Attraverso la Storia

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ATTRAVERSO LA STORIA SEMINARIO SISEM DI GIOVANI STUDIOSI E STUDIOSE DELL‟ETÀ MODERNA

Arezzo, 23-25 settembre 2010

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA DI AREZZO Campus del Pionta - Viale Cittadini, 52100 Arezzo www.letterearezzo.unisi.it Informazioni: www.stmoderna.it julia.modena@gmail.com



Programma

Giovedì 23 settembre 2010 11.00: Saluti e introduzione al convegno Prima sessione 11.30-13.00: Guido Bartolucci, Tecniche del Rifacimento: riedizioni e traduzioni di testi nell‟Europa dell‟età moderna 15.00-17.00: Sara Mori, Elisa Rebellato, Temi e problemi di storia del libro: alcuni orizzonti di ricerca 17.15-19-15: Francesco Luzzini, L‟edizione elettronica del testo scientifico d‟Età Moderna: criteri, problemi, prospettive di ricerca Seconda sessione 11.30-13.00: Pasquale Palmieri, Diritto, giustizia e società nel Regno di Napoli (secoli XVII-XVIII) 15.00-17.00: Angelo di Falco, Il governo del sistema imperiale spagnolo: ideologie e pratiche 17.15-19.15: Veronica Granata, Sedizione e comunicazione politica nell‟Europa di età moderna: dal segreto alla pubblicità


Venerdì 24 settembre 2010 Prima sessione 9.00-10.30: Sabina Brevaglieri, Saperi in movimento nell´Europa dell´età moderna: la circolazione come „sito‟ della conoscenza scientifica 11.00-13.00: Marco Cavarzere, Libertas theologandi e ortodossia dottrinale nel Seicento 15.00-17.00: Cecilia Cristellon, Matrimoni misti, matrimoni trasgressivi tra Europa e Nuovo Mondo (Secoli XVI-XVIII) 17.15-19.15: Chiara La Rocca, Fare famiglia nel Settecento Seconda sessione 9.00-10.30: Vittorio Tigrino, Locale e istituzionale: per una storia delle istituzioni in antico regime 11.00- 13.00: Blythe Alice Raviola, Piccolo stato, piccoli stati: genesi, strutture istituzionali, economia e relazioni internazionali delle realtà regionali italiane d‟Antico Regime 15.00-17.00: Maria Angela Caffio, Antonio Mele, Conflitti, negoziazioni, appartenenze in età moderna 17.15-19.15: Alessandro Buono, La complessità di Marte. Percorsi di ricerca e linee di indagine sulla storia del “militare” in età moderna

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Sabato 25 settembre 2010 Prima sessione 9.00-10.30: Giuseppe Marcocci, Società ostili. Controllo giudiziario e integrazione (XVI-XVII sec.) 11.00-13.00: Marco Platania, L‟Europa e i Nuovi Mondi: comunicare e comprendere la diversità culturale in età moderna Seconda sessione 9.00-10.30: Valeria Masala, Il reclutamento del ceto dirigente negli apparati di governo: il caso della Toscana Medicea e del Piemonte settecentesco 11.00-13.00: Claudio Lorenzini, Il legno: dal versante dei consumi. L‟Italia settentrionale in età moderna

13.00: Saluti finali

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SOMMARIO Tecniche del Rifacimento: riedizioni e traduzioni di testi nell‟Europa dell‟età moderna ........................................ 9 Temi e problemi di storia del libro: alcuni orizzonti di ricerca 15 L‟edizione elettronica del testo scientifico d‟Età Moderna: criteri, problemi, prospettive di ricerca .......................... 23 Saperi in movimento nell´Europa dell´età moderna: la circolazione come „sito‟ della conoscenza scientifica ........... 31 Libertas theologandi e ortodossia dottrinale nel Seicento......... 39 Il reclutamento del ceto dirigente negli apparati di governo: il caso della Toscana Medicea e del Piemonte settecentesco ..... 45 Matrimoni misti, matrimoni trasgressivi tra Europa e Nuovo Mondo (Secoli XVI-XVIII) .......................................... 51 Fare famiglia nel Settecento ......................................... 57 Società ostili. Controllo giudiziario e integrazione (XVI-XVII sec.) ..................................................................... 65 L‟Europa e i Nuovi Mondi: comunicare e comprendere la diversità culturale in età moderna.................................. 73 Sedizione e comunicazione politica nell‟Europa di età moderna: dal segreto alla pubblicità............................................ 83 Il governo del sistema imperiale spagnolo: ideologie e pratiche ........................................................................... 91


Diritto, giustizia e società nel Regno di Napoli (secoli XVIIXVIII) ................................................................... 99 Locale e istituzionale: per una storia delle istituzioni in antico regime ................................................................ 107 Piccolo stato, piccoli stati: genesi, strutture istituzionali, economia e relazioni internazionali delle realtà regionali italiane d‟Antico Regime .................................................... 115 Conflitti, negoziazioni, appartenenze in età moderna ........ 125 La complessità di Marte. Percorsi di ricerca e linee di indagine sulla storia del “militare” in età moderna ....................... 133 Il legno: dal versante dei consumi. L‟Italia settentrionale in età moderna .............................................................. 139 Indice dei partecipanti ............................................. 147

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PANEL

TECNICHE DEL RIFACIMENTO: RIEDIZIONI E TRADUZIONI DI TESTI NELL‟EUROPA DELL‟ETÀ MODERNA Coordinatore: Guido Bartolucci Relatori: Guido Bartolucci, Valentina Lepri, Clizia Magoni, Maria Elena Severini. Il panel si propone di analizzare la circolazione e la diffusione di testi e delle idee in essi contenuti attraverso quattro casi che coprono il periodo compreso tra il XVI e la fine del XVIII secolo e un‟area geografica che abbraccia gran parte dell‟Europa. Ristampe, nuove edizioni e traduzioni sono i modi attraverso i quali fu possibile nell‟Europa dell‟età moderna, soprattutto a partire dal Cinquecento, da una parte rielaborare un sapere antico che, grazie all‟invenzione della stampa, conobbe una diffusione senza precedenti, dall‟altra immettere nuovamente sul mercato librario opere di autori moderni in vesti editoriali ogni volta diverse. I quattro esempi proposti in questa sede intendono indagare un aspetto poco studiato dalla storiografia, in particolare italiana: quello della circolazione delle idee politiche e religiose in diversi paesi, se non in epoche diverse, e del loro riadattamento a seconda delle specifiche esigenze, attraverso le tecniche „materiali‟, concrete, per mezzo delle quali tale circolazione avvenne. Il rifacimento, in chiave calvinista del Thesaurus linguae sanctae di Sante Pagnini, la rilettura rivoluzionaria inglese della traduzione della Politica di Aristotele del Le Roy, la riedizione dei Ricordi del Guicciardini nell‟Anversa anti-spagnola, le


traduzioni in francese di classici del pensiero repubblicano inglese sono tutti esempi di come le attività editoriali e di traduzione abbiano contribuito in maniera decisiva alla circolazione delle idee in contesti ed epoche differenti. VALENTINA LEPRI La versione anversana dei Ricordi di Francesco Guicciardini Alla fine del XVI secolo furono numerose le edizioni dei Ricordi di Francesco Guicciardini, che misero in circolazione allestimenti diversi del testo, risentendo ogni volta del contesto storico in cui nacquero. In mano ai curatori l‟opera muta il suo aspetto e diventa oggetto di grande interesse tra i lettori. Tra le diverse edizioni del testo spiccano I precetti et sententie più notabili in materia di Stato M. Francesco Guicciardini stampati ad Anversa nel 1585 per cura di Lodovico Guicciardini, nipote dello storico. Della sua attività di autore originale è nota la Descritione di tutti i Paesi Bassi. Tradotta in diverse lingue essa costituisce la prima descrizione geografica, sociale e artistica dei Paesi Bassi. L‟iniziativa editoriale che animò questo curatore va considerata nella sua complessità: i lettori dell‟area protestante apprezzavano da tempo la Storia d‟Italia ed erano pronti ad accogliere una nuova pubblicazione di colui che così efficacemente aveva mostrato la corruzione del papato. Tuttavia, questa opportunità di „mercato‟ non descrive appieno il lavoro di Lodovico Guicciardini. La critica ha considerato quest‟opera un mero rifacimento privo di originalità. Al contrario, guardando specificatamente alla manipolazione compiuta sulla raccolta, è possibile intravedere un preciso intento di lavoro. In particolare, emerge 10


l‟attenzione del curatore per la città di Anversa, impegnata in quegli anni nell‟aspra lotta contro la Spagna, che nelle pagine del Guicciardini arriva ad incarnare uno stato ideale che si contrappone alla monarchia accentratrice di Filippo II. In questo drammatico scenario l‟impegno di Lodovico Guicciardini verso i Ricordi dello zio può essere letto in maniera più articolata poiché traspare come dietro ai Precetti et sententie il curatore sia animato da propositi di ampio respiro che traggono impulso dall‟osservazione della situazione politica contingente. MARIA ELENA SEVERINI La prima traduzione inglese della Politica di Aristotele Nel Cinquecento europeo la Politica di Aristotele è al centro di un ampio dibattito, che coinvolge intellettuali impegnati nella definizione della scientia politica moderna. L‟opera aristotelica che gli occidentali conoscono per ultima svela il rapporto tra teoria e prassi, legge generale e realtà effettuale, entrando nella discussione sui modelli del principe e dello stato. Nel 1568 l‟umanista cortigiano Loys Le Roy, militante nel partito moderato e sovraconfessionale dei politiques, realizza, a Parigi, una nuova traduzione francese del testo intitolata Les politiques d‟Aristote es quelles est monstrée la science de gouverner le genre humain en toutes espèce d‟estat publicques. Arricchita da un ampio commento, la versione del Regius, che risponde a precise preoccupazioni di corte, avrà una fortuna notevole, consentendo all‟opera di lasciare l‟ambito della scuola per entrare nel circuito del sapere comune. Il suo allestimento valorizza alcuni aspetti trascurati dai commenti medievali e umanistici: se sul piano teorico la Politica insegna come l‟universalità della legge può ri11


spondere alle contingenze mediante le virtù della discrezione e della prudenza, dal punto di vista formale introduce un peculiare metodo storico-argomentativo, che si contraddistingue per la ricchezza e la varietà dei riferimenti storici, geografici ed etnologici. È proprio a partire dal volgarizzamento del cattolico Regius che, nel 1598, a Londra, viene eseguita la prima traduzione inglese della Politica, pubblicata, con tutta probabilità, da John Donne e intitolata Aristotle‟s Politiques, or discourses of governement. All‟alba del nuovo secolo, la versione approntata trent‟anni prima dal moderato politique avrebbe costituito, nelle mani del poeta e predicatore anglicano, uno straordinario laboratorio politico, fonte di suggerimenti e precetti utili all‟azione del sovrano nell‟Inghilterra protestante di Giacomo I. CLIZIA MAGONI Dalla guerra civile inglese alla Rivoluzione francese: transfert di esperienze e proposte politiche In Francia sia alla vigilia sia negli anni centrali della Rivoluzione furono tradotte o nuovamente edite le opere più rappresentative del repubblicanesimo inglese del XVII secolo: l‟Aeropagitica (1788) di John Milton, il De la souveraineté du peuple (1790) di Marchamont Nedham, gli Aphorismes politiques (1794) di James Harrington, i Discours sur le gouvernement (1794) di Algernon Sidney. Per il volume di note e per gli estratti aggiunti tali traduzioni manifestavano implicitamente l‟intenzione del traduttore di esporre, attraverso il pensiero dell‟autore originale, la propria concezione della dottrina sulla sovranità. Le argomentazioni contenute nei trattati inglesi, attraverso il „nuovo‟ 12


linguaggio della traduzione, potevano così veicolare idee della “sovranità popolare” compatibili e/o anche in qualche modo concorrenziali con quelle prevalenti nei primi anni della Rivoluzione Francese. Un ruolo decisivo per favorire questo transfert di sapere si crede sia stato svolto dal pensiero politico americano degli anni della lotta per l‟indipendenza e della nascita degli Stati Uniti, in particolare dall‟opera di John Adams Defence of the Constitutions of Government of the United States of America (17861787), costruita come risposta critica al trattato di Nedham (Excellencie of A Free-State or The right Constitution of Commonwealth, 1656) e fortemente influenzata dal pensiero di Harrington. La Defence di Adams fu presto conosciuta in Francia e tradotta nel 1792 con il titolo di Défense des constitutions américaines, ou De la nécessité d‟une bilance dans les pouvoirs d‟un gouvernement libre. Fin dallo scoppio della Rivoluzione, prima ancora che cadesse la monarchia, si guardò dunque all‟esperienza repubblicana inglese, a ciò che in termini di proposte politiche e di esiti pratici aveva prodotto, con profondo interesse. E ad essa si sarebbe continuato a guardare nel periodo immediatamente successivo alla fine del Terrore e durante l‟elaborazione della costituzione dell‟Anno III. GUIDO BARTOLUCCI Lo studio dell‟ebraico nell‟Europa delle guerre di religione: l‟edizione calvinista del Thesaurus linguae sanctae di Sante Pagnini Nel 1575 il teologo ed ebraista ginevrino Bonaventure Corneille Bertram fece stampare a Lione una nuova edizione del Thesaurus linguae sanctae di Sante Pagnini. L‟opera del Pagnini, pubblicata nel 1529, fu uno dei primi dizionari ebraico-latino 13


che faceva un largo uso di fonti ebraiche e, seguendo la tradizione dell‟esegeta e grammatico ebreo David Kimkhi, sistematizzava i lemmi ebraici secondo le singole radici. L‟opera dell‟ebraista italiano divenne presto uno dei punti di riferimento per chi voleva studiare e approfondire la lingua ebraica; la sua autorità era tale che Benedetto Arias Montano lo inserì in appendice alla Bibbia poliglotta di Anversa, autentica summa dell‟ebraistica europea del tempo. Dopo la prima edizione del 1529, il Thesaurus del Pagnini fu ristampato numerose volte, ma l‟edizione di Lione del 1575 riproponeva l‟opera in una nuova veste. Il Bertram non si limitò a correggere gli errori ed ad aggiornare le singole voci, ma, con la collaborazione di altri due ebraisti calvinisti Antoine Chevalier e Jean Mercier, ampliò significativamente il Thesaurus, aggiungendo lunghi passi a quasi tutte le radici ebraiche, evidenziando tali inserzioni stampandole in carattere corsivo. Il risultato fu un‟opera radicalmente diversa dal suo modello: alle rigorose definizioni grammaticali di Sante Pagnini si mescolavano digressioni che interpretavano alcuni aspetti della tradizione ebraica attraverso la lente della dottrina calvinista. La veste della nuova edizione del Thesaurus (ristampato nel 1577 e nel 1616) contribuì alla sua diffusione anche in paesi Cattolici come l‟Italia, dove, in alcuni casi, divenne una fonte privilegiata per chi voleva studiare la tradizione ebraica, tradizione che però si colorava di forti tinte calviniste. La relazione analizzerà un caso specifico dell‟influenza del Thesaurus sullo storico modenese cattolico Carlo Sigonio, che, nella sua opera sulle istituzioni politiche ebraiche, propose un‟analisi della legge mosaica ricalcata sul materiale aggiunto da Bertram e pericolosamente vicina alla dottrina calvinista.

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PANEL

TEMI E PROBLEMI DI STORIA DEL LIBRO: ALCUNI ORIZZONTI DI RICERCA Coordinatrici: Sara Mori, Elisa Rebellato Relatori: Lorenzo Di Lenardo, Rudj Gorian, Elisa Rebellato, Sara Mori L‟intento di questo panel è di analizzare alcuni aspetti della storia del libro nel corso dell‟età moderna. La storia del libro ha assunto ormai da anni, grazie a molti studi attenti e vivaci, la fisionomia di disciplina storica aperta all‟interazione con altri settori della ricerca, come la storia politica, religiosa, economica e sociale. L‟invenzione della stampa a caratteri mobili prende le mosse dalla seconda metà del Quattrocento per svilupparsi lungo i secoli successivi fino a giungere alle innovazioni tecnologiche della prima metà dell‟Ottocento che cambiarono radicalmente, seppur con tempi e modi diversi, gli orizzonti editoriali e librari. La stampa ha dunque un fortissimo valore periodizzante per l‟età moderna e per tale motivo abbiamo deciso di illustrare alcune tematiche che caratterizzano l‟universo del libro e dell‟editoria. Il modello cui ci siamo ispirate nella strutturazione di questo panel è quello, proposto da Robert Darnton, che mira a delineare il „ciclo vitale‟ del libro. In un‟ottica dunque di confronto e integrazione degli interventi, abbiamo previsto di approfondire


singoli aspetti, quali la produzione, la diffusione, la circolazione e la ricezione del libro a stampa. A questo scopo sono previsti quattro relazioniche verteranno ognuno su una di queste fasi: Lorenzo Di Lenardo prenderà in esame l‟aspetto della produzione, attraverso l‟analisi della figura dello stampatore-libraio, a partire dal caso esemplare della famiglia Lorio; Rudj Gorian concentrerà l‟attenzione sul momento della diffusione, soffermandosi in particolare sui circuiti di (vendita)distribuzione della stampa periodica; Elisa Rebellato si occuperà degli ostacoli alla libera circolazione dei testi, approfondendo i caratteri della censura ecclesiastica tra Sei e Settecento; infine Sara Mori „chiuderà‟ il ciclo proponendo alcune riflessioni sul consumo e la ricezione del libro popolare fra Sette e Ottocento. Gli interventi non sono intesi come una rassegna storiografica sul tema ma attingono direttamente dalle esperienze di studio e ricerca degli studiosi che, condotte su periodi storici differenti, conferiscono al panel un‟ottica di lungo periodo. Ampio spazio sarà lasciato poi alla discussione finale con la speranza di far emergere la complessa articolazione tra il mondo del libro e la sua circolazione. LORENZO DI LENARDO Editori e tipografi in età moderna I tipografi, sin dall‟epoca dell‟invenzione della stampa, per produrre i libri ebbero bisogno di ingenti capitali. I costi che incidevano sul prodotto finito erano molti, dall‟affitto dell‟officina all‟acquisto degli strumenti di stampa (torchio e caratteri), dalla forza lavoro (torcolieri, compositori), al procu16


rarsi il supporto indispensabile, la carta. I profitti dell‟impresa tipografica erano potenzialmente molto elevati, ma il ritorno dell‟investimento era incerto e lento nel tempo, tanto che molti stampatori fallirono dopo aver realizzato una o due edizioni. La fonte principale di sostegno economico per i tipografi furono i “soci mercanti” privati e, infatti, sin dai primi anni i finanziamenti per la stampa in Italia provenirono soprattutto da professionisti colti (medici, notai, insegnanti) che desideravano vedere certi testi pubblicati. In secondo luogo la stampa poteva essere considerata una fonte di guadagno ulteriore per quelle figure che già operavano nel mondo del libro. Sappiamo, infatti, che per tutto il Rinascimento i proprietari di librerie furono importanti committenti di opere da stampare, così come era naturale per i fabbricanti di carta avere interessi nell‟editoria. Lorenzo Lorio costituisce un esempio interessante di piccolo editore discendente da una famiglia di cartai, attiva sulla Riviera del Garda a fine Quattrocento. Il Lorio dopo essersi trasferito a Venezia all‟inizio del XVI secolo finanziò diverse iniziative editoriali e, tra il 1514 e il 1528, fece uscire almeno cinquanta titoli. Autore di punta della sua produzione fu Erasmo da Rotterdam e il Lorio risulta il più prolifico editore italiano del maestro olandese nei primi trent‟anni del Cinquecento. Anche sulla lettura di questi testi erasmiani si formò quella generazione che, a partire dagli anni Quaranta, contribuì allo sviluppo dei primi gruppi eterodossi italiani.

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RUDJ GORIAN I periodici politici a stampa nell‟Italia Settecento. In antico regime le gazzette a stampa, agili, più economiche e più facilmente reperibili dei fogli manoscritti, giocarono un ruolo importante nella creazione di una rete di informazioni relativamente uniforme tra aree geografiche differenti, sia grazie alla grande diffusione di alcuni fogli in lingua francese (non prodotti, però, ma solo letti, o, in qualche caso, ristampati in Italia), sia grazie al rilancio delle notizie da un periodico all‟altro. I centri italiani dove si producevano e donde si distribuivano le gazzette principali (spesso protette da privilegi) erano generalmente le capitali culturalmente e politicamente più vivaci, dove la stessa fruizione dei fogli era più radicata (anche come fruizione collettiva in caffè e gabinetti di lettura). Tuttavia esisteva anche una produzione di fogli minori a circolazione limitata, sia nei grandi centri, sia in periferia. Le gazzette minori contribuirono in modo secondario alla diffusione di notizie su larga scala, ma sono importanti per studiare le strategie escogitate da stampatori ed estensori di secondo piano per far sopravvivere questi periodici, come l‟imitazione di titoli di successo, gli attacchi a fogli affini diffusi parallelamente, la ricerca di specializzazioni, il riciclo di notizie vecchie anche di decenni. A monte c‟era comunque, in quasi tutti i casi, una costante attenzione per raggiungere gli interessi del lettore, cercando di cogliere rapidamente le fluttuazioni della curiosità del pubblico in rapporto all‟attualità. Nel settore dei diffusissimi titoli politici a larga periodicità Venezia primeggiò grazie alla traduzione del «Mercure historique et politique» dell‟Aja (il cui successo fu più volte minato da analoghe iniziative sorte in Italia e a Lugano) ed alla «Storia 18


dell‟anno» (annuario che, compilato ottimizzando abilmente i tempi di stampa e redazione, circolava sia come pubblicazione di stretta attualità, sia, in ampie raccolte, come compendio di storia contemporanea). ELISA REBELLATO La censura libraria in età moderna: l‟espurgazione. Fin dalla fine del Quattrocento, la Chiesa si preoccupò di creare un apparato di controllo della circolazione del libro a stampa. La censura veniva esercitata in tutte le fasi della produzione libraria: in via preventiva al momento della richiesta dell‟imprimatur, in forma repressiva con la messa all‟Indice e la confisca delle edizioni già in circolazione. All‟interno del complesso sistema censorio, la pratica di gran lunga più raffinata fu quella dell‟espurgazione, introdotta a livello legislativo fin dall‟Indice Tridentino del 1564. Nata per permettere la circolazione di testi altrimenti proibiti, e quindi con scopi "liberali", finì col modificare in maniera radicale il contenuto dei volumi. Essa andava a colpire sia i testi sottoposti al rilascio dell‟imprimatur, sia i testi già pubblicati. Esemplare il caso delle raccolte di epistole, in particolare le indicazioni fornite nel 1573 dal Maestro di Sacro Palazzo Paolo Costabili a Paolo Manuzio, in occasione dell‟allestimento di una nuova edizione delle sue Lettere volgari. Contrariamente all‟Inquisizione spagnola, la Chiesa di Roma riuscì a pubblicare un solo Indice espurgatorio, quello curato dal Maestro di Sacro Palazzo Giovanni Maria Guanzelli e stampato dopo una serie di vicissitudini nel 1607. È interessante notare come nella pratica quotidiana, l‟espurgazione venisse applicata 19


seguendo indifferentemente le indicazioni dell‟espurgatorio spagnolo o di quello romano. L‟analisi dell‟influenza della censura sulla circolazione dei testi non può omettere una riflessione sul fenomeno dell‟autocensura, la revisione cui gli autori stessi sottoponevano i proprio testi, al fine di evitare ogni possibile attrito con le autorità ecclesiastiche. SARA MORI Fra oralità e scrittura: alcune riflessioni sulla lettura fra Sette e Ottocento. L‟intervento intende ricostruire alcune pratiche di lettura e consumo dell‟editoria popolare nell‟Italia del Sette-Ottocento. Fruttuose ricerche relative alle realtà italiana e a quella estera hanno messo già da tempo in luce l‟esistenza di una vastissima produzione, spesso considerata minore e quindi non conservata accuratamente dalle biblioteche, composta da fogli volanti, almanacchi, libretti devozionali, opuscoli di varia natura che generalmente andavano a costituire la dieta letteraria di vasti settori di popolazione urbana e rurale. Tale materiale, che spesso rappresentava la principale risorsa delle piccole stamperie, non sempre utilizzava i tradizionali circuiti di diffusione libraria ma era distribuito in canali paralleli, attraverso i venditori ambulanti, nelle grandi fiere cittadine o davanti alle Chiese ed in generale nelle diverse occasioni della socialità urbana o rurale. Non infrequente, ancora per gran parte del secolo XIX, il consumo pubblico attraverso la lettura ad alta voce. La produzione editoriale di larga diffusione si trasforma nel tempo, ma ha anche straordinarie persistenze, che per l‟età mo20


derna coprono il periodo dal „500 fino alla prima metà dell‟800, non solo nel campo dell‟intrattenimento (si pensi al Guerin Meschino o a I Reali di Francia), ma anche nella manualistica di ogni tipo (dai trattati di automedicazione, alla cucina) e nella letteratura devozionale. Nel corso dell‟intervento si evidenzieranno le difficoltà nella ricostruzione delle pratiche di consumo e di lettura di questo genere editoriale e l‟uso fruttuoso di alcune fonti archivistiche, facendo opportune differenze fra quelle di tipo pubblico, come quelle legate alla censura e alla concessione di licenze e permessi di vendita ambulante, e quelle di stampo privato come diari, memorie e carteggi.

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PANEL

L‟EDIZIONE ELETTRONICA DEL TESTO SCIENTIFICO D‟ETÀ MODERNA: CRITERI, PROBLEMI, PROSPETTIVE DI RICERCA Coordinatore: Francesco Luzzini Relatori: Davide Arecco, Simona Boscani Leoni, Eva Del Soldato, Concetta Pennuto Gli strumenti informatici oggi a disposizione dell‟indagine storica, se per un verso hanno condotto ad un‟enorme semplificazione dei problemi di fruibilità e consultazione dei testi, hanno d‟altro canto imposto allo studioso la necessità di trasformare radicalmente il proprio approccio ai metodi di conservazione e trasmissione delle fonti. I vantaggi derivati dalle straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie informatiche, infatti, non hanno evitato l‟insorgere di difficoltà metodologiche ed epistemologiche di non facile soluzione. Il punto nevralgico del problema va individuato nella tensione, sempre più evidente negli ultimi anni, fra un‟impresa intellettuale che – come l‟edizione critica di un testo scientifico – è per sua natura concepita come un lavoro definitivo e destinato a durare nel tempo, e le tecniche informatiche, che, nonostante l‟indubbia efficacia e superiorità funzionale rispetto ai metodi di ricerca storica tradizionali, trovano proprio nella travolgente velocità d‟evoluzione il loro principale ostacolo ad un‟efficace applicazione ecdotica. Lo storico moderno è chiamato a misurarsi con tale dilemma: obiettivo, questo, di non facile risoluzione, al cui raggiungimento si stanno impegnando i più avanzati progetti editoriali di testi


scientifici italiani ed esteri. Un eloquente esempio è offerto dall‟inventario elettronico del carteggio di Antonio Vallisneri (www.vallisneri.it), che, curato dall‟omonima Edizione Nazionale, costituisce ad oggi in Italia uno dei più concreti tentativi di combinare il rigore dell‟edizione critica classica con la versatilità dell‟edizione elettronica. Il panel qui proposto intende offrire uno sguardo d‟insieme, il più possibile esaustivo ed efficace, su caratteristiche, criteri di lavoro e problemi relativi all‟utilizzo dell‟informatica nell‟edizione dei testi scientifici e filosofici d‟Età Moderna. Davide Arecco, Simona Boscani Leoni ed Eva Del Soldato, illustrando i progetti di edizione elettronica di epistolari, cataloghi di biblioteche e testi che li vedono impegnati in ambito italiano ed europeo, delineeranno con efficacia lo stato dell‟arte di una disciplina giunta ad uno stadio cruciale e particolarmente delicato del proprio percorso. Concetta Pennuto, infine, esporrà – rispondendo ad uno sforzo di sintesi tra ecdotica “classica” ed informatica coerente con le finalità del panel – una relazione di carattere più strettamente filologico, analizzando criteri d‟indagine e problemi relativi all‟individuazione delle fonti di un testo scientifico rinascimentale. DAVIDE ARECCO Il carteggio Vallisneri-Muratori (1707-1729): tra editing multimediale, revi-sione critico-filologica e ricostruzione storiografica Il carteggio tra Vallisneri e Muratori è forse uno dei maggiori tesori epistolari di tutta l‟età moderna: nelle lettere tra i due si discute di scienza (medica e naturale, soprattutto), iniziative editoriali, echi della cultura europea, condizioni sociali e politi24


che per l‟esercizio della libertas philosophandi, idee religiose, controversie e altro ancora. La storia intellettuale e istituzionale delle scienze tra Seicento e Settecento non può prescindere, sotto molti aspetti, dallo studio di questa corrispondenza. In vista dell‟edizione elettronica di essa (prevista, a breve, sul sito www.vallisneri.it) si è rivelato necessario approntare un profondo (quanto severo) lavoro di ripristino dei materiali originari, con tutto il rigore filologico connesso alla trascrizione delle fonti. Queste ultime finiscono con lo squadernare, pressoché da subito, un‟estesissima serie di rimandi storici alla realtà in cui Vallisneri e Muratori ebbero a vivere e a scriversi. Le dinamiche contestuali di riferimento escono pertanto potentemente da questi scambi di natura epistolare, che, nel caso dell‟editing telematico prevedono la sola e semplice messa on line delle lettere, in ordine ovviamente cronologico e ancora senza l‟apparato di commento (fatte salve alcune indispensabili avvertenze iniziali). Le note al testo, insieme ad una vasta Introduzione, figureranno invece nella versione che uscirà a stampa per i tipi di Olschki. In tal senso, appare lecito affermare che il lavoro di edizione elettronica si palesa come propedeutico a quello cartaceo. Come dire che antico e nuovo, passato e presente, tradizione e tecnologia possono benissimo convivere in ambito storiografico, in un mutuo quanto proficuo ordine di rapporti reciproci. SIMONA BOSCANI LEONI Johann Jakob Scheuchzer (1672-1733) e il suo network. La costituzione di un repertorio online della corrispondenza dell‟erudito zurighese L‟intervento si concentra sulla figura dell‟erudito zurighese Scheuchzer e sul network della sua corrispondenza, nell‟insieme 25


circa ottocento intellettuali e “curiosi” sparsi in tutta Europa e coi quali il medico svizzero intrattenne un vasto rapporto epistolare lungo tutta la sua esistenza. Nell‟insieme, il lascito comprende una cinquantina di volumi conservati alla Zentralbibliothek di Zurigo. Il progetto del Fondo nazionale svizzero “Helvetic networks” si concentra su una parte limitata di questo epistolario, 5 volumi, che contengono le lettere che Scheuchzer scrisse e ricevette da una quarantina di eruditi e curiosi nella Confederazione. Si tratta di una “rete interna” molto importante per indagare le fonti stesse di informazione sulla storia naturale elvetica, punto centrale delle ricerche di Scheuchzer. Questi contatti permettono di indagare i processi di raccolta di informazione su vari aspetti della storia naturale elvetica, delle Alpi e sulle attività degli abitanti di queste regioni. Oltre a questo, queste missive permettono anche di seguire importanti discussioni di argomento politico e confessionale che animavano l‟Europa e la Confederazione all‟epoca. Il progetto prevede, oltre alla pubblicazione di una edizione critica di parte di questo corpus, anche la creazione di una banca dati elettronica elaborata in collaborazione con l‟università di Berna e i progetti dedicati al medico ed erudito Albrecht von Haller e alla Oekonomische Gesellschaft, una delle prime organizzazioni illuministe elvetiche. EVA DEL SOLDATO Biblioteche filosofiche private in età moderna e contemporanea: percorsi intellettuali fra scaffali e cataloghi Il progetto “Biblioteche Filosofiche Private in età Moderna e Contemporanea” è nato per iniziativa di un gruppo di lavoro di studiosi del26


la Scuola Normale Superiore di Pisa e dell‟Università di Cagliari, nella convinzione che cataloghi ed inventari di biblioteche, una volta selezionati e resi disponibili alla comunità scientifica, potranno essere proficuamente utilizzati non solo ai fini della ricostruzione di una storia „materiale‟ delle istituzioni, ma anche sotto un‟angolatura più ampia, concernente il profilo culturale di singoli autori o di interi periodi di storia intellettuale. L‟importanza dei cataloghi di libri (siano essi di asta, istituzionali, amministrativi e privati) per la storia delle idee e la ricostruzione di singole “biografie intellettuali” si è d‟altronde resa sempre più affermata negli ultimi anni, e il portale web del progetto http://picus.sns.it/biblioteche_dei_filosofi/index.php?page=Home&lang= it offre pertanto la possibilità di attingere a cataloghi spesso rari di autori fondamentali nella storia intellettuale dell‟Occidente, resi fruibili attraverso schede sintetiche. Le tipologie presenti sono appunto molteplici, dai cataloghi a stampa, a inventari post-mortem realizzati dagli eredi, fino a documenti manoscritti talora inediti. Il portale si propone così di dar conto del corso degli studi, delle competenze e degli interessi di un autore, lavorando sull‟elenco dei suoi libri; di indagare la circolazione dei suoi scritti, allargando l‟analisi alle biblioteche delle generazioni successive; di studiare la storia delle trasformazioni delle biblioteche private nel passaggio da un‟epoca all‟altra; di seguire la circolazione di testi, o raccolte di testi, straordinariamente rari; e siccome il concetto di biblioteche “filosofiche” va inteso con grande elasticità, sarà anche possibile registrare i mutamenti che intervengono sul piano dei rapporti reciproci tra discipline diverse e indagare come evolva l‟insieme dei testi filosofici presenti nelle biblioteche di giuristi, linguisti, naturalisti etc., a loro volta significativamente presenti nell‟indice di autori finora schedato e che è del resto in continua evoluzione.

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CONCETTA PENNUTO I consilia di Vittore Trincavelli: incursioni nelle letture di un medico del Cinquecento Immaginiamo di curare l‟edizione di uno dei consilia medici di Vittore Trincavelli e di addentrarci nella ricostruzione delle letture servite alla descrizione del caso e alla formulazione della diagnosi. Prendiamo il consiglio su una donna di Boemia partoriente, dove l‟argomentazione medico-filosofica è condotta sulla base della tradizione aristotelico-galenica. In mancanza d‟un catalogo autografo, di un inventario steso da eredi o di un catalogo a stampa, gli strumenti a disposizione del ricercatore sono spesso limitati al reperimento delle fonti e alla ricostruzione della lista delle opere dell‟autore. Nel caso delle citazioni, i modelli che si offrono a chi ricostruisce le letture di un autore sono molteplici. Abbiamo autori che citano le fonti col numero di pagina, permettendo così di individuare l‟edizione utilizzata e di ricostruire non solo le letture e la biblioteca ideale, ma spesso anche la biblioteca materiale, soprattutto se nell‟indagine sulle fonti ci si imbatta in esemplari con nota di possesso o marginalia autografi. Questo contributo propone un‟analisi delle problematiche connesse alla ricostruzione delle letture e della biblioteca di un medico del Cinquecento nel momento in cui gli strumenti a disposizione dello studioso sono costituiti dal solo contenuto dei suoi testi. Il consilium succitato permette di muoversi nell‟individuazione delle fonti, poiché le tecniche di citazione comportano sia la citazione diretta-esplicita, sia quella indirettanascosta di autori di cui si apprezza o contesta la dottrina. La strategia nella scelta del modo di citare e dei contenuti informa sul tipo di letture dell‟autore, e nel caso di Trincavelli sui suoi 28


interessi editoriali. Manipolazione dei contenuti e presentazione delle fonti diventano cosĂŹ veicolo per capire quali letture soggiacciono alla formulazione del pensiero medico e quale prospettiva viene adottata per dare un certo parere e una certa immagine del proprio sapere. Una biblioteca, quindi, presentata, se non manipolata, in rapporto ai contenuti da comunicare.

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SAPERI IN MOVIMENTO NELL´EUROPA DELL´ETÀ MODERNA: LA CIRCOLAZIONE COME „SITO‟ DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA Coordinatrice: Sabina Brevaglieri Relatrici: Elisa Andretta, Valentina Pugliano, Valeria Pansini „Situare‟ la conoscenza scientifica in specifici contesti spaziali – non solo in laboratori e musei ma anche in altri luoghi di sociabilità urbana e di consumo culturale, dalla piazza ai pubs, nonché nelle dimensioni domestiche – ha rappresentato uno dei principali risultati della „nuova storia della scienza‟, cresciuta nell´ultimo ventennio, soprattutto in Inghilterra e Francia, in proficuo dialogo con le scienze sociali. All‟attenzione per le dinamiche di localizzazione di saperi, pratiche e oggetti scientifici si è, d‟altra parte, accompagnato un interesse crescente per la loro mobilità. Respinta la pretesa di un‟intrinseca universalità della scienza, come esclusivo prodotto della razionalità occidentale, l‟analisi storica della sua „diffusione‟ si è andata gradualmente problematizzando, tanto rispetto alle modalità e agli strumenti della circolazione, quanto in relazione ai processi di ricezione, di asimmetrica reciprocità e di negoziazione, esplorati all‟interno di quadri di riferimento globali e in termini sempre meno eurocentrici. In questo contesto, tematizzare la circolazione dei saperi scientifici nell´Europa fra Cinque- e fine Settecento, in una prospettiva comunque transnazionale e di comparazione fra contesti


diversi, risponde a due complementari esigenze. La prima risiede nella convinzione di dover attenuare, se non addirittura eliminare, la distinzione fra produzione e comunicazione, esplicitando con più decisione l‟idea della circolazione stessa come „science in the making‟. In questa prospettiva, il panel intende proporre una riflessione sulla mutevole natura dei saperi scientifici, sulla loro continua trasformazione e riconfigurazione nel corso di circolazioni in senso geografico, sociale, attraverso diversi media etc. In secondo luogo, pensare la scienza come pratica comunicativa consente di rispondere più efficacemente all‟invito, di recente riformulato, a investigare approfonditamente l‟interazione di saperi e pratiche scientifici con altre dimensioni della ricerca storica, quali le dinamiche politiche, le attività economiche, la cultura materiale, etc. In questo senso, l‟apertura inter/intra- disciplinare del panel, mira a favorire il confronto con i problemi e gli approcci mobilitati da altri „segmenti‟ della modernistica in Italia, come, ad esempio, negli studi sulla circolazione delle informazioni e sulla comunicazione politica. I tre interventi in cui il panel si articola sono risultati di cantieri di ricerca in corso, portati avanti da più e meno „giovani‟ studiose italiane, con diverse formazioni, accomunate innanzitutto da prolungate permanenze ed esperienze di ricerca all‟estero. Muovendo da prospettive e contesti di lavoro differenti, i contributi riflettono la convinzione che i saperi scientifici non circolino e prendano forma all‟interno di comunità disciplinari omogenee ma nell‟interazione, anche conflittuale, fra gruppi, punti di vista, interessi. Gli interventi condividono inoltre l‟idea che gli strumenti della comunicazione non si limitino a veicolare un messaggio ma lo modifichino nel corso di molteplici interazioni e contaminazioni. Analogamente, essi insistono sul 32


ruolo attivo degli attori che mediano i saperi, in spazi di comunicazione attraversati da tensioni, barriere e segmentazioni. I tre interventi confermano, infine, che mettere l‟accento sulla circolazione non significhi sminuire l‟importanza di una localizzazione dei saperi. Al contrario, queste ricerche si propongono di approfondire il modo in cui i luoghi reinventano costantemente se stessi attraverso la continua appropriazione e riconfigurazione di saperi e pratiche scientifiche. ELISA ANDRETTA Un medico itinerante nella città dei Papi: Natura, politica e religione nel soggiorno romano di Andrés Laguna (1545-1553) L‟intervento indaga il soggiorno e l‟attività a Roma di Andrés Laguna, celebre naturalista, medico e umanista spagnolo. Giunto nella Città Eterna al termine di una lunga peregrinazione in Europa, Laguna ottenne qui incarichi importanti nella Natio spagnola e nell‟ambiente pontificio, come medico personale del Cardinal Francisco Bovadilla y Mendoza e archiatra di Giulio III. Egli partecipò inoltre attivamente ai dibattiti medici e culturali dell‟ambiente intellettuale romano e accumulò una parte considerevole del materiale necessario per la redazione della sua più importante opera, la traduzione in spagnolo, con commentari originali, della Materia Medica di Dioscoride. A partire dagli anni romani del Laguna ci si propone di esplorare a diversi livelli il tema della circolazione dei saperi e dei suoi effetti sulla loro elaborazione. Medico „forestiero‟, appartenente alla più grande comunità nazionale della città, Laguna costituisce un caso dal quale interrogarsi su Roma come snodo di ampie reti di circolazione, sulla sua dimensione cosmopolita e 33


sul ruolo degli stranieri (spagnoli in particolare) nell‟elaborazione di un cultura medico-scientifica, locale e universale, al tempo stesso. Filologo e naturalista, egli mobilitò le risorse documentarie, libresche e scientifiche della città per portare a compimento il suo Dioscoride. Ci si propone da questo punto di vista di ricostruire nel dettaglio le reti di diversa natura (professionale, diplomatica, religiosa...) di cui il medico si servì nell‟attività di reperimento del materiale per compilare l‟opera (testi, oggetti, specimina...). Ciò consentirà di riflettere non soltanto sulle „pratiche del naturalista‟ ma anche sulla forza centripeta della città e sul suo ruolo all‟interno di circuiti italiani, europei ed extra-europei. Inoltre, il profilo di Laguna, figlio di conversos e intellettuale di ispirazione erasmiana, invita ad interrogarsi sugli intrecci tra scienza, politica e religione nella città del papa, offrendo un punto di vista inedito sulle relazioni tra monarchia iberica e Stato Pontificio in età moderna. VALENTINA PUGLIANO Tra oggetti e saperi: gli speziali veneziani nella storia naturale del Cinquecento Questo contributo intende ridare voce alla figura dell‟informatore, o „intelligencer,‟ nelle scienze naturali del cinquecento. Di recente, gli storici della scienza si sono dedicati a ricostruire i complessi legami sociali ed intellettuali che univano le comunità di naturalisti sorte nell‟Europa del cosiddetto „Rinascimento botanico.‟ Ugualmente, è cresciuta l‟attenzione, particolarmente nella storiografia anglosassone, verso la partecipazione al rinnovato interesse per lo studio di flora e fauna, medicinale quanto esotica, di figure tradizionalmente escluse 34


dall‟analisi di fenomeni culturali di ampio respiro: speziali, ciarlatani, artefici. Nata come disciplina testuale, imperniata sulla reinterpretazione di Dioscoride, Galeno e Plinio, la storia naturale cinquecentesca si fece sempre più occupazione empirica e possedere naturalia divenne essenziale per poterne discutere in modo autorevole. Raramente il naturalista acquisiva senza delegare e commissionare; raramente studiava senza confrontarsi con opinioni altrui e dati di seconda mano. L‟apporto di figure intermedie verrà qui rivalutato, attraverso l‟analisi di un gruppo di speziali veneziani. Questi non solo erano studiosi res herbariae, ma grazie alla loro occupazione operavano da mediatori di specimen e nuove, riflettendo il ruolo di Venezia come entrepȏt del continente e la farmacia come luogo d‟incontro di mercanzie, pettegolezzi e intrighi politici. Il peso scientifico di queste figure è documentato dalle lettere scambiate con i maggiori naturalisti dell‟epoca. Queste rivelano come oggetti e informazioni circolassero spesso in modo frammentato, muovendosi attraverso canali locali e internazionali; sfruttando associazioni di mestiere, contatti commerciali e conoscenze private. Tali reti di scambio, attraverso le quali i dati potevano essere elaborati e accresciuti quanto tralasciati o espunti da questi speziali savant, divenivano luogo del farsi della conoscenza. Cosí, informatori ed intermediari non erano solo tramite passivo attraverso i quali costituire collezioni di oggetti, ma condizionando la circolazione di naturalia e di saperi in potentia, essi potevano indirettamente alterare ed ostacolare indirizzi stessi di ricerca.

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VALERIA PANSINI Cartografia e toponimi: produzione e circolazione di saperi geografici e linguistici in Europa alla fine dell‟età moderna La presenza del toponimo nel documento cartografico è per l‟utente una garanzia della possibilità di lettura e un punto di riferimento prezioso per permettere la comprensione; ma il carattere “naturale” così spesso a torto attribuito al documento cartografico finisce per inglobare il toponimo e oscurare i procedimenti di produzione del sapere di cui diventa il perno: il nominare, il localizzare, il caratterizzare. A monte di questi procedimenti esiste, in particolare alla fine dell‟età moderna, una precisa pratica di lavoro topografico sul campo: il topografo è il mediatore tra la realtà e la carta, tra la localizzazione reale e quella nella rappresentazione, tra il nome ascoltato e il toponimo trasmesso. Il topografo in missione raccoglie toponimi da fonti preesistenti, nella sua lingua o in lingua straniera, interroga gli abitanti, verifica quando possibile. Le operazioni di trascrizione e traduzione messe in atto comportano deformazioni più o meno coscienti che possono venire corrette o ulteriormente modificate in una fase successiva della realizzazione tecnica del documento cartografico, o su ordine dell‟”autorità” militare o civile regolante l‟azione del topografo, per adeguare la sua produzione a criteri di uniformità o di fedeltà a uno specifico tipo di fonte. La ricezione del documento cartografico finito completa il percorso della trasmissione e produzione del sapere toponomastico, o per meglio dire inizia un nuovo fondamentale processo in cui si creano usi linguistici e geografici. Attraverso lo studio di diversi esempi italiani e francesi della fine dell‟età moderna, questa comunicazione si prefigge di mostrare a che punto la comunicazione e la produzione del sapere 36


siano compresenti giĂ nella pratica del lavoro scientificotopografico, sottolineando lâ€&#x;importanza per la storiografia della comprensione di questi processi, visto lo statuto di fonte, e di fonte preziosa, attribuito ai documenti cartografici.

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LIBERTAS THEOLOGANDI E ORTODOSSIA DOTTRINALE NEL SEICENTO Coordinatore: Marco Cavarzere Relatori: Paolo Broggio, Marco Cavarzere, Emanuele Colombo Dopo la lotta antiereticale del Cinquecento e l‟imposizione di precise scelte religiose da parte del Papato, il dibattito teologico all‟interno della cattolicità non si spense, ma, al contrario, assunse nuovo vigore e nuovi motivi di confronto. Sul fronte cattolico il Seicento fu caratterizzato da un‟ininterrotta tensione tra diverse scuole teologiche e tra ordini religiosi e fu attraversato da continue dispute dottrinali, che coinvolsero direttamente il Papato: per citarne solo alcune, sopita momentaneamente la querelle de auxiliis gratiae, si aprirono i dissidi circa le proposizioni di Giansenio e si moltiplicarono le diatribe intorno alla teologia morale, divisa tra correnti di rigorismo teologico e un probabilismo accusato di venature lassiste, per terminare con i dubbi e i sospetti sollevati dal quietismo. In questo contesto di acceso dibattito si inserì l‟apparato repressivo della Chiesa romana che, istituito in occasione della spaccatura confessionale di inizio Cinquecento, si era rafforzato nel corso del secolo fino a divenire uno dei più importanti centri del potere pontificio. Inquisizione e Congregazione dell‟Indice, sorti inizialmente per erigere un argine al protestantesimo, divennero i luoghi privilegiati della definizione dell‟ortodossia dottrinale e entrarono di diritto a giudicare i dissidi sorti all‟interno dell‟orbe cattolico.


Queste istituzioni non furono completamente estranee ai dibattiti teologici che dividevano la Chiesa: al loro interno non mancarono di esprimersi le diverse fazioni e la geografia interna di queste congregazioni influenzò in molti modi le decisioni assunte su questioni così spinose. I tre interventi di cui si compone il presente panel cercano di individuare i limiti posti dalla Chiesa alla speculazione teologica dopo la svolta post-tridentina a partire da tre specifici punti di vista. Da una parte, si intende osservare la formazione teologica dei consultori e qualificatori del Sant‟Uffizio romano, prendendo spunto dalla vicenda di uno di essi, Lorenzo Brancati di Lauria, poi divenuto cardinale, al fine di comprendere quali conseguenze avesse la compresenza di diverse opinioni dottrinali tra i ranghi della massima autorità teologica del cattolicesimo. Dall‟altra, si propone il caso di uno dei teologi cattolici più prolifici del Seicento, il gesuita lionese Théophile Raynaud, che, nel corso della sua lunga carriera, ebbe modo di confrontarsi in più occasioni con gli apparati romani per il riconoscimento della propria libertà di discutere su argomenti non ancora definiti dal magistero pontificio, in aperta polemica con la supremazia dell‟ordine domenicano in seno all‟Inquisizione e alla censura ecclesiastica. Infine, si vuole studiare un contesto preciso, quello della disputa sul probabilismo, per giudicare come potessero mutare i problemi teologici alla luce delle direttive papali. Con la presentazione di tre esempi concreti si pensa di chiarire un percorso non secondario nello sviluppo storico della Chiesa cattolica, che la porterà, nel clima intransigente della lotta ottocentesca contro la modernità, alla scelta uniformante del tomismo.

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PAOLO BROGGIO Definire l‟ortodossia nel secondo Seicento: il cardinale Lorenzo Brancati di Lauria, teologo scotista e consultore del Sant‟Uffizio La figura del consultore e del qualificatore delle congregazioni romane, e del Sant‟Uffizio in modo particolare, è solitamente una presenza data per scontata nei pur abbondanti studi sull‟Inquisizione e sulle grandi controversie dottrinali che agitarono la Chiesa del Seicento, ma mai analizzata nella sua specifica autonomia. Allo stato attuale delle ricerche non si sa molto sull‟insieme dei qualificatori, sulle loro biografie, sulle loro carriere (tranne rari casi), e soprattutto sui criteri di scelta da parte delle Congregazioni sulle singole questioni da giudicare. In questo intervento intendo focalizzare la mia attenzione sui frati minori conventuali, esponenti di una tradizione teologica estranea al tomismo di domenicani e gesuiti, che in taluni momenti ha avuto l‟ambizione a diventare la terza via nella lotta furibonda tra questi due ordini e questi due diversi modi di intendere la fedeltà a Tommaso d‟Aquino. Mi soffermerò in maniera particolare sul caso del cardinale Lorenzo Brancati di Lauria, personalità di assoluto rilievo del secondo Seicento italiano, buon terreno di indagine per mettere in luce le difformità – anche notevoli – che esistevano all‟interno della Chiesa quando era necessario procedere, tra mille difficoltà e tentennamenti, a definire una materia dottrinale controversa. All‟interno di una linea ben precisa di “riscossa” scotistica che aveva caratterizzato altri teologi francescani del Seicento, già all‟inizio degli anni Cinquanta Brancati diede inizio, pochi anni prima della sua nomina a consultore del Sant‟Uffizio, ad una consistente opera di commento alle sentenze di Scoto intesa come continuazione dell‟opera iniziata anni prima dal confratello Angelo Volpe. Le materie af41


frontate da Brancati in qualità di consultore sono le più disparate: scopo dell‟intervento è quello di tentare di capire se vi fosse un nesso tra l‟attività di consultore e la corposa produzione intellettuale del Brancati e se emerga da questa attività consultiva una specifica e riconoscibile linea dottrinale – in senso antitomistico, ad esempio – che vada al di là di una standardizzata e a tratti piatta ars censoria. MARCO CAVARZERE «Un des plus fameux et des plus savants jésuites du XVII siècle»: Théophile Raynaud e la lotta in difesa della libertas theologandi Théophile Raynaud fu uno dei più prolifici e noti teologi gesuiti del Seicento. La sua mente curiosa si interessò a quasi tutti gli ambiti del sapere secentesco: i suoi numerosissimi scritti spaziano dalla teologia mariana allo studio di santi locali fino ad una eruditissima analisi delle acconciature usate nella storia, passando per la soluzione di questioni teologiche assai stravaganti. Gli interessi del gesuita coprivano anche i campi della nuova scienza biologica, alla quale dedicò un trattato contro il parto cesareo, definito contra naturam, e gli fornivano competenze per intervenire su dibattiti di attualità, come quello sui castrati, pratica dichiarata illecita da Raynaud contro il parere di altri autorevoli teologi. In questa congerie di temi e di opere la nostra attenzione si vuole concentrare su due scritti di Raynaud, in cui il gesuita muove critiche specifiche contro i dispositivi del controllo librario papale e, in particolare, contro la teologia domenicana, accusata di voler imporsi come l‟unica via dottrinale sicura per la Chiesa cattolica. Questi testi, gli Erotemata de malis ac bonis libris 42


(1653) e il De immunitate cyriacorum a censura (1663), suscitarono vasta eco tra gli uomini di lettere italiani di fine Seicento ed inizio Settecento, trovando inattesi consensi tra quanti condividevano con Raynaud un‟uguale insofferenza per i metodi della censura romana. EMANUELE COLOMBO Gesuiti e teologia morale a fine Secento tra antichi e moderni Nell‟Europa del Seicento la disputa degli antichi e dei moderni ha coinvolto varie discipline e ha visto entrambi gli schieramenti costretti ad andare sino in fondo nelle loro posizioni, a inventare argomentazioni inedite e sconcertanti, a creare opere adatte ad intimidire l‟avversario. Un risvolto teologico di tale battaglia culturale si ritrova nei dibattiti di teologia morale relativi al probabilismo che, fin dalle sue origini, si caratterizzò come teologia “moderna”, con un‟accentuata tendenza all‟aggiornamento casuistico. L‟appellativo di novatores fu accettato di buon grado dai probabilisti. Un caso particolarmente interessante è quello di Juan Caramuel, che nella Theologia moralis fundamentalis (1652) rivendicava con forza il titolo di novus e sosteneva che le opinioni più recenti avessero un più alto grado di probabilità rispetto a quelle antiche. La fine del Seicento e l‟inizio del secolo successivo – gli anni della “crisi della coscienza europea” – costituirono una svolta decisiva anche sul fronte delle dispute teologiche. Per rispondere alle accuse provenienti dagli ambienti rigoristi, giansenisti e gallicani, i probabilisti elaborarono un nuovo probabilismo, antico, documentato con i testi dei Padri della 43


Chiesa. Le auctoritates scelte per dimostrare l‟antichità del probabilismo erano strategiche: Tommaso per neutralizzare le critiche domenicane e Agostino in risposta alle condanne degli ambienti giansenisti. Si assiste così all‟uso delle medesime autorità (spesso delle medesime citazioni) da parte di schieramenti contrapposti e con significati speculari. I gesuiti, al centro di questa nuova elaborazione teologica, attraversarono proprio in questo periodo una violenta crisi interna – soprattutto durante il generalato di Tirso González de Santalla – che non si sarebbe mai rimarginata e che avrebbe contribuito alla soppressione dell‟ordine.

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IL RECLUTAMENTO DEL CETO DIRIGENTE NEGLI APPARATI DI GOVERNO: IL CASO DELLA TOSCANA MEDICEA E DEL PIEMONTE SETTECENTESCO Coordinatore: Valeria Masala Relatrici: Claudia De Campus, Barbara Manca, Valeria Masala Dopo il congresso di Westfalia (1648) la politica dell‟equilibrio trovava applicazione su scala europea e serviva a bloccare il trionfo di uno Stato sugli altri, a difendere la convivenza di più unità statali che concorrevano al progresso dell‟intera compagine europea. L‟intreccio diplomatico s‟infittiva, la durata delle missioni aumentava così come i fondi destinati a sostenere le spese dei rappresentanti all‟estero. La diplomazia assolveva dunque una funzione essenziale nelle relazioni fra le corti, in particolare per il suo utilizzo nell‟affermazione della legittimazione e difesa degli ordinamenti politici minori negli scambi internazionali. La morte senza eredi di Carlo II di Spagna (1° novembre 1700) aveva reso il gioco dell‟equilibrio più complicato e proprio in questo frangente era emersa la rilevanza dello Stato sabaudo per la conservazione della “balance des forces” in Europa e in Italia. Politica interna ed estera risultavano strettamente connesse e si intrecciavano con la storia dei ceti dirigenti che, incaricati della loro direzione, decretavano il primato di una sull‟altra. Il lavoro di ricerca che si propone intende analizzare il reclutamento del ceto dirigente negli apparati di governo in un inter-


vallo di tempo che va dal periodo a cavallo tra „500 e „600 per la Toscana medicea al XVIII secolo per lo Stato sabaudo. I contributi presentati valutano l‟esistenza di un possibile modello prevalente di matrice aristocratica: se, per effetto di riforme tese alla razionalizzazione dell‟apparato statale, il ceto burocratico di recente nobilitazione fosse riuscito ad assumere il netto predominio sulla noblesse d‟épée o se la composizione interna ai ceti egemoni non si fosse tradotta necessariamente in una netta dicotomia. CLAUDIA DE CAMPUS Il reclutamento del ceto diplomatico negli apparati di governo. Il caso della Toscana medicea tra „500 e „600 Solo negli anni „50 e „60 del „900 la storiografia ha iniziato a lasciarsi sedurre dalle innovative suggestioni epistemiche avvantaggiandosi, così, dell‟ausilio di fondi archivistici fino a quel momento ingiustamente trascurati. Oggi, ripercorrere la storiografia passata che analizzava la nascita e l‟evolversi dello Stato moderno, significa arricchirla ed identificarla con l‟istituzione e lo sviluppo della diplomazia internazionale che, proprio tra il 1400 e il 1500, vedeva la nascita del suo ordinamento politico rappresentativo tra i maggiori stati dell‟epoca. L‟importanza della figura dell‟ambasciatore trova rilevanza tra le mansioni ad egli connesse che costituiscono, assieme alle modalità referenziali, lo specchio del governo che andava a rappresentare.

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Ufficiali di governo che conoscevano l‟arte della diplomazia e della prudenza, a loro, spesso, erano affidate le sorti dei paesi di cui si facevano portavoce. Alla luce di una ricca documentazione, perlopiù inedita, relativa il fondo diplomatico mediceo e rinvenuta presso l‟archivio di Firenze, la ricerca ricostruisce il periodo a cavallo tra il XVI e il XVII secolo relativo l‟ascesa al trono di Filippo III e del duca di Lerma e analizza la politica di Filippo II e le problematiche del suo governo nel quadro della guerra tra la Spagna e la Francia in cui a fare da cornice sono ora le fasi diplomatiche nei confronti delle ribellioni in Fiandra, ora gli antagonismi nella penisola italiana, che ebbero ripercussioni sul bacino mediterraneo. La ricerca mette in luce le prospettive di nuove contese, quelle anglo-ispaniche, per il dominio dei commerci occidentali ed orientali; si esaminano gli ultimi anni di regno di Filippo II e le riflessioni storiografiche sulla decadenza della Spagna. Tutti questi rilevamenti di dati si osservano nella cornice vivida della Corte spagnola all‟interno delle relazioni diplomatiche internazionali. BARBARA MANCA Il reclutamento dei funzionari sotto il regno di Vittorio Amedeo II. Nell‟ottica della sua politica assolutistica e della sua “politica antinobiliare”, finalizzata principalmente a ridimensionare i poteri della “vecchia” aristocrazia e a crearne una “nuova”, a lui devota e fedele, Vittorio Amedeo, convinto che l‟intero Stato dovesse dipendere dalla volontà del sovrano, ritenne opportuno apportare una modifica sostanziale nel reclutamento dei suoi funzionari. E proprio perché, come sostiene il Quazza “tutto 47


egli vuol vedere e controllare, tutto vuol decidere” e perché sapeva di doversi necessariamente affidare a validi e fidi collaboratori, stabilì che costoro, molto spesso conosciuti fortuitamente, dovessero essere selezionati in prima persona dal sovrano stesso; inoltre, non appartenevano, in genere, alla vecchia aristocrazia, bensì alla “nuova”, alla borghesia o alle classi meno agiate. Nasceva in questo modo in Piemonte, per volere di Vittorio Amedeo, la burocrazia, una scala gerarchica costituita da funzionari meritevoli e capaci, come il Groppello, il Mellarède, e il marchese d‟Ormea, Si trattava di un programma che aveva il fine di “garantire la somma del potere alla persona stessa del sovrano […]” e che intendeva creare una burocrazia efficiente “al sommo della gerarchia statale, dandole un organico stabile e ben articolato […].” VALERIA MASALA Il reclutamento del ceto dirigente nel passaggio da Carlo Emanuele III a Vittorio Amedeo III La politica della “bascule”, sapientemente adottata dai sovrani sabaudi perdeva efficacia intorno al 1756, quando il peso nelle relazioni fra le potenze europee dello Stato sabaudo veniva ridimensionato in seguito al cosiddetto “rovesciamento delle alleanze” che poneva fine alla rivalità tra Francia e Austria. Fino a quel momento l‟attività diplomatica si era intensificata e le vicende belliche avevano condotto anche all‟istituzione di due segreterie separate, una per gli Affari Esterni e una per quelli Interni, rispondendo all‟accresciuto carico di lavoro del governo. Alla nobiltà, cui era affidata la diplomazia e la politica

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estera, spettava curare la tutela dello status del sovrano nell‟ambito delle relazioni internazionali. Se la carriera diplomatica restava nelle mani della nobiltà, un ruolo non secondario svolgevano le somme che le missioni all‟estero richiedevano e che mostravano l‟insufficienza dei fondi stanziati. I membri della nobiltà feudale erano anche i soli dotati delle conoscenze e dello stile di vita che consentiva di dar lustro al sovrano nelle corti europee. Nel reclutamento di diplomatici così come nell‟affidamento di rilevanti incarichi militari non si affermava il sistema della vendita delle cariche. Nonostante la volontà di creare nuovi assetti istituzionali tesi a realizzare apparati di governo efficienti, un processo di professionalizzazione dei funzionari dello Stato non si realizzava pienamente. «Il rapporto principe-funzionari resta per tutto il secolo un rapporto di uomini e non di uffici»1. Logiche clientelari e relazioni personali influivano sulla selezione dei collaboratori del sovrano e di questo sistema di reclutamento esempio emblematico era il cambio d‟élite voluto da Vittorio Amedeo III nel 1773. L‟analisi delle carriere diplomatiche e militari di Giuseppe Lascaris di Castellar e di Filippo Ferrero della Marmora, entrambi membri del partito di corte estromesso nel 1773 servirà a fornire nuovi spunti su queste tematiche.

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D. Frigo, Principe, ambasciatori e «jus gentium». L‟amministrazione della politica estera nel Piemonte del Settecento, Bulzoni, Roma 1991, p. 97.

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MATRIMONI MISTI, MATRIMONI TRASGRESSIVI TRA EUROPA E NUOVO MONDO (SECOLI XVI-XVIII) Coordinatrice: Cecilia Cristellon Relatori: Benedetta Albani, Fernanda Alfieri, Peter A. Mazur Il panel ha come oggetto i matrimoni misti, intesi come unioni trasgressive agli occhi delle autorità costituite- le quali percepiscono i contraenti come appartenenti a mondi che sono o dovrebbero essere separati - ma non necessariamente agli occhi della coppia, o del suo contesto sociale: matrimoni tra nuovi e vecchi cristiani (Mazur), tra esponenti del Vecchio e del Nuovo Mondo (Albani), matrimoni interreligiosi o interconfessionali (Cristellon). Si tratta di unioni che implicano il superamento di barriere confessionali, sociali, razziali e di genere (Alfieri) in nome di valori evidentemente prioritari come una comune appartenenza di status o un comune senso dell‟onore; rispondono a esigenze di integrazione o di promozione sociale ed economica; sono frutto di pulsioni emozionali che inducono ad infrangere le norme più consolidate della morale codificata. Ciò che accomuna i matrimoni qui analizzati– che hanno come sfondo la Napoli spagnola di inizio Cinquecento, il Messico coloniale post-tridentino, l‟Olanda pluriconfessionale e l‟Inghilterra riformata, l‟Italia e l‟Austria del Settecento– è l‟aver prodotto discorsi, dottrina, teologia e norme, con i quali le autorità cattoliche (spesso perché in concorrenza con altre autorità) hanno cercato di far fronte a una realtà magmatica im-


possibile da affrontare in maniera prettamente dogmatica. In questo contesto si inseriscono per contrasto i casi – tanto più interessanti quanto rari – dei matrimoni tra donne, per i quali non si è sviluppata una dottrina che potesse sanarli o tollerarli, ma nei quali, invece, le contraenti adottavano comportamenti, discorsi e rituali propri del modello nuziale codificato: l‟assunzione della veste maschile da parte di una delle due e la celebrazione dell‟unione secondo i canoni fissati a Trento. Le relazioni si avvalgono di fonti provenienti per lo più dagli archivi vaticani (dove si conserva in parte anche la documentazione prodotta in partibus) - talora integrate dalla documentazione locale di archivi europei ed extraeuropei - e fanno riferimento alla trattatistica giuridica, teologica e morale relativa alla materia di volta in volta analizzata.

PETER A. MAZUR “Inter Judaeos et Grecos non est distinctio”: La difesa del matrimonio tra nuovi e vecchi cristiani di Antonio de Ferrariis In un opuscolo dedicato al Duca di Nardò suo protettore, Antonio de Ferrariis detto il Galateo, erede dell‟umanesimo aperto e tollerante della corte aragonese a Napoli, si trovò a inizio Cinquecento ad affrontare un tema che rispecchiava lo sconvolgimento seguito alla fine del regno aragonese e l‟inizio del dominio spagnolo nel Sud d‟Italia: il matrimonio tra una famiglia di vecchi cristiani feudatari nel Salento e una famiglia di „neofiti‟ ( ebrei da poco convertiti). Mentre i viceré spagnoli cercavano di imporre una netta separazione tra i due gruppi, simile a quella già esistente nei regni iberici, de Ferrariis respinge la logica della purezza di sangue e si sforza di trovare nella cultura cristiana e 52


classica le basi per una convivenza felice tra due „razze‟, che apra ai nuovi cristiani le porte dell‟avanzamento sociale e la possibilità di matrimoni con la vecchia nobiltà del regno. Ispirato dalla lettura di San Paolo e espressione di una peculiare concezione del rapporto tra antichità latina e giudaica, l‟opuscolo costituisce una testimonianza particolarmente significativa di una tradizione filo-ebraica presente nella società colta dell‟Italia meridionale incapace, tuttavia, di reagire all‟avanzamento dell‟intolleranza etnico-religiosa, che avrebbe infine portato alla definitiva espulsione degli ebrei dal Regno nel 1541. La mia relazione si propone di analizzare questa importante testimonianza a favore dei matrimoni tra nuovi e vecchi cristiani, mettendola in relazione con la prassi coeva di tali unioni. BENEDETTA ALBANI Il matrimonio tridentino nel Nuovo Mondo tra istituzioni ecclesiastiche locali e Curia Romana. Le unioni miste Obiettivo di questa relazione è analizzare il funzionamento dell‟amministrazione della giustizia matrimoniale nel Nuovo Mondo in materia di unioni miste (matrimoni tra popolazione spagnola, indios, popolazione di origine africana). Sulla base di fonti provenienti da archivi romani, messicani e spagnoli (dispense matrimoniali, cause di separazione, annullamento, questioni dotali ecc.) verranno analizzate le ragioni che spingevano le coppie miste a ricorrere ai diversi fori di giudizio L‟amministrazione della giustizia matrimoniale nel Nuovo Mondo era molto complessa. Con la ratifica del concilio di Trento da parte di Filippo II (1564) le nuove norme tridentine in materia nuziale entrarono in vigore anche nei viceregni spa53


gnoli delle Indie Occidentali. I numerosi concili provinciali e i sinodi diocesani ivi celebrati nella seconda metà del Cinquecento si occuparono di adeguare i decreti conciliari alla particolare situazione indiana contribuendo alla formazione del diritto canonico indiano. I pontefici concessero numerosi privilegi agli indios (“cristianos nuevos”) e specifiche istituzioni furono preposte all‟amministrazione della giustizia ecclesiastica per la popolazione indigena. Si concessero inoltre particolari facoltà agli ordinari locali per risolvere le numerose cause matrimoniali riguardanti la popolazione spagnola. Dato il diritto di ogni fedele di accedere al sacramento del matrimonio e scegliere liberamente il coniuge, le unioni miste furono sempre molto numerose. La situazione era resa ancora più complessa dal progressivo aumento della popolazione meticcia - e in generale delle mezclas – oltre che dall‟arrivo nelle Americhe di popolazione di origine africana. Nelle cause matrimoniali riguardanti coppie miste, in particolare, i contraenti potevano ricorrere tanto ai fori ordinari quanto ai fori destinati agli indigeni, avvalendosi dei privilegi a questi riservati. Inoltre, avevano giurisdizione sulle tematiche matrimoniali tanto le istituzioni ecclesiastiche locali, quanto alcuni dicasteri romani. Le strette relazioni esistenti tra istituzioni locali e dicasteri romani saranno oggetto di particolare attenzione nella mia analisi.

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CECILIA CRISTELLON “Eretici” o “infedeli”? Matrimoni con cristiani non battezzati e politica delle congregazioni romane: Olanda e Inghilterra nel contesto europeo e extraeuropeo (sec. XVIII) Il tema della mia relazione è il dibattito sollevato in seno alle congregazioni del Sant‟Ufficio, del Concilio e di Propaganda Fide circa la validità e legittimità del matrimonio fra cattolici e battisti non ancora battezzati in Olanda e Inghilterra. La chiesa cattolica (come le altre chiese confessionali) proibisce i matrimoni tra esponenti di diverse confessioni, che però riconosce come validi, una volta celebrati, in virtù del battesimo - sacramento comune. Durante l‟età moderna in Paesi di confessione mista, riformati e dove non era stato pubblicato il concilio di Trento, tali unioni venivano celebrate dai missionari e anche dai parroci, per quanto fosse loro proibito. Il matrimonio misto poteva essere inoltre celebrato dal ministro riformato, con dispensa del concistoro competente per il territorio. Le unioni biconfessionali potevano inoltre essere contratte in seguito a dispensa papale, che veniva concessa in casi rarissimi e comunque a patto che il coniuge cattolico non corresse il rischio di essere convertito e a condizione che i figli eventualmente nati dal matrimonio fossero educati nella fede cattolica. I matrimoni con “gentili e infedeli non battezzati” – pur ampiamente documentati – erano invece considerati, oltre che illegittimi, invalidi. Per l‟area extraeuropea si prevedeva però anche la possibilità di dispensare da disparità di culto. Ma come erano da considerare i matrimoni contratti in Olanda e Inghilterra con battisti non ancora battezzati? Si tratta di “eretici” o di “infedeli”? Se sono “infedeli”, era opportuno che la Chiesa di Roma, per la prima volta in area europea, consentisse quei ma55


trimoni che permetteva solo in area extraeuropea? La soluzione ai dubbi non fu unitaria e tenne in considerazione le diverse realtà politiche locali. FERNANDA ALFIERI Matrimoni tutt‟altro che misti: le unioni tra donne fra Sant‟Uffizio, confessionale e tribunali secolari All‟inizio del XVIII secolo i consultori del Sant‟Uffizio si trovano a deliberare in merito a un caso che, nella giurisprudenza inquisitoriale, risulterebbe senza precedenti: un matrimonio celebrato in una piccola parrocchia del Norditalia, in piena conformità al rito tridentino, fra due donne, una delle quali celata sotto identità maschile. Un‟unione, insomma, tra uguali: stessa appartenenza religiosa, stessa conformazione anatomica, paradossalmente, quindi, tutt‟altro che “mista”. Attraverso quali argomenti questo matrimonio viene condannato dai consultori? Quali le autorità di riferimento? L‟intervento esaminerà le posizioni del Sant‟Uffizio attraverso il confronto fra questo e altri rari casi analoghi (fra i quali uno che si snoda fra Roma e Vienna) qui giudicati nei decenni successivi, cercando di integrare la documentazione reperita negli Archivi Vaticani con quella locale. Inoltre, aprirà all‟esplorazione della letteratura destinata al giudizio del peccato-reato di “sodomia” fra donne in altri tribunali, fra manuali ad uso dei confessori e trattatistica di diritto criminale, al fine di valutare eventuali analogie, differenze o intersezioni di argomenti addotti a giustificazione della condanna.

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FARE FAMIGLIA NEL SETTECENTO Coordinatrice: Chiara La Rocca Relatrici: Georgia Arrivo, Ginevra Diletta Tonini Masella, Chiara La Rocca, Elena De Marchi Un tema molto discusso presso gli storici della famiglia dell‟ultimo trentennio è stato quello del cambiamento del matrimonio e della famiglia in atto tra la fine del „700 e il primo „800. Ne é emersa l‟opinione condivisa di un mutamento radicale nel modo di fare e vivere la famiglia; investiti dalla rivoluzione romantica prima e da quella industriale poco dopo, i matrimoni e le famiglie sarebbero stati completamente rinnovati. Il Settecento, e in particolare la seconda metà di questo secolo, rappresentano senza dubbio un momento di “crisi” per quello che riguarda la famiglia e il matrimonio. Importante e foriero di cambiamento fu il nuovo linguaggio amoroso veicolato dai successi letterari di J.J. Rousseau; altrettanto “rivoluzionaria” fu l‟affermazione della natura contrattuale del matrimonio e la conseguente imposizione dell‟auctoritas regia sui matrimoni. Ma quanto e come cambiò il modo di contrarre matrimonio e di fare famiglia? Per rispondere a questa domanda finora ci si è limitati in gran parte ai casi famigliari dei ceti elevati, per il resto, spesso ci si è affidati ad immagini stereotipate dei matrimoni, delle famiglie e dei rapporti famigliari oppure ci si è lasciati “condizionare” troppo dal confronto con i costumi famigliari dell‟oggi. Si afferma che i matrimoni sono cambiati, dando per certo che, prima di Rousseau, la componente dominante del fare


matrimonio fosse l‟interesse; si “annuncia” la nascita della famiglia coniugale, ignorando la qualità e il peso dei rapporti intessuti con le famiglie d‟origine; si suppone una graduale rivoluzione dei ruoli coniugali, accettando come valida l‟ipotesi di un sistema di ruoli dove regnava la passività femminile. Nella realtà, come alcune recenti ricerche hanno dimostrato, il matrimonio e la famiglia di antico regime avevano connotazioni ben diverse e il quadro delle scelte era assai più variegato. Importante e del tutto aperta, dunque, è la domanda circa gli effetti che i cambiamenti settecenteschi produssero sulla famiglia, ma altrettanto importanti – nonché preliminari ad essa risultano essere le domande circa le qualità dei matrimoni e delle famiglie nei secoli dell‟età moderna. L‟intento del Panel è di affrontare queste domande, offrendo un quadro articolato sul modo di “fare famiglia” nel Settecento e proponendo alcune riflessioni sul passaggio realizzatosi tra Sette e Ottocento; si vedrà, infatti, come venivano costruiti i matrimoni e come si organizzava la vita domestica nelle città e nelle campagne dell‟Italia centro-settentrionale (Firenze, Livorno, Roma e la campagna milanese). Tutti gli interventi si concentreranno sulla storia di singoli e di famiglie appartenenti a ceti popolari e analizzeranno: i percorsi per arrivare al matrimonio; il rapporto tra donne e matrimonio in generale e, nel dettaglio, il caso di donne sole e “di cattiva fama”; la vita coniugale e gli aspetti materiali del vivere insieme (scelte abitative, organizzazione domestica). L‟obiettivo è quello di ricostruire tanto il piano delle scelte individuali tanto quello delle scelte “famigliari” e i rapporti tra 58


singoli, coppia e comunità; infatti tutte le ricerche qui presentate hanno prestato un‟attenzione particolare alle relazioni famigliari e alle reti di relazioni in cui erano inserite coppie e singoli. Un altro aspetto che accomuna queste ricerche è l‟approfondimento del contesto socio-economico e materiale legato all‟unione (alleanze lavorative, scambio e consegna della dote). I matrimoni erano mirabili congegni di volontà e di interessi e anche gli appartenenti ai ceti popolari spendevano molte energie nell‟accasarsi; a questo proposito è da sottolineare che, attraverso questo Panel, si potrà confrontare il mondo urbano con quello delle campagne. L‟analisi non si fermerà a quanto avveniva prima della celebrazione del matrimonio, ma ci sarà l‟occasione di approfondire alcuni caratteri delle convivenze matrimoniali. Sarà affrontato così un tema poco presente negli studi sulla famiglia ovvero quello della vita coniugale: si rifletterà sulla natura delle scelte abitative, sull‟organizzazione domestica e sulle relazioni famigliari. GEORGIA ARRIVO Costruire il matrimonio. Percorsi e conflitti prematrimoniali nella Toscana del Settecento Gli studi degli ultimi decenni nel campo della storia della famiglia in generale e del matrimonio in particolare, hanno ormai messo in discussione l‟idea del matrimonio nei ceti popolari come un passaggio “semplice”. La mia ricerca, come altre degli ultimi anni, seppure partendo da un osservatorio particolare, ha delineato un quadro assai più complesso sia rispetto ad una presunta vittoria del disciplinamento in campo matrimoniale e ses59


suale nel corso dell‟età moderna, sia rispetto ad una visione delle classi popolari come prive di strategie a lungo termine. L‟osservatorio particolare è stato quello dei processi per stupro (non violento) presso il tribunale criminale secolare fiorentino negli anni del riformismo leopoldino e quello dell‟attività di controllo e mediazione dei conflitti messa in atto dalle autorità di polizia cittadine. Il mio intervento si propone innanzi tutto di fornire uno spaccato sui percorsi matrimoniali di uomini e donne del popolo fiorentino e delle campagne circostanti in un periodo particolarmente ricco di cambiamenti e discussioni a livello intellettuale e politico. Mi occuperò quindi di rintracciare e far emergere i fili sottili che costituiscono la trama di strategie pazientemente tessute nel corso del tempo e che coinvolgevano famiglie e individui in un gioco non sempre chiaro tra solidarietà e conflittualità. Punterò dunque l‟attenzione su alcune questioni fondamentali dote, posizione sociale, esigenze lavorative, circostanze famigliari, progetti di vita individuali e famigliari, passioni personali e “questioni d‟onore” - che intervenivano a rendere complesso e, talvolta, non lineare e potenzialmente conflittuale il percorso verso lo stato coniugale. Molteplici erano le fasi e le modalità di avvicinamento alle nozze: dai primi incontri, al “discorrere”, ai “chiassi” della gioventù, al “fare all‟amore”, alla promessa (formale o informale che fosse), agli accordi sulla dote, sui tempi e sulla futura convivenza, alle relazioni sessuali prematrimoniali, foriere o meno di eventuali gravidanze. Seguendole sarà possibile evidenziare l‟articolazione di progetti che appaiono per lo più non casuali ma, al contrario, ragionati e costruiti anche attraverso l‟uso di “risorse” importanti come l‟attivazione delle reti di relazioni e il ricorso alle istituzioni giudiziarie.

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GINEVRA DILETTA TONINI MASELLA Donne, matrimonio e reputazione. Un rapporto controverso. Le ricerche sul matrimonio e sulla sessualità all‟esterno e all‟interno di esso hanno da tempo messo in luce le strategie, le difficoltà e le complicanze eventuali di percorsi spesso tortuosi per “fare famiglia”; in particolare, diversi studi si sono concentrati tanto sulle leggi quanto sulle dinamiche che regolavano scambi, accordi, promesse, rapporti tra gli sposi e tra le loro famiglie. Il mio intervento intende analizzare i percorsi di accesso al matrimonio di donne dalla reputazione dubbia a causa della professione che svolgevano – modelle, attrici, cantanti, ballerine, schedate nelle carte di polizia in quanto potenzialmente sospette –, spesso straniere e, quindi, elementi esterni rispetto alla comunità in cui si inserivano, sullo sfondo della Roma repubblicana, del ritorno del Papa e del successivo dominio francese, caratterizzato da un radicale mutamento non solo politico ma anche morale e sociale. In particolare, intendo concentrare l‟attenzione sulla genesi e sullo sviluppo di relazioni e matrimoni in contesti non sempre lineari, spesso alieni dal controllo parentale a causa dell‟allontanamento dal paese d‟origine; su quale fosse il peso della famiglia – lontana o disgregata a tal punto da risultare inesistente –; quale quello delle scelte individuali delle donne e quale il peso della comunità in cui erano inserite. La ricerca che presento nasce dallo studio delle carte processuali e delle carte di polizia, dalle quali emerge uno spaccato composito ed estremamente articolato non solo sui percorsi di accesso al matrimonio ma anche sul rapporto di costante dialettica tra donne “diverse” e istituzioni, comunità e singoli 61


nell‟affrontare una vita coniugale pesantemente segnata da abbandoni, separazioni, solitudini, che molto spesso catalizzavano la ricerca di nuove strategie di sopravvivenza e di ulteriori fonti di reddito – che potevano volgere tanto verso mestieri “onesti” quanto verso la prostituzione, percorso spesso obbligato per donne già tacciate di “cattiva fama” dalla comunità. CHIARA LA ROCCA “Nella buona e nella cattiva sorte”. La vita coniugale nella Livorno di fine „700. All‟attenzione ed all‟interesse che ha ricevuto il matrimonio, fa da contraltare un generale disimpegno degli studi sulla vita coniugale. La celebrazione del matrimonio rappresenta una sorta di linea di confine che è rimasta sostanzialmente inviolata. D‟altronde, la mancanza di ricerche dirette – in parte giustificata dalla scarsità delle fonti – è da mettere in relazione con il successo di alcune rappresentazioni della vita coniugale del passato. La subordinazione femminile al diritto maschile, la rigidità dei ruoli coniugali, l‟idea di una progressiva individualizzazione delle famiglie e di una schiacciante diffusione della famiglia nucleare e delle sue ragioni sono i principali modelli usati per raccontare le famiglie e la loro storia. Si tratta di rappresentazioni che si sono imposte senza essere suffragate da studi analitici e che hanno finito con il sostituire la realtà storica. Proverò a superare la linea di confine tra matrimonio e vita matrimoniale e confronterò i modelli con la realtà coniugale. Le riflessioni che proporrò sono parte dei risultati di una ricerca dedicata alla storia del matrimonio e dei suoi conflitti che ha avuto come punto di partenza e fonte principale i processi di se62


parazione discussi a Livorno nel secondo „700. La ricchezza della documentazione processuale e il lavoro di incrocio con altre fonti mi hanno permesso di ricostruire i percorsi coniugali e familiari di uomini e donne appartenenti ai ceti medio-bassi, urbani e suburbani. Nel mio intervento rifletterò sulla vita che mariti e mogli conducevano e sul modo in cui organizzavano la convivenza “nella buona e nella cattiva sorte”. Particolare attenzione sarà dedicata al sistema di ruoli vigente all‟interno del matrimonio e alle relazioni tra moglie e marito, nonché agli aspetti materiali della vita comune (casa, lavoro, stile di vita). L‟analisi non sarà limitata alla coppia; si vedranno anche i rapporti che i coniugi conservavano con i propri famigliari. Infatti la vita coniugale era strettamente intrecciata con la vita e il lavoro delle famiglie d‟origine e del vicinato. Come era ricca di relazioni con le famiglie di origine e con i parenti acquisiti, così la vita coniugale era costellata da allontanamenti, soggetta a divisioni, difficoltà, conflitti. Mi soffermerò anche su questo tema; vedremo quanto era difficile per molti sposi “popolari” condurre una vita quieta e mantenere l‟unità e l‟indissolubilità del legame. ELENA DE MARCHI Fare famiglia nella campagna milanese (XVIII secolo) La storia del matrimonio, da diversi anni oramai, vanta una bibliografia notevole sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Numerosi studiosi hanno analizzato le leggi, i costumi e le usanze delle diverse regioni europee in materia matrimoniale, tracciando i profili degli sposi, i tempi del matrimonio, le alleanze fra le famiglie e aspetti sociali, economici e materiali che riguardano le nozze. Ed è proprio l‟aspetto socio-economico e 63


materiale delle nozze, per quanto concerne la campagna milanese nel XVIII secolo, l‟argomento principale che ho approfondito nel corso delle mie ricerche. Nel mio intervento, cercherò in primo luogo di delineare le modalità con cui le coppie si formavano, a partire dallo studio della presenza, nelle comunità rurali, della cosiddetta “endogamia occupazionale”, cioè della scelta del coniuge tra coloro che svolgevano lo stesso mestiere. Nella campagna milanese la maggior parte delle famiglie era di origine contadina, ma è pur vero che vi erano diverse tipologie di contadini, tra cui i massari e i pigionanti erano quelle più diffuse, e che, per motivi ben precisi, spessissimo le coppie si formavano all‟interno di gruppi “chiusi” di lavoro. In secondo luogo si vedranno alcuni aspetti fondamentali della vita materiale delle coppie di fidanzati e di giovani sposi: la ricerca di una dote, la scelta della residenza (spesso patrivirilocale) e, con essa, il sistema di convivenze in cui si inseriva la coppia di sposi, nonché la dislocazione delle case nel paese a seconda di quelli che si potrebbero definire – seppur impropriamente e rubando l‟espressione a Gérard Delille – dei “quartieri di lignaggio”. Infine l‟attenzione sarà focalizzata sulle necessità economiche e materiali che spingevano uomini e donne a risposarsi, una volta rimasti vedovi. Anche in questo caso lo sguardo sarà fissato sulle convivenze e sugli aggregati domestici in cui si inserivano le nuove coppie.

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SOCIETÀ OSTILI. CONTROLLO GIUDIZIARIO E INTEGRAZIONE (XVI-XVII SEC.) Responsabile: Giuseppe Marcocci Relatori: Giuseppe Marcocci, Claudia Colletta, Benedetto Fassanelli, Serena Di Nepi Il panel intende riunire insieme quattro giovani studiosi, specialisti di storia della giustizia e delle minoranze, per impostare una discussione e un confronto sulle molteplici forme di coesistenza tra gruppi minoritari e resto della popolazione in contesti caratterizzati da un'aperta discriminazione sociale accompagnata spesso da fenomeni di repressione giudiziaria e di allontanamento da un determinato territorio. La principale domanda da cui si muove, abbandonando gli schemi rigidi di una generica storia dell'intolleranza viziata spesso da astrattezze e anacronismi, è quali siano stati, in età moderna, i rapporto tra potere politico e istituzioni, da un lato, e concrete relazioni sociali, dall'altro, nella formazione di stereotipi diffusi e di comportamenti ostili rispetto alle minoranze. Nell'età della nascita dello Stato moderno in Europa, quali processi hanno investito i gruppi discriminati per ragioni di fede, di provenienza geografica o di marginalità sociale? In che misura una discriminazione anche violenta ha convissuto con l'integrazione, favorendo inattesi spazi di incontro, scambio e collaborazione? E accanto a ciò, a quali livelli si situava la costruzione e la propagazione di immagini e


rappresentazioni negative dei gruppi minoritari? Chi ne erano gli ideatori e quali i canali privilegiati di comunicazione? Che posto rivestivano in tali dinamiche fattori manipolabili come la fama e la paura? E se è esistito un uso politico dell'ostilità sociale, la giustizia ne è stata semplice braccio esecutivo, o ha avuto anche una funzione di mediazione e superamento? Da ultimo, ci si interrogherà sull‟influenza reciproca tra la tendenza all‟affermazione di società aggressive e chiuse verso l‟esterno in Europa e la spinta coloniale che nella stessa epoca distingueva un Vecchio Mondo, chiamato a confrontarsi non solo con il Nuovo Mondo, ma anche con una “nuova umanità”: da questo punto di vista, si possono ricavare elementi utili dalla comparazione tra società europee e società non europee. In sede preliminare, si è scelto di affrontare aspetti peculiari dell'ostilità sociale nell'Italia tra Cinque e Settecento in controluce rispetto a vicende meno note ma per certi versi parallele, che nello stesso periodo storico caratterizzarono regioni musulmane. Uscendo da una prospettiva limitata al conflitto religioso, ma nel pieno rispetto delle differenze politiche, sociali e culturali delle diverse aree prese in esame, il tentativo di individuare costanti e fattori eccezionali all'interno di un problema di grande complessità e di lunga durata verrà dunque portato avanti in un'inedita chiave comparata, mettendo a confronto mondo cristiano e mondo musulmano. Alla luce di recenti ricerche d‟archivio, saranno presentati, per il primo, casi relativi agli ebrei nella Marca Anconitana e ai “cingani” nella Repubblica Veneta, mentre per il secondo si tenterà di mettere in connessione lo spazio del Mediterraneo (le comunità cristiane nella Palestina Ottomana) con il mondo composito dell‟oceano Indiano (gli schiavi abissini nelle città costiere dell'Asia meridionale), interessato da un‟espansionismo iberico che vi 66


esportò un peculiare modello europeo di ostilità sociale e integrazione. GIUSEPPE MARCOCCI Stereotipi e istituzioni in una prospettiva globale: il caso degli schiavi abissini in India (XVI-XVII sec.) La parte introduttiva dell‟intervento presenterà i vantaggi di una nuova prospettiva nello studio dei processi di discriminazione/integrazione di gruppi minoritari nei secoli dell‟età moderna, che valorizzi punti di contatto e scambio tra esperienze talora distanti nel luogo e nello spazio. Se dal confronto tra distinti fenomeni di ostilità sociale si ricavano indicazioni su genesi, gerarchia e diffusione di potenti stereotipi della discriminazione, l‟accostamento tra un ipotetico modello “italiano” e uno di matrice “iberica”, destinato ad avere forti ricadute anche fuori dall‟Europa nell‟età del primo colonialismo europeo, consente di porre questioni inedite anche sul piano della storia istituzionale, offrendosi come uno dei fattori esplicativi del diverso destino storico delle due regioni, riguardo sia alla nascita dello Stato moderno, sia alla funzione della giustizia. Evitando di porre al centro l‟irriducibile singolarità dell‟identità religiosa, si uscirà dal contesto cristiano per indagare dinamiche simili in aree dalla diversa connotazione religiosa, a partire dal mondo musulmano, la civiltà antagonista all‟Europa cristiana. L‟esigenza di un maggior intreccio tra un piano europeo e mediterraneo e uno extra-europeo emerge con forza se si guarda all‟influenza reciproca esercitata dai gruppi discriminati nei due differenti contesti: a inizio Cinquecento poteva capitare 67


a un autore veneziano di descrivere gli abitanti di Terranova, visitati dagli esploratori portoghesi, come uomini in tutto simili «ai cingani per aspetto, fattezze e statura». Il caso degli schiavi abissini in India, su cui si concentrerà la seconda parte dell‟intervento, fu certo esemplare dell‟eredità europea nella costruzione di stereotipi negativi su popoli non europei, pure spesso idealizzati al tempo del primo incontro, ma anche di analogie e differenze nel trattamento riservate loro, a fronte del comune status di schiavi, in territori a dominio politico cristiano o musulmano. Così, se nei sultanati fu possibile assistere a forme di clamorosa ascesa sociale, prive di analogia nelle terre sotto il controllo lusitano, in entrambi i casi i tribunali agirono da spazio delegato ad amministrare il passaggio di schiavi abissini da una parte all‟altra della frontiera tra i due mondi, ma anche a contenere le forme di ostilità e violenza che tali passaggi potevano attirare su chi se ne rendeva protagonista. CLAUDIA COLLETTA Vivere senza ghetto: gli ebrei nella Marca e nello Stato pontificio (XVII-XVIII sec.) L‟intervento intende affrontare il nodo dei conflitti giurisdizionali tra centro e periferia e di come essi abbiano ritagliato spazi di autonomia di un piccolo frammento del mondo ebraico italiano. Tra i secoli XVII e XVIII, agli ebrei stanziati in una parte dell‟Italia centrale, nei territori soggetti alla Chiesa e in particolare nella regione Marche, grazie all‟appoggio delle élites locali e per forze interne all‟ebraismo stesso, fu possibile tramandare le proprie attività nelle città “senza ghetto”; in 68


quelle città, cioè, da cui gli ebrei vennero espulsi nella seconda metà del Cinquecento e dove la politica centrale non permetteva di ricostituire, in via ufficiale, una stanzialità ebraica permanente. Questo il tema generale. Ma nella vicenda qui raccontata c‟è un ulteriore piano della narrazione: l‟ambiguità delle regole, lo scarto tra norma e prassi, il controllo non sempre vigile, un centro lontano che guida una periferia troppo eterogenea per interessi di parte, la mediazione in atto tra le due componenti politiche che si avviano lungo una infinita trattativa, mai conclusa e dagli esiti sempre diversi. L‟indagine sulle fonti d‟archivio mette continuamente in luce una realtà di rapporti cristiano-ebraici non identificabili in categorie pre-definite: lo scarto tra norma e prassi non va interpretato, secondo la direzione assunta dalla storiografia negli ultimi anni, in termini di accettazione o inserimento, e neppure nei termini, cari alla storiografia tradizionale, dell‟interruzione di un processo di integrazione e di convivenza felicemente avviatosi. Un divario che rappresenta, semmai, una costante della vita italiana, e che entra prepotentemente nella storia materiale e sociale del XVII e XVIII secolo, in cui né i cancelli né le norme bastano a eliminare una convivenza cristianoebraica che non mette in questione i legami di identità, ma orienta la riflessione più sulla nozione di equilibrio e di scambi reali che su quella di accettazione vera e propria.

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BENEDETTO FASSANELLI I cingani nella Repubblica veneta (XVI-XVII sec.) L‟intervento vuole porre l‟attenzione sui caratteri della presenza cingana in area veneta a fine Cinquecento, una presenza già radicata ma che deve negoziare continuamente spazi di vita con la componente non cingana della società. Questo processo di negoziazione, fatto dalle pratiche minute della vita quotidiana, subisce costantemente la pressione di un discorso culturale e politico segnato da un‟immagine fortemente caratterizzata in senso negativo, i cui tratti sono il risultato del rapporto fecondo che si può instaurare tra fama, paura, esperienza. Nel corso del Cinquecento, eruditi, letterati e pittori sembrano scoprire queste strane genti che nel secolo precedente avevano occupato quasi esclusivamente l‟attenzione dei cronachisti. A questo processo di visibilizzazione della presenza zingara partecipano anche le misure repressive, prevalentemente di tipo bannitorio, emanate pressoché ovunque. È nel bando, infatti, che, nei secoli dell‟età moderna, prende forma il discorso politico-giudiziario-repressivo sui cingani. Il bando oltre a definire spazi e modi della presenza, manifesta l‟ostilità delle società. Un‟ostilità diffusa, legittimata e costruita su radicati pregiudizi culturali e imprecisi (ma funzionali) stereotipi criminali, ma che non è, come ogni “sentimento” collettivo, una realtà uniforme e costante. La permeabilità delle frontiere, la relativa inefficacia dei sistemi repressivi non bastano infatti a spiegare la sopravvivenza dei gruppi culturali rom in un contesto geografico e sociale formalmente precluso e potenzialmente pericoloso. I gruppi cingani devono saper riconoscere e gestire le forme dell‟ostilità e costruire strategie relazionali. Non stupisce allora scoprire, 70


come avviene nello Stato da terra veneziano, l‟esistenza di rapporti particolari tra compagnie di cingani e nobili signori o comunità, o la dimestichezza con cui i cingani si rivolgono, pur non avendone la facoltà, tanto ai rettori quanto alle magistrature d‟appello veneziane, sfruttando i conflitti e le incongruenze esistenti nell‟amministrazione dello Stato e della giustizia, ma cogliendone anche gli elementi di garanzia e le funzioni di mediazione. SERENA DI NEPI L‟apostasia degli ebrei convertiti all‟islam. Dalle carte del Sant‟Uffizio romano (XVI-XVIII sec.) La storiografia recente ha ampiamente e convincentemente portato alla luce il rilievo e la complessità del controllo esercitato sugli ebrei e sulle loro comunità nella lunga età dei ghetti. Da questo punto di vista centrale fu, senza dubbio, la promulgazione, nel 1593 della costituzione Antiqua Iudaeorum Improbitas con la quale Gregorio XIII investì, per la prima volta esplicitamente, la Congregazione del Sant‟Uffizio di competenze piene e formali sugli ebrei anche al di là dei casi di apostasia e regiudaizzazione, incaricandola di vegliare costantemente sulla fedeltà dei pensieri e delle azioni degli ebrei a tutti quei principi «quae sunt communia» alle due religioni. L‟apostasia degli ebrei rientrava appieno tra i casi regolati da questa norma e non soltanto in materia di apostasia di neofiti verso l‟ebraismo ma, anche – ed è su queste che l‟intervento intende riflettere – di conversioni, spesso momentanee e di facciata, di ebrei all‟islam: tali apostasie si configuravano come gravi reati proprio in quanto tradimento di quei principi 71


comuni, accettati in nome della verità storica del cristianesimo, e, in quanto tali andava sanato nelle forme e nei modi previsti in questi casi (abiure, soprattutto). A partire dalle deposizioni e dalle confessioni spontanee rilasciate al Sant‟Uffizio da ebrei viaggiatori in terra turca, si cercherà di riflettere sulle modalità di relazione e di scambio tra le tre grandi fede monoteistiche in età moderna. Se la condizione degli ebrei, minoranza ovunque, sembrerebbe, da questo punto di vista, la più scomoda e difficile, alcuni casi estremi di finte conversioni all‟ebraismo di cristiani e musulmani proveranno a aggiungere nuovi tasselli, e nuovi elementi di riflessione, sui confini identitari e sulla “liquidità” della società di età moderna.

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L‟EUROPA E I NUOVI MONDI: COMUNICARE E COMPRENDERE LA DIVERSITÀ CULTURALE IN ETÀ MODERNA Coordinatore: Marco Platania Relatori: Antonio G. Espada, Daniela Fabrizio, Claudio Ferlan, Massimiliano Vaghi Che i viaggi e le scoperte geografiche siano state una delle dinamiche principali, forse la più importante per durata e intensità, ad innescare profonde trasformazioni nella cultura europea – legate tanto alla rappresentazione di sé quanto alla comprensione delle altre civiltà e alle forme di comunicazione con esse – è un‟affermazione evidente. Più difficile e più controverso, invece, tracciare le linee di questo confronto culturale dell‟Europa con i Nuovi Mondi: quali continuità e quali discontinuità è possibile individuare nei discorsi culturali provocati dalle scoperte geografiche in età moderna rispetto all‟epoca medioevale e all‟età contemporanea? E all‟interno della cultura moderna, quali sono state le linee di tendenza, le torsioni, le analogie e le differenze, sul piano nazionale e in una prospettiva di storia comparativa transnazionale, nella formazione dell‟apparato culturale attraverso il quale l‟Europa si confrontava e comunicava con i Nuovi Mondi? Il panel qui presentato a selezione raccoglie interventi che sono rappresentativi dei percorsi di studio che giovani ricercatori stanno conducendo in merito a questi problemi. L‟originalità del panel consiste nel mettere a confronto una pluralità di pro-


spettive come la storia della storiografia, la storia della letteratura di viaggio e dei discorsi politici, la storia culturale e religiosa. Inoltre, i quattro contributi abbracciano, nel loro complesso, un panorama significativamente ampio dei momenti, nazioni, e aree geografiche coinvolte dalle scoperte geografiche moderne. Intento condiviso da tutti gli intervenenti è di evitare i rischi insiti in visioni globalizzanti e interpretazioni retrospettive, spesso teleologiche, dello sviluppo della cultura europea. I contributi sono costruiti a partire dal riconoscimento dell‟importanza di stabilire di volta in volta confronti appropriati rispetto a contesti precisi, riconoscere le specificità dei singoli momenti e fasi dei discorsi culturali nei loro rapporti al potere coloniale, alla curiosità intellettuale, alla vita sociale ed economica. Partendo da questa prospettiva circostanziata e storicizzante, gli interventi studiano: le strategie comunicative sul piano della religione adottate dai missionari nel Nuovo Mondo (Ferlan), la comprensione politica ed economica dell‟India (Vaghi), le rappresentazioni della civiltà orientale elaborate in differenti momenti e contesti dell‟età moderna (dai primi contatti innescati dalle relazioni di viaggio nella seconda metà del XIV secolo al fiorire degli studi orientalistici – García Espada e Fabrizio). Il proposito non è tanto quello di costruire un quadro sistematico (né tanto meno esaustivo) delle strategie comunicative e della comprensione della diveristà umana e civile, ma piuttosto di rendere conto della complessità e della varietà di questo problema, anche rispetto agli studi che gli sono dedicati. Per questo, i contributi si confrontano con prospettive come quelle dell‟Orientalismo e dei “post-colonial studies”, e tengono presenti l‟odierno dibattito sull‟uso dei paradigmi scientifici come

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strumento del potere coloniale (ad esempio la storiografia colonial-nazionalista del XIX e della prima metà del XX secolo). Da tempo, e forse precorrendo acclamate svolte epistemologiche di denuncia della logica europeocentrica, la ricerca storica e storico-filosofica italiana (Romeo, Gliozzi, Gerbi, Landucci, e più rencentemente Rotondò, Imbruglia, Abbattista, Minuti) si è occupata del confronto culturale dell‟Europa con i Nuovi Mondi, e ha messo in luce con chiarezza e forza la complessità dell‟approccio culturale alla diveristà: le forme di discriminazione, e talvolta di disprezzo delle civiltà non-europee che hanno accompagnato le politiche di asservimento e sfruttamento, e anche le reazioni che ne sono nate. Fermo restando che i confini culturali dell‟età moderna sono certo profondamente permeabili, e tuttavia che sussiste il bisogno di stabilire alcuni discrimini e sciogliere nodi cruciali nel rapporto plurisecolare della cultura europa con la diveristà umana e civile, il compito che si presenta oggigiorno allo storico modernista – nel quadro di un dibattito pubblico che implica anche una rivisitazione profonda del senso della cultura europea – ci sembra essere quello di stabilire quali siano state le accelerazioni nei processi culturali, i nessi di continuità, le discontinuità, le forme di resistenza e le polemiche attraverso le quali la cultura europea ha compreso e comunicato con i Nuovi Mondi in età moderna, rispetto al suo passato e al suo futuro.

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MASSIMILIANO VAGHI L‟Inde perdue: Intellettuali e politici di fronte alla fine dell‟influenza francese in India (secc. XVIII-XIX) Durante il XVIII secolo, il carattere dell'amministrazione dei territori dipendenti dalle compagnie commerciali europee in India cambiò radicalmente. I decenni centrali del Settecento, infatti, segnarono il momento cruciale del passaggio dalla fase pionieristica dei secoli XVI-XVII dell‟esperienza coloniale europea in Asia, ad una seconda fase più marcatamente „politica‟: orientata, cioè, verso un‟espansione territoriale finalizzata al controllo di aree importanti sotto il profilo strategico o economico (fase che raggiungerà il suo culmine in pieno XIX secolo). La rivalità fra le potenze emergenti europee, Francia ed Inghilterra, non mancherà di interessare anche lo scacchiere indiano. Dalla lotta per il controllo dei ricchi principati indiani, com‟è noto, uscirono vincitori i Britannici. Ma quando la Francia perse definitivamente ogni possibilità di riacquisire uno status di potenza politica ed economica nella regione? La storiografia, generalmente, risponde a questa domanda indicando tre momenti fondamentali: il pendolo dell'irreversibile sconfitta francese oscillerebbe, dunque, fra il 1754 – quando il governatore JosephFrançois Dupleix venne richiamato a Parigi e la sua politica di ingerenza negli stati indiani fu sconfessata dal suo governo –, il 1763 – quando, con la Pace di Parigi, i Francesi furono costretti dai rivali britannici all‟interno dei loro comptoirs costieri e obbligati a smantellare tutte le loro fortificazioni nel subcontinente – , e i primi anni dell‟impero napoleonico, quando la sconfitta francese a Trafalgar (1805) lasciò Napoleone privo della flotta e lo confinò definitivamente al solo teatro europeo. L‟obiettivo di questo intervento è quello di tentare di chiarire come le élites 76


politiche e culturali francesi abbiano recepito, percepito e „metabolizzato‟ la fine della grandeur in India; un problema che inevitabilmente si intreccia a quello della erronea comprensione delle legittime richieste di soccorso che alcuni fra i principati indiani ancora non sottomessi ai Britannici continueranno a rivolgere alla Francia sino in principio del XIX secolo. DANIELA FABRIZIO L‟Orientalismo in età moderna: un problema storiografico aperto Il paper prenderà in esame alcune interpretazioni storiografiche connesse allo sviluppo degli studi di orientalistica in Europa moderna. In particolare, l‟analisi dell‟istituzione delle prime cattedre di arabistica sarà motivo per ripercorre le interpretazioni divergenti dell‟approccio culturale dell‟Europa alle civiltà orientali. Le prime cattedre universitarie di arabistica furono istituite nel corso del XVII secolo, dapprima in Olanda ed Inghilterra, e poi via via nel resto d‟Europa. L‟apertura di queste cattedre in Europa è stata argomento di non pochi studi. Il giudizio storiografico è risultato piuttosto fluttuante, risentendo delle stagioni storiografiche e delle temperie culturali. A lungo, l‟età seicentesca è stata interpretata come prodromo della successiva età settecentesca ed in funzione di quest‟ultima. Questa impostazione storiografica conseguiva all‟idea di una frattura tra l‟età medioevale e l‟età moderna, con il Rinascimento quale punto di rottura. Essa viene contestata dagli storici dell‟orientalismo (Dallamayr, Roy, Macfie, Turner ecc.) impegnati a ricostruire le dinamiche del processo cognitivo del Noi/Altri. 77


Gli orientalisti odierni, benché divisi in fautori ed oppositori delle tesi sociologiche – più che storiografiche – di Edward Said e della sua concezione dell‟orientalismo europeo, concordano nel ritenere fluido l‟iter di progressiva conoscenza dell‟Oriente da parte dell‟Europa medioevale prima, e modernocontemporanea poi. Le loro analisi divergono invece circa i caratteri e le finalità, le dinamiche e le ricadute che l‟orientalismo europeo ha osservato nel susseguirsi delle stagioni. Pertanto, essi contestano le etichette di proto-orientalismo e di orientalismo moderno attribuite all‟orientalistica seicentesca dalle due tradizionali scuole storiografiche: l‟una riteneva che l‟orientalismo seicentesco fosse un semplice antesignano del “vero” orientalismo moderno, ovvero quello settecentesco; l‟altra riteneva che l‟orientalismo d‟età moderna facesse da spartiacque fra l‟orientalismo medioevale e l‟orientalismo contemporaneo di stampo ottonovecentesco. Le recenti interpretazioni dell‟orientalismo sostengono che il Seicento, come figlio del Rinascimento, andrebbe riconsiderato, tendendo lo sguardo a quanto lo procedette e non a quanto lo seguì: andrebbe cioè interpretato a partire dalle sue radici e non dalle sue ricadute in età posteriore. In tal prospettiva, l‟istituzione delle prime cattedre di arabistica in Europa si configurerebbe non come una frattura rispetto al passato ma in linea di continuità, giacché essa portò a compimento attese ed esigenze spirituali e culturali maturatesi nel corso dei secoli precedenti. A variare furono, semmai, i contesti storici segnati dalle scoperte geografiche e dalla Riforma protestante.

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CLAUDIO FERLAN Comunicare la fede: strumenti e strategie. La Compagnia di Gesù nel Perù del XVI secolo Nell'intervento verrà posto l'accento sulla rilevanza degli oggetti sacri quali strumenti di comunicazione religiosa e culturale nelle prime spedizione gesuitiche verso il Perù (secolo XVI). Rosari, suppellettili e ornamenti per le chiese, libri, quadri e stampe, reliquie furono parte integrante del bagaglio dei primi missionari gesuiti alle Indie occidentali. Spesso tali oggetti furono anche protagonisti del viaggio di missione, riconosciuti come miracolosi veicoli della misericordia divina negli abituali momenti di difficoltà che la traversata transoceanica comportava. Essi assunsero, anche nel corso della navigazione, una funzione propria nella costruzione dell'immaginario della missione? Quali aspettative venivano riposte in cose riconosciute come dotate di una propria sacralità intrinseca? Quanto la materialità della devozione influì sulla preparazione all'incontro con una cultura “totalmente altra”? Trasportati in Perù quali veri e propri “strumenti di evangelizzazione”, gli oggetti sacri venivano ritenuti funzionali al superamento di barriere linguistiche e culturali. Essi, da un lato, permisero di organizzare liturgie sontuose, utili a catturare l'attenzione degli indios, la cui mentalità era letta dagli strateghi dell'evangelizzazione secondo la categoria dell'infantilità. Dall'altro, contribuirono al trasferimento dell'immaginario religioso europeo, consentendo un'immediatezza di comunicazione che la parola sola non era in grado di assicurare. Senza limitarsi alla parola, missionari e predicatori si avvalsero di sostegni concreti per fondare le proprie argomentazioni e mostrare ciò che era difficile concepire astrattamente. 79


Qual è il significato della mediazione culturale dell'oggetto? Quali sono, se esistono, le dissonanze tra le aspettative e la realtà della comunicazione? Quali le parentele tra simboli sacri dell'una e dell'altra cultura? Verranno proposte alcune linee interpretative utili a delineare alcune risposte alle domande poste in sede di presentazione. ANTONIO G. ESPADA Asimmetrie: le descrizioni dell‟Oriente tra sincretismo culturale e crociata. Le descrizioni dell‟Oriente prodotte nel corso della prima metà del secolo XIV da Marco Polo, Odorico da Pordenone, Giordano Catalán, Giovanni da Marignolli e Giovanni da Montecorvino sono state tradizionalmente considerate dalla critica o come letteratura d‟intrattenimento, o come guide pratiche per commercianti e missionari. Questa incompleta attribuzione di significato è stata in buona misura responsabile del fatto che siano passate inavvertite due delle loro componenti essenziali: da un lato la sfida prospettata da una posizione di subalternità ai presupposti elementari dell‟élite culturale europea e, dall‟altro, il rapido ed enorme sviluppo di un‟efficace forma di comprensione e comunicazione – senza precedenti nella letteratura europea – con la manifestazione di alterità più estrema conosciuta nel Medioevo. Le ricerche più recenti mettono in luce come l‟intensa attività delle principali corti europee volta a superare la perdita della Terra Santa e ricavare dalla nuova situazione nel Mediterraneo Orientale migliori opportunità per difendere la posizione della cristianità latina rispetto ai suoi principali rivali – il sultano di El 80


Cairo e i greci ortodossi – fosse uno dei fattori più rilevanti di fronte all'apparizione di queste prime descrizioni dell‟Oriente. La ridotta, ma influente avanguardia destinata ad istruire il Papa e il re di Francia su come recuperare la Terra Santa incontrò nell‟esperienza degli emigranti latini provenienti dall‟Asia una valida informazione pratica sulla realtà fenomenologica e tangibile della retroguardia del “dar al-Islam”, così come una sorta di specchio delle possibilità reali d‟interazione con le nazioni dell‟Estremo Oriente. Sotto questo punto di vista, le descrizioni dell‟Oriente di Marco Polo e dei suoi meno celebri pari, nel loro insistere sulla convergenza d‟interessi con le nazioni orientali, non potevano soddisfare le aspettative delle élites europee, e finivano per collocarsi fuori dal gioco dei loro interessi, in posizione marginale: tanto la fruttuosa cooperazione tra gli emigranti latini, i musulmani d‟Asia e il mondo indiano, come il predominio in tutto l‟Oriente di una sorta di relativismo e sincretismo culturale, particolarmente intenso per quanto riguarda le espressioni religiose, apparivano in questi testi come requisiti indispensabili al momento di interagire efficacemente con le nazioni orientali, e pertanto contraddicevano apertamente i presupposti elementari del discorso sul potere dell‟Europa Latina.

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SEDIZIONE E COMUNICAZIONE POLITICA NELL‟EUROPA DI ETÀ MODERNA: DAL SEGRETO ALLA PUBBLICITÀ Coordinatrice: Veronica Granata Relatori: Stefano Dall‟Aglio, Alberto Clerici, Nicola Cusumano,Veronica Granata Gli interventi raccolti nel panel qui proposto intendono esplorare, attraverso quattro esempi-momenti significativi, il tema del sovvertimento del potere politico in epoca moderna e dei passaggi che conducono dalla logica del complotto e della congiura, dunque del segreto e della clandestinità, alla diffusione nello spazio sociale, attraverso gli strumenti della comunicazione e della propaganda, di messaggi politici dalle valenze volutamente o imprevedibilmente sovversive o interpretate come tali. Passaggi strettamente intrecciati all‟evoluzione dei processi di politicizzazione e alle parallele dinamiche di formazione e di allargamento dell‟opinione pubblica. Passaggi, dunque, che si risolvono gradatamente in un superamento della unilateralità del messaggio e del progetto politico sovversivo e nella sua trasformazione in un rapporto circolare complesso, dove componenti sociali sempre più ampie divengono, a loro volta, produttrici consapevoli di significati, di comportamenti, di «horizons d‟attente» politici capaci di condizionare, a loro volta, forme e contenuti della comunicazione. Incrociando, in un legame necessario, suggerito dai più recenti orientamenti storiografici, le prospettive dalla storia politica,


della storia delle idee e della storia del libro, il panel vuole affrontare simultaneamente, con l‟approccio e gli strumenti interpretativi connessi a queste diverse impostazioni, alcune fasi della storia europea dalla particolare angolazione della minaccia e dell‟erosione di uno specifico assetto statale o di una forma di legittimità in vista di un progetto usurpatorio, di un cambiamento delle istituzioni o di una modifica degli equilibri sociali. Partendo dalle reiterate congiure antimedicee nella Firenze cinquecentesca, nelle quali gli ideali classici e umanistici e il modello politico della libertà repubblicana formano, non senza «punti oscuri», la base motivante di complotti e trame sediziose, passando per la figura, ancora ricca di sfaccettature da esplorare, di Franciscus Van den Enden, «poeta, medico, ateo, repubblicano, maestro di Spinoza» e ideatore del “complotto di Rohan” contro Luigi XIV, arrivando alla circolazione sotterranea dei «livres philosophiques», portatori del «fiele rivoluzionario» nella Sicilia di fine Settecento, fino al superamento, nella Francia degli anni 1814-1830, della strategia della segretezza e del colpo di Stato militare in favore di una mobilitazione politica ampia, sollecitata da una stampa e da una propaganda di vasta diffusione, nelle quali si riversa una battaglia politica tendente a modificare il fragile compromesso istituzionale e sociale imperniato sulla Carta octroyée, gli interventi si interrogheranno sulle connessioni, spesso non lineari, fra la letteratura politica e filosofica, la sua ricezione e appropriazione e la sua traduzione e manipolazione in progetti di ridimensionamento o di rovesciamento del potere vigente. A questo scopo è parso utile comprendere un arco cronologico ampio, che va dalla prima età moderna fino agli inizi dell‟Ottocento, e considerare diversi contesti politici e culturali seguendo il filo rosso dell‟evoluzione della comunicazione e della pratica politiche clandestine e sov84


versive. Altrettanto cruciali, in tale discorso, appaiono le strategie di reazione poste in atto dalle autorità politiche, dalla censura alla repressione violenta e esemplare. Forme di difesa che, pur nella loro continuità nel corso dei secoli, individuano, anch‟esse, fasi profondamente diverse, rappresentate dalle quattro relazioni del panel e strettamente legate all‟evoluzione delle modalità di legittimazione del potere politico, di rappresentazione e auto-rappresentazione di quest‟ultimo, alla sua capacità/esigenza di non incorporare forme di dissidenza o, al contrario, alla sua necessità di istituzionalizzarle in risposta alla nascita di nuovi soggetti politici, quali i partiti e l‟opinione pubblica. Gli interventi compresi nel panel si propongono, tutti, di presentare ricerche fondate su fonti manoscritte e a stampa sino ad ora poco o non esplorate, suscettibili di apportare un contributo all‟approccio culturale alla storia politica dell‟Europa moderna. STEFANO DALL‟AGLIO «Non hanno i principi il maggiore nimico che la congiura». Complotti e dissenso antimediceo nella Firenze del Cinquecento Sessantuno anni. Tanti ne passano tra la congiura BoscoliCapponi del 1513 e quella di Orazio Pucci del 1574. Complotti antimedicei che scandiscono tutta la storia fiorentina cinquecentesca e accompagnano la transizione della città toscana da Repubblica a Principato. Non casualmente la prima di quelle congiure è immediatamente successiva alla restaurazione medicea che mette fine alla repubblica savonaroliana, mentre l‟ultima fa da contorno al passaggio di consegne tra Cosimo I de‟ Medici, primo granduca di Toscana e vero artefice del Principato mediceo, e il figlio Francesco. Nel lungo intervallo di tempo tra 85


l‟una e l‟altra si collocano anche il complotto degli Orti Oricellari e quello di Pandolfo Pucci, per non parlare dell‟agguato mortale di Lorenzino de‟ Medici, che nel 1537 soffoca nel sangue il breve ducato del cugino „tiranno‟ Alessandro de‟ Medici. Pur nella loro diversità, sono tutte trame che affondano le loro radici nel dissenso contro la famiglia Medici, che progressivamente estende ed istituzionalizza il suo controllo su Firenze. Sullo sfondo, il conflitto tra libertà repubblicana e tirannia medicea intriso degli ideali classici e umanistici che tanto avevano permeato la Firenze quattrocentesca. I complotti che si propongono di capovolgere con la violenza i destini della città sull‟Arno hanno come comune denominatore un‟evidente matrice politica legata ad retaggio ideologico libertario, ma non sono prive di punti oscuri. D‟altra parte, col passare del tempo quelle iniziative sembrano riflettere sempre meno un sentimento diffuso, ed essere sempre più legate a gesti isolati, privi di una realistica prospettiva politica. L‟intervento intende ripercorrere il consolidamento del Principato mediceo e la crescente repressione del dissenso sviluppatasi al suo interno attraverso l‟analisi dei complotti che si susseguono nel corso del secolo, e proporne un‟interpretazione originale, anche sulla base di nuove ricerche d‟archivio e di nuovi documenti. ALBERTO CLERICI Franciscus Van den Enden (1602-1674) e la “congiura di Rohan”: dalla scrittura all‟azione politica L‟intervento ruota attorno al pensiero e all‟azione di Franciscus Van den Enden, una delle figure più suggestive ed enigma86


tiche dell‟ Illuminismo radicale europeo. Questo insegnante privato, vissuto tra Anversa, Amsterdam e Parigi, di umili origini ma cultura vastissima, che insegnava il libero pensiero, l‟ateismo e il repubblicanesimo ai suoi allievi, fu protagonista di uno dei complotti più noti organizzati contro Luigi XIV, la cosiddetta “congiura di Rohan” del 1674, della quale fu ispiratore. Egli fu l‟unico popolano coinvolto nella vicenda, che doveva concludersi con l‟instaurazione nella Francia del nord di una repubblica democratica basata sull‟uguaglianza e la “libertà paritaria” dei cittadini, così come elaborata nelle sue Libere proposizioni politiche, opera di recente attribuzione. L‟intervento intende ricostruire il “progetto filosofico-pratico” di questo pensatore radicale, dalle idee assai simili a quelle del suo allievo Spinoza, fino al tragico epilogo del fallito complotto: all‟età di settantadue anni, dopo vari interrogatori e torture, Van den Enden fu condotto nel cortile interno della Bastiglia, e ivi impiccato. NICOLA CUSUMANO Livres philosophiques e «sedizione» a Palermo nella seconda metà del Settecento. Joseph Sterzinger bibliotecario e censore dei libri L‟intervento intende mettere a fuoco le dinamiche di trasformazione del controllo della circolazione libraria a Palermo nell‟ultimo quarto del XVIII secolo. La svolta si realizza nella capitale del regno nel 1799, e coincide con l‟arrivo dei sovrani da Napoli, quando la repressione antigiacobina richiede l‟innalzamento del livello di controllo dell‟azione censoria sui volumi ritenuti portatori del «fiele rivoluzionario». Se quella dei roghi di libri non è una pratica occasionale nel XVIII secolo – ne sono stati già obiettivo principale in precedenza le trattazioni dei 87


giuristi che mettono in discussione le prerogative della corona – , è indubbio il salto di qualità che si realizza in questo frangente, quando le attenzioni censorie si spostano sui volumi del filone erotico e libertino, oltre che su quelli “filosofici” e “politici”. Si intreccia con questa storia la vicenda biografica del teatino Joseph Sterzinger. Il suo arrivo a Palermo da Napoli (1774) coincide con l‟avvio di una formidabile stagione culturale, che è coronata dall‟apertura della Biblioteca Regia nei luoghi che prima dell‟espulsione erano stati del Collegio Massimo dei Gesuiti, l‟istituto che in pochi anni assisteva ad un incremento del patrimonio librario senza precedenti. Stimato per le sue competenze, ma anche estremamente duttile e aperto alle suggestioni culturali d‟oltralpe – in linea con una sensibilità culturale che è tutta teatina – il bibliotecario austriaco diviene uomo di fiducia delle istituzioni, tanto che il governo decide di affidargli anche il controllo della Dogana per i libri che provengono da «fuori regno». Per nulla scontato l‟esito a cui conduce questo doppio incarico: le fonti di cui disponiamo consentono la verifica dei titoli dei libri ritenuti sovversivi dall‟autorità governativa, quando giungeva perentorio l‟ordine che essi venissero «pubblicamente bruciati per ordine del boia». VERONICA GRANATA Dal segreto alla conquista dell‟opinione pubblica: produzione stampata e sovversione politica nella Francia della Restaurazione Le società segrete, i governi “ombra” e i progetti insurrezionali segnano profondamente, in Francia, i primi anni della monarchia restaurata. Sintomo di una lotta politica ancora incapace di incanalarsi interamente nelle vie legali, quelle tracciate dalla 88


Carta octroyée, la strategia del complotto rivela, intorno agli anni 1821-1822, il suo sostanziale fallimento, percepito con chiarezza dalla destra monarchica come dalla sinistra (parlamentare e non) di ogni gradazione, dai liberali ai repubblicani. È soprattutto a partire da questo momento che la parola stampata diventa l‟arma principale in uno scontro politico in cui la pubblicità prende il posto del segreto e in cui ci si propone di sostituire all‟attività di pochi iniziati una vasta mobilitazione. I giornali, i libri e le pubblicazioni più effimere, diventano, in un regime basato sulla limitazione dell‟accesso alla vita politica, un potente fattore di politicizzazione della società, fino ai suoi strati più profondi, sempre più alfabetizzati e sempre più raggiunti da scritti a basso costo. Se l‟idea della cospirazione militare o dell‟infiltrazione settaria nelle istituzioni perde mordente nel conflitto politico degli ultimi anni della Restaurazione, l‟idea di trame occulte volte a destabilizzare il compromesso politico e sociale della Carta diventa centrale nella stampa legittimista come in quella antiborbonica, dove le opposte propagande sviluppano e divulgano il concetto delle potenzialità sovversive della parola stampata “di massa” e di chi la produce. L‟intervento, fondato sull‟analisi di un corpus vasto e inesplorato di pubblicazioni concepite per l‟ampia circolazione (dai giornali ai popolari résumés historiques, alle fortunate edizioni economiche delle opere dei Lumi, fino ai pamphlets e alla memorialistica) intende ricostruire le fasi e le modalità attraverso le quali, partendo dal rapporto fra gli scritti dei philosophes e l‟avvento della Rivoluzione francese, si dipana, negli anni che precedono gli eventi del 1830, un dibattito pubblico sul ruolo della stampa come soggetto politico autonomo, contiguo ai partiti parlamentari ma creatore di alternativi “partiti di carta” e artefice, attraverso la mobilitazione e la delegitti89


mazione, attraverso lâ€&#x;elaborazione di astrazioni politiche e la ricerca di un pubblico vasto, di una perpetua tensione verso il cambiamento politico, sociale e istituzionale. Una tensione comune agli eredi come agli oppositori dichiarati della Rivoluzione, uniti pure (come la legislazione dellâ€&#x;epoca) dallâ€&#x;idea della parola stampata come concreta produttrice di fatti politici e di comportamenti collettivi e individuali.

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IL GOVERNO DEL SISTEMA IMPERIALE SPAGNOLO: IDEOLOGIE E PRATICHE Coordinatore: Angelo Di Falco, Carla Pedicino Relatori: Carla Pedicino, Saverio Di Franco, Angelo Di Falco, Gilda Caprara L‟attività di ricerca svolta negli ultimi anni presso il Dipartimento di Teoria e Storia delle Istituzioni dell‟Università degli Studi di Salerno, ha visto focalizzare l‟attenzione sul tema Il governo del sistema imperiale spagnolo: ideologie e pratiche. Le tematiche di ricerca, differenti nei caratteri spaziotemporali, trovano una sintesi organica nella comune prospettiva di analisi del rapporto centro-periferia, caratterizzatosi quasi sempre per la non coincidenza tra la sua logica, ossia lo schema di direttiva politica fondato su alcune coordinate generali, e la sua realtà, vale a dire la concreta applicazione di quelle direttive. In particolare, sono state indagate le disposizioni della Corona spagnola e le loro differenti applicazioni nella dialettica politico-istituzionale dei diversi contesti del sistema imperale. La biografia e la biblioteca politica di uno storico del secondo Cinquecento napoletano, Giovanni Antonio Summonte, hanno permesso di ricostruire i momenti principali del processo ideologico e pratico del controllo spagnolo dell‟amministrazione municipale della capitale del Regno e di individuare l‟origine della ideologia popolare nella dialettica tra i ceti, caratterizzata da istanze di riforma etica dei governanti della Capitale e di dife-


sa dell‟autonomia municipale, nei termini di un consensus omnium bonorum nell‟interesse del bene pubblico in un regime di fedeltà alla Corona (Monarchia limitata). La realtà emersa dallo studio delle relazioni tra Portogallo e Napoli nel Seicento, permette di utilizzare la categoria di sottosistema, relativamente al sessantennio filippino, anche per il contesto lusitano. Il risultato della ricerca rivela la complessità della relazione d‟interdipendenza tra Lisbona e Madrid. Dal punto di vista delle pratiche, il governo del Regno di Napoli – analizzato attraverso l‟amministrazione dei funzionari delle corti feudali, tra seconda metà del Cinquecento e prima metà del Seicento – evidenzia il rapporto di collusione/collisione tra politica centrale e sistema di potere locale. La ricerca della concentrazione dei poteri di imperium coesistette con la forza permanente di quei soggetti preesistenti sul territorio, dando vita ad un rapporto che non fu solo di opposizione – difesa dei propri ambiti di potere e privilegi – ma anche di collaborazione e di partecipazione al governo. La prassi del governo nel sistema imperiale emerge con evidenza dalla ricerca sulla venalità degli uffici tra XVI e XVII secolo, grazie alla quale è stato possibile ricostruire la struttura degli istituti amministrativi centrali e periferici e la dinamica che si svolgeva al loro interno; lo studio sulla venalità ha permesso, altresì, di far luce sulla logica del sistema amministrativo spagnolo e sul modo in cui si articolava il rapporto tra Spagna e Mezzogiorno, attraverso l'analisi del profilo socio-politico dei personaggi coinvolti nelle strutture. Gli studi che compongono la proposta di Panel rivelano un buon grado di originalità per la considerevole quantità di fonti inedite, per la prima volta indagate, e per l‟analisi accurata di esse, condotta a partire dalle più accreditate interpretazioni sto92


riografiche. Il risultato scientifico costituisce un contributo per la migliore comprensione e spiegazione dello scarto esistente tra i momenti formale e pragmatico del rapporto centro-periferia del sistema imperiale. CARLA PEDICINO La venalità degli uffici nel Regno di Napoli (secc. XVI-XVII) Filo conduttore della ricerca è la venalità degli uffici tra XVI e XVII secolo. Partendo da questo tema si è cercato di ricostruire la struttura degli istituti amministrativi centrali e periferici nel periodo in oggetto e la dinamica che si svolge negli stessi attraverso la venalità; si è inoltre cercato di far luce, attraverso l'analisi del profilo socio-politico dei personaggi coinvolti nelle strutture,sulla logica del sistema amministrativo spagnolo e sul modo in cui si articola il rapporto tra Spagna e Mezzogiorno. La ricerca, in particolare, si è sviluppata su tre differenti livelli: il dibattito storiografico sulla venalità; genesi e struttura delle magistrature centrali e periferiche del Regno di Napoli; prosopografia degli ufficiali. Relativamente al primo aspetto sono state analizzate le principali opere sull'argomento pubblicate in Italia e in Europa dal secondo dopoguerra agli anni più recenti. Circa la genesi e l'evoluzione delle magistrature centrali e periferiche nel Mezzogiorno è emerso che la premessa indispensabile per lo studio delle stesse sia il modello politico creato dagli spagnoli nel Mezzogiorno. Ponendo come sfondo la "via napoletana allo Stato moderno" e il "sistema imperiale spagnolo" sono stati considerati due aspetti: la politica spagnola nel Mezzogiorno e l'articolazione del rapporto centro-periferia. Ampio risalto è stato dato agli studi riguardanti la formazione del ceto politi93


co, la gestione dell'apparato burocratico, l'organizzazione amministrativa del Regno. Partendo da questi aspetti sono state ricostruite origini, composizione e funzioni delle magistrature centrali e periferiche del Regno.Su tale sfondo è stato poi inserito il problema della venalità. I documenti analizzati hanno fornito preziose indicazioni circa la composizione degli uffici, i meccanismi della venalità, l'atteggiamento della Monarchia. Si è cercato di analizzare i risvolti sociali della "via napoletana allo Stato moderno". In particolare è stato definito il profilo degli amministratori prestando attenzione alle strategie matrimoniali, alle pratiche testamentarie, alla costruzione dei patrimoni familiari. Infine, è stato individuato un modello di ricerca secondo il seguente schema: 1)definizione sociologica dei gruppi sociali che hanno beneficiato degli uffici; 2)analisi dei fattori familiari e delle relazioni tra i gruppi di potere; 3)definizione delle vicissitudini personali e professionali degli ufficiali; 4)cultura degli ufficiali e ruolo ricoperto nel contesto politico-sociale. SAVERIO DI FRANCO Governo della prassi e difesa dell‟autonomia napoletana: l‟origine dell‟ideologia popolare nell‟Historia di G.A.Summonte La ricerca principale svolta negli ultimi anni ha avuto ad oggetto la difesa della patria e dell‟autonomia municipale nella biografia e nella biblioteca politica di Giovanni Antonio Summonte, storico napoletano della seconda metà del XVI secolo. Le indagini si sono dirette a ricostruire la vita dello storico e ne hanno portato alla luce diversi e importanti aspetti, dall‟iscrizione all‟Arte della seta in qualità di mercante e a Confraternite e Banchi di opere pie per le sue competenze finanzia94


rie e gestionali, fino al coinvolgimento nella vita politica della Capitale, ricoprendo gli incarichi di Capitano di Ottina e di Tesoriere del Seggio del popolo. I rapporti commerciali e politici con i maggiori esponenti della cultura storico-giuridica napoletana (Chioccarello, Imperato, De Pietri) uniti all‟analisi della sua opera principale l‟Historia della città e Regno di Napoli hanno consentito di ricostruire almeno in parte la biblioteca politica dello storico (da Aristotele a Cicerone, dagli umanisti toscani ai diaristi napoletani, da Castaldo a Costo), dalla quale sembra provenire una proposta di governo nella forma di una Monarchia limitata dai ceti della Capitale, uniti in difesa dell‟interesse comune. La sua ricerca cominciò da una riflessione impietosa sullo stato morale del governo popolare del suo tempo e si proiettò nel passato, individuando la nascita e la formazione politica del Popolo fin dalla fondazione della città. La tradizionale partecipazione alla politica del municipio, la forza militare del Popolo ne legittimarono il riconoscimento giuridico sotto gli Angioini con la costituzione del Seggio. L‟etica dei governanti gli sembrava aver caratterizzato per diversi secoli l‟istituto popolare, permettendo in unione con la nobiltà la difesa dell‟autonomia cittadina dal centralismo monarchico. La soppressione del Seggio negli ultimi anni del Magnanimo e la successiva strumentalizzazione sotto gli ultimi Aragonesi e gli Asburgo, ne avevano segnato la crisi definitiva, malgrado il suo irrobustimento formale.

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ANGELO DI FALCO Il governo delle periferie nel Mezzogiorno moderno. I funzionari delle corti feudali tra politica centrale e sistema di potere locale La scissione tra titolarità ed esercizio del potere rappresentò uno dei caratteri più innovativi dello stato moderno. Il feudo e le prerogative giurisdizionali ad esso connesse, concesse per investitura regia, costituirono parte integrante di quell‟esercizio del potere volto a garantire alle monarchie una più efficace ed estesa realizzazione della sovranità. Il feudatario, tuttavia, era soltanto titolare della dignità di giurisdizione, l‟esercizio della quale era affidato ad uomini di legge, giudici e governatori, che egli nominava soltanto. Il fuoco della ricerca è concentrato proprio su queste figure di funzionari, sulle loro carriere, quasi sempre caratterizzate dall‟ascesa sociale all‟ombra del feudatario, e sul funzionamento delle corti feudali, il loro rapporto con le magistrature regie, sia periferiche che centrali. Attraverso l‟analisi incrociata della documentazione reperita in grandi archivi feudali, quali quello dei Doria d‟Angri, Doria di Melfi, e archivi privati di famiglie del notabilato locale dei Principati Ultra e Citra, con le fonti formali dell‟ordinamento del Regno di Napoli dell‟Età moderna, quali le Prammatiche e la letteratura giuridica del tempo, si è voluto verificare la sintonia dell‟esercizio delegato del potere con le istanze di affermazione della sovranità o il suo eventuale utilizzo funzionale agli interessi prevalenti sul territorio, dai quali non erano esclusi gli esercenti il potere delegato.

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GILDA CAPRARA Il rapporto Lisbona-Madrid dal 1580 al 1640: uno studio sul sottosistema portoghese Alla luce delle più recenti acquisizioni storiografiche in materia di Sistema Imperiale spagnolo, che vedono l‟applicazione della categoria di sistema alla realtà spagnola del XVI-XVII-XVIII secolo, propongo una rilettura della storia del sessantennio dei Filippi in Portogallo, allo scopo di dimostrare che il Regno lusitano è parte integrante del citato sistema. Il 1580 costituisce un evento periodizzante per la storia del Regno di Portogallo: significò, infatti, l‟inizio di quella che la storiografia portoghese definisce come una condizione di Monarquia Dual. Tale chiave di lettura, tuttavia, può essere messa in discussione in alcune sue parti a favore, piuttosto, dell‟utilizzo del modello interpretativo di sistema/sottosistema. L‟uso della categoria di sistema imperiale, per descrivere la realtà portoghese negli anni di governo spagnolo, non sminuisce assolutamente il rapporto preferenziale che la Castiglia ebbe con Lisbona. La categoria di sottosistema, infatti, non descrive una semplice condizione di subordinazione della periferia al centro dell‟Impero, ma significa, piuttosto, un rapporto funzionale tra più parti che costituiscono un unicum e che, anzi, contribuiscono alla vita e al buon funzionamento del centro del sistema stesso. È proprio in quest‟ottica, a mio avviso, che andrebbe riletta la storia dei sessant‟anni di governo dei Filippi in Potogallo e cioè nell‟ottica del rapporto Madrid-Lisbona. È chiaro che, procedendo in questo senso, si finisca col comparare al case-study portoghese da me proposto in questa sede, i già accreditati studi sul rapporto Napoli-Spagna.

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Tengo a precisare, tuttavia, che la comparazione da me effettuata non vuole essere uno schema definitivo ed esaustivo, che riduca la storia di questi due Regni a meri parametri interpretativi; vuole essere, piuttosto, un punto di partenza per lo studio di rapporti complessi, che vedono protagoniste piĂš realtĂ in relazione e/o interdipendenza tra loro.

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DIRITTO, GIUSTIZIA E SOCIETÀ NEL REGNO DI NAPOLI (SECOLI XVII-XVIII) Coordinatore: Pasquale Palmieri Relatori: Daniela Ambron, Pasquale Palmieri, Domenico Cecere, Alessandro Tuccillo Il panel intende focalizzare alcuni aspetti della gestione della giustizia nel Regno di Napoli tra i secoli XVII e XVIII, prestando particolare attenzione non soltanto alle pratiche amministrative e ai problemi posti dai diversi ambiti in cui tali pratiche venivano esercitate, ma anche alle proposte riformatrici formulate dalla cultura napoletana, soprattutto nel corso del Settecento. I quattro interventi sono radicati nell‟attività di ricerca svolta nell‟ambito del dottorato in Storia della società europea dell‟Università degli studi di Napoli “Federico II” e del dottorato in Storia dell‟Europa moderna e contemporanea dell‟Università degli studi di Bari. I percorsi monografici proposti sono articolati secondo una successione prevalentemente cronologica e riguardano il fenomeno del banditismo durante gli ultimi decenni del Seicento, le dinamiche della giustizia ecclesiastica nel Settecento, la difficile mediazione elaborata dalla cultura dei lumi tra le esigenze di riforma del sistema penale e le necessità del controllo sociale, il contributo di Gaetano Filangieri al dibattito europeo sulla pena di morte.


DANIELA AMBRON Giustizia e società nel Regno di Napoli alla fine del XVII secolo L‟intervento si propone di indagare alcuni aspetti della gestione della giustizia nel regno di Napoli negli ultimi decenni del XVII secolo, esaminando in particolare le reazioni delle forze politiche e sociali dinanzi al fenomeno del banditismo, sia come fenomeno criminale tout court sia, soprattutto, nei suoi rapporti con il mondo nobiliare. Il banditismo diviene in tal senso quasi il “filo rosso” che meglio può riassumere la complessità della vita politica delle province napoletane in età moderna. Alla sua base emergono infatti ragioni di natura politica, economica e sociale che consentono di delineare un quadro articolato e insieme omogeneo delle dialettiche politiche che a livello giurisdizionale coinvolgevano monarchia, ufficiali regi, baronaggio e popolazioni, condizionando le loro scelte sul piano non solo locale ma anche nazionale. L‟analisi di alcuni processi criminali conservati presso l‟Archivio di Stato di Napoli, incrociate con altre fonti napoletane e spagnole ha fatto emergere alcune vicende processuali che vedono come protagonisti diversi nobili napoletani. Su di essi pesavano delle accuse, talvolta particolarmente gravi, di connivenza e ricettazione di banditi. Le vicende indagate si svolgono in diverse province del Regno (Terra d‟Otranto, Contado di Molise e Principato Citra) e si collocano cronologicamente nella seconda metà del XVII secolo. La fonte giuridico-processuale e le diverse prospettive interpretative che essa offre offre la possibilità di verificare sul campo ciò che la storiografia e i coevi scritti dottrinari e legali dell‟epoca trasmettono. Attraverso l‟analisi formale del processo si comprendono ragioni istituzionali e politiche dei fenomeni. 100


Quando la causa è discussa da più fori, è possibile ricostruire precisamente l‟iter giuridico e quindi cogliere la procedura dei diversi tribunali – dalle corti locali al Collaterale – sia nella fase di raccolta delle indagini in loco (le “diligentie”), sia in quella in cui venivano ascoltate le testimonianze, sia nella fase conclusiva in cui veniva formulata la decisione. I processi mostrano la composizione sociale delle magistrature, dalla quale la forte contrapposizione tra elementi togati e nobiliari, si ridimensiona notevolmente, nonché il peso e il funzionamento delle Udienze provinciali. Dalle vicende ricostruite attraverso le testimonianze dei vassalli e dei cittadini delle province è evidente il ruolo preminente ricoperto dai nobili e la loro costante presenza al fianco dei fuorilegge più noti. Si chiariscono non solo i loro rapporti di connivenza, ma anche le diverse figure dei banditi e il loro effettivo potere di contrattare con la giustizia. La storiografia ha tradizionalmente considerato gli ultimi anni del Seicento nel Regno di Napoli, dominati dal vigoroso governo del viceré marchese del Carpio, il momento in cui si pose fine all‟atavica connivenza tra banditi e baroni. Dalla documentazione presa in esame, invece, le accuse ai nobili napoletani e i loro rapporti con il mondo banditesco continuano sistematicamente a riproporsi, sollecitando l‟esigenza di rividere i giudizi consolidati sul successo di questo aspetto della politica vicereale.

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PASQUALE PALMIERI La giustizia ecclesiastica nel Regno di Napoli (secolo XVIII) Già negli ultimi anni del Seicento diversi giuristi avevano ravvivato nella capitale il malcontento contro il Sant‟Uffizio che si era più volte manifestato nel corso del secolo precedente. Esponenti del pensiero antiscolastico e antiaristotelico unirono le forze con gli esperti del diritto per promuovere una concezione dello stato improntata alla difesa delle prerogative sovrane contro le ingerenze ecclesiastiche. Il “processo agli ateisti” che si aprì nel 1688 e attraversò l‟ultimo decennio del secolo, pur colpendo direttamente solo esponenti di secondo piano della cultura filosofica e scientifica, ebbe una risonanza notevole. I giudici di fede avevano infatti organizzato un duro attacco contro l‟Accademia degli Investiganti, uno dei centri di aggregazione più importanti per gli uomini di cultura, suscitando vivaci reazioni di sdegno e riaprendo polemiche mai placate sulle procedure adottate dal temuto tribunale e sul suo ruolo nella vita del regno. Bisogna infatti ricordare che i vicari pro tempore della diocesi napoletana continuavano a coprire, ormai da quasi 150 anni, l‟incarico di commissari pontifici delegati al coordinamento dell‟attività inquisitoriale sull‟intero territorio dello stato. A differenza di quanto accadeva negli altri stati della penisola, i vescovi affiancavano alla loro giurisdizione ordinaria le funzioni dei celebri giudici di fede ed erano tenuti a rispondere del loro operato alla Congregazione romana del Sant‟Uffizio. Questo assetto anomalo della giustizia ecclesiastica generava numerose controversie, che si aggiungevano al più ampio fronte delle contese tra chiesa e stato. 102


Attraverso fonti edite e inedite (principalmente conservate nell‟Archivio del Sant‟Uffizio), ho ricostruito le dinamiche fondamentali dell‟attività giudiziaria dei vescovi del Regno di Napoli ponendo particolare attenzione ai conflitti fra il governo borbonico e le autorità ecclesiastiche dell‟anno 1746, che si risolsero con l‟abolizione delle procedure inquisitoriali, ma non misero fine alle numerose controversie generate dalla gestione delle cause “in materia di fede”, destinate a durare ancora per diversi decenni DOMENICO CECERE Cultura dei Lumi e controllo sociale Come nella gran parte degli Stati italiani, a partire dalla metà del XVIII secolo anche nel Regno di Napoli i ceti dirigenti avvertirono la necessità di nuovi strumenti di controllo sociale e dello spazio urbano, con particolare attenzione alle esigenze della popolosa capitale. Era diffusa la coscienza dell'inadeguatezza del sistema vigente, caratterizzato dall'estrema frammentazione delle giurisdizioni, che sovente si servivano di corpi legittimati all‟uso della forza, e fortemente compromesso dagli ampi margini di discrezionalità che lo sviluppo delle istituzioni e della cultura giuridica in età moderna avevano assegnato ai giudici. Sempre più diffusa era l'opinione che le principali minacce alla «tranquillità pubblica» venissero per lo più da quelle turbe di miserabili, sradicati, piccoli delinquenti che invadevano la scena urbana: a tali minacce non si poteva rimediare con i tradizionali strumenti della giustizia, improntati alla ricerca della mediazione, consolidatisi nei secoli in cui le maggiori insidie alla stabilità venivano dalla criminalità di stampo nobiliare. C'era bisogno di 103


soluzioni rapide, non delle lungaggini procedurali dei tribunali. Negli ultimi decenni del secolo il governo sperimentò nuove soluzioni per controllare lo spazio urbano, riorganizzandolo e avviando una distinzione tra le funzioni di “polizia” e quelle giudiziarie. La cultura illuministica italiana, e quella napoletana in particolare, s'interrogò a fondo sui problemi legati alla giustizia, soprattutto a quella penale, e alla sua amministrazione. Spesso le preoccupazioni da cui essa muoveva coincisero con quelle di uomini di governo: comune era la volontà di riformare la giustizia e di ridurla a norma dettata dal sovrano, così come la consapevolezza che la lentezza delle procedure era fonte di disordini e d'inefficacia del sistema penale. Questa parte della ricerca intende indagare le contraddizioni, e i conseguenti tentativi di mediazione, che spesso emergevano nel passaggio dalle enunciazioni di principio alla loro attuazione: era evidente, ad esempio, la difficoltà di conciliare gli ideali illuministici, intrisi di preoccupazioni umanitarie e spesso tendenti a porre un sicuro limite al diritto di punire, con la necessità di garantire il «buon ordine» e di sanzionare duramente ogni trasgressione ad esso. ALESSANDRO TUCCILLO «Della moderazione colla quale si dee far uso della pena di morte»: Filangieri critico di Beccaria L‟intervento si propone di esaminare la posizione di Gaetano Filangieri sulla pena di morte, provando a illustrare da questa particolare prospettiva il contributo teorico del philosophe napo104


letano al dibattito settecentesco sulla riforma della giustizia criminale. Nella Scienza della legislazione Filangieri dedicava alla questione due densi paragrafi del secondo tomo del terzo libro (1783), intitolato significativamente Dei delitti e delle pene. Il celebre trattato di Cesare Beccaria era dunque un riferimento privilegiato sin dal titolo, ma era ben lungi dal rappresentare un modello. Se infatti Filangieri condivideva la condanna della tortura e la concezione della pena come misura di prevenzione contro i crimini, argomentava allo stesso tempo una radicale confutazione del fondamento del diritto di punire proposto da Beccaria, giungendo a legittimare il potere del sovrano di infliggere la pena di morte. L‟argomento di Beccaria secondo cui la pena capitale non derivava da alcun diritto era definito un «sofisma», un «paralogisma», un‟«assurda opinione» da confutare minuziosamente al fine di persuadere della sua infondatezza il «gran numero di coloro che l‟hanno adottata». Per Filangieri tale pena derivava dalla cessione al sovrano del diritto – proprio di ogni individuo nello stato di natura – di uccidere coloro che avevano violato le leggi naturali commettendo un delitto degno della morte. Riaffermando un principio cardine del suo contrattualismo, Filangieri ribadiva in queste pagine che nello stato civile «non si è creato un nuovo dritto, ma si è reso sicuro l‟esercizio dell‟antico»: la pena di morte era dunque pienamente legittima, tuttavia bisognava bandirne gli abusi infliggendola soltanto agli assassini e ai traditori della patria.

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LOCALE E ISTITUZIONALE: PER UNA STORIA DELLE ISTITUZIONI IN ANTICO REGIME Coordinatore: Vittorio Tigrino Relatori: Vittorio Tigrino, Luca Giana, Matteo Giuli, Emanuele C. Colombo Il rapporto tra le istituzioni e lo spazio è il tema generale sul quale intendiamo confrontarci attraverso proposte di ricerca che hanno quale comune denominatore una scala analitica di indagine, e che intendono discutere i differenti approcci storiografici attraverso i quali ci si è accostati al tema. Tra di essi vi sono quegli esiti della microstoria italiana – poi sfociati nella proposta di una “nuova storia locale” – che per qualificare le relazioni tra istituzioni e gruppi sociali sul territorio non hanno insistito semplicemente sulla riduzione della scala di osservazione dei fenomeni, ma anche e soprattutto sulla loro contestualizzazione. Tali studi tuttavia non hanno incentrato il loro interesse sulle istituzioni, ma più specificamente sulle relazioni sociali: colpisce dunque, ed è stato infatti motivo di critica, il loro disinteresse nei confronti della durata di un‟istituzione, del suo valore sociale e delle sue variazioni nel tempo. Altre tradizioni storiografiche che invece hanno messo al centro dell‟attenzione proprio lo studio delle istituzioni, hanno spesso prediletto un‟analisi priva di riferimenti al contesto nel quale esse agiscono, e quindi alle tracce della stretta connessio-


ne tra gruppi sociali e configurazioni politiche. L‟analisi si è indirizzata piuttosto alle strategie di normazione attraverso le quali le istituzioni stesse sono costruite e si definiscono (statuti e dispositivi giuridici), producendo un‟immagine della società politica di Antico Regime più sintetica e meno frammentata, con il limite però di supporre che dalla teoria dell‟istituzione derivi di conseguenza un suo funzionamento pratico. Ciò è avvenuto persino nei casi in cui la categoria del conflitto è stata al centro dell‟analisi, perché l‟attenzione si è spostata in gran parte sulle discussioni dei giuristi, sulle formalizzazioni dei conflitti giurisdizionali e/o sulle norme che regolano la vita delle istituzioni. I casi studio che presentiamo partono dalla convinzione che l‟analisi delle istituzioni non si possa risolvere in una teoria descrittiva, ma necessiti di un modello che permetta di leggere il modo in cui esse si costruiscono in continuazione, utilizzando il proprio comportamento per definirsi. Essi sono dunque centrati sul legame tra le istituzioni, il loro agire sul territorio e gli esiti documentari di queste azioni. Esiti che sono oltremodo eterogenei, e che i documenti ci descrivono, interpretandoli, anche attraverso la struttura stessa degli archivi (la cui creazione è infatti parte essenziale di queste dinamiche). Ciò comporta una selezione e un‟analisi dei fondi documentari non più basata su criteri aprioristici di rilevanza, ma che attribuisca loro importanza a partire da qualità e quantità delle tracce lasciate dalle istituzioni. Si delineano dunque un contesto dinamico, configurazionale, ed un approccio prosopografico alla storia delle istituzioni. L‟ampio spettro di attività di specifiche istituzioni è così messo in connessione al contesto di produzione (e cioè a precisi riferimenti topografici) secondo una relazione di reciprocità: una ricostruzione che permette di cogliere i modi in cui le istituzioni 108


da un lato costruiscono il loro ambito di intervento, e dall‟altro il peso che ha in tale processo il contesto in cui esse operano. VITTORIO TIGRINO Giurisdizione, risorse e diritti collettivi: percorsi di produzione istituzionale in Antico Regime La ricerca è dedicata ai processi di costruzione di istituzioni territoriali che hanno origine da contenziosi sui diritti di accesso a beni e usi di natura collettiva, rivendicati da gruppi locali e possessori privati (particolari). L‟area oggetto dell‟analisi è l‟Alta Valle Sturla, zona appenninica della Repubblica di Genova sottoposta alla giurisdizione del Capitanato di Chiavari, dove non esistono ancora nel corso del Settecento comunità dai confini precisi, ma piuttosto aggregati che ruotano attorno a parrocchie, oratori, parentele, ville, la cui articolazione è estremamente frammentata proprio per la particolare estensione dei terreni comuni (comunaglie) indivisi tra tali soggetti. La conflittualità per l‟accesso alle risorse (comunaglie; sfruttamento delle acque) è motivo di una costante rielaborazione istituzionale, ed è alla base dei primi, tardi tentativi settecenteschi del governo genovese di dotare di un territorio “amministrativamente” definito i gruppi locali. Sul rapporto tra esercizio di diritti comuni, articolazione sociale delle collettività e rivendicazione di diritti di fruizione e proprietà anche da parte di soggetti privati si gioca la proiezione territoriale delle istituzioni locali, e la loro stessa esistenza. I dispositivi giuridici attivati variano in seguito alle reiterate sollecitazioni, e sembra infine prevalere la costruzione di istituzionali territoriali definite proprio sulla base della proprietà che i parti109


colari rivendicano: un episodio apparentemente inconsueto per l‟età moderna, dove una situazione che non è territoriale lo diventa sulla base di diritti personali. La ricerca si è avvalsa, oltre che di fonti documentarie e cartografiche, anche dei risultati di indagini archeologiche e di ecologia storica, che hanno permesso di ricostruire il sistema di controllo delle risorse da un punto di vista tecnico, e di comprendere meglio le controversie e gli oggetti che ne sono al centro, misurandone il valore economico, nella convinzione che l‟interazione tra fattori istituzionali, economici ed ecologici sia fitta, e decifrabile solo a un livello locale. LUCA GIANA Istituzioni e territorio nella Repubblica di Genova: il capitanato di Ovada nel Seicento Per definire che cosa sia un‟istituzione nel XVII secolo, come si costruisce, si legittima e si produce sono partito dalla ricostruzione della sua attività. La scelta è caduta su un Capitanato della Repubblica di Genova, quello di Ovada, istituito nel 1664. La ricostruzione del contesto documentario degli 11.000 processi istruiti nel corso del XVII secolo, la cui decifrazione è tutt‟altro che immediata, chiarisce perché gli archivi delle istituzioni in antico regime siano colmi di registrazioni di azioni apparentemente insignificanti. La costruzione della legittimità del potere attraverso la localizzazione delle azioni che l‟istituzione compie è la chiave di lettura con la quale analizzo le tracce documentarie conservate. Il tribunale, che aveva competenze in materia criminale e civile, si trova in un‟area nella quale non si riscontrano altre istitu110


zioni dipendenti dal centro. L‟area è priva di grandi città, di corti, e la stessa comunità locale (Ovada) è debole. Le produzioni legate al bosco, i traffici commerciali ed il transito delle carovane di mulattieri tra la Riviera e la pianura sono le risorse materiali attorno alle quali si articolano i conflitti locali, e con essi i progetti di dominio della Repubblica. La prospettiva che ho scelto permette di qualificare le azioni dell‟istituzione (il tribunale/la Repubblica) accogliendone tutto l‟ampio spettro, per interrogarle come se fossero le tessere di un mosaico: azioni differenti, talvolta persino incongruenti, disegnano progetti e strategie politiche. Tessera dopo tessera, azione dopo azione, viene coralmente plasmato un territorio sul quale il potere dell‟istituzione non è dato a priori. L‟attività del tribunale si configura così come un modo per attestare localmente diritti e prerogative e costruire un territorio nel quale veder riconosciuta la legittimità del proprio potere. Ciò che l‟archivio descrive è dunque una geografia dei diritti su un territorio in costante costruzione, che solo una prospettiva normativa può ritenere scontato. MATTEO GIULI Fisco e territorio nella repubblica di Lucca Tra il 1646 e il 1675 il governo di Lucca istituisce un importante processo di rimodellamento dei rapporti tra la città e le vicarie dello stato con l‟obiettivo di risanare la pesante situazione debitoria delle relative comunità di villaggio. Lo fa attraverso la creazione dell‟Offizio sopra i Disordini e la ridefinizione del ruolo fiscale dei deputati sopra le “rescossioni”, due istituzioni

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di governo gestite dall‟aristocrazia cittadina, la prima operante dal centro, la seconda direttamente in loco. L‟analisi della loro attività sul territorio è quindi decisiva per ricostruire le dinamiche di reciproco condizionamento tra Lucca e il suo contado a partire da metà Seicento, e per comprendere i rapporti politici, sociali ed economici che si instaurano tra la nobiltà urbana –i cui membri, nelle comunità locali, hanno spesso importanti interessi immobiliari e creditizi– e la popolazione rurale. Questa analisi intende problematizzare il tradizionale modello dei rapporti clientelari su cui la storiografia ha generalmente fondato la ricostruzione delle relazioni governanti-governati nella repubblica lucchese, valutando tali rapporti alla luce del fenomeno di penetrazione urbana nel contado come componente del più vasto processo di costruzione/affermazione di uno stato in epoca moderna (“territorialità”). L‟attività di queste due istituzioni riguarda peraltro territori già strutturati, dal basso e dall‟alto, a livello amministrativo, con tutti i contrasti di natura giurisdizionale che ne derivano. Si tratta di una situazione che complica tale processo di penetrazione del potere urbano e che può essere strumentalizzata dagli stessi debitori per evitare/ritardare le ingiunzioni di pagamento. Di fronte a tutto ciò l‟intervento di queste due istituzioni si manifesta attraverso una modulazione elastica tra esazione e tutela, decretando così l‟affermazione del paternalismo politico e della “misura di polizia” (l‟adeguamento contingente della norma alla realtà), due princìpi amministrativi che fanno parte dello stesso modello gestionale di stato.

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EMANUELE C. COLOMBO Agricoltura, giurisdizione, "comunità" Il lavoro analizza il rapporto tra grandi proprietà agricole (nobiliari ed ecclesiastiche) e costruzione della giurisdizione locale. I territori prescelti per l'analisi sono la Lombardia spagnola e il Ducato farnesiano di Piacenza. Il tema della "grangia" è declinato soprattutto attraverso i concetti di esenzione e immunitas: la liberazione dai carichi fiscali e dagli alloggiamenti crea spazi locali specifici con loro regole (giurisdizioni private, ad esempio). Spesso queste formazioni sono chiamate anche "cassine". Questo lavoro intende mostrare che con il termine si deve intendere un'unità tanto produttiva quanto giurisdizionale e fiscale a sé stante. Le modalità della genesi della "cassina" avvengono spesso per separazione da una precedente comunità, un processo che si realizza in particolare nel Seicento. Ciò provoca una segmentazione considerevole dello spazio politico, con una progressiva frantumazione della forma "comunità". Lo scopo di questo studio è dunque quello di riflettere sul concetto di "comunità" facendo notare come i processi della sua costruzione siano costanti. La critica è al concetto organicistico di "comune rurale", la cui formazione si riteneva confinata al periodo medioevale. La chiave della riflessione è da individuarsi piuttosto in un ragionamento di storia della proprietà, e nella protezione che di questa proprietà è possibile fare. Di conseguenza, si vuole mostrare come la costruzione dello spazio locale sia affidata ad una pluralità di soggetti capaci di creare giurisdizione frantumando la comunità per motivi fiscali. 113


In particolare, la costruzione di una proprietà sul territorio può portare alla formazione di una "cassina", cioè di un'entità dotata di una sua quota d'estimo separata.

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PICCOLO STATO, PICCOLI STATI: GENESI, STRUTTURE ISTITUZIONALI, ECONOMIA E RELAZIONI INTERNAZIONALI DELLE REALTÀ REGIONALI ITALIANE D‟ANTICO REGIME Coordinatrice: Blythe Alice Raviola Relatori: Blythe Alice Raviola, Federica Cengarle, Matteo Di Tullio, Paolo Calcagno, Claudio Mattalena, Luca Porto L‟attenzione per le entità statuali della penisola in età moderna è un caposaldo della storiografia italiana degli anni Settanta, a partire dai lavori di E. Fasano Guarini e dagli interrogativi seminali di G. Chittolini. Ripreso a intermittenza e con studi ora tarati in ambito locale ora specificamente dedicati a singoli aspetti delle formazioni regionali (la costruzione dinastica, gli sviluppi socio-economici, gli enti ecclesiastici, i rapporti con la Riforma, etc.), il tema gode tuttavia di una sua intima vitalità, alimentata dall‟intensificarsi delle ricerche d‟archivio su ambiti finora poco esplorati (i feudi imperiali, per esempio, le enclaves pontificie, i micro-stati di frontiera) e dall‟intreccio tra prospettiva interna e risvolti internazionali. La letteratura sulle strategie dinastiche e sulle élites di potere, o le indagini sulla gestione delle risorse e il controllo delle finanze fra Cinque e Settecento, hanno così favorito tanto la comprensione di dinamiche interne alla penisola quali la sopravvivenza di stati ridotti per estensione, ma funzionali e capaci dal punto di vista diplomatico – la Repubblica di Lucca, i domini gonzagheschi, il principato di Massa…- quanto l‟estensione delle problematiche aperte alle relazioni con la Spa-


gna e soprattutto con l‟Impero, oggi al centro di una vera e propria riscoperta storiografica. La nostra proposta intende offrire uno sguardo trasversale e aggiornato alle questioni appena enucleate, avendo come bacino d‟interesse l‟area settentrionale della penisola e come obiettivo il dialogo multidisciplinare tra giovani ricercatori di varia formazione. Innanzitutto, scardinando la consueta ripartizione cronologica, lo spazio milanese è osservato a partire dalla metà del XV secolo, momento fondante dei futuri equilibri ducali e dell‟affermazione dei maggiori centri urbani quali motori dell‟economia rurale e protoindustriale di zona. In secondo luogo, muovendoci fra la costa e l‟Appennino ligure e la piana del Po, poniamo in evidenza un‟area a elevatissima frammentazione statuale che ha stimolato e ancora stimola riflessioni sul concetto stesso di piccolo stato e/o di regione storica, nonché sui rapporti fra Madrid, Vienna e l‟Italia (il marchesato di Finale, la Lombardia, il Monferrato, il ducato di Parma e Piacenza ebbero tutti a confrontarsi con i due rami asburgici oltre che, naturalmente, con la Francia). Attraverso fonti di natura comunale, istituzionale, giuridico-economica e diplomatica, si disegna un quadro mosso, diacronico e possibilmente utile anche al dibattito sui processi di accorpamento territoriale pre e post-unitari. Inoltre, il ricorso a fondi cartografici con cui la maggior parte dei membri del gruppo è solita confrontarsi in linea con le recenti aperture al problema delle frontiere (terrestri, marittime, fluviali, interne…), rende i fenomeni di osmosi o separazione fra gli stati e le regioni in oggetto ancora più evidenti, aprendo ulteriori scenari di collaborazione fra le discipline storiche.

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BLYTHE ALICE RAVIOLA FEDERICA CENGARLE Il piccolo stato tra XIV e XV secolo Nel corso del XIV secolo, l‟Italia centro-settentrionale fu teatro di scontri continui. Le lotte interne alle città, l‟estromissione dall‟ambiente urbano degli elementi di spicco ora dell‟una, ora dell‟altra parte, il legarsi di questi conflitti locali alla contrapposizione tra il papato avignonese e l‟impero e, non ultime, le crescenti ambizioni degli Angioini e di alcuni signori cittadini (gli Scaligeri prima, i Visconti poi) ad espandere il loro potere e la propria influenza generarono uno stato di guerra permanente. In questi anni di grande instabilità politica e militare, riuscirono a consolidare o ad accrescere la propria autonomia politica quei piccoli signori che, soprattutto - ma non solo - nelle areedell‟appennino tosco-emiliano, vantando ora la lunga consuetudine, ora privilegi imperiali e pontifici, esercitavano un potere diretto sugli homines. Essi erano infatti in grado di raccogliere attorno al proprio castello un numero cospicui di fideles e di mettersi al servizio ora all‟uno ora all‟altro degli attori politici eminenti, mettendo a loro disposizione anche le proprie reti di relazioni (gli amici, le parentele) tanto in ambiente rurale quanto in ambiente urbano. Alcune di queste formazioni signorili, che per qualche tempo rivendicarono con successo una propria autonomia, coltivando legami con le circostanti potenze grosse e organizzando, ad immagine di queste, apparati amministrativi, fiscali e giudiziari, sono state annoverate dalla storiografia più recente tra i «piccoli stati». Verso la metà del XV secolo, però, l‟emergere di assetti territoriali e politici più stabili determinò in molti casi il declino del potere contrattuale di signori come i Rossi, i Pallavicini etc. 117


Solo i «piccoli stati» dei Pio, dei Pico, dei da Correggio e di pochi altri riuscirono a sopravvivere alla pace di Lodi e alla lega Italica. E non sempre per molto: i Pio di Carpi, ad esempio, videro tramontare definitivamente la loro parabola di autonomia proprio durante le guerre d‟Italia, quando altri piccoli signori, approfittando del nuovo stato di incertezza, risollevarono la testa e tentarono un‟affermazione politica autonoma nello scacchiere peninsulare. MATTEO DI TULLIO Alle frontiere dello stato di Milano: la Geradadda nel Cinquecento La proposta intende analizzare il processo di formazione statale in Lombardia guardando dalla periferia e concentrandosi su un periodo di crisi economica e politica. In specifico si analizzerà una regione di frontiera, la Geradadda, analizzando il rapporto tra centro e periferia nelle varie fasi caratterizzanti il Cinquecento, dal turbolento periodo delle guerre d‟Italia, con il conseguente cambio di dominazioni e la crisi socioeconomica, e la fase della prima Lombardia spagnola, caratterizzata tra l‟altro dalla nascita delle congregazioni di contado. La Geradadda è una storica regione di frontiera tra stato di Milano e Serenissima, collocata sulla linea delle risorgive tra i corsi dei fiumi Adda e Serio. Il distretto, caratterizzato da un‟eterogeneità, sia in termini morfologici, sia per la dimensione e il ruolo economico delle varie località, trova un elemento d‟omogeneità nella capacità, e possibilità, d‟azione politica che caratterizzava molte delle comunità che la componevano. Basti ricordare che la particolare posizione geografica, strategica nei transiti est-ovest e nord-sud, e l‟incapacità delle città che la cir118


condavano di porvi un dominio compiuto, favorirono nel tempo una serie di prerogative giurisdizionali, fiscali e commerciali, che la posero quasi come una provincia a sé. Di fatti il distretto era caratterizzato da una florida attività agricola, aderente ai caratteri dell‟agricoltura irrigua lombarda, da un discreto settore manifatturiero e che si poneva come crocevia commerciale fra i distretti economici della Lombardia veneta e dello stato di Milano, oltre che come importante passaggio per la transumanza dei bergamini. In particolare ci si soffermerà sull‟analisi della fiscalità e delle finanze locali, temi non secondari nello stabilire il rapporto centro-periferia e nel definire gli assetti istituzionali di un territorio. PAOLO CALCAGNO Il Marchesato del Finale, un piccolo Stato fra interessi genovesi e imperialismo asburgico Dopo la lunga dominazione medievale dei marchesi Del Carretto, il feudo del Finale diventò nel Cinquecento una preda ambita da diversi Principi europei. In particolare, a mettere gli occhi sul Marchesato fu la Spagna, che per i collegamenti con il Ducato di Milano dipendeva dalla disponibilità di Genova a concedere il proprio porto o gli altri approdi del suo Dominio. Nei piani degli spagnoli il piccolo Stato finalese sarebbe diventato l‟anello “ligure” del cosiddetto camino español, che collegava la Catalogna ai teatri di guerra europei. L‟occupazione militare fu messa in atto nel 1571: da quel momento gli spagnoli assunsero il comando della guarnigione, mettendo un atto un governo del territorio capace di soddisfare le esigenze dell‟élite ma non al119


trettanto attento alle condizioni dei ceti medio-bassi, gravati da una fiscalità diretta opprimente e dal peso costante degli alloggiamenti militari. Il possesso spagnolo del Finale contribuì a incrinare i rapporti con la Repubblica di Genova. Questo microstato di frontiera spezzava di netto il Dominio genovese nella Riviera di ponente, minando il monopolio della vendita del sale in Liguria e quello del commercio con le regioni del Piemonte e del Monferrato. Il danno non era solo economico, ma anche fiscale - per il mancato introito di tutte le merci in entrata e in uscita dal Marchesato - e giurisdizionale - perché si trattava di rivendicare il dominio sul mar Ligure. In ogni caso, per tutto il corso del XVII secolo questa piccola enclave marittima si trovò stretta fra gli interessi strategicologistici della Spagna e gli interessi dello Stato genovese, e divenne la pedina di un lungo contenzioso che ebbe per protagonisti – oltre alla Monarchia e alla Repubblica di San Giorgio anche la Francia (che non lesinava periodici attacchi dai confini dell‟alleato sabaudo) e l‟Impero (che restava pur sempre il detentore ultimo del feudo). Fra la metà del Cinquecento e i primi del Settecento il Finale si trovò quindi proiettato sul palcoscenico politico-diplomatico internazionale, a tutti gli effetti parte integrante del «sistema imperiale» spagnolo. CLAUDIO MADDALENA Parma e Piacenza: un piccolo stato e l'onere di due dinastie straniere La storia dei ducati di Parma e Piacenza presenta alcune caratteristiche peculiari che ne contraddistinsero l‟esperienza di piccolo stato dell‟area padana in età moderna. Il mio intervento punta a sottolineare questi aspetti per proporre una riflessione 120


complessiva sul caso parmense che contribuisca alle tematiche generali poste nel nostro panel attraverso un confronto multidisciplinare con i colleghi che vi partecipano. I ducati di Parma e Piacenza, in modo senza dubbio più significativo rispetto ad altre realtà statuali italiane, sperimentarono la difficoltà di conciliare i disegni politico-dinastici della famiglia regnante con i limitati mezzi diplomatici, militari, economici e finanziari disponibili sul territorio. Questo problema fu elemento distintivo della storia di questi stati fra il XVI e il XVIII secolo e si ripresentò in forme e modi differenti per ben due volte, con i Farnese prima e i Borbone dopo. Inoltre, evento piuttosto raro per i piccoli stati dell‟Italia settentrionale, in entrambe le occasioni i ducati furono destinati per equilibri internazionali a famiglie principesche o regali di alto rango ma prive di pregressi legami politici ed economici con il territorio, la nobiltà locale e le istituzioni cittadine. Questa situazione caratterizzò in modo peculiare i processi di radicamento territoriale delle due dinastie e impose loro di mettere in atto adeguate strategie nei confronti delle élite locali. La questione implica, a livello interpretativo, rilevanti riflessi nel campo della finanza pubblica, dei rapporti tra magistrature cittadine e istituzioni statali, delle strategie diplomatiche e dei rapporti internazionali. In questo senso assumono particolare rilievo altri due aspetti: da un lato la realtà composita del territorio ducale, con diverse enclave signorili e la presenza di due città capitali, dall‟altro lato la ramificazione degli interessi privati e pubblici di Farnese e Borbone che conservarono a lungo legami finanziari, dinastici e politici con stati e corone straniere attraverso la titolarità di rendite e onori. Il mio intervento punta a mettere in luce questi diversi aspetti analizzando continuità e

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discontinuità nelle dominazioni farnesiana e borbonica tra la seconda metà del ‟500 e la seconda metà del ‟700. LUCA PORTO Spazi gonzagheschi e interessi internazionali fra Sei e Settecento Il ducato di Mantova costruisce la sua fortuna sull‟importanza strategica della sua ubicazione; non a caso esso è oggetto dell‟interesse delle grandi potenze che ne cercano l‟alleanza e che infine si scontrano per ottenerne il controllo quando nel 1627 la linea diretta dei Gonzaga si estingue con Vincenzo II. Le terre del ducato, Mantovano e Monferrato, situati uno a ovest e l‟altro a est dello Stato di Milano, favoriscono infatti il controllo dei movimenti militari nella pianura Padana, permettendo da un lato la discesa di forze alleate e impedendo dall‟altro la calata di truppe ostili. Tale condizione attira quindi gli interessi dei due principali contendenti in suolo italiano, Francia e Spagna, nonché quelli dell‟Impero e di Venezia. L‟ascesa al trono nel „28 di Carlo Gonzaga Nevers, filofrancese, pone Mantova ai margini della grande politica internazionale e il disinteresse del duca per l‟attività di governo offre la possibilità al ceto dirigente locale di utilizzare a fini particolari l‟amministrazione del ducato. Tuttavia l‟interesse delle grandi potenze rimane vivo e con la guerra di successione spagnola il Mantovano è teatro di operazioni militari. Nel 1707, con la caduta dell‟ultimo Gonzaga Ferdinando Carlo, il ducato torna nell‟orbita asburgica. Il sovrano è sostituito da un amministratore cesareo, ma il ducato mantiene una sua autonomia amministrativa rispetto a Milano fino al „37 quando, con la nomina di un governatore unico per la Lombardia nella persona del conte 122


Ottone Ferdinando di Traun, il Mantovano viene sottoposto al Milanese. Quest‟ulteriore trasformazione riqualifica definitivamente il ducato come ente periferico. Nell‟ampia parabola che esso attraversa, il momento di svolta compreso tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento rappresenta un interessate osservatorio per lo studio del legame tra politica locale ed equilibri internazionali. L‟analisi dei cambiamenti nella diplomazia del ducato al momento del passaggio dal dominio, seppur indiretto, francese al più diretto dominio austriaco può fornire un quadro efficace di come e con quali risultati le politiche internazionali incidessero sul territorio italiano, evidenziando il legame che univa le grandi potenze ai territori sottoposti, pedine ma anche elementi indispensabili per la realizzazione dei progetti delle corone europee.

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CONFLITTI, NEGOZIAZIONI, APPARTENENZE IN ETÀ MODERNA Coordinatori: Maria Angela Caffio, Antonio Mele Relatori: Carlo Baja Guarienti, Antonio Mele, Giacomo Polignano, Matteo Provasi Per tutto il corso dell‟età moderna, all‟ombra di un diffuso pluralismo istituzionale e giurisdizionale, centri e periferie degli antichi Stati italiani (al pari di altre aree europee) sono stati interessati da una vivace dialettica politica, in cui individui e gruppi, socialmente eterogenei e difficilmente riconducibili a rigide categorie classificatorie predefinite, avrebbero interagito tra loro e con le autorità di governo (locali e centrali) per ricontrattare ruoli e ranghi di potere e rilegittimare forme di controllo e di uso del territorio. L‟oggetto d‟analisi attorno a cui ruotano i cinque interventi di questo panel sono appunto gli spazi, i modi, i tempi in cui si sviluppa tale dialettica, insieme politica e sociale, a volte generatrice di dinamiche violentemente conflittuali, suscettibili di sfociare in vere e proprie rotture rivoluzionarie, altre volte capace di soluzioni compromissorie, raggiungibili attraverso pratiche di negoziazione e di concertazione; e, comunque, nell‟uno e nell‟altro caso, mirata a ridefinire il perimetro della legittimità politica e, al suo interno, ruoli sociali, prerogative giurisdizionali, gerarchie di potere. In un‟ottica comparata di largo respiro, sia sotto il profilo cronologico (dalla prima età moderna alla prima metà


dell‟Ottocento) che geografico (dal Regno di Napoli alle province meridionali della Francia, passando per ducati regionali padani ed aree pontificie dell‟Italia centro-settentrionale, con qualche possibile propaggine nella Provenza francese) si proverà, così, ad analizzare i simboli, i rituali, i linguaggi, le pratiche comportamentali di volta in volta sperimentati nel vivo della vivace dialettica politica e generatori di giochi di appartenenze diverse in cui riconoscersi e farsi pubblicamente riconoscere. I processi di costruzione e di ridefinizione delle appartenenze politiche e sociali si rivelano quanto mai flessibili, facili a rimescolamenti e sovrapposizioni, ma, in ogni caso, capaci di agire come strategie efficaci di contrattazione, negoziazione e, in alcuni casi, di rottura e, dunque, di delegittimazione di equilibri di potere preesistenti. Così, che riproduca o rinnovi i meccanismi delle attestazioni di fedeltà ed obbedienza dinastica o si muova negli interstizi appositamente lasciati vacanti tra ciò che è dichiarato giuridicamente legittimo e ciò che è legittimato dal fatto e dalla consuetudine; che disegni trame relazionali clientelari o sperimenti la militanza in reti associative inter pares; che si serva della rivolta e dell‟uso della violenza come strumenti di negoziazione non delegittimanti o, al contrario, si spinga oltre la soglia di una rottura rivoluzionaria contro pregressi equilibri di potere, la dialettica socio-politica a più voci tra centri e periferie, gruppi di pressione locali ed una pluralità variabile di interlocutori istituzionali e governativi è analizzata tanto in momenti politici di svolta (cambiamenti dinastici o fratture costituzionali, stagioni di radicali riforme istituzionali), quanto nelle più lunghe e meno eclatanti fasi di lotta ordinaria. Gli uni e gli altri momenti risultano ugualmente importanti ed imprescindibili per chiarire l‟intreccio tra tradizione ed innovazione che ha accompagnato i 126


processi di costruzione e rimaneggiamento delle appartenenze e con essi ha determinato una ridefinizione di ruoli sociali, gerarchie di potere, competenze giurisdizionali, quote di sovranità per tutto il corso dell‟età moderna (e forse anche oltre). CARLO BAJA GUARIENTI Potere centrale e poteri locali: negoziazione e conflitto a Reggio nel Cinquecento. La discesa di Carlo VIII in Italia segna nel 1494 l‟inizio di una stagione di conflitti il cui esito finale sarà – come è noto – l'affermarsi del potere asburgico in Italia. Il disgregarsi della costellazione di formazioni statali formatasi nella prima metà del Quattrocento fornisce ai principi italiani l'occasione per ridisegnare i confini fissati dalla pace di Lodi e, allo stesso tempo, alle élites locali il pretesto per rinegoziare il proprio ruolo politico. Un caso di studio particolarmente interessante per comprendere la dialettica fra potere centrale e poteri locali è il decennio di governo papale a Reggio, territorio sottratto ai duchi di Ferrara nel 1512 e riconquistato da Alfonso I d'Este nel 1523. Con l'arrivo di Francesco Guicciardini, governatore della città dal 1517, questa dialettica assume l'aspetto di un conflitto fra due forme di potere diametralmente opposte: da un lato l'umanista fiorentino, teorico della scienza politica e portatore di una cultura centripeta e aristocratica, dall'altro il popolano Domenico de' Bretti, capo carismatico della fazione ghibellina nella montagna reggiana, la cui leadership appare fondata su un intreccio di relazioni famigliari, esercizio della violenza e affermazione della legittimità di tendenze centrifughe. Allo stesso modo, l'epistolario di Guicciardini e le parole di Domenico (testimoniate da 127


frammenti di lettere e da testimonianze coeve) rappresentano due fonti dissimili e complementari: da una parte la corrispondenza di un ufficiale di governo, dall'altra una di quelle voci popolari non filtrate di cui Marino Berengo lamentava la mancanza per il territorio lucchese. Lo studio di questo confronto, in un'alternanza di dialogo e scontro dettata dal variare del contesto politico e delle sorti della guerra, permette di misurare la distanza fra poteri e, più in generale, fra culture costrette a coesistere e a negoziare attraverso il linguaggio della violenza il proprio peso nel governo di un territorio di confine. ANTONIO MELE Conflitto europeo e identità aristocratica: la grande nobiltà napoletana nell‟età delle guerre di successione Tra lo scoppio della guerra di successione spagnola e la conquista del regno di Napoli da parte di Carlo III di Borbone, la grande aristocrazia napoletana – per ben due secoli stabilmente integrata nel sistema di fedeltà che faceva capo alla corte degli Austrias – dovette confrontarsi con un lungo periodo di instabilità dinastica, nel quale fu chiamata a compiere scelte cariche, al contempo, di opportunità e di rischi. Entrambi i pretendenti al trono di Madrid cercarono di attrarla nel proprio campo attraverso la concessione o la promessa di generose gratificazioni materiali e simboliche; tuttavia è ancora in gran parte da analizzare il linguaggio politico sulla base del quale si sviluppò, in questa fase, il rapporto tra essi e l‟élite regnicola. Il presente contributo mirerà, dunque, innanzitutto a definire le categorie culturali cui tale linguaggio alludeva, riser128


vando particolare attenzione a quelle maggiormente utilizzate dai due contendenti per disegnare a proprio vantaggio il perimetro della legittimità e rafforzare il sentimento di appartenenza dinastica di individui e casati nobili. In seconda battuta, mediante il riferimento ad alcuni concreti casi di studio, il piano dei discorsi sarà posto a confronto con quello delle pratiche. Proveremo infatti a verificare in che misura – in un contesto dominato da un conflitto insieme dinastico, nazionale e civile – la proposta identitaria che proveniva da monarchi dalla legittimazione tanto contestata e dal potere tanto precario fu effettivamente capace di orientare i sistemi di decisione e i comportamenti politici della maggiore aristocrazia napoletana, ponendosi – a seconda dei casi e dell‟evolversi degli eventi – in accordo o in dialettica con altre fondamentali dimensioni dell‟appartenenza e della fedeltà aristocratiche: quella familiare (nei suoi aspetti tanto economici, quanto politici e di status) e quella “nazionale”, interessata dal confronto tra aspirazioni ad un regno indipendente e tenace attaccamento alla tradizione politica della Napoli spagnola. GIACOMO POLIGNANO Il territorio e i poteri. Conflitti per l‟uso dello spazio nella Puglia agro-pastorale di età moderna In età moderna, il potere legale di classificare e regolamentare lo spazio è ripartito disorganicamente fra i diversi corpi che compongono l‟apparato amministrativo pubblico. Questi, a loro volta, lo esercitano in concorrenza con una moltitudine di soggetti istituzionali che trovano fuori dello Stato il proprio fondamento giuridico e che, il più delle volte, utilizzano il fatto com129


piuto come strumento di alterazione dei quadri normativi. La costruzione del territorio scaturisce, quindi, da processi decisionali pluralistici e sempre aperti, nel corso dei quali i conflitti si alternano ai tentativi di concertazione ed ogni prova scritta di legittimità può essere revocata in dubbio mediante il richiamo a pratiche consuetudinarie o a fonti di diritto alternative. In un‟area come la Puglia centro-settentrionale, dove enormi porzioni di suolo sono sottoposte al diretto controllo della Dogana delle Pecore e una robusta armatura urbana sottrae al campo della feudalità ambiti significativi di giurisdizione, tali processi raggiungono livelli di particolare complessità. Lo dimostra il caso di Barletta, universitas regia della Terra di Bari dotata di vasti possedimenti a cavallo dell‟ultimo tratto del fiume Ofanto e di un porto granario fra i più importanti del Regno di Napoli. Qui, in un contesto socio-economico vivace e attraversato da imponenti flussi mercantili, la configurazione giuridicamente eterogenea dello spazio rurale – che ingloba terre della Corona e terre su cui rivendicano diritti i poteri locali – e la notevole densità del tessuto istituzionale (sia nella sfera laica, sia in quella ecclesiastica) determinano una condizione di conflittualità territoriale diffusa, che rientra solo in parte nelle forme di antagonismo agro-pastorale tipiche dei sistemi di transumanza. Emerge, al contrario, l‟esistenza di dialettiche sociali articolate, che spezzano la compattezza di ceti, corporazioni e istituzioni, producono solidarietà e alleanze trasversali e, sovente, vanificano le pretese di normazione degli apparati pubblici.

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MATTEO PROVASI Tra rivolta e consenso. La costruzione del patto politico nella prima Età moderna Nel patrimonio culturale dei popoli europei d‟antico regime sembra naturalmente iscritto il carattere della sudditanza, dell‟obbedienza, della fascinazione nei confronti del sovrano, identificato come garante della giustizia ed espressione tutelare del bene comune. Riconosciamo infatti un accordo segreto e implicito, ma profondo e resistente, che lega la figura del governante a quella dei governati. Un patto morale, ancorché non scritto, che ha condizionato per secoli l‟agire politico, e la costruzione stessa di identità collettive. La rivolta, più di ogni altra manifestazione di interazione tra interlocutori politici, è lo spazio entro cui possiamo individuare i presupposti – soprattutto psicologici – del patto, misurandone la tenuta o gli impercettibili aggiustamenti. Naturalmente ricadono sotto la categoria concettuale di rivolta gradazioni anche molto diverse dello stesso tema: dal malcontento latente al dissenso platealmente esibito; dalla disobbedienza passiva alle manifeste forme di ribellione. Ognuna di queste sfaccettature si gioca però sul medesimo delicato equilibrio tra conflitto e compromesso. La rivolta come strumento di negoziazione del consenso è stata indagata soprattutto in area anglossassone. In occasione di fasi critiche di conflitto con le istituzioni, spesso le classi popolari inglesi del Settecento tendevano a salvaguardare l‟autorità sovrana da accuse, proteste, tumulti, facendo piuttosto ricadere le colpe sui poteri intermedi, esecutori delle riforme e portatori di novità. Tale chiave di lettura «legittimista» è stata in parte accolta dalla storiografia italiana, e adattata con successo soprat131


tutto all‟analisi dei moti meridionali, antinobiliari e antispagnoli, degli anni Quaranta del XVII secolo. Crediamo che l‟esercizio possa essere tentato anche per sistemi di governo meno conformati, quali le signorie italiane del Rinascimento. Spostando dunque l‟angolo visuale dal tempo di piena affermazione del cosiddetto «Stato moderno», confessionale e/o assoluto, all‟età ambigua di trapasso dai particolarismi medievali all‟autorità moderna, intesa ancora nella sua esclusiva connotazione personalistica. Alcune esperienze signorili, in particolare Este e Gonzaga, costituiranno il nostro laboratorio privilegiato.

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LA COMPLESSITÀ DI MARTE. PERCORSI DI RICERCA E LINEE DI INDAGINE SULLA STORIA DEL “MILITARE” IN ETÀ MODERNA Coordinatore: Alessandro Buono Relatori: Valentina Favarò, Manuel Lomas, Gianclaudio Civale, Alessandro Buono La storia militare ha raggiunto negli ultimi anni, dopo una lunga fase di diffidenza, un‟affermazione anche nell‟ambito accademico. A testimoniarlo sta il deciso interesse per i temi di storia del e sul “militare” – inteso come fenomeno complesso e centrale dei secoli dell‟antico regime – manifestato da molti giovani studiosi i quali, nelle loro ricerche dottorali e più in generale nei loro studi più recenti, si sono dedicati ad indagarne le varie sfaccettature. La versatilità del nuovo approccio, quale è stato sviluppato dalla storiografia attuale, ha permesso di intraprendere molteplici percorsi di ricerca, che hanno adottato la tematica militare come prisma attraverso il quale indagare la società, l‟economia, la cultura, le istituzioni dell‟antico regime, senza trascurare l‟aspetto centrale dell‟esercizio della violenza e della guerra. La nostra proposta intende quindi mettere in risalto tale ricchezza interpretativa e metodologica, di fonti utilizzate e di temi studiati. L‟ambito sul quale insisteranno gli interventi sarà quello del cosiddetto sistema imperiale spagnolo, con particolare attenzione alle sue articolazioni italiane. L‟individuazione di modelli militari, teorici ed organizzativi, e


la loro circolazione all‟interno della composita monarchia spagnola, consentirà di analizzare il problema difensivo come fenomeno globale della monarchia, all‟interno del quale è possibile individuare sia percorsi strategici – quali per esempio l‟uso delle galere come elemento fondativo della salvaguardia dell‟unità imperiale – sia elementi volti alla costruzione ideologica imperiale, quali il ruolo della religione e delle pratiche devozionali tra le fila degli eserciti. Le strutture militari saranno inoltre analizzate nelle loro ricadute sulla società, sulle istituzioni politiche e sulla distribuzione del potere, nella loro duplice valenza di strumento di controllo del territorio e di cooptazione e negoziazione con le realtà locali. La proposta intende, quindi, indicare un ideale percorso di riflessione sulla definizione e la pratica di aspetti salienti della vita e dell‟organizzazione militare di ancient régime, nel tentativo di mantenere una coesione interna ai differenti interventi attraverso il ragionamento comune attorno al tema della circolazione dei modelli e della loro ricezione all‟interno dello spazio dinastico asburgico. VALENTINA FAVARÒ La difesa della Monarchia asburgica come fenomeno sistemico Recenti studi sono stati dedicati all‟analisi delle forze politicomilitari che caratterizzarono la Monarchia spagnola della prima età moderna. Il risultato di questo filone di ricerca è una visione più complessa del rapporto fra potere centrale e governatori locali, una “visione sistemica”, all‟interno della quale le singole componenti periferiche appaiono rivestire un ruolo di grande rilievo per la costruzione di una realtà politica tutt‟altro che de134


finita e cristallizzata. Ciò emerge con maggior vigore se si analizza il problema difensivo della Monarchia asburgica come fenomeno globale e nell‟intero suo complesso: il processo che portò alla costruzione di “frontiere”, statiche e mobili – necessarie per fronteggiare possibili incursioni esterne – determinò lo sviluppo di una identità (culturale, religiosa, politica) che si dipanò fra i diversi territori grazie alla circolazione di modelli strategici, chiara espressione della volontà del monarca. Ma se da un lato il parallelo che è possibile istituire fra le organizzazioni militari delle province della monarchia consente di cogliere un‟uniformità dei criteri ispiratori, dall‟altro evidenzia la ricerca della formula più adatta ad ogni specifica realtà; non si tratta soltanto di rispettare le prerogative istituzionali di ciascun corpo territoriale, come ad esempio delle città, ma anche di saper interpretare un sentimento di fedeltà alla corona, non della sola aristocrazia, che si esprime innanzitutto nel campo delle prestazioni militari. In sintesi, l‟uso della sfera militare come osservatorio privilegiato delle eterogenee realtà – politiche, fiscali, sociali – delle componenti della monarchia asburgica permette di individuare nella costruzione di una difesa dal comune nemico la relativa unità imperiale. MANUEL LOMAS Defensa de la Monarquía y comunicación entre las provincias: las galeras al servicio del rey El predominio político de los Austrias en el Mediterráneo occidental estuvo condicionado por la necesidad de articular una comunicación fluida entre los diferentes territorios que componían su imperio. Las escuadras de galeras cumplirían en este 135


sentido un papel fundamental, al convertirse en un poderoso vehículo no sólo para la trasmisión de la política hispánica, sino también para el intercambio de personas, dinero, objetos y conceptos. Al mismo tiempo, las galeras constituyeron un espacio propio, flotante y dotado de una gran movilidad, con problemas e intereses particulares. En ellas y entre ellas se desarrollaron rencillas personales, nacieron y se ahogaron ambiciones políticas y, como en pocos espacios, se pudo contemplar la mudanza del tiempo. Las galeras fueron un medio muy sensible a los vaivenes de la política y la economía de reyes y príncipes, e incluso de la demografía y los ciclos agrarios, por el elevado coste de su financiación y por la densa población que albergaba bajo sus velas. El estudio de las escuadras de galeras ofrece así al investigador una herramienta útil para el análisis de los diferentes lazos y dependencias que se establecieron entre las diversas orillas del Mediterráneo en la Edad Moderna. GIANCLAUDIO CIVALE Disciplina dei soldati e catechesi negli eserciti delle guerre di religione Il recupero del tradizionale ideale crociato, a partire dal pontificato di Pio V (1565-1572) si innestò sul più generale imperativo della Chiesa cattolica di fissare un regime di vita cristiano in cui la religiosità collettiva ed individuale fosse regolata da norme di austera moralità e assoluto rispetto per l‟ordine sociale ed ecclesiastico costituito. Nell‟articolazione di questo progetto di società cristiana rigidamente sorvegliata, si venne così a delineare il nuovo modello teorico di “soldato christiano”, destinato a sostituire la figura del cavaliere crociato, attraverso un insegna136


mento improntato all‟etica del servizio ed alla definizione di una spiritualità disciplinata e accessibile, lontana da archetipi eroici ed aristocratici. L‟elaborazione di questo teorema rifletteva in maniera palese la suggestione che il cattolicesimo militante iberico e l‟organizzazione militare spagnola esercitava sulla Chiesa postridentina. I valori e lo spirito di corpo che avevano permesso ai fanti spagnoli di affermare la propria supremazia in Europa venivano rielaborati e ripresi dal papato per favorire il rilancio cattolico nei molteplici campi di battaglia delle guerre di religione. Nel tentativo di riforma religiosa della disciplina militare si distinse soprattutto la Compagnia di Gesù che, sin dalla propria nascita, tante affinità aveva avuto con il mondo delle armi. Dall‟apparizione nel 1568 del Pedagogue d‟armes di Emond Auger e soprattutto da quella, l‟anno seguente, del trattato sul Soldato christiano, scritto da Antonio Possevino, una generazione di padri gesuitici, soprattutto di origine spagnola, si cimentò nella redazione di trattati teologici, catechismi e confessionari specifici per soldati (Ribadeneira 1587, Francisco Antonio 1590, Sailly 1590). La diffusione su scala continentale di questo modello e le insormontabili difficoltà di applicazione, proprio nel momento in cui il sistema militare spagnolo imboccava quella lunga strada che l‟avrebbe portato alla crisi, nondimeno, favorì quel recupero dei valori neostoici che, rielaborati da Giusto Lipsio, avrebbero sensibilmente cambiato l‟insieme dei valori e l‟organizzazione degli apparati bellici europei.

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ALESSANDRO BUONO Modelli e tecniche amministrative nella gestione del mantenimento degli eserciti di antico regime Il mantenimento degli eserciti, sempre più imponenti nel passaggio tra medioevo e prima età moderna, costituì una delle preoccupazioni principali per gli incipienti stati europei. Oltre ad enormi sforzi dal punto di vista finanziario, la gestione del militare impose inedite sfide sul piano amministrativo. Quali furono le soluzioni adottate per l‟amministrazione degli alloggiamenti militari ed il loro impatto sulle realtà territoriali e le istituzioni locali di quegli stessi stati? Attraverso il caso Lombardo, confrontato con altre province della Monarchia spagnola e con alcuni stati italiani, tra Cinquecento e Seicento, si cercherà di mostrare come, lungi dal produrre una supposta rivoluzione burocratica, l‟enorme sforzo rappresentato dal mantenimento ed acquartieramento degli eserciti fosse affrontato attraverso tecniche amministrative del tutto coerenti con la natura “preamministrativa” e “giudiziale” dello stato di antico regime, attraverso la devoluzione e l‟autoamministrazione degli enti locali. Al tempo stesso, si proverà ad argomentare che gli impulsi all'innovazione esplicantisi in alcuni modelli significativi, come quello della moderna “caserma”, provenivano più dal basso, dall‟autonoma sperimentazione degli enti locali, e meno dall‟imposizione di un “centro” che, se stabiliva e imponeva alle periferie sempre nuove incombenze, si limitava poi a svolgere una funzione tutoria nella loro ordinaria gestione.

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IL LEGNO: DAL VERSANTE DEI CONSUMI. L‟ITALIA SETTENTRIONALE IN ETÀ MODERNA Coordinatore: Claudio Lorenzini Relatori: Stefano Barbacetto, Maurizio Romano, Alex Cittadella, Claudio Lorenzini Affidandosi ai paradigmi che hanno assunto l‟„onnipresenza‟ del legno nell‟età della sua „civiltà‟ quale fattore strutturale delle società di antico regime, gli studi sulle risorse forestali in Italia han-no conosciuto uno sviluppo poco accelerato. Negli ultimi tre decenni, invertendo da fronti molteplici questa tendenza, le ricerche sui boschi si sono moltiplicate, amplificando le conoscenze su diversi territori della penisola, alpini ed appen-ninici in specie. In particolare, la ricerca ha conosciuto notevoli sviluppi per l‟Italia nord-orientale. Gli studi recenti di Mauro Agnoletti, Furio Bianco, Antonio Lazzarini, e Katia Occhi sono fra gli esiti più maturi di questo rinnovato interesse. Molta parte della loro attenzione è stata rivolta alla ricostruzione della „filiera del legno‟, attraverso la quale le risorse presenti in montagna trovavano una loro valorizzazione adeguata in pianura e nelle città. A condizionare pesantemente il mercato di quest‟area era Venezia, uno dei centri di principale sbocco commerciale di questa risorsa e, nel contempo, uno dei luoghi di maggior consumo. Per la Dominante, coerentemente all‟immagine stessa che la città s‟attribuiva, le ricerche hanno


insistito molto sulla cantieristica – l‟Arsenale – e sull‟industria del vetro. È grazie a questi studi che oggi conosciamo tanto sull‟attività di approvvigionamento delle città, sull‟organizzazione attraverso la quale il legname entrava nel gioco degli scambi che univa la mon-tagna e la pianura, sugli attori principali di queste transazioni – i mercanti – e sul ruolo dello stato nell‟adozione di sistemi di tutela di una risorsa che, parallelamente all‟aumento della popolazione, subì una pressione crescente, divenendo sempre più richiesta e costosa. Ricerche ulteriori potranno fornire elementi per confermare o correggere la rotta alle ipotesi ed alle prime risposte fornite da questi studi, grazie ai quali conosciamo molto sul versante della produzione – dal taglio, al trasporto, alle prime trasformazioni – del legname, ma ancora poco sui suoi consumi. Senza ricerche che approntino lo studio – quantitativo e qualitativo – dei consumi, l‟onnipresenza del legno continuerà ad essere data ma non compresa e contestualizzata: è quel che alcune ricerche stanno sviluppando su diversi fronti – l‟edilizia, l‟industria serica, i consumi domestici, l‟estrazione e la lavorazione dei metalli – e che attendono ancora ulteriori sviluppi. Recentemente, Paul Warde ha avanzato alcune risposte e proposto molte piste d‟indagine da que-sto versante per la Germania in età moderna. È certo che le sollecitazioni derivanti dalla contem-poraneità nei suoi studi, e nella nostra proposta, siano il frutto della riflessione che tutti ci coinvolge sulla produzione energetica da fonti rinnovabili, qual è il legno, e che in Italia conosce accelerazioni e brusche frenate. Anche lungo l‟età moderna la volontà di tutelare questa risorsa si è coniugata con la necessità crescente di un prodotto energetico fondamentale. Comprendere come e quanto legno le società dell‟Italia setten140


trionale consumassero durante l‟età moderna, e su quali fondamenti godessero il diritto di usufruirne ed usarne, sono alcuni degli aspetti che il Panel si propone di cominciare a indagare. STEFANO BARBACETTO Alberi e umani: usi, non-uso, conflitti, titolarità e partecipazione I molteplici usi del legno e del bosco nell‟età moderna saranno innanzi tutto indagati, in un quadro di riferimenti diacronico, nelle diverse ottiche della dottrina giuridica, della politica statuale, dell‟autonomia comunitaria, con specifici riferimenti a più località prevalentemente (ma non soltanto) dell‟arco alpino orientale. S‟affronterà, quindi, la complessità di una disciplina giuridica non sempre unitaria riferita al bosco come ad un luogo (non semplice fondo, ma vera selva di differentissime utilitates) di vita e di lavoro, e come all‟oggetto (fisico e metaforico) di contese asimmetri-che tra soggetti e poteri diversamente ispirati. Un cenno alle tante regole sui mille possibili sfruttamenti delle risorse in esame – non senza qualche saggio di cultura materiale – s‟accompagnerà poi al tentativo di riconfigurare, con fedeltà alle fonti dottrinali, i concetti di bene giuridico, dominio, uso e confine: ribaltando radicalmente, ai fini della migliore comprensione, le prospettive del diritto corrente ai giorni nostri. S‟affronterà poi il tema suggestivo del “non-uso” comunitario: del bosco e degli alberi lasciati in-tatti – in determinate situazioni precisamente individuate – a custodia dell‟equilibrio geologico o lato sensu ambientale. A tale scopo non si ricorrerà soltanto – com‟è ovvio – all‟archivio ed alla bi-blioteca ma anche, in un quadro più comprensivo, all‟archeologia ambientale, alla

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memoria viven-te stratificata nelle etimologie ed all‟universo fiabesco dei racconti popolari. A conclusione del percorso – anche con l‟analisi di queste ultime fonti – s‟azzarderà, in un totale ribaltamento di prospettive, un‟ulteriore, diversa ricostruzione del rapporto uominialberi: non nel senso (giuridico od economico) della titolarità, dello sfruttamento o della gestione, bensì (in una direzione più schiettamente antropologica) valorizzando le suggestive metafore, presenti nella narrativa orale, della partecipazione, dell‟antropomorfizzazione, della tutela e del padrinato esercitati dagli alberi sugli umani. MAURIZIO ROMANO Boschi per il ferro: la Lombardia austriaca alla seconda metà del Settecento Il costo della legna da fuoco e la difficoltà di garantire agli impianti siderurgici l‟approvvigionamento di combustibile, rappresentavano un problema per i possessori di forni e fucine della Lombardia austriaca, motivo di scoraggiamento verso nuove intraprese minerarie. Le lamentele degli operatori pervennero agli organi dell‟amministrazione milanese lungo tutta la seconda metà del Settecento, ricevendo risposte adeguate soltanto con la generale riorganizzazio-ne della provincia mineraria (anni ‟80), quando le migliorie apportate rischiarono di risultare vane per il protrarsi dello sfruttamento dei boschi. A soffrire i rincari del prezzo erano soprattutto i conduttori dei forni della Valsassina dove, a causa della concorrenza delle fucine lecchesi e del diradarsi della superficie boschiva, i costi per il carbone costituivano il 40-45% della gestione. 142


Tre le principali cause della scarsezza di legna: aumento delle manifatture; riduzione a pascolo o coltivo dei terreni boscosi; negligenza dei possessori nel mantenere i boschi. Secondo le autorità asburgiche, il male maggiore era la cattiva gestione delle selve in possesso delle comunità – specie quelle montuose, coinvolte nei lavori del ferro – sottoposte ad uno sfruttamento irrazionale dei “comunisti”. Se l‟incremento delle manifatture era positivo, gli altri due fenomeni dovevano essere regolati: frenare il disboscamento; limitare gli sprechi ingenerati dall‟incuria. Nei mesi in cui la discussione tra Milano e Vienna languiva, nelle valli siderurgiche proseguiva il depauperamento boschivo, suscitando disapprovazione nella corte e preoccupazione negli ispet-tori in visita nelle pievi montuose; le loro relazioni rappresentano una fonte interessante per la conoscenza degli usi delle risorse della montagna. A differenza delle risorse del sottosuolo, sulla cui capacità di fronteggiare le esigenze vi erano più dubbi che certezze, quelle boschive furono reputate soddisfacenti per il fabbisogno di carbone vegetale, consentendo la rimozione di un ostacolo allo sviluppo manifatturiero. Dal punto di vista dei responsabili dell‟amministrazione, il problema si ridusse alla razionalizzazione dell‟utilizzo della risorsa. ALEX CITTADELLA Energie rinnovabili nel Settecento veneto. Le alternative al legno fra discussioni accade-miche e utilizzi pratici L‟attualità del dibattito attorno all‟uso ed ai vantaggi derivanti dall‟utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili, fu propria anche 143


di molta parte delle discussioni sorte in seno alle accademie agrarie durante il Settencento. Nel contesto dei territori soggetti alla Repubblica di Venezia, una corposa serie di memorie animò il dibattito orientato verso la necessità di trovare delle fonti energetiche alternative al legname, capaci di ricoprire almeno in parte il fabbisogno energetico della popola-zione e delle manifatture. Si trattò di un dibattito che in seno alla Repubblica veneta aveva avuto origine in tempi ben più remoti, certamente lungo quanto l‟età moderna. Durante la seconda metà del Settecento, nell‟ambito accademico si addensarono numerose le proposte risolutive. Gli studi effettuati da Fabio Asquini (Discorso sopra la scoperta e gli usi della torba (1772)), Antonio Zanon (Della formazione ed uso della torba ed altri fossili combustibili (1790)) e Alberto Fortis (Della torba che trovasi appiè de‟ Colli Euganei (1790)) sull‟utilizzo della torba, non sono che un piccolo saggio delle proposte che riem-pirono per decenni le pagine delle riviste – su tutte il Giornale d‟Italia di Francesco Griselini – e delle raccolte di memorie accademiche. Essi si inseriscono in un contesto ben preciso, dove l‟esigenza di trovare delle alternative alla penuria del legname appariva più che una possibilità una stringente necessità. Il contributo vuole affrontare una ricostruzione di tali dibattiti, ed offrire un‟interpretazione di alcuni casi di studio e sperimentazione di fonti energetiche rinnovabili e alternative al legno promossi durante quei decenni nella Terraferma veneziana.

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CLAUDIO LORENZINI Il bisogno del fuoco. Consumi e produzione di legname in Carnia alla metà del Settecento L‟area alpina orientale ha rappresentato il serbatoio privilegiato per l‟approvvigionamento di le-gname di Venezia, una delle metropoli d‟Europa lungo tutta l‟età moderna. La Carnia, in seno al vasto territorio della Patria del Friuli, rappresentava uno dei più ampi comprensori montani veneti. Una regione ricchissima di boschi, per la quasi totalità di godimento collettivo concessi alle comunità di villaggio dal particolare condizione giuridica sviluppato attorno ai beni comunali, ma non sempre valorizzabili appieno per l‟infelice regime idrico dell‟asse del Tagliamento, troppo irruente per consentire una navigazione tranquilla e contenere gl‟ingenti costi di trasporto. Tuttavia, il commercio del legname dalla Carnia era florido e consolidato, con evidenza documentaria, almeno dal Quattrocento. La pressione sui boschi accrebbe durante il Settecento anche internamente, in concomitanza all‟emergere di alcune intraprese manifatturiere, su tutte quelle dei Linussio, fra i maggiori produt-tori di tele della Repubblica di Venezia, che avevano le loro fabbriche principali in Tolmezzo e Moggio. Le esigenze di alimentare fornelli per la tintura o, di converso, produrre cenere per sbiancare i filati, trovavano risposte energetiche adeguate dal territorio grazie ai boschi posti in prossimità degli impianti industriali. Alcune – rare – tracce documentarie ci hanno trasmesso i quantitativi necessari ad approntare questa produzione stimando, specularmente, di quanto abbisognassero annualmente le comunità dove il legname veniva estratto. Attorno a questi valori, si appronteranno alcune stime sui consumi interni a queste 145


vallate alpine, per le quali il legame con il bosco ed i pascoli, le uniche ricchezze naturali, hanno rappresentato il fondamento materiale e simbolico della loro stessa esistenza.

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INDICE DEI PARTECIPANTI

Albani Benedetta; 51; 53 Alfieri Fernanda; 51; 56 Ambron Daniela; 103; 104 Andretta Elisa; 31; 33 Arecco Davide; 23; 24 Arrivo Georgia; 59; 61 Baja Guarienti Carlo; 129; 131 Barbacetto Stefano; 143; 145 Bartolucci Guido; 9; 13 Boscani Leoni Simona; 23; 24; 25 Brevaglieri Sabina; 31 Broggio Paolo; 39; 41 Buono Alessandro; 137; 142 Caffio Maria Angela; 129 Calcagno Paolo; 119; 123 Caprara Gilda; 95; 101 Cavarzere Marco; 39; 42 Cecere Domenico; 103; 107 Cengarle Federica; 119; 121 Cittadella Alex; 143; 147

Civale Gianclaudio; 137; 140 Clerici Alberto; 87; 91 Colletta Claudia; 69; 72 Colombo Emanuele; 39; 43 Colombo Emanuele C.; 111; 117 Cristellon Cecilia; 51; 55 Cusumano Nicola; 87; 91 Dallâ€&#x;Aglio Stefano; 87; 89 De Campus Claudia; 45; 46 De Marchi Elena; 59; 65 Del Soldato Eva; 23; 24; 26 Di Falco Angelo; 95; 100 Di Franco Saverio; 95; 98 Di Lenardo Lorenzo; 15; 16 Di Tullio Matteo; 119; 122 Espada Antonio G.; 77; 84 Fabrizio Daniela; 77; 81 Fassanelli Benedetto; 69; 74 Favarò Valentina; 137; 138 Ferlan Claudio; 77; 83


Giana Luca; 111; 114 Giuli Matteo; 111; 115 Gorian Rudj; 15; 16; 18 Granata Veronica; 87; 93 La Rocca Chiara; 59; 64 Lepri Valentina; 9; 10 Lomas Manuel; 137; 139 Lorenzini Claudio; 143; 149 Luzzini Francesco; 23 Magoni Clizia; 9; 12 Manca Barbara; 45; 47 Marcocci Giuseppe; 69; 71 Masala Valeria; 45; 48 Mattalena Claudio; 119 Mazur Peter A.; 51; 52 Mele Antonio; 129; 132 Mori Sara; 15; 16; 20 Palmieri Pasquale; 103; 106 Pansini Valeria; 31; 36 Pedicino Carla; 95; 97

Pennuto Concetta; 23; 24; 28 Platania Marco; 77 Polignano Giacomo; 129; 133 Porto Luca; 119; 126 Provasi Matteo; 129; 135 Pugliano Valentina; 31; 34 Raviola Blythe Alice; 119; 121 Rebellato Elisa; 15; 16; 19 Romano Maurizio; 143; 146 Severini Maria Elena; 9; 11 Tigrino Vittorio; 111; 113 Tonini Masella Ginevra Diletta; 59; 63 Tramontana Felicita; 69 Tuccillo Alessandro; 103; 108 Vaghi Massimiliano; 77; 80

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