato da parte della giurisprudenza in sede di applicazione del controllo giudiziario “volontario”? La risposta è positiva, per molteplici ragioni. In primo luogo, i tribunali delle misure di prevenzione (ora distrettuali e vieppiù plurispecializzati) sono storicamente inclini a sperimentare nuove vie e da sempre fanno i conti con il non facile bilanciamento in concreto tra le esigenze di ordine pubblico e quelle di tipo economico-produttivo. Pur con risultati non sempre all’altezza delle aspettative, l’impegno a rendere l’azione di prevenzione contro i patrimoni illeciti non rovinosa per il tessuto economico locale è una caratteristica peculiare della giurisdizione in questo campo, anche per alimentare il consenso sociale attorno alla lotta giudiziaria antimafia. In quest’ottica, intervenire con strumenti di sostegno alle imprese interessate a liberarsi dai condizionamenti criminali è, invero, un’occasione irrinunciabile per riscoprire l’autentica vocazione delle misure di prevenzione: cioè neutralizzare le infiltrazioni mafiose tempestivamente, appunto ante delictum, per dedicarsi così, davvero, alla profilassi e non alla repressione sotto mentite spoglie. In secondo luogo, il prender piede di un paradigma terapeutico rispetto alle aziende “contaminate” da condizionamenti mafiosi, a scapito di quello meramente ablatorio, corrisponde verosimilmente anche ad un mutamento che avanza nei rapporti tra imprese e organizzazioni criminali. I quasi quarant’anni di severa applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali, a partire dalla storica legge Rognoni-La Torre del 1982, infatti, hanno indotto i mafiosi a sperimentare forme diverse di presenza nell’economia lecita: meno appariscenti e ingombranti, più sottili, in cui il pieno dominio delle attività imprenditoriali tende a scemare giusto per evitare di esporsi alla reazione statale. Se così è, i “guanti di legno” della confisca potrebbero rivelarsi via via sempre meno adeguati per afferrare e trattare il diversificato fascio di rapporti collusivi tra imprese e criminalità mafiosa. In terzo luogo, da più parti si riconosce ormai la necessità di offrire una sponda agli attori imprenditoriali che popolano la variegata area “grigia”: in questa direzione, un sistema di prevenzione concepito finalmente in termini integrati, avrebbe dalla sua un “doppio morso”. Una tutela “super anticipata”, costituita dalle interdittive prefettizie, in grado di intercettare i primi sintomi di una connessione tra azienda e interessi mafiosi, ma poi un intervento giurisdizionale a richiesta della stessa parte privata, per approfondire la diagnosi di quei sintomi e provare a curare la “malattia”. Ma, allora, quali sono i principali ostacoli per un convinto accoglimento nella prassi del modello “prospettico-cooperativo”? Ebbene, se ne possono individuare di due tipi: culturali ed empirici. Da un lato, non è semplice per le agenzie di law and enforcement, in particolare per la magistratura, aprirsi ad una antimafia non solo repressiva, ma anche ispirata al metodo del “bastone e carota” ove ve ne siano le condizioni, senza fugare il timore di un abbassamento della guardia. Dall’altro, altrettanto non semplice si può rivelare la pratica in concreto del modello auspicato in contesti economico-sociali caratterizzati da imprese di piccole dimensioni, sovente a base familiare, in cui la distinzione tra persone fisiche e organizzazione aziendale non è facilmente tracciabile, con la conseguenza di ridimensionare la portata “oggettiva” dei programmi di compliance. Comunque sia, il cammino verso una tutela antimafia, per dir così, “allargata” nel campo economico-imprenditoriale - che riesca cioè a coniugare meglio la lotta senza quartiere alle organizzazioni criminali con la salvaguardia del sistema produttivo - è appena iniziato. Occorrerà un po’ di tempo per vagliarne i primi risultati, che – si badi - certamente non si esauriscono nel numero più o meno elevato delle domande di controllo giudiziario accolte in sede giudiziaria, bensì nel numero di aziende che all’esito della procedura hanno stabilmente acquisito la capacità di operare nel mercato con le proprie gambe al riparo da condizionamenti mafiosi. 22


ANTIMAFIA Le interdittive antimafia generiche e ‘a cascata’ tra vecchi e nuovi dubbi di incostituzionalità Prof. Giuseppe Amarelli Associato di Diritto penale, Università degli Studi di Napoli Federico II

1. Premessa. – 2. La riforma del 2017 delle interdittive e la misura del controllo giudiziario: nessuna incidenza sulla soluzione del problema. – 3. L’interpretazione tassativizzante del Consiglio di Stato 2019. – 4. I perduranti dubbi di incostituzionalità. – 4.1. I possibili riflessi della sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 in materia di misure di prevenzione.

1. Premessa. Due anni fa, in seguito alla nota sentenza della Corte EDU De Tommaso c. Italia del 2017 in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali, si iniziava a discutere circa la possibile estensibilità dei principi garantisti da questi enunciata all’attiguo settore delle interdittive antimafia. In particolare, si pronosticava la possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159/2011 per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 1, Protocollo 1 add. CEDU a causa della assoluta indeterminatezza della base legale di questo tipo di provvedimento. Le interdittive c.d. “generiche” disciplinate da quella porzione dell’articolo del codice antimafia, infatti, non erano ancorate a presupposti nitidi e ben definiti, ma, all’opposto, erano rimesse al libero apprezzamento del Prefetto che poteva disporle all’esito di una verifica svolta in assenza di contraddittorio endo-procedimentale sulla scorta di qualsiasi elemento reputato sintomatico di un “tentativo di infiltrazione mafiosa”. In questo breve torno di tempo la materia è stata profondamente incisa, per un verso, da una importante riforma nel 2017 che ha introdotto l’istituto del controllo giudiziario volontario quale forma di ‘messa alla prova dell’impresa’ destinataria di interdittiva per stemperare gli effetti draconiani di tale misura e, per altro verso, da alcune altrettanto rilevanti decisioni del Consiglio di Stato nel 2019 che hanno provato a fornire una interpretazione tassativizzante della disciplina delle interdittive generiche. All’esito di simili cambiamenti è interessante interrogarsi su quale sia oggi lo stato dell’arte in materia e, più precisamente, chiedersi se la recente novella legislativa, unitamente agli orientamenti ermeneutici della giurisprudenza amministrativa, abbiano o meno stemperato i dubbi di legittimità costituzionale relativi alle interdittive generiche emersi in passato. Come si proverà a dimostrare la risposta al quesito sembra essere negativa, in quanto la riforma del controllo giudiziario volontario ha solo lenito la portata afflittiva delle interdittive, ma non ha in alcun modo puntellato e dato consistenza ai presupposti applicativi di quelle generiche, e l’interpretazione tassativizzante di queste ultime proposta dal Consiglio di Stato non è apparsa del tutto convincente, fondandosi su una base legale assolutamente inconsistente. 23


Peraltro, nel frattempo sono intervenute anche alcune decisioni della Corte costituzionale che, diversamente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa, paiono aver ulteriormente acuito la manifesta incostituzionalità della disciplina esistente. 2. La riforma del 2017 delle interdittive e la misura del controllo giudiziario volontario: nessuna incidenza sulla soluzione del problema. Ma procediamo con ordine, prendendo le mosse dal primo elemento di novità emerso, vale a dire l’introduzione dell’istituto del controllo giudiziario volontario. Ebbene, la recente e valida riforma del codice antimafia realizzata con la controversa legge 17 ottobre 2017, n. 161, con cui – oltre ad incidere sulle ipotesi di pericolosità qualificata estendendole irragionevolmente anche a soggetti indiziati di delitti molto diversi da quelli di criminalità organizzata – è stata riscritta anche la disciplina del ‘salvataggio’ delle imprese attinte da una informazione prefettizia antimafia, non sembra aver in alcun modo contribuito a diradare le perplessità esistenti sul sottosistema delle interdittive c.d. generiche. L’art. 11, comma 1, della l. n. 161/2017, che ha introdotto all’interno del codice antimafia il comma 6 dell’art. 34 bis con cui si stabilisce che le imprese destinatarie dell’informativa antimafia ex art. 84, comma 4, possono richiedere al tribunale competente l’applicazione della misura del controllo giudiziario, offre infatti una interessantissima ed utilissima alternativa ai destinatari del provvedimento prefettizio per evitare ‘l’ergastolo di impresa’, ma non stempera i dubbi relativi ai suoi presupposti. Essa, infatti, prevede la condivisibile possibilità per l’impresa indiziata di complicità soggiacente o accomodante di eludere l’afflittività della misura interdittiva, o quanto meno di attutirla, richiedendo l’ammissione al neo-introdotto istituto del controllo giudiziario. Il controllo, infatti, permette all’impresa di proseguire i contratti in essere con la p.a. senza determinarne la revoca, nonché di stipulare quelli relativi ad aggiudicazioni di appalti già ottenute, preservando così le attività ed i livelli occupazionali dell’impresa, nonché la possibilità per la stessa di far fronte agli eventuali impegni con gli istituti di credito. Come ha espressamente enunciato anche la commissione Fiandaca quando ha prospettato l’introduzione di questo istituto, l’obiettivo avuto di mira, sia attraverso la nuova formulazione dell’art. 34 che attraverso l’elaborazione del nuovo art. 34 bis, d.lgs. n. 159/2011, «consiste nel promuovere il disinquinamento mafioso delle attività economiche, salvaguardando al contempo la continuità produttiva e gestionale delle imprese». «L’istituto del controllo giudiziario – infatti – può fungere da adeguato strumento per consentire la prosecuzione dell’attività di impresa nei casi in cui le aziende vengano raggiunte da interdittiva prefettizia, garantendo così nel contempo il prevalente interesse alla realizzazione di opere di rilevanza pubblica (cfr. commi 6 e 7 dell’art. 34 bis)» 1. Tuttavia, una simile possibilità contemplata dall’odierno sistema delle interdittive non risulta sufficiente a sopire le incertezze sorte dopo la De Tommaso riguardo alle interdittive generiche. Essa conferma solo che questi provvedimenti non hanno natura neanche sostanzialmente penale alla stregua degli Engel criteria, perseguendo ancor più esplicitamente finalità preventive e/o ripristinatorie in chiave di utilità sociale; ma nulla apporta in termini migliorativi al piano dei presupposti applicativi che, nell’ipotesi dell’interdittiva generica, restano decisamente indeterminati. Tale riforma ha il solo, considerevole, merito di rendere meramente eventuale l’effettiva esecuzione della interdizione antimafia, depotenziando così i suoi effetti draconiani, ma non 1 G. Fiandaca, Proposte di intervento in materia di criminalità organizzata, in www.penalecontemporaneo.it, 12 febbraio 2014. 24


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ha alcuna capacità di sanare la vaghezza dei suoi presupposti applicativi ed il vulnus che ciò comporta al principio di prevedibilità della sua inflizione. 3. L’interpretazione tassativizzante del Consiglio di Stato 2019. Proprio l’incapacità di questa riforma di incidere sui difetti originari delle interdittive generiche, unita all’aumento esponenziale del 370% dei provvedimenti di questo tipo registrato nell’ultimo quinquennio dalle indagini statistiche condotte dall’ANAC2, ha reso inevitabile l’intervento della giustizia amministrativa. Tuttavia, il Consiglio di Stato, quando è stato chiamato a pronunciarsi sul punto, non ha condiviso questo orientamento ed ha, invece, in due recentissime occasioni ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale prospettate rispetto alle interdittive antimafia generiche3. Nelle dense ed articolate parti motive delle sentenze del 2019 il massimo organo della giurisdizione amministrativa ha illustrato le ragioni che, al contrario, fanno propendere per la compatibilità delle interdittive generiche con la nostra Carta costituzionale e con la CEDU escludendo, forse forzatamente, la necessità di un intervento della Plenaria. La premessa da cui prende le mosse il ragionamento del Collegio è che queste misure non hanno natura penale né in senso formale, né in senso materiale secondo i c.d. Engel criteria elaborati dalla CEDU, ma spiccatamente preventiva-amministrativa, riguardando situazioni di mero pericolo, «anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori». Ciò implica che esse non soggiacciono agli stringenti e peculiari principî che governano il diritto penale sostanziale, in primis quelli di determinatezza ed accessibilità della base legale dei comandi imposti e di prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie. Inoltre, comporta che il «pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere ‘più probabile che non’, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa»4. Le interdittive, infatti, non sanzionano fatti penalmente rilevanti, né reprimono condotte illecite, ma mirano a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica quale gli «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate», e la probabilità che questi eventi si realizzino, nella duplice forma della complicità soggiacente o compiacente di cui all’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159/2011. «Ciò però non significa che il pericolo dell’infiltrazione mafiosa possa sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, perché altrimenti così si consegnerebbe questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura. Al contrario, deve sempre ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, ‘a condotta libera’, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che ‘può’ - si badi: può - desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, 2 Si vedano i dati del Casellario informatico delle imprese riportati da ANAC, Imprese destinatarie di interdittive (2014-2018), in http://www.anticorruzione.it/portal/rest/jcr/repository/collaboration/Digital%20Assets/ anacdocs/Comunicazione/News/2019/AnacInterdittiveAntimafia.2014.2018_2.pdf. 3 Cons. St., Sez. III, sent. 5 settembre 2019, n. 6105 cit.; Cons. St., Sez. III, sent. 30 gennaio 2019, n. 758. 4 Così Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758 cit. In senso analogo cfr. Cons. St., Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743. 25


comma 6, del D.Lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata»5. Sulla scorta di tali premesse di fondo il Consiglio di Stato approda così alla conclusione che una maggiore determinatezza nella descrizione delle condizioni di applicabilità delle misure sarebbe «auspicabile, in abstracto, sul piano della certezza del diritto e della prevedibilità delle condotte», ma non sarebbe praticabile concretamente perché, se messa in pratica, frustrerebbe nel suo ‘fattore di rigidità’ (…) la ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale «deve affidarsi anche, e necessariamente, a ‘clausole generali’, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali. Proprio queste situazioni rischierebbero infatti, in quanto non già tipizzate dal legislatore, di sfuggire alla valutazione dell’autorità amministrativa e ciò, per le esigenze prevenzionistiche che ispirano l’intera materia, sarebbe tanto più grave al cospetto di condotte elusive o collusive poste in essere dalla stessa impresa, essendo ben noto all’esperienza giurisprudenziale che le forme più insidiose, e più sfuggenti, di pericolo infiltrativo sono proprie quelle che allignano in una contiguità compiacente, su un accordo economico cioè, più o meno tacito, tra l’imprenditore e la criminalità organizzata». La asimmetria della minaccia mafiosa richiede «una frontiera avanzata» con strumenti duttili ed altrettanto capaci di adattarsi al modificarsi del contesto «per affermare sempre il ‘potere della legge verso il contropotere perseguito dalle mafie’ senza irrigidirlo e imbrigliarlo entro una casistica fissa e immutabile» capace di «offrire alle associazioni mafiose un comodo appiglio formale, di cui difficile sarebbe il superamento senza un continuo intervento legislativo di aggiornamento che ‘rincorra’ affannosamente, e tardivamente, le nuove strategie mafiose». Per il Collegio non è dunque prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari ed imprevedibili per i destinatari. La norma che disciplina l’interdittiva generica «non costituisce una ‘norma in bianco’ né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi ‘tipizzati’ (quelli dell’art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea (nella sentenza De Tommaso) anche la portata della sua discrezionalità». «L’annullamento di qualsivoglia discrezionalità in questa materia prova troppo, del resto, perché l’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa». «Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio 5 26

Così Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758 cit.


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che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una ‘pena del sospetto’ e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio. Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi ‘atipici’, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza D.T. c. I., consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legalità sostanziale». Per il Consiglio di Stato, «l’applicazione delle categorie penalistiche e la traslazione delle istanze proprie del diritto punitivo a questa materia, del tutto estranee alle misure di prevenzione, reca dunque in sé una contraddizione di fondo insuperabile e le premesse della loro stessa dissoluzione al vaglio di un non necessario e non richiesto elevatissimo standard probatorio che, si noti, nemmeno la stessa giurisprudenza penale richiede nella verifica delle ‘contigue’ e ben più invasive misure di prevenzione personali o patrimoniali, non a caso, e comunque, presidiate da guarentigie giurisdizionali più forti». Al contrario, questa materia deve essere «affrancata da valori e logiche proprie del diritto punitivo, alla quale non appartiene, e da un più o meno consapevole, inappropriato, panpenalismo, senza lasciarsi traviare dal solo superficiale, epidermico, accostamento tra le misure di prevenzione personali e patrimoniali, disciplinate dal I libro del codice antimafia, e il sistema della documentazione antimafia, disciplinato, invece, dal II libro dello stesso codice, e ribadendo, altresì, che l’accertamento della permeabilità mafiosa prescinde dagli esiti del giudizio penale, eventualmente instaurato, non essendovi alcun rapporto di pregiudizialità, condizionalità o ancillarità tra il giudizio penale e quello amministrativo, rapporto che, se vi fosse, farebbe venir meno l’indubbio valore aggiunto che il diritto della prevenzione assume, seppure sotto l’attento sindacato del giudice amministrativo, quanto agli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa che, come detto, non è un fatto di reato, ma un evento di pericolo rilevante a fini preventivi»6. Infine, ad avviso della seconda ed ultima decisione della Sezione III del Consiglio di Stato anche la recente giurisprudenza costituzionale in materia di misure di prevenzione e di scioglimento degli enti locali confermerebbe la compatibilità delle interdittive generiche con il quadro di garanzie nazionali ed europee. Da un lato, la sentenza n. 24/2019 della C. cost. lascerebbe le porte aperte per la previsione in un ambito non penale come quello delle interdittive «di disposizioni legislative (…) caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione», riconoscendo ex adverso maggiore aggio al diritto giurisprudenziale ed alla c.d. interpretazione tassativizzante purché «in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa». Ed infatti in questa materia, a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 che ha fissato i caratteri generali delle ipotesi non tipizzate dei tentativi di infiltrazione mafiosa, il diritto vivente consente oggi «ragionevolmente di prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose». Dall’altro, la sentenza n. 195/2019 della C. cost., con cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., nella parte in cui richiede che per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale in presenza di «condotte illecite gravi e reiterate» di collegamento con 6

Così, Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758 cit. 27


la criminalità mafiosa sono sufficienti mere «situazioni sintomatiche», confermerebbe indirettamente che le interdittive generiche sarebbero immuni da censure dal momento che, al contrario, si fondano su ben più solidi e consistenti «elementi concreti, univoci e rilevanti». 4. I perduranti dubbi di incostituzionalità. Nonostante tali perentorie ed articolate prese di posizione del massimo organo della giustizia amministrativa, la questione resta ancora viva per diversi ordini di ragioni, talune ricavabili in modo più o meno esplicito dalle pieghe delle stesse sentenze, altre desumibili aliunde da una lettura organica e completa della sentenza De Tommaso della CEDU e della pronuncia della Corte costituzionale del 2019 che le ha dato sostanzialmente attuazione. In primo luogo, è lo stesso Consiglio di Stato, in un passaggio incidentale della motivazione di entrambe le pronunce poc’anzi analizzate, a ritenere non definitivamente chiusa la diatriba sul punto, quando afferma che resta ferma «ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali». Un simile obiter lascia ancora aperte le porte ad un eventuale apprezzamento futuro della stessa da parte della Corte EDU o della Consulta, anche se lo scenario più plausibile che si può prefigurare all’orizzonte è, forse, il primo, quello di un intervento del giudice europeo dei diritti fondamentali, dal momento che quello della Consulta presuppone che un giudice a quo sollevi la questione di legittimità, ipotesi questa difficilmente prospettabile dopo il suddetto intervento del Consiglio di Stato che ha stabilito un principio di diritto nettamente divergente. In secondo luogo, a non essere risolutiva dei termini della questione è la stessa parte argomentativa tanto della prima, quanto della seconda decisione del massimo organo della giustizia amministrativa che, osservate in filigrana, paiono poggiare su basi friabili e tutt’altro che incontrovertibili. Esse, infatti, sono incentrate su alcuni passaggi della sentenza De Tommaso avulsi dal contesto complessivo, omettendo di considerarne altri successivi e determinanti nel definirne la portata effettiva in modo sensibilmente diverso. In particolare, risulta fuorviante il ragionamento del C.d.S. nella parte in cui sostiene che la De Tommaso abbia legittimato, sulla scorta di un opinabile principio di legalità sostanziale rispondente a superiori esigenze di law enforcement, la possibilità per i legislatori nazionali di formulare nella materia della prevenzione anti-mafia extra-penale norme assolutamente indeterminate, onde garantirne una più facile adattabilità alle proteiformi modalità operative della criminalità organizzata di tipo mafioso. Mentre la previsione di simili misure interdittive è sicuramente rispondente al parametro della necessarietà «in una società democratica» espresso a livello convenzionale quale condizione di legittimità delle stesse, risultando indispensabili per fronteggiare tentativi di infiltrazione mafiosa nel mondo degli appalti pubblici7, non sembra invece collimare con quello ulteriore ed altrettanto indefettibile della descrizione legale e della prevedibilità convenzionalmente garantiti la definizione della loro disciplina in termini eccessivamente elastici ed indeterminati. La Corte EDU, in altri passaggi della sua densa argomentazione, ha, infatti, affermato che una legge non può lasciare ai tribunali un’ampia discrezionalità senza indicare con sufficiente chiarezza la sua portata e le modalità del suo esercizio, perché ciò renderebbe altrimenti im7 La imprescindibilità di queste misure per “porre un significativo argine preventivo al pernicioso fenomeno del condizionamento mafioso dell’attività economica del Paese” è sottolineata da Cons., Stato, Sez. III, n. 3583/2016. Da ultimo, Cons. St., Sez. III, 21 aprile 2019, n. 2141 le ha ritenute “una risposta forte per salvaguardare i valori fondanti della democrazia”. In argomento A. Levato, Potestà discrezionale del Prefetto e regime di impugnazione delle interdittive antimafia. Criticità e prospettive di risoluzione, in http://culturaprofessionale.interno.gov.it/FILES/docs/1260/TESTO%20 INTEGRALE%20Levato.pdf, p. 17. 28


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prevedibile l’adozione della misura eventualmente disposta (§ 109). La base legale non può mai «essere espressa in termini vaghi ed eccessivamente ampi» (§ 125), dovendo invece definire con sufficiente precisione e chiarezza le persone a cui sono applicabili le misure preventive ed il loro contenuto. Una lettura combinata dei diversi enunciati della sentenza De Tommaso sembra portare allora ad una diversa conclusione, vale a dire che le misure che incidono su diritti convenzionalmente riconosciuti, anche quindi quelle diverse dalle misure di prevenzione ma dotate della stessa portata limitativa, possono avere una base legale più duttile per adattarsi alle diverse e sfaccettate situazioni indicative del pericolo di infiltrazione mafiosa, ma mai assolutamente imprecisa, pena la violazione del principio di prevedibilità della loro applicazione. Diversamente da quanto sembra sostenere il Consiglio di Stato, non può ostare alla estensione di tali conclusioni giuridiche alle interdittive antimafia la similitudine solo apparente che queste mostrano con le misure di prevenzione (e, quindi, la loro differenza sostanziale), poiché nell’ottica della CEDU il profilo del nomen iuris di una misura a contenuto sanzionatorio, così come quello delle finalità da essa perseguita, sono del tutto secondari, contando soprattutto il piano concreto ed effettuale dei diritti eventualmente da essa attinti. Peraltro, sotto quest’ultimo versante è la stessa pronuncia del gennaio 2019 del Consiglio di Stato nel § 8.4 ad individuare i diritti attinti dalle interdittive negli stessi diritti compressi dalle misure di prevenzione patrimoniale, riferendosi alla libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.8. Se allora entrambe le misure, quelle di prevenzione patrimoniale e quelle interdittive antimafia, incidono sui medesimi diritti fondamentali riconosciuti convenzionalmente – quelli di proprietà e di libertà di iniziativa economica – le esigenze di predeterminazione minima della base legale espresse in ordine alle prime devono necessariamente essere estese alle seconde, per evidenti ragioni di coerenza sistematica. Essendo, quindi, risultata in contrasto con la CEDU ed i suoi Protocolli la disciplina in materia di misure di prevenzione perché priva di «disposizioni sufficientemente dettagliate in merito a quali tipi di comportamento debbano essere considerati come pericolosi per la società», a fortiori lo sarà anche quella in materia di interdittive generiche in quanto dotata di una base legale ancor più povera, consentendo l’applicazione della misura sulla base degli accertamenti di qualsivoglia aspetto sintomatico di tentativi di infiltrazione mafiosa operati dal Prefetto. Alla esportabilità del ragionamento della CEDU in ambito di informazioni antimafia contribuisce anche un passaggio della già richiamata (in senso opposto) sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale (su cui si tornerà infra nel § 9.1) che non ha escluso la possibilità di ritenere illegittime costituzionalmente le ipotesi di pericolosità generica assolutamente indeterminate di cui all’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 anche in relazione alle altre misure di prevenzione meno invasive di competenza dell’autorità di polizia e non dell’autorità giudiziaria (in particolare, foglio di via obbligatorio e avviso orale). Presentando tali provvedimenti affinità ancor più spiccate con le informazioni antimafia, essendo anch’essi affidati ad organi amministrativi e non alla competenza del Tribunale di prevenzione, laddove la Corte dovesse pronunciarsi affermativamente su un’eventuale futura questione di legittimità costituzionale sulle stesse, sembrerebbe ancor più difficile ritenere legittimo l’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) del codice antimafia. Infine, non risulta fondata l’obiezione del Consiglio di Stato che vede nella tesi della incompatibilità costituzionale delle interdittive generiche una concretizzazione della diffusa tendenza panpenalistica ad esportare categorie e logiche del diritto penale in settori fortemente eterogenei.

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Cons. St., Sez. III, sent. 5 settembre 2019, n. 6105 cit.; Cons. St., Sez. III, sent. 30 gennaio 2019, n. 758, cit. 29


In realtà, come si è visto, il ragionamento condotto dalla CEDU non ha nulla a che fare con il previo riconoscimento della natura penale delle misure in gioco, ma è tutto polarizzato sul livello degli interessi da queste attinti, sicché un’eventuale questione di legittimità costituzionale non sarebbe sollevata per dedurre la violazione di un principio di marca penale, bensì di altri interessi e diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta fondamentale tramite il parametro interposto della CEDU e dei suoi Protocolli (sul punto si rinvia a quanto già detto nel § 6). 4.1. I possibili riflessi della sentenza della Corte costituzionale n. 24/2019 in materia di misure di prevenzione. Da ultimo, un’ulteriore conferma della difficile compatibilità costituzionale delle interdittive generiche può essere desunta dalla poc’anzi menzionata sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale, anch’essa relativa al settore delle misure di prevenzione e, sostanzialmente, attuativa del dictum della sentenza De Tommaso della Corte EDU. Questa decisione – con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni del codice antimafia, e, segnatamente, dell’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 e, per il passato, dell’art. 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, nella parte in cui consentono l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, nonché del sequestro e della confisca di prevenzione, anche ai soggetti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» con riferimento, rispettivamente, all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU e all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché all’art. 42 Cost. – ha il merito di ribadire la portata vincolante delle statuizioni della sentenza CEDU nel nostro ordinamento. In essa è stato sì affermato (come sostiene il C.d.S.) che esiste uno spazio molto più ampio in ambito extra-penale per la interpretazione tassativizzante della giurisprudenza capace di contribuire, quando è unanime e consolidata, a rendere prevedibili le misure di prevenzione, ma si è pure precisato che la base legale che ne fissa i presupposti e ne individua i destinatari deve sempre però avere un minimo di determinatezza tale da limitare la discrezionalità degli interpreti e da orientare i consociati. A differenza del diritto penale, la norma che regola misure praeter delictum può, quindi, contenere clausole generali o anche formule dotate di un certo grado di imprecisione il cui contenuto può essere co-definito dal diritto giurisprudenziale, ma ex adverso non può essere redatta in maniera completamente aperta ed indeterminata. Se l’interpretazione giurisprudenziale è instabile, come nel caso della definizione dei presupposti di applicabilità dell’interdittiva nelle ipotesi dei rapporti familiari o delle informazioni a cascata su cui il Consiglio di Stato si è sforzato negli ultimi tempi di fissare punti fermi9, i quali però sono abbastanza eterei, la norma sembra prestare il fianco a censure di illegittimità costituzionale analoghe a quelle accolte nella questione relativa alla pericolosità generica di cui all’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 159/2011 in relazione alle misure di prevenzione patrimoniali che toccano lo stesso diritto convenzionalmente riconosciuto nell’art. 1 del Protocollo addizionale CEDU.

9 Si veda sui rapporti di parentela Cons. St., Sez. III, 30 maggio 2017, n. 2590; Cons. St., Sez. III, 10 aprile 2017, n. 1657; Cons. St., Sez. III, 4 aprile 2017, n. 1559; Cons. St., Sez. III, 27 febbraio 2017, n. 905. Sulle relazioni commerciali e le interdittive a cascata cfr. Cons. St., Sez. III, nn. 1743 e 2232 del 2016; Tar Campania, Napoli, Sez. I, 4 luglio 2018, n. 4938, decisioni in cui è compiuto anche uno sforzo di tipizzazione delle interdittive generiche. 30


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Anche in questo altro ambito disciplinare extra-penale, allora, non può ritenersi legittima la descrizione dei presupposti e dei destinatari delle misure in termini assolutamente indeterminati, sicché l’unica alternativa che sembra profilarsi per le interdittive generiche è ancora oggi – nonostante il diverso avviso del Consiglio di Stato – quella della questione di legittimità costituzionale per la violazione dei principî e diritti in precedenza indicati. Nell’immediato non resta che attendere la prova del diritto vivente e vedere se la giustizia amministrativa muterà in futuro il precedente orientamento e rimetterà alla Consulta la decisione sul punto. Nel lungo periodo, invece, la via maestra da percorrere per appianare ogni problema pare essere quella legislativa. Solo colmando con una riforma organica la lacunosità della disciplina relativa ai presupposti delle interdittive generiche e modificando profondamente altri aspetti più generali inerenti alla competenza ad adottare tali provvedimenti e alla accessibilità all’istituto complementare del controllo giudiziario, si può restituire razionalità ad un sottosistema della prevenzione in cui le garanzie ed i diritti fondamentali dei destinatari sono ancora in ombra, soprattutto nei casi dei c.d. (per usare la terminologia del Consiglio di Stato) complici soggiacenti, vale a dire le vittime di estorsione.

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ANTICORRUZIONE Millantato credito e traffico di influenze illecite alla luce della riforma del 2019 Dott. Raffaele Piccirillo Magistrato addetto all’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di Cassazione Capo della delegazione italiana presso il Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (GRECO)

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CONCORRENZA – La compliance antitrust Prof. Pietro Manzini Ordinario di Diritto dell’Unione Europea, Alma Mater Studiorum Università di Bologna

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