POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – 70% LOM/MI/184
Nel paese dove niente funziona perché tutto finisce nei cassonetti della burocrazia e del centralismo, c’è un popolo che chiede solo la libertà di fare e di esprimersi. Idee e criteri per un voto utile e consapevole
Viva l’Italia abbasso lo Stato ANNO 24 | NUMERO 2 | P.I. FEBBRAIO 2018 | € 5,00
fEbbRAio 2018 | teMPi
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editoriale Che fare il 4 marzo
di Emanuele Boffi
Non votiamo chi fa quel che vogliamo noi, ma chi ci lascia liberi di farlo Siamo sotto il culo dell’elefante e questo elefante che ci opprime è lo statalismo. Se c’è una cosa deprimente in questa campagna elettorale è la completa assenza nel dibattito pubblico di alcuni temi di cui si dovrebbe discutere e che, invece, sono colpevolmente ignorati dai più. Sarà un caso, sarà che siamo “nati postumi” come dice quel genio anarcoide di Gigi Amicone, ma è un fatto che di tutto quel che ci sta a cuore c’è poco o nulla nei talk show tv o sui giornali: libertà di educazione, federalismo, sussidiarietà, inverno demografico, sovraffollamento carcerario, abbattimento una volta per tutte del deleterio sistema mediatico-giudiziario che imperversa nel paese da vent’anni, lotta a una burocrazia che soffoca nella culla ogni tentativo d’impresa (ne sappiamo qualcosa anche noi, ahimè). Siamo noi fuori sincrono o è la classe dirigente di questo paese a baloccarsi dietro a futili dibattiti sulla legalità, il Non tutto quello che sessismo, il reddito di cittadinanza (Dio ce ne scampi), altre mancette da 80 eu- vediamo nel centrodestra ro da elargire a pioggia? Ci promettono ci pare convincente, l’eutanasia e la cannabis libera come ma resta comunque conquiste di civiltà solo perché ci vogliono un po’ più rimbambiti (e pure uno schieramento un pochino morti), mentre ci tengono non apertamente ostile buoni buoni sotto il peso dell’elefante. a tutto ciò in cui crediamo Stateci voi, se volete. Ma noi abbiamo scuole da difendere, associazioni da sensata rispetto a una sinistra intrapsalvare, esperienze sociali e imprendi- polata nei suoi fantasmi nonostante le toriali da salvaguardare da una buro- riverniciature liberal (leggete lo strecrazia occhiuta e da una magistratura pitoso articolo, scritto in esclusiva per zelante oltre ogni limite di decenza. C’è Tempi, di Ryszard Legutko a pagina 44). una famiglia – quella definita dalla Co- E un “partito non partito” che se arristituzione, non dal catechismo di Pio X vasse al potere ci aprirebbe le porte di – che è sotto attacco e che va preservata un radioso futuro nordcoreano. quale unico argine al disfacimento che Non tutto quello che vediamo muoci vuole tutti neutri, asessuati e infelici. versi nel campo del centrodestra ci conDiciamo la verità: non ci sono in gi- vince, molte proposte ci fanno storcere ro dei Churchill o dei Napoleone, ma il il naso, ma resta comunque uno schiecentrodestra resta ancora la scelta più ramento non apertamente ostile a tutte quelle istanze che crediamo importanti per la società italiana. Per noi il criterio di voto è riassumibile in questo scioglilingua: appoggiamo non chi fa ciò che vogliamo noi, ma chi non ci impedisce di fare e pensare quello che vogliamo.
Non chiedeteci altro. Non abbiamo la sfera di cristallo e non sappiamo cosa accadrà il giorno dopo le elezioni: se ci sarà una maggioranza adeguata a guidare il paese e se finalmente si riuscirà a convogliare in una visione, o almeno in un progetto, le tante energie presenti sul nostro territorio. Quel che sappiamo, oggi, a pochi giorni dal voto del 4 marzo, è che, fatta la tara a tutte le possibili e legittime rimostranze e recriminazioni, esistono ancora delle “cose” cui teniamo, delle presenze in cui crediamo, una tradizione – quella giudaico cristiana – che riteniamo essere un patrimonio ancora attuale e vivo, e delle persone che si impegnano a salvaguardare e rilanciare idee ed esperienze generatrici di una cultura nuova, pugnace e non mainstream. L’alternativa è non votare, lamentarsi, stare fuori dalla mischia. L’alternativa è morire d’inedia e malanimo, soffocati sotto la mole del pachiderma.
4. sommario
TEMPI | febbraio 2018
All’interno Il noir di R. Perrone
Dannato cazzutissimo carrarmato Canessa Caterina Giojelli
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Giochi di Stato
Gratta gratta chi vince sempre? Rachele Schirle
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Superfluo indispensabile
Quanto lo disprezzi davvero quel farabutto di The Donald? Correttore di bozze
Da Dante a Weinstein
Verso il 4 marzo
Cupido ai tempi delle porcherie e del #MeToo Annalisa Teggi
Italia - Italie E federalismo culturale
a pag. 10
Lottieri - Rondoni - Herber - Casadei a pag. 18
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Il mese quEllo chE sIaMo scrITTo IErI
Giovannino Guareschi EssErcI
Pier Paolo Bellini
8 16 16
Il sanTIno aMbulanTE
Luigi Amicone
lE nuovE lETTErE
Berlicche
ognI gIorno è un faMIly Day
Marco Invernizzi Il Molokano
Renato Farina
Il foglIETTo
Alfredo Mantovano lETTErE Dalla fInE DEl MonDo
Aldo Trento
17
28
cInEMa
35 52 53
la rosa DEI TEMPI
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Il Taz&bao
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lETTErE al DIrETTorE
60
sPorT ubEr allEs
Fred Perri
TErra DI nEssuno
Marina Corradi
a pag. 36
Ryszard Legutko
a pag. 44
34
54
Marco Cobianchi
Il tiranno liberal democratico
Non è sempre facile vivere in paradiso
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Simone Fortunato
bar granDI sPEranzE
Il nocciolo della questione
L’Eden sudcoreano
Leone Grotti
carTolIna Dal ParaDIso
Pippo Corigliano
foTo: aNSa
Giancarlo Cesana
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Rodolofo Casadei
a pag. 22
Anno 24 – N. 2 Febbraio 2018 Mensile in abbonamento abbonamento ordinario 12 numeri: 50 euro reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994 DIRETTORE RESPONSABILE emanuele boffi FOTOLITO E STAMPA a.G.a. – arti Grafiche ambrosiane Srl Via G. Verdi, 18 20095 Cusano M. (Mi) SEDE REDAZIONE Via Vittor Pisani, 19 20124 Milano Tel. 02.83634526 redazione@tempi.it, www.tempi.it IMPAGINAZIONE Matteo Cattaneo
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Copertina: Lorenzo Morabito
Tempi
6. cari lettori
è presen
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Si può fare un giornale per vendere copie, per ungere qualche affare, per difendere il perimetro del proprio potere o per allargarlo, per diventare qualcuno, per propagandare un’idea o per mille altri motivi nobili e meno nobili. Noi facciamo un giornale per essere una presenza. Una presenza nello spazio pubblico, una presenza nella vita dei nostri lettori. Ogni giorno, ogni minuto, siamo letteralmente sommersi da migliaia di voci, notizie, opinioni, numeri, immagini. È l’assedio dell’informazione usa-e-getta, o meglio clicca-e-monetizza, dove tutto è uguale a tutto e niente ha la pretesa di cambiarci. Sappiamo tutto, ma non cono-
sciamo niente. Noi invece vogliamo fare un giornale che “resta”. Non solo perché occupa uno spazio fisico (il mensile), ma perché si ostina a dare un nome alle cose. A giudicare. A guardare e a far parlare la realtà con quell’apertura totale che abbiamo imparato grazie all’educazione giussaniana. Mentre mezzo mondo ormai punta sulla robotizzazione/commercializzazione del contenuto, noi scommettiamo su Tempi. Un giornale che forse per il mercato vale poco, e però nei fatti ha un valore enorme. Lo dimostra la fedeltà dei suoi abbonati, lo racconta il patrimonio inestimabile di volti, incontri, storie e idee che in questi oltre vent’anni si sono radunati intorno ad esso. Quello che abbiamo capito è che la
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TEMPI | FEBBRAIO 2018
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8.
QUELLO CHE SIAMO La rivoluzione (intellettuale) socialista
di Giancarlo Cesana
Sessantotto. O di come la sinistra antiautoritaria divenne totalitaria Sui media, nei discorsi più seri tra la gente, viene sottolineata la confusione che affligge il nostro paese e anche il resto d’Europa, accusando una perdita di identità che ci affligge con il populismo, il sovranismo e lo smarrimento delle culture tradizionali, anche le più radicate e forti. Come siamo arrivati a questo punto, dove siamo, quali prospettive abbiamo davanti? Le analisi scompongono, ma non riescono a rispondere efficacemente. Si discute e si propone tanto, ma tutto dura poco e sembra non lasciare traccia. Soprattutto nel nostro paese, il cui disordine appare particolare e indominabile, nelle leggi, nell’economia, nell’educazione. Internet amplifica tutto, appunto la confusione: tutti dicono quello che pensano, ma non pensano a quello che dicono. Io non pretendo certo di risolvere il problema – vaste programme – ma di fare un punto sì, almeno per quel che riguarda la mia vita e la vita di quelli che mi sono vicini e amici, I capi dell’assemblea erano sperando che sia utile anche ad altri.
Il comunismo
Io il comunismo l’ho vissuto, non in Unione Sovietica, Cecoslovacchia o Germania dell’Est, ma in Italia. Nella mia famiglia di ceto operaio, partita da un cattolicesimo tradizionale – rappresentato da mia nonna – e finita nel socialismo del Fronte Popolare – i miei genitori – e nel comunismo – zii, cugini e parenti vari, per lo più operai nella grande industria di Sesto e di Torino. Comunismo duro, tendenzialmente extraparlamentare, giustificato dalla lotta all’ingiustizia sociale. Avevo parenti anche in Toscana, contadini, alcuni diventati artigiani, ma tutti comunisti e senza Dio. Io seguivo, ma non fino in fondo, perché il catechismo intensivo dell’infanzia mi impediva di diventare ateo e acriticamente fiducioso nella indiscutibile bontà dei poveri e certo della irrimediabile cattiveria dei ricchi. Comunque, avevo familiarità con raduni, marce e manifestazioni, soprattutto terzomondiste, in cui preti e chierici giovani erano non infrequentemente leader.
per lo più figli di professori, di genitori benestanti e/o con ruoli importanti nella vita pubblica. Pochissimi erano figli di operai e simili, come me
Ma il comunismo vero, applicato, l’avrei incontrato in università. Quest’anno sono 50 anni dal ’68. Ci saranno rievocazioni a non finire, per lo più benevole ed entusiastiche, perché fatte dai protagonisti di allora, che occupano molti posti di comando oggi. La faccio breve e un po’ diversa. Fu una insurrezione antiautoritaria e a favore dell’eguaglianza sociale. Divenne progressivamente autoritaria e ingiusta. Essendo matricola, provinciale e un po’ ingenua, partecipavo a tutte le assemblee, che si tenevano nell’aula di anatomia di via Mangiagalli, la più grande della facoltà di Medicina della Statale di Milano. Mi colpivano due fatti. I capi, i maggiori esponenti dell’as-
semblea erano per lo più figli di professori, di genitori benestanti e/o con ruoli importanti nella vita pubblica. Pochissimi erano figli di operai e simili, come me. Mi colpiva una statistica che avevo letto da qualche parte: la percentuale di studenti universitari figli di operai era bassissima (intorno al 1 per cento, mi pare). La scuola d’altra parte era molto selettiva. Per andare all’università bisognava aver fatto il liceo classico o scientifico, e per andare al liceo bisognava aver fatto le medie con il latino, dopo un esame di ammissione, oltre l’esame della quinta elementare, che allora era il termine della scuola obbligatoria.
Il diritto di non studiare
Per spiegare la selezione scolastica di allora faccio sempre l’esempio di quello che era avvenuto nel mio paese – 14.000 abitanti. Alle elementari eravamo tanti, almeno tre classi numerose, figli dei soldati tornati dalla guerra. Alle medie con il latino siamo andati in 11, tutti iscritti a un vicino collegio cattolico, ritenuto più affidabile e protettivo (il secondo anno sono stato mandato alla media statale, perché non bastavano i soldi). Al liceo ci siamo iscritti in tre, alla università in due. Proprio contro questa selettività della istruzione si scatenò la prima battaglia del ’68. Quelli degli anni alti fecero occupare la facoltà a noi matricole, sempre numerose ai corsi, perché all’esame di biochimica ne avevano bocciati una novantina su poco più di cento iscritti. Era il novembre o dicembre del 1967. L’altro fatto che mi colpì fu l’astrattezza della lotta alla selezione. Il diritto allo studio veniva praticamente afferma-
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to come diritto ai risultati dello studio, senza studiare, in particolare per coloro che erano in difficoltà economiche. I professori vennero ridotti al silenzio, in alcuni casi anche con la violenza. Per anni letteralmente strisciarono lungo i corridoi, eccetto ovviamente quelli che stavano dalla parte degli studenti e che si comportavano da veri e propri sobillatori. Alcuni esami, almeno a Medicina, vennero fatti dagli studenti che giudicavano i propri compagni in quella che era un’assemblea popolare, dove oltre alla padronanza dei contenuti veniva valutato l’impegno politico e culturale dell’esaminato. Ricordo che per decidere se dare 25 o 26 a un nostro compagno si discusse un intero pomeriggio. I corsi divennero gruppi di studio e di lavoro per otto ore al giorno, come per gli operai in fabbrica. Questo non fu male perché così i corsi divennero più brevi e più efficaci. Questo fu probabilmente l’unico aspetto positivo, perché l’ammutolimento della docenza lasciava senza criteri e costringeva a scoprire l’acqua calda. Inoltre in un mondo scientifico che cominciava a divenire internazionale, noi diventammo autarchici, con la nostra scienza popolare e rivoluzionaria. Naturalmente gli studenti di famiglia culturalmente elevata e abbiente continuavano ad andare all’estero, con un motivo in più: là si imparava e qui no. Poi arrivò la violenza, prima quella ideologica e quindi quella fisica. Il Movimento studentesco si ideologizzò progressivamente, grazie ai professori conniventi di cui sopra e agli studenti già funzionari del Pci, o, meno, del Psi, che indirizzarono le analisi e il che fare. Ma
questi non durarono molto e tanto meno prevalsero perché il Movimento si frantumò in gruppi extraparlamentari, a volte in grave lotta fra loro per la correttezza dell’analisi politica. Cominciarono così a menarsi fra loro, anche con le spranghe e le chiavi inglesi, fatta salva l’unità di fronte al pericolo supremo: i fascisti, che ne han prese molte, anche se ne hanno date.
Nessuno spazio per Cl
La mentalità di sinistra divenne invasiva. L’ideologia divenne totalitaria e intollerante, grazie anche al supporto dei maggiori organi di stampa: l’Espresso e Panorama, che allora avevano una tiratura altissima; più tardi la Repubblica, ma anche giornali della borghesia come il Corriere della Sera e la Stampa – a dir la verità anche Repubblica è un giornale della borghesia. Oggi si parla molto di fake news, come fossero una novità di internet. In realtà ci sono sempre state, come mentalità comune e dominante; un politicamente corretto ante litteram. Noi di Cl eravamo indiscutibilmente denunciati come clerico-fascisti, retrivi e minus habens. Quest’ultimo aspetto ci salvò un po’ dalle botte; come ci dissero quelli del Movimento studentesco: nemmeno eravamo degni di essere picchiati. Qualcuno di noi le prese, anche duramente, ma non con la sistematicità e ferocia con cui i gruppuscoli si affrontavano per affermare l’analisi più giusta. Per anni Cl non poté esporre manifesti in università. I pochi casi di manifesti esposti duravano qualche minuto se erano curati e quindi venivano inevitabilmente strappati con minacce agli studenti di guardia. Non solo noi non potevamo esporre, non potevano
tutti quelli che avevano idee diverse da quelle che andavano per la maggiore, liberali, democristiani, socialdemocratici, per non parlare dei missini. Anche utilizzare un’aula per fare un’assemblea pubblica o più semplicemente un incontro interno era molto difficile e a volte praticamente impossibile. Le proibizioni con aspetti violenti erano ubiquitarie rivolte non solo agli studenti di destra, ma anche a quelli di sinistra non della medesima fazione. Avanguardia operaia non poteva esprimersi alla Statale nelle facoltà umanistiche e il Movimento studentesco a Fisica. Il clima era da Rivoluzione culturale cinese, che infatti andava per la maggiore.
Fake news con annessi attentati
E, a proposito di fake news, arrivò la Stampa, che pubblicò la notizia che Cl era finanziata dalla Cia. C’era ancora l’eco della nostra opposizione al divorzio nel referendum per l’abrogazione. In poco più di un anno avemmo 140 attentati alle nostre sedi. Per fortuna non ci è rimasto nessuno. Intanto, nel paese era cominciata la cosiddetta stagione del terrorismo, con la sua striscia di sangue e di dolore. Il tutto andò avanti per anni, condito dalla celebrazione della libertà e della democrazia, che nel 25 aprile e nel Primo Maggio avevano le loro feste comandate ed esclusive, nel senso che potevano partecipare solo le realtà di sinistra riconosciute. Fu una vera e propria rivoluzione socialista, per fortuna solo culturale, o meglio intellettuale, e non maggioritaria. Però anche per la maggioranza con diverse conseguenze, che vedremo. (1. continua)
FOTO: ANSA
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#MeToo ma anche no
Cupido ai tempi delle porcherie La libera orgia degli istinti e le preoccupazioni un po’ bacchettone e un po’ scontate del “femministicamente” corretto ci tengono lontani dal ragionare (seriamente) d’amore. Qui ci si prova, col supporto di Dante, Chesterton, Lewis e gli esempi di Harvey Weinstein, Kevin Spacey e la pornostar Valentina Nappi di Annalisa Teggi
Harvey Weinstein, importante produttore cinematografico a capo della Miramax. In seguito a numerose accuse di molestie sessuali, è stato licenziato dalla sua compagnia ed espulso dalla Academy Motion Picture Arts and Sciences
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«Mamma, cos’è uno stupro?». Gli devo rispondere. Anche se ha solo 11 anni e lo considero ancora il mio piccolo bambino, una voce potente sta sussurrandogli all’orecchio parole a lui confuse, che entrano da ogni pertugio della realtà e della virtualità. C’è una ragazza al campo sportivo che frequenta, anche solo dire il suo nome lo mette in agitazione. Mi commuove vedere quel sorriso imbarazzato sul suo viso. Quando controllo le chat di Whatsapp a cui partecipa, la commozione diventa sgomento: una caterva di insulti con allusioni sessuali pesanti, impensabili pure a me adulta. Tiro un sospiro di sollievo perché noto che mio figlio non partecipa attivamente a questa porcheria, però legge; allora gli chiedo cosa ne pensa, lui si defila dicendo che i suoi compagni si divertono a fare gli stupidi. Poi c’è la tv, dove ad ogni ora si parla di molestie sessuali, opinioni pruriginose sul triangolo Romina, Al Bano e Loredana Lecciso, pubblicità in cui anche per parlare di caffè si usano allusioni a «quando l’abbiamo fatto per la prima volta» e poi cronache di stupri. Appunto. Non sono una purista della fascia protetta, primo perché non lo è mai, secondo perché la
realtà fuori dal piccolo schermo non è protetta da bollini colorati. Devo fare i conti col fatto che l’esperienza affettiva, in tutto il suo multiforme prisma di declinazioni (innamorarsi, fare sesso, amarsi, violentare, baciarsi), sta bussando alla porta della curiosità di mio figlio e lui è pronto ad ascoltare tutto ciò che arriva da ogni direzione. Se fossimo in un film, sarebbe il momento in cui i genitori si guardano e capiscono che è ora di fare «il discorso»; li si vede prendere il ragazzo in disparte e cominciare a farfugliare, ricorrendo a metafore animali, tendenzialmente l’ape e il fiore, o vegetali, con allusioni al pisello e alla patata. Il più delle volte la scena si conclude col figlio che rassicura i suoi dicendogli di non preoccuparsi, che sa già tutto; e loro tirano un sospiro di sollievo.
Se proprio vogliamo andare all’origine del mistero dell’amore, va detto che non siamo noi a «produrlo», è come una stella cadente che ci piomba addosso
Non è questa la trama che voglio per la mia vita; devo ai miei figli qualcosa di più, perché ho ricevuto qualcosa di più. Ripenso a me, intuisco che il gesto di ricevere è adeguato a descrivere la cornice entro cui la grande galassia dell’amore è arrivata nel mio piccolo recinto, cioè come un dono. Tecnicamente un regalo è qualcosa che arriva al soggetto da fuori, da qualcuno che non è lui. Non è neppure detto che un dono rispetti per filo e per segno i desideri del ricevente; proprio perché è legato al pensiero di un altro. Riflettendoci, ricevere è un verbo curioso: anche quando è usato in senso attivo ha un significato passivo. «Ho ricevuto la tua lettera» significa che tu l’hai scritta, tu l’hai affrancata, tu l’hai spedita e io me la sono trovata tra le mani. Se proprio vogliamo spararla grossa, cioè andare all’origine del mistero dell’amore, va detto che non siamo noi a «produrlo», è come una stella cadente che ci piomba addosso. È un messaggio che arriva da molto lontano; chissà chi è il vero mittente? Gli onesti pagani immaginavano che ci colpisse attraverso una freccia scagliata da Cupido. Anche i medievali erano un bel po’ più
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Sopra, l’attore americano Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, ha cercato di discolparsi rivelando di essere omosessuale. A destra, la pornostar Valentina Nappi che predica il sesso libero per tutti. A sinistra, una manifestazione contro la violenza sulle donne
accorti di noi e raccontavano l’impatto fisico di un’attrazione in modo un po’ diverso da come l’impariamo al Grande Fratello, andando a spiare cosa ha fatto Cecilia Rodriguez nell’armadio con Ignazio Moser.
Prima il corpo, poi lo spirito
Era giovanissimo, aveva appena nove anni, Dante quando incontrò Beatrice per la prima volta, innamorandosene. Fu una cosa molto più simile a un trauma che a una gioia: un semplice sguardo fu in grado di generare un’esperienza fisica di dolore, come se il corpo venisse calpestato. Sentì annichilirsi ogni fibra di sé, e tremò forte. Tremare non è una brutta parola, è segno di una paura che parla di eventi più grandi della nostra capacità di etichettarli. Ho tremato fortissimo subito dopo la nascita dei miei figli ed è una reazione del tutto fisiologica dopo il parto; ma l’ho sempre considerato il campanello con cui Amore bussa alla porta, strizzandoti le viscere innanzitutto. La strada per arrivare al cuore, all’anima è ancora lunga, prima c’è da decifrare il senso dello tsunami corporeo. Perché il corpo viene prima dello spirito. Me lo ha fatto notare l’amica
Paola Belletti, attenta scrutatrice delle parole affatto casuali della Bibbia, «il corpo ci precede, viene prima. Prima ci plasma e poi ci soffia nelle narici la vita, Dio» (in Siamo donne. Oltre la differenziata c’è di più, Berica editrice). È la carne la prima ad accogliere Amore, perciò tradirla è tradire per intero il nostro io; offendere il corpo è violentare l’anima. È sempre Paola Belletti a suggerire che la prima esperienza affettiva non è un contatto tra l’uomo e la donna, ma un viaggio; i corpi di Adamo ed Eva si devono incontrare prima di tutto: «L’uomo non assiste alla creazione della donna. È faccenda tra lei e Dio. Ma per lui. E forma la donna come aveva formato l’uomo. “E la condusse all’uomo” (Genesi 2,21-22). A che distanza sarà stata? Come avrà percorso il tratto di strada verso l’uomo, la donna?».
Vorrei chiederlo alle cinque pornostar morte in appena tre mesi in California, tanto da far scoppiare oltreoceano un caso «depressione nell’industria del sesso». Bellissime, eppure infelici
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Lo spazio di questo incontro, la distanza da colmare in un tempo anche lungo per arrivare all’altro, è vitale come l’ossigeno. Vorrei chiederlo alle cinque pornostar morte in appena tre mesi in California, tanto da far scoppiare oltreoceano un caso «depressione nell’industria del sesso». Bellissime, giovanissime ventenni, eppure infelici nonostante il loro mestiere fosse – almeno da copione – l’amore. Una si è addirittura impiccata, appendendo simbolicamente al chiodo il proprio corpo, ciò che le faceva guadagnare un mucchio di soldi eppure, mia personalissima deduzione, gridava una profonda repulsione per la bulimia di contatti incessanti, usa e getta. Qualcosa di molto poco moralistico e assai carnale urla dentro una persona, anche quando definisce consensuali i suoi rapporti promiscui ed occasionali. Non è di questo parere la pornostar Valentina Nappi che dalle colonne del Corriere afferma che il problema è opposto, bisognerebbe essere ancora più liberi nella pratica della sessualità: «Alle ragazze bisogna dire: se volete essere chic e moralmente superiori, datela il più possibile, concedetevi ai losers, agli emarginati, ai neri che vendono fazzoletti ai semafori, agli “ultimi”».
Chi è questa?
Questa evangelica democrazia sessuale è molto meno naturale del tremore di Dante; la libera orgia degli istinti tradisce il paradosso che si avverte quando un altro essere umano ci attrae. Il corpo sente forte la ferita del colpo di Cupido, quando s’innamora. Sente la lontananza di una presenza, ecco. Una delle tante dame che trafisse il cuore di Guido Cavalcanti fu capace di fargli esclamare: «Chi è questa?». E il sonetto che comincia con tale domanda è puro sconcerto, incapacità di contenere qualcosa di così tangibile eppure inspiegabile. Una figura femminile così precisa e vicina, tanto da poter descrivere minuziosamente tutti i riflessi dei suoi occhi chiari, riesce a spalancare il respiro del cuore fino a proiettarlo verso galassie lontanissime di attesa e ipotesi di bene mai azzardate. Specchiarsi in quegl’occhi, proprio quelli, introduce la ragionevolezza di un’ipotesi inimmaginabile a priori: si fa via via più chiaro, eppure resta miste-
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La dipendenza del molestatore
Molto si è detto su Harvey Weinstein e il caso abusi sessuali a Hollywood, la gogna mediatica ha fatto vittime illustri come Kevin Spacey, Woody allen, David Copperfield. Uscire dal seminato del commento «femministicamente» corretto (la litania su: no alla violenza sulle donne, puoi diventare famosa senza venderti, anche io ho subito molestie) è considerato eresia; ma vale la pena farlo. il più sregolato degli affetti dichiara, in maniera pervertita, la necessità della presenza altrui; quando si costringe un altro essere umano a un contatto affettivo brutale (rubato e perciò ese-
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rioso, che la voce narrante del proprio destino debba essere plurale. Ciascuno di noi, osservando la sua storia personale, può dire che arriva un momento in cui la conoscenza di se stessi entra in un percorso paradossale: mi vedo meglio attraverso lo sguardo di un altro. Lo specchio non basta più; rimasto da solo a contemplare se stesso, Narciso affogò. Può essere esaltante, a tratti vertiginoso, persino doloroso accettare questo tipo di dono: ascoltare una voce esterna che spalanca stanze mai visitate in un corpo che credevo «mio», in pensieri «miei», emozioni «mie». aprirsi a quest’ipotesi ci mette allo scoperto, un passo oltre le trincee del nostro egoistico accampamento. Lo spiega bene C. S. Lewis: «amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara, del vostro egoismo. Ma in quello scrigno – al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto – esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia è la dannazione. […]. Sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza d’amore volontariamente ricercata per autoproteggerci» (in I quattro amori, Jaca book).
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crabile), si dimostra una vulnerabilità ultima che, se capovolta nel bene, è una ricchezza preziosa per ogni individuo. fosse anche solo per un momento di godimento animale, di ebbrezza di potere, il molestatore dipende da un altro. È da condannare in tutto e per tutto, ma non va dimenticato ciò che malamente testimonia; la sua prevaricazione è l’urlo a rovescio di ciascuno di noi e grida: «La mia presenza ha un valore?». Non so quanto sia stata disdicevole la condotta sessuale di Kevin Spacey, di certo questo non può offuscare certe verità che ha raccontato recitando. Mi pare addirittura eclatante che un uomo poco virtuoso nella realtà abbia dovuto fare i conti con la virtù suprema dell’amore, immedesimandosi in un personaggio fittizio. Nel film Un sogno per domani il signor Spacey interpreta il professore Simonet, un uomo che, per dirla con Lewis, ha chiuso il cuore in uno scrigno perché è stato abusato. accettare la presenza di una donna che lo ama, peraltro molto imperfetta, significa mostrarle il suo corpo ferito dalle ustioni subite
Ciascuno di noi può dire che arriva un momento in cui la conoscenza di se stesso entra in un percorso paradossale: mi vedo meglio attraverso lo sguardo di un altro
nell’infanzia da un padre mostro. Simonet è un uomo che infine mette nelle mani di una donna il suo desiderio di non essere guardato per il male che lo ha segnato. La violenza del sopruso è il volto demoniaco della forza uguale e contraria che si cela dentro l’evento di un amore, ed è non meno violenta nel bene; tanto da far tremare.
Farfalle nello stomaco
Chesterton lo espresse in modo chiarissimo riassumendo la morale de La bella e la bestia nel paradosso: «Una cosa deve essere amata prima di essere amabile». Solo lo sguardo di un altro è capace di questa audacia che spalanca l’ipotesi del nostro essere preziosi, oltre i nostri limiti, le cattiverie e le ferite. L’amore è un’interferenza celeste che ficca la speranza nella pancia. «Voglio sentire le farfalle nello stomaco», si dice sia questo il modo di riconoscere l’amore vero. È un’immagine splendida e molto più realistica di ciò che sembra: una manciata di creature alate e leggere entrano nella parte meno decorosa di noi, l’apparato digerente. È il cielo che entra nelle viscere, è come dire: il cibo che soddisfa appieno ogni mia fibra è l’aria in cui danzano gli angeli. Tutto di me, anche i frammenti più indecenti, hanno bisogno di non sentirsi un vuoto a perdere, ma parte di un abbraccio tanto personale quanto universale, che misteriosamente somigli al sorriso di Dio quando si compiacque di ciò che creò.
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SCRITTO IERI
ESSERCI di Giovannino Guareschi
Don Camillo e don Chichì
«Questa è l’ora del dialogo, reverendo!»
Don Chichì guardò [don Camillo] con l’aria di sincero compatimento. «Don Camillo, la Chiesa è una grande nave che, da secoli, era alla fonda. Ora bisogna salpare le ancore e riprendere il mare! E bisogna rinnovare l’equipaggio: liberarsi senza pietà dei cattivi marinai e puntare la prua verso l’altra sponda. È là che la nave troverà le nuove forze per ringiovanire l’equipaggio. Questa è l’ora del dialogo, reverendo!». Don Camillo si strinse nelle spalle. «Vent’anni fa, quando lei balbettava le prime parole, io scazzottavo già coi comunisti». «Io non parlo di faziosità, di intransigenza, di violenza!» urlò don Chichì. «Io parlo di dialogo, di coesistenza». «Litigare è l’unico dialogo possibile coi comunisti» rispose don Camillo. «Dopo vent’anni di litigi, qui siamo ancora tutti vivi: non vedo migliore coesistenza di questa. I comunisti mi portano i loro figli da battezzare e si sposano davanti all’altare mentre io concedo ad essi, come a tutti gli altri, il solo diritto di obbedire alle leggi di Dio. La mia chiesa non è la grande nave che dice lei, ma una povera piccola barca: però ha sempre navigato dall’una all’altra sponda. (…) Lei allontana molti uomini del vecchio equipaggio per imbarcarne di nuovi sull’altra sponda: badi che non le succeda di perdere i vecchi senza trovare i nuovi. Ricorda la storia di quei fraticelli che fecero pipì sulle mele piccole e brutte perché erano sicuri che ne sarebbero arrivate di grosse e bellissime poi queste non arrivarono e i poveretti dovettero mangiare le piccole e brutte?». (…) Don Camillo era un povero prete di campagna e, a differenza di don Chichì, aveva letto pochi libri e leggeva pochissimi giornali. Quindi, a parte le riforme liturgiche, non capiva quale mai fosse questa nuova strada presa dalla Chiesa. Né poteva capirlo perché già da vent’anni, e prima di tutti, don Camillo camminava per conto suo proprio su questa nuova strada e ciò gli aveva procurato grossi guai. Era quindi logico che non provasse simpatia per quel pivello il quale, venuto per insegnargli a fare il prete, riusciva solo a svuotargli la chiesa. da Don Camillo e i giovani d’oggi, Rizzoli, 1969
«Ricorda la storia dei fraticelli che fecero pipì sulle mele piccole e brutte perché erano sicuri che ne sarebbero arrivate di grosse e bellissime poi queste non arrivarono e i poveretti dovettero mangiare le piccole e brutte?»
di Pier Paolo Bellini
Almeno in due
Ingorghi solidi nella società liquida. I corpi intermedi come simbolo di libertà «Non ci sono parole per esprimere l’abisso che corre fra l’essere soli e l’avere un alleato. Si può concedere ai matematici che quattro è due volte due; ma due non è due volte uno: due è duemila volte uno». (G. K. Chesterton) La società che chiamiamo “liquida” esalta e tutela le esigenze, le aspirazioni, le voglie e anche le incertezze e le patologie dell’individuo. Purché, appunto, il tutto resti liquido, in quello stato, cioè, in cui la materia prende la forma data dal recipiente. La dinamica con cui un potere assoluto si è oggi stabilito non è più quella ormai vecchia di una lotta tra parti o tra partiti: si è pensato bene di evitare conflitti onerosi semplicemente imponendo ed esaltando la solitudine del soggetto, preoccupato di sé, contento e insieme ansioso per il suo incerto benessere. L’unica realtà non assimilabile da questa dinamica è il nascere di un legame tra due persone, stabilito non appena sulle pulsioni o sulle mancanze, ma su un’ipotesi di risposta, per sé e potenzialmente per tutti. Due persone, cioè, che generano un cortocircuito “solido” nel sistema, un “corpo intermedio” tra il potere e gli uomini soli, in forza di una risposta intuita e perseguita. Quei due generano nuovi legami stabili tra persone fino a quel momento estranee, una nuova scaltrezza contro le minacce e un’intelligenza di strumenti e metodi adeguati al perseguimento dell’ideale. Sviluppano cioè una prospettiva nella quale il loro bene è per il mondo, per tutti. Dove sono oggi (politicamente, socialmente, ecclesiasticamente…) questi corpi intermedi? Chi li sostiene? Chi li tutela? Ne discutono lunedì 26 febbraio a Bologna Angelo Panebianco e Michele Rosboch, ospiti di Esserci. Ore 21, piazza di Porta Castiglione 4
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il santino ambulante Ecco perché «ci vuole un generale»
di Luigi Amicone
Sul treno Monza-Milano ho capito che ha ragione Katia Ricciarelli Vorrei spiegare con un aneddoto perché la dama della lirica Katia Ricciarelli non è “la dama nera” che vedono i giornali quando dice che «per l’Italia ci vuole un generale». E perché, in effetti, Silvio Berlusconi l’ha così capito da un pezzo che almeno per un giorno spese per Palazzo Chigi il nome del generale dei Carabinieri Leonardo Gallitelli. Dunque. Treno Monza-Milano, 9.26 del mattino. Vado a sedermi nell’ultima fila dell’ultimo vagone. C’è una coppia di pensionati. Lui lombardo, lei dall’accento meridionale. Discutono di nipoti e pensione. Lei arzilla e positiva, lui abbioccato e pessimista. Nella fila accanto siede una famigliola maghrebina, all’apparenza molto integrata. Madre quarantenne e figli, uno adolescente e l’altro più che ventenne. Conversano di abiti e grandi magazzini. Intercalano arabo, francese e italiano fluente. A un certo punto l’arzilla mia dirimpettaia vede con la coda dell’occhio La sinistra è nomenklatura qualcosa che non le piace. Interrompe che vive nel mondo virtuale la conversazione col marito e, rivolta al ragazzo più grande, dice severa ma senza e pensa sia doveroso un filo di astio: «Scusa, togli i piedi dal se- insegnare al popolo l’idea dile che ci si devono sedere le persone». molto tardo illuminista che Quello accenna uno sguardo feroce. Però obbedisce all’istante. Tira giù i piedi, si siamo venuti al mondo per ricompone. E prova a dire l’ultima parola farci una fumata di “diritti” dall’alto delle sue Nike nuove di pacca. «Come vede, signora, le mie scarpe sono vincita ringhiando rabbiosamente: «Populite». Per niente impacciata la donna lentoni del cazzo!». A quel punto è scattarincara la dose, questa volta sì, con un ta la reazione del giornalista-candidato filo di puntuto nazionalismo. «Pulite impoltronito. «Senti, ragazzo, polentoni cosa? Le vostre suole non sono diverse del cazzo a chi?». E quello crede di cavardalle nostre. Calpestiamo gli stessi mar- sela con un «ma no, parlavo dei bergaciapiedi, no?». A quel punto è il fratello maschi». «Bergamaschi? Quella signora minore che invita l’altro a non replicare. sarà calabrese, e stai tranquillo che se tu Sembra finita lì, per lo stupore del gior- fossi stato un italiano ti avrebbe fatto la nalista candidato al collegio plurinomi- stessa osservazione. È una questione di nale del Senato Emilia-Romagna 1, che si rispetto. Per sé e per gli altri. Siamo mica era limitato a godersi il teatrino. animali, no?». Ne sono seguite quattro Bene, in prossimità della stazione di piacevoli chiacchiere, soprattutto con arrivo, Garibaldi, mentre il sottoscritto l’adolescente. Chiarita la faccenda, abpoltrisce sul vagone e la coppia di an- biamo condiviso l’idea che un modo di ziani si avvia verso l’uscita, il giovane stare al mondo rispettandosi vicendevolmaghrebino crede di prendersi la sua ri- mente ci deve pur essere. Perché racconto questo fatterello tra tanti fatti trucidi che mi sono stufato di leggere perché son lì, tutte le mattine, sempre in cima alle notizie del web?
Perché è in questi fatterelli piuttosto che in quelli trucidi che io vedo il 90 per cento dei problemi italiani. C’è un establishment di “razza padrona” che, avendo il problema di farsi accettare (e adesso di farsi votare), un po’ ha fatto il ruffiano (rinnovo contratti statali e 80 euri in busta paga), un po’ ha fatto il ventre molle tranne inventarsi il Minniti sul finire della legislatura, un po’ si è inventato le boldrinate dell’accoglienza “no limits” e le giornate del transgenere, un po’ va in bicicletta per darsi delle arie ecologiche, un po’ legge il mondo con le balle Bauman della “società liquida”.
Di cosa abbiamo bisogno per ripartire
Ma perché la sinistra fa a gara a recitare tutto il vuoto spinto che gira su internet? Perché è tutta nomenklatura che vive nel mondo virtuale e pensa sia doveroso insegnare al popolo l’idea molto tardo illuminista che siamo venuti al mondo per farci una fumata di “diritti”. In realtà, come ha fatto scolpire sui muri della sua scuola di paese l’amico don Antonio Villa, «non esistono diritti. Esistono solo doveri. Alcuni facili. Altri meno facili». Ecco perché trovo intelligenti e vicine al sentire del popolo le “provocazioni” della Ricciarelli e Berlusconi. Un generale? Sì. Perché, in fondo, di cosa ha bisogno l’Italia, veramente, per ripartire? Di ritrovare un minimo di coesione, ordine, educazione, autorità. Tutte cose senza le quali non diciamo il Pil, ma nemmeno la pulizia delle strade riparte. Occorre ricostruire le basi di una elementare vita in comune. Semplicemente (semplicemente?!), una comunità nazionale.
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Elezioni
L’Italia non esiste Esistono le Italie Venezia torni a essere Venezia e Napoli torni a essere Napoli. Non c’è possibilità di cambiamento che parta da logiche stataliste. Proposta per un patto che ci renda tutti liberi, alleati e autonomi. Perché non siamo un paese al singolare, ma solo al plurale di Carlo Lottieri Il 4 marzo gli elettori italiani saranno chiamati alle urne per una consultazione che con ogni probabilità cambierà ben poco. Il confronto è tra raggruppamenti che usano schemi culturali stantii: in effetti, il centrodestra vede nel Pd e nei suoi alleati l’ennesima riproposizione della sinistra marxista-leninista, mentre questi ultimi imputano a Berlusconi e Salvini di essere interpreti di logiche autoritarie e simil-fasciste. Da parte loro, gli adepti di Beppe Grillo accusano tutti gli altri di essere corrotti e impresentabili, candidandosi a interpretare una “novità” che, nel giudizio dei partiti tradizionali, non sarebbe altro che un mix di dilettantismo e incompetenza. C’è però da chiedersi se ci si possa attendere qualcosa da contrapposizioni come destra-sinistra, oppure vecchionuovo, colti-ignoranti, e via dicendo. Dinanzi a questo scenario grottesco, un numero crescente di elettori ha perso ogni speranza. Moltissimi non voteranno e altri, invece, si recheranno alle urne senza coltivare illusioni. Punteranno ancora
sull’opzione che ai loro occhi appare meno peggiore, ma senza nutrire illusioni. È di altri dibattiti e altre discussioni, in effetti, che oggi ci sarebbe bisogno. Sarebbe importante, innanzitutto, che qualcuno si schierasse dalla parte dei diritti individuali, della libera iniziativa, dei contribuenti oppressi dal fisco, di una società svuotata di ogni autonomia, di un mercato ingabbiato da regole e burocrazie. E invece, su questi temi, i tre poli in campo non si distinguono per nulla. Con accentuazioni diverse, quanti si candidano a guidare l’Italia non fanno altro che riproporre vecchie logiche interventiste: e non si tratta soltanto di calcoli elettorali. Certamente, nell’imminenza di ogni appuntamento con le urne, leader e formazioni politiche sono indotti a dare il peggio di sé: a proporre 80 euro ai redditi più bassi, innumerevoli borse per gli studenti Erasmus, redditi di cittadinanza per tutti, pensioni minime da 1.000 euro, dentiere per gli anziani e chi più ne ha, più ne metta. Ma si può ragionevolmente sostenere che non sia soltanto marketing in vista del voto e neppure un cinico calcolo di potere. C’è tutto questo, senza dubbio, ma vi è pure la consapevolezza che di
Sarebbe opportuna una voce coerentemente schierata a difesa delle articolazioni sociali (famiglie, imprese, chiese, associazioni, eccetera) e contro ogni invasione di campo
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fronte a ogni problema molti italiani non sanno individuare altra risposta che una legge e/o una tassa. Proprio per tale motivo, però, sarebbe quanto mai opportuna una voce coerentemente schierata a difesa delle articolazioni sociali (famiglie, imprese, chiese, associazioni, ecc.) e contro ogni invasione di campo. Ci sarebbe insomma bisogno di
qualcuno disposto a indicare un cambiamento radicale di direzione. oggi abbiamo in campo solo forze stataliste e se dopo le elezioni è plausibile che qualche polo si sfaldi, allo scopo di dar vita a una maggioranza qualunque (obbligata a mediare tra i sogni del populismo e i diktat di bruxelles), questo è reso possibile dal fatto che esiste un comune
background statalista che avvicina tra loro le varie culture di questa italia sempre uguale a se stessa. Per giunta, nessuno tra i politici italiani ha il coraggio di ammettere quello che dovrebbe essere evidente a tutti: e cioè che questa italia è irriformabile. L’unificazione ottocentesca ha violentato la nostra storia e le nostre identità. Questo era ben chiaro a Pierre-Jo-
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seph Proudhon, persuaso che l’Italia fosse per sua natura federalista, ma anche a tanti spiriti cattolici e laici (da Rosmini a Cattaneo, da Ferrari a Gioberti), che mai avrebbero voluto un’Italia unita secondo logiche francesi e giacobine. Anche nei decenni successivi, intellettuali come Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini si sono battuti per riconoscere libertà d’azione alle città e alle regioni: senza però essere davvero ascoltati. Questa Italia non è certo modificabile dal centro, ma può crescere e progredire nel momento in cui Venezia tornasse a essere Venezia, Siena a essere Siena, Napoli a essere Napoli, e via dicendo. È insomma indispensabile che si riconoscano le diversità di questa penisola tanto lunga e, soprattutto, così divisa nel corso dei secoli. Il persistere di mentalità e sensibilità tanto differenti rende difficile una gestione unitaria: quello che può andar bene a Como o a Milano difficilmente si adatta alle esigenze di Foggia o Agrigento.
Né Carlo Magno né gli Ottoni
In questo senso, dovremmo comprendere che l’Italia esiste solo al plurale, quale conglomerato di Italie: ossia di comunità che dovrebbero poter autogovernarsi, a livello municipale e regionale, in modo da valorizzare differenze e tradizioni. In questo senso, tra l’altro, il nostro Paese è davvero una piccola Europa: il cuore stesso di quel Vecchio Continente che, tra il Medio Evo e l’età moderna, ha avuto il successo che ha avuto grazie a giurisdizioni libere e in concorrenza, talvolta alleate e talvolta in guerra, ma sempre orgogliose della propria specificità. L’Europa ha conquistato il mondo più con la sua civiltà che con i suoi eserciti, più con la sua cultura che con le flotte d’invasione. Ed uno dei suoi segreti è proprio da riconoscere – come sottolineò Jean Baechler in un suo formidabile volume degli anni Settanta – nel fatto che essa per secoli è stata un’area culturalmente ed economicamente unita, ma politicamente divisa. Né Carlo Magno né gli Ottoni riuscirono mai a dominarla, mentre la Chiesa si limitò per lo più a esercitare un’autorità che non si sostituiva alle istituzioni politiche cittadine, feudali, signorili, corporative e via dicendo. Di quel pluralismo istituzionale, di quel formidabile policentrismo fatto di terri-
tori liberi e alleati, la penisola italiana è stata l’espressione estrema e di maggiore successo. Ed è esattamente per questa ragione che da tutto il mondo innumerevoli visitatori vengono ancora oggi a visitare Milano e Firenze, Roma e Palermo.
Come nel Medioevo
Proprio ora che la Lega ha messo nel cassetto le proprie battaglie localiste (collocandosi entro un’estrema destra nazionalista, la quale si definisce a partire dalla lotta all’immigrazione), ci sarebbe insomma l’urgente necessità di porre al centro del dibattito la proposta federale. Intendendo con federalismo, ovviamente, nulla di ciò di cui si è discusso negli scorsi decenni. Federalismo viene dal termine “foedus”, che in latino indica il patto, l’accordo, l’intesa volontaria. Un ordine federale, allora, è il risultato di una libera volontà sottoscritta da entità indipendenti: come avvenne in età medievale in Svizzera o alla fine del diciottesimo secolo nelle colonie americane affrancatesi del dominio britannico. In questo senso, ogni ipotesi di riformare l’Italia in senso federale partendo dal centro (da ipotesi di riforma costituzionale, ad esempio) è figlia di un imbroglio o di un’ingenuità. Il nostro sistema potrà essere autenticamente federale solo quando le varie realtà del Nord, del Centro e del Sud potranno riprendere in mano il loro destino e decideranno di dare vita a un ordine istituzionale che soddisfi ogni componente e non ne sacrifichi nessuna. Una federazione autentica è il frutto di logiche associative e, per questa ragione, deve poter prevedere anche le procedure necessarie a un distacco. Dovremmo tornare a rileggere Gianfranco Miglio, che guardava a Svizzera e Stati Uniti come a federazioni “degenerate”, mentre riteneva che Germania o Austria fossero addirittura federazioni del
L’Europa ha conquistato il mondo più con la sua civiltà che con i suoi eserciti. Il suo segreto è che essa è stata per secoli un’area culturalmente ed economicamente unita, ma politicamente divisa
tutto false: che mai avevano vissuto un loro momento autenticamente federale. Per giunta, dato che nelle società occidentali s’è imposta l’idea che solo il voto democratico può legittimare l’ordine politico, non si capisce come si possa impedire a una comunità di far decidere alle urne se restare entro uno Stato o dare vita a un altro. In questo senso, è scandaloso il modo in cui il potere centrale spagnolo (con il sostegno dell’Unione Europea e di tutti i governi del Vecchio Continente) sta impedendo ai catalani di confrontarsi liberamente sulla possibilità di dare vita a una Catalogna sganciata dalla Spagna. O anche a due Catalogne distinte, dato che c’è già chi immagina una Tabarnia costiera (Barcellona più Tarragona), elitaria e centralista, da contrapporre a una Catalogna più rurale e indipendentista. Perché si possa ragionare pacatamente su tutto ciò, sia in Spagna sia da noi, è però necessario che venga meno quella mistica della Nazione e della Sovranità che da tempo coltivano gli affranti e nostalgici eredi di ogni variante di fascismo e comunismo.
Al servizio dei cittadini
Affrancare le realtà periferiche e rovesciare la piramide istituzionale comporterebbe una moltiplicazione dei poteri e delle responsabilità. In fondo, si tratta di provare – una buona volta – a prendere sul serio le tesi liberali classiche. Come disse Lord Acton, il valore politico più alto è la libertà. Lo storico cattolico non credeva affatto che la libertà fosse da anteporre a ogni cosa, ma riteneva che all’interno della sfera pubblica fosse compito di ognuno porre la libertà altrui al di sopra di tutto. Se la libertà è l’obiettivo principe che i liberali intendono perseguire, essi sanno anche che la strategia più efficace consiste nell’affermare la concorrenza a scapito del monopolio, nel mettere il pluralismo al posto dell’uniformità. In fondo, questa è la stessa lezione che ci viene dalla Svizzera: un paese che è più piccolo della Lombardia, ma che include ben 26 cantoni e semicantoni, ognuno dotato di un’ampia autonomia fiscale e legislativa. Basti dire che proprio il 4 marzo gli elettori svizzeri saranno chiamati a confermare (devono farlo ogni 15 anni) quella delega che permette al governo di
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berna di incassare entrate proprie con una tassazione diretta e una indiretta. Questo significa che se quest’anno, oppure nel 2033, la maggioranza dei cittadini o dei cantoni non rinnovasse tale delega, il governo federale dovrebbe ripensare interamente il proprio ruolo. L’idea di fondo è che una pluralità di giurisdizioni obbliga le classi politiche locali a mettersi al servizio dei cittadini. Per imprese, famiglie e capitali il “costo di uscita” dallo staterello di Verona a quello di brescia, o da quello di bari a quello di Matera, sarebbe bassissimo. Tutti cerche-
rebbero, però, di collocarsi dove le imposte sono inferiori, i servizi migliori e la regolazione meno invasiva.
Brace sotto la cenere
Da alcuni decenni la riflessione teorica sulla concorrenza istituzionale ha evidenziato i benefici derivanti da minuscole giurisdizioni chiamate a entrare in concorrenza tra loro ed emulare le soluzioni migliori. Sono tesi che hanno una validità universale, ma certo esse valgono in maniera particolare per quelle realtà, come la nostra, così caratterizzate da
L’alternativa
O centralismo mortifero o federalismo culturale
storie distinte e indipendenti. Se quanti si candidano al governo si focalizzassero su tali temi invece che promettere tutto a tutti, il dibattito politico sarebbe meno desolante. ed egualmente sembra abbastanza chiaro che, negli anni a venire, l’esigenza di superare lo statalismo grazie alla moltiplicazione delle giurisdizioni finirà al centro dei dibattiti. L’italia è per lo più una sovrastruttura, mentre la varietà delle nostre identità è brace che cova sotto la cenere. e che da un momento all’altro potrebbe tornare a infiammare gli animi.
intorno a cosa sia veramente la libertà e su come orientarne la forza. Nel volgere di due secoli la nascita e la sussistenza dello Stato italiano ha trovato motivazioni per lo più “esterne”. ora l’italia è spazio per lo shopping internazionale. ed è uno Stato impotente e ingombrante che non aiuta a coltivare il futuro né a difendere i beni. Soprattutto prende in giro i ragazzi e abbatte la loro speranza e i loro desideri autentici proponendo una vita da vegetali o – se hai talento – l’esilio. e una vita da sterili.
Estro, tipicità, bellezza. Perché avvilire l’indole di un popolo e non invece aiutarla a sprigionarsi? Lasciateci essere noi stessi
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Rallentamenti e ingorghi
di Davide Rondoni in italia c’è una lotta contro la schiavitù. Una lotta per non ridursi a individui isolati, che si devono accontentare di un lavoro spesso avvilente senza troppe aspettative e che chattano pensieri apparentemente liberi. Una lotta per non esser
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preda di un risentimento diffuso che però difficilmente mette mano a combattere la malora, e si rifugia nella protesta da bar o da social o nel narcisismo. Per non ridursi a schiavi che si mettono il rossetto ammirandosi in un pezzetto di specchio rotto. Da dove ripartire? Da dove attingere nuova energia? Le elezioni sono una occasione per riprendere una domanda seria
Pensate che i ragazzi migliori – ad esempio quelli che affrontano l’esame da magistrato o da notaio – devono ripeterlo due volte perché nel frattempo tra una sessione e l’altra non correggono in tempo i compiti. Un laureato in medicina dopo sei anni di università deve attendere un anno per provare il concorso da specialista e poi altri quattro. anche l’accoglienza di nuovi abitanti migranti appare spinta, al di là della giusta accoglienza umanitaria e dai diversi motivi che alimentano il fenomeno, dalla necessità di avere nuovi consumatori e lavoratori a basso costo. rallentamenti, ingorghi burocratici e legislativi, impotenza dello Stato dinanzi allo strapotere finanziario, imprenditori “furbastri” grazie ad aiuti di Stato o di banche controllate (così così) dalla banca dello Stato, posizioni di rendita da parte di burocrazia malata di potere, giustizia inaffidabile: a tutto questo va messo fine per salvare e rilanciare l’italia, a non
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ridurci più schiavi. Da dove una scossa di libertà? L’Italia esiste da millenni. Da molto prima dello Stato italiano. Ed esiste nel cuore degli italiani e nel mondo grazie alla sua bellezza, alla sua arte e al suo gusto per il talento e all’estro di tanti artigiani e imprenditori piccoli e grandi. Sono i frutti di linfe culturali antiche e profonde da rinnovare. L’Italia come identità non etnica, non omogenea, non centralista è l’Italia che ha prodotto nei secoli il meglio dell’Italia. Si tratta di organizzare diversamente l’amministrazione e di rafforzare i legami culturali. Un impegno all’altezza dei tempi, contro ogni cinismo. Un segnale forte è venuto dai referendum consultivi che hanno unito forze sociali e politiche diverse in Lombardia e Veneto per chiedere un nuovo assetto dei poteri e più autonomia. Le percentuali di 40 e 60 per cento nelle due regioni mostrano,
in un periodo di scarso afflusso elettorale, l’importanza della vicenda (alle ultime regionali il presidente dell’Emilia-Romagna è stato eletto dal 38 per cento degli elettori). D’altra parte, in un Sud segnato non dalla mancanza di finanziamenti ma dalla difficoltà di assunzione di rischio, non mancano segnali che differenziano sud e sud, e che cercano vie di responsabilità nuove senza fermarsi alle pur comprensibili riedizioni di neo-borbonismo.
Coscienza della storia
Il mondo è cambiato, l’Italia deve cambiare. L’Italia è un desiderio, diceva un grande poeta. Ovvero va desiderata sempre, perché esiste come realtà culturale e spirituale unica al mondo e può darsi forme diverse. Esisteva ai tempi dei latini, esisteva nel tempo detto Medioevo e delle signorie, è esistita nel sogno di unità risorgimentale e nell’opposizione a quel
Cari inferiori
Voi non sapete che cosa vi siete persi Canto notturno di un giornalista errante dell’Elvezia in memoria di quella riforma “alla svizzera” che qui abbiamo potuto solo sognare di Massimiliano Herber* Federer e il federalismo. Il primo è il re del tennis, col secondo il sovrano è il popolo. Superati i tradizionali stereotipi, grazie a loro negli ultimi vent’anni anche i nostri vicini di casa italici si sono accorti che la Svizzera non si riduce a orologi e cioccolato, alle banche o Guglielmo Tell. Oggi però, se il numero uno del tennis sembra essersi divertito a giocare contro il tempo, il federalismo in Italia pare non essere riuscito a resistere allo scorrere degli anni. Pur vantando innumerevoli tentativi di imitazione, pare “in sonno”, timidamente nascosto tra le pieghe dei
programmi elettorali. E sì, che, non più quattro mesi fa, in occasione dei referendum consultivi in Lombardia e Veneto, quella parola di undici lettere, “fe-de-rali-smo”, tanto pronunciata quanto bistrattata, sembrava aver ritrovato il suo gusto dolce come una crema catalana. Parlare di federalismo in Italia sembra ormai una concessione alla moda vintage anni Novanta: il professor Miglio e il Senatùr Bossi sono datati come il karaoke e le schede telefoniche. Il politologo della Cattolica suggeriva una riforma federale quando Berlusconi e Forza Italia non erano ancora un’idea di Stefano Accorsi. Una rivoluzione copernicana per combattere il centralismo romano di matrice giacobina
sogno, è esistita nelle trincee della Prima e della Seconda Guerra mondiale, è esistita durante la Guerra fredda. E ora deve poter esistere in un periodo difficile tra globalismo e nuove esigenze sociali. Nei secoli abbiamo offerto un patrimonio immenso di bellezza e di estro. Per questo noi crediamo che occorre lavorare a un federalismo culturale italiano. Già i cattolici Gioberti e Cattaneo provarono a elaborare disegni simili, pur in condizioni storiche diverse, per opporsi a una unità calata dall’alto e non utile alla vita reale. Oggi, ci sono esperienze, modalità legislative e forze per dare corpo a questa nuova Italia. Federale, ovvero politicamente e amministrativamente differenziata e responsabile al suo interno, ma culturalmente coesa intorno ad alcuni elementi che vengono da una storia millenaria, latina con molti influssi greci e normanni, cristiana e poi socialista umanitaria e laica.
e lo sterile assistenzialismo del Mezzogiorno ridando forza alle autonomie locali in materia fiscale e di spesa. Riconoscendo quei tanto bistrattati corpi intermedi e allargando così spazi di libertà. Già solo scrivere queste parole nel 2018 pare un atto di archeologia giornalistica, come un attempato Indiana Jones alle prese con una polverosa reliquia istituzionale. Quella spinta centrifuga ammantata di populismo, che traeva spunto anche dalla plurisecolare esperienza dei patti di mutuo soccorso tra i cantoni elvetici, negli anni ha perso la sua forza propulsiva. E oggi la Lega di Salvini pare lontana mille miglia dalla Lega degli albori, più nazionalista e meno federalista, tutta focalizzata sui temi dell’immigrazione, dell’ordine pubblico e delle pensioni. Nel programma del centrodestra il federalismo è una parolina confinata tra un capoverso e l’altro a pagina nove. In quello del centrosinistra il termine non figura neppure: si parla di “casa dei comuni” con un numero di condizionali sufficiente ad annacquarne ogni sussulto riformista. Nella fotocopiatrice pentastellata il federalismo è rimasto inceppato: ci si limita a dare il numero di preferenze a un trasferimento di funzioni amministrative
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Desideriamo un’italia non di schiavi per rendere più fertile la società e la cultura. occorre perciò lasciare maggior responsabilità in chiave sussidiaria orizzontale e verticale alla società piuttosto che perpetuare interventi statalisti. Si devono e possono favorire risposte ai problemi sociali che vengono da realtà intermedie capaci di interpretare e includere. Tali realtà sociali e le autonomie su base regionale o macroregionale devono avere maggiori responsabilità intorno al fisco, alla organizzazione della formazione e della sanità, beni culturali, servizi alla persona e soprattutto alle politiche per favorire la demografia. Una federazione non significa una contrapposizione, e nemmeno l’impossibilità di trovarsi uniti davanti ad alcuni tavoli di trattativa in sede europea eccetera. Ma avere più interlocutori, costringere i poteri forti a confrontarsi con una molteplicità di
a regioni e comuni, ma poi chissà. forse perché negli anni ogni riforma è stata più pronunciata che attuata, “federalismo” è divenuto una termine vuoto, capace al massimo di evocare un’era politica ormai alle spalle, come “rottamazione”, “devolution” o “semi-presidenzialismo alla francese”… che faceva chic quanto auspicare un federalismo “alla tedesca”.
Un 4 marzo anche oltralpe
Per capire perché il federalismo sia finito nella soffitta della politica italiana non basta tratteggiarne la parabola discendente. Dall’auspicio firmato an di una legge costituzionale che garantisse alle regioni del Nord e alle isole competenze simili a quelle di un Land (nel 2000) al pur generico disegno di legge del governo berlusconi sul federalismo fiscale (2008), poi bocciato da Giorgio Napolitano una volta divenuto decreto per il mancato coinvolgimento di Parlamento ed enti locali (2011). Con inevitabile zelo rossocrociato, cullato da secoli di storia federale, temo che il federalismo rimanga una parola lontana anni luce dalla mentalità centralista italiana (e di buona parte degli stati europei) perché il suo principale elemento è culturale e non legislativo: non è un mantra miraco-
Desideriamo un’Italia non di schiavi per rendere più fertile la società e la cultura. Occorre lasciare maggior responsabilità in chiave sussidiaria orizzontale e verticale alla società poteri che ne medino l’impatto, può esser salutare in questo momento di globalizzazione del potere economico di alcuni. in tal modo si può attuare anche un virtuoso impegno di tutti a migliorare, senza lacerazioni ma anche senza alibi. Puntare sul federalismo culturale contro la schiavitù significa un maggior impegno in ogni sede per sottolineare, come caratteristiche unitarie: valore della bellezza, dell’estro come tipicità italiana; valore della persona anche fragile e delle azioni di carità e solidarietà; valore delle
loso ma un principio fortemente ancorato nella percezione della gente. Un sistema che ha la sua forza propulsiva dal basso si fa fatica a introdurlo dall’alto. Noi svizzeri, ad esempio, ci sentiamo in grande maggioranza prima di tutto cittadini del nostro comune o del nostro cantone, poi della Confederazione. Un senso di appartenenza declinato da autonomie e competenze innanzitutto locali: decisionali e fiscali (un terzo del gettito fiscale va ai comuni, un terzo ai cantoni e un terzo al governo federale). Un punto di partenza che fa sì che il potere politico in Svizzera sia decentratissimo e controllori e controllati vicinissimi. Che la diversità sia concepita come opportunità e non come una disparità, e che il principio di sussidiarietà – conferendo competenze più importanti al livello più basso, favorendo il privato sul pubblico e le strutture informali su quelle formali – sia praticato come in un nessun altro luogo d’europa. e a dispetto di altri stati federali, nella cara Confederazione l’arbitro è sempre il popolo attraverso la democrazia diretta. il 4 marzo non si vota solo in italia. Qui in Svizzera i cittadini dovranno esprimersi su un’iniziativa che ha raccolto oltre centomila firme che chiede di abolire il
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comunità di uomini liberi intese come primi soggetti sociali; valore del patrimonio artistico e artigianale come matrice dell’estro italiano; centralità della ricerca e della formazione dei giovani; valore della lingua italiana e delle lingue giacimento di cultura viva; valore dei simboli che nella storia sono stati elementi di unità e di identità. insomma, una posizione di costruzione politica e non solo di rivendicazione. La promozione di tali idee, azioni, opere è un compito per tutti, non solo di chi fa politica. e non si identifica in un partito solo. Vista la polverizzazione del contesto elettorale e una legge che mortifica le scelte dal basso, ma offre un criterio di scelta tra candidati e forze. Con alcuni amici, denominati amici di Marzo, uomini dell’impegno sociale, imprenditoriale e culturale, stiamo condividendo questi contenuti, poiché non ci interessa una campagna di chiacchiere e distintivi.
finanziamento pubblico a radio e tv: può essere la fine di una storia lunga quasi novant’anni e che va da radio Monte Ceneri – l’unica radio libera in lingua italiana durante il nazifascismo – alla tv che un tempo si vedeva sino a Napoli e che ancora oggi, nell’hinterland milanese, permette di vedere la Champions in chiaro.
Dalla vecchiaia all’ora legale
Può sembrare paradossale, ma in Svizzera funziona così, e la democrazia diretta ed è uno dei cardini del suo federalismo. abbiamo votato più volte prima di dire sì all’assicurazione vecchiaia nel 1947, abbiamo chiuso le porte a un’adesione europea nel 1992, ma pure detto inizialmente “no” all’introduzione dell’ora legale estiva nel 1978 o “sì” affinché il 1° agosto, festa nazionale, fosse festivo in tutto il paese. “Sono pazzi questi elvezi!”, direte voi come moderni asterix od obelix, personaggi da fumetto sedotti e abbandonati da chi aveva intuito il potenziale di un sistema politico ma che poi ha preferito altre scorciatoie per fare breccia nell’elettorato. Peccato, perché per una riforma federale non è necessario il talento di un federer. La costanza forse sì. Parola di svizzero.
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Intervista
Alla guida del motore del paese Vuole portare avanti il buon governo che ha consentito alla Lombardia di essere indicata come modello di efficienza e libertà. Autonomia, dote scuola, difesa e valorizzazione della famiglia così come definita dalla Costituzione. Qualche domanda a Attilio Fontana, candidato leghista del centrodestra alle regionali di Emanuele Boffi e Rodolfo Casadei Racconta di aver scelto di «girare come una trottola» per mercati, rioni, paesi e di tenersi «a debita distanza dai talkshow televisivi se non per lo stretto necessario. Ormai la gente si è un po’ stufata delle polemiche fini a se stesse». Attilio Fontana, classe ’52, di Varese, città di cui è stato sindaco leghista per dieci anni, è il candidato presidente per il centrodestra alle elezioni regionali lombarde del 4 marzo. «Ogni giorno – racconta a Tempi – faccio dai sei ai dodici incontri. Ascolto e spiego le mie idee, ma soprattutto ascolto». La macchina regionale la conosce bene: è stato eletto consigliere nel 2000 e fino al 2005 è stato presidente del Consiglio regionale. Sebbene di lui in questa campagna elettorale si sia parlato soprattutto per l’infelice espressione sulla «razza bianca» che un giornalista malizioso ha estratto dal contesto di un ragionamento più ampio sull’immigrazione, Fontana è un politico – glielo riconoscono anche gli avversari – serio, capace e che parla a ragion veduta. È uomo concreto e
che ha accettato di parlare con Tempi anche di tematiche un po’ sottotraccia in questa campagna elettorale (l’autonomia, la scuola, la famiglia) senza sottrarsi agli interrogativi su quelle che invece vanno per la maggiore, anche a causa dell’imporsi dei fatti di cronaca (l’immigrazione, la sicurezza ferroviaria). A ottobre dello scorso anno in Lombardia si è votato un referendum consultivo sull’autonomia. Il governatore Roberto Maroni ha spesso sottolineato come fosse necessario concordare con lo Stato un riordino delle competenze su alcune materie e ridiscutere la questione del residuo fiscale, cioè la differenza fra le tasse che i cittadini di un territorio versano e la spesa pubblica che ricevono sotto forma di servizi, e che questo dato è molto penalizzante per le casse della Lombardia. Però, diciamo la verità: il tema, seppur importante, è stato dimenticato dai media e oggi se ne sente parlare pochissimo. Io ho definito la prossima come la legislatura costituente, nel senso che si dovranno scrivere le regole del nuovo
patto col governo centrale. Puntiamo a ottenere l’autonomia che è assolutamente fondamentale non solo per la Lombardia, ma per tutte le Regioni italiane. Forse oggi molte non sono ancora pronte a fare questo passo, ma io sono convinto che, nel momento in cui capissero che anche a loro conviene assumersi qualche responsabilità e non più vivere “assistite” dallo
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Stato, ecco credo che ogni regione seguirà la nostra strada. Maggiore autonomia significa maggiore libertà; significa liberare quelle energie che oggi si fatica a mettere in circolazione. Sono stato presidente anci Lombardia (associazione nazionale comuni italiani) e, così come molti miei colleghi sindaci, ho vissuto sulla mia pelle quanto siano stretti i margini
di manovra per un amministratore locale. Per la nostra Lombardia ci sarebbero certamente dei vantaggi sia in termini di risorse sia, soprattutto, in termini di capacità progettuale. Mi consentirà di dire, infatti, che noi, con la poca autonomia di cui godiamo, abbiamo già dimostrato di saper fare le cose un po’ meglio che nel resto del paese.
Molto dipenderà anche dal governo che avrà l’Italia dopo il 4 marzo. Sì, certo. il centrodestra ha sempre avuto nei confronti dell’autonomia e del federalismo un atteggiamento positivo, mentre la sinistra, soprattutto negli ultimi anni, s’è irrigidita su posizioni centraliste. in ogni caso, con chiunque governerà io mi batterò per portare avanti
questa riforma che, ne sono convinto, può cambiare profondamente il paese. Immigrazione. Lei ha proposto di bloccare la macchina dei trasferimenti sul territorio regionale. «La Lombardia ha già dato tanto – ha dichiarato –, ospitiamo il 14 per cento dei quasi 200 mila richiedenti asilo presenti in Italia». S’è impegnato a ottenere col governo una moratoria. Perché? Ho chiesto una moratoria perché siamo la Regione che ha avuto trasferimenti superiori alle medie di tutto il resto del paese. Mi pare giusto che anche le altre Regioni si assumano qualche impegno in più. In tema di immigrazione io credo che non bastino le misure poste in essere. Sono provvedimenti emergenziali, ma non affrontano il problema nella sua complessità. Il governo dovrebbe dire quanti immigrati siamo in grado di ricevere, come intendiamo integrarli, quali lavori vogliamo che svolgano, che assistenza sociale vogliamo fornire loro. Insomma, vorrei vedere un progetto di integrazione che specificasse se siamo in grado di accoglierli, come, in quali quantità e, magari, anche chiedendo alla popolazione cosa ne pensa. Al momento è una situazione incontrollata e non gestita. Tutti lanciano accuse di xenofobia e razzismo, ma io invertirei il problema perché credo sia vergognoso costringere molte di queste persone a vivere sotto i ponti o nelle fabbriche abbandonate, senza un lavoro e un’assistenza. Dote scuola. Come sa, noi siamo dei grandi sostenitori della libertà di scelta e della libertà educativa e abbiamo sempre apprezzato il modello lombardo che consente alle famiglie di scegliere la scuola che ritengono più adeguata all’educazione dei loro figli. Lei che intenzioni ha? Può garantire che, se eletto, la dote scuola continuerà a essere una possibilità per le famiglie lombarde? Ho approvato la prima dote scuola quando ero in Consiglio regionale nei primi anni Duemila. Penso sia una politica estremamente positiva e non vedo alcun motivo per rinunciarvi. È una delle poche possibilità che viene data al cittadino di fare una scelta educativa per i propri figli. Mi sembra una soluzione che non solo va difesa, ma semmai implementata. Famiglia. Sia il presidente Formigoni
sia il presidente Maroni non hanno mai fatto mistero delle loro idee in merito e le loro politiche sono state sempre orientate al sostegno della famiglia così come definita dalla Costituzione. Lei cosa pensa di fare? Credo che la famiglia sia una sola. Certamente esistono altre situazioni che, per carità, non contesto, ma penso che la famiglia è quella definita non solo nella nostra Carta, ma anche nella nostra storia, cultura e tradizione. La famiglia è una sola e ritengo che vada tutelata in tutti i modi, non solo sotto il profilo economico (fui uno dei primi sindaci ad approvare il quoziente famiglia), ma anche dal punto di vista culturale. Oggi se si parla di “famiglia” anziché di “famiglie” o di altri tipi di unione si passa per omofobi o intolleranti. Esiste un pensiero unico che ci impedisce di affrontare i problemi in modo razionale e pacato: nessuno vuole escludere nessuno, ma non si può nemmeno negare la realtà dei fatti. Io credo che la famiglia sia il nucleo su cui si fonda la nostra società. Per quanto riguarda il problema della casa, lei ha dichiarato che contrasterà l’abusivismo, le occupazioni e l’illegalità. Cosa può fare concretamente la Regione? La Regione può intervenire chiedendo che chi deve fare rispettare la legge la faccia rispettare. Ho vissuto delle esperienze tristi andando a visitare tanta brava gente che vive nelle case popolari e ha paura a stare fra le proprie mura, tanta brava gente che deve subire le minacce e le violenze di persone che vanno contro la legge, che non la rispettano. Viviamo in uno stato di diritto sì o no? Inizio ad avere qualche dubbio. Dunque ci sono delle leggi e delle norme e chi è addetto a farle rispettare deve procedere: le occupazioni abusive vanno eliminate. Non appena eletto andrò dal Prefetto a chiedere un intervento perché l’intervento non può
«Viviamo in uno stato di diritto sì o no? Inizio ad avere qualche dubbio. Ci sono delle leggi e devono essere fatte rispettare: le occupazioni abusive vanno eliminate»
FOTO: ANSA
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attuarlo il presidente della Regione, ma il presidente della Regione ha il diritto di mettere in mora chi non fa rispettare la legge. Dobbiamo farlo per rispetto delle troppe persone, spesso anziane e psicologicamente fragili, che subiscono queste situazioni senza avere l’appoggio di chi avrebbe il compito di aiutarle. Lei si è battuto contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi. Cosa sarebbe successo di negativo al governo del territorio e alle autonomie locali se fosse passato il referendum confermativo? Sarebbe stato un vero disastro, sarebbe stata la fine degli enti locali, sarebbe stata la fine di ogni autonomismo e di ogni autonomia. Sarebbe stato un paese commissariato, con una dipendenza diretta dal potere centrale, con qualche commissario di governo che provvedeva a fare andare l’ordinaria amministrazione, ma l’amministrazione straordinaria sarebbe stata decisa tutta da Roma. Ho combattuto con grandissima convinzione contro la riforma, perché più la leggevo più mi rendevo conto che era una lacerazione rispetto alle cose nelle quali ho sempre creduto. Sarebbe stata la fine di un certo tipo di mondo, di un certo tipo di società, di un certo tipo di organizzazione che sono sempre state la specificità e la forza dell’Italia. Curioso che in Italia la sinistra sia così centralista, mentre negli altri paesi è autonomista. Curioso anche che si ragioni sempre in termini
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di emergenza e sempre personalizzando le questioni. anche la campagna referendaria è stata condotta come un voto su renzi, per contare chi era con lui e chi era contro : si è fatta troppo poca informazione sui contenuti della riforma proposta, e questo non è sano. Questo modo di fare informazione politica e dibattito politico favorisce l’antipolitica, favorisce chi lancia la notizia più clamorosa, chi fa l’affermazione più assurda, chi mette al centro del discorso una sola questione. ad esempio, è giusto discutere dei costi della politica, ma non si può far passare l’idea che l’italia va male a causa degli stipendi dei parlamentari. io non sono mai stato parlamentare, e quindi non sono parte in causa; sono d’accordo, per ragioni etiche, a ridurre lo stipendio dei parlamentari. Ma non è etico far credere che così si risolvono i problemi del paese! Di Maio si fa bello dichiarando: “io rinuncio al 50 per cento dello stipendio parlamentare”, cioè 7.500 euro al mese. Ma prima di fare il politico quanto guadagnava? Guadagnava 5 mila euro all’anno. allora la verità non è che rinunci a 7.500 euro, è che ne guadagni 6 mila al mese più di prima! A proposito: il Movimento Cinque Stelle non ha mai sfondato in Lombardia. Perché, secondo lei? Perché i lombardi sono concreti, non si lasciano abbindolare dalle sparate. e perché qui la situazione generale è migliore che in altre zone. in altre zone
d’italia di fronte al caos nasce la tentazione di sperimentare un altro tipo di caos nella speranza che sia migliore. Quali sono le istanze del territorio alle quali lei e la sette liste che la sostengono volete dare risposta? il primo provvedimento che vorrei assumere è aumentare la platea dei fruitori gratuiti dei nidi per l’infanzia. Sarebbe un’azione concreta e insieme un segnale. L’altra richiesta che sempre arriva dal territorio è quella di rendere più snelle le procedure e più semplici i rapporti con la regione. La sburocratizzazione è fondamentale. Tutti la chiedono: gli imprenditori, gli agricoltori, i trasportatori, le associazioni sportive… Qualcosa bisognerà fare. anche se bisogna capire che la situazione attuale è dovuta alla necessità di non vedere impugnati gli atti amministrativi, non avere obiezioni dalla Corte dei conti, eccetera. Ma occorre anche assumersi la responsabilità, il rischio di quello che si fa: se sai di non avere favorito nessuno, se sai di non avere rubato, allora devi correre il rischio anche di una procedura un po’ più snella. All’indomani del tragico incidente ferroviario di Pioltello qualcuno ha detto che la Lombardia negli ultimi anni ha fatto troppo per strade e autostrade e troppo poco per le ferrovie. Lei cosa pensa? E che cosa è possibile fare per le ferrovie? Condivido la critica, ma il fatto che non tutti conoscono è che esiste un serio problema nella governance del sistema ferroviario: la linea e le rotaie appartengono alla rfi, cioè allo Stato (rfi è società delle ferrovie dello Stato, ndr), e i treni e la loro gestione appartengono a una società che è per il 50 per cento statale e per il 50 per cento della regione. La situazione anomala è data dal fatto che rfi non investe da anni né nel miglioramento né nell’ammodernamento delle reti, infatti abbiamo la stessa rete che c’era 30-40 an-
«Giorgio Gori si presenta come un candidato del centrodestra e cerca di confondere le acque ma la verità è che con lui andrebbe al governo la sinistra»
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ni fa. Dall’altro lato, per quanto riguarda i treni, c’è una società paritetica, ma i treni nuovi li ha acquistati la regione. in realtà la società, poiché non c’è disponibilità da parte della componente statale a versare nulla, non compra nulla. È la regione che acquista i treni e poi fa un contratto di comodato per la gestione. C’è qualcosa che non va in questo schema: se siamo in società per la gestione, dovremmo essere tutti e due a investire. Quindi io credo sia necessario un notevole ripensamento nel rapporto fra la regione e ferrovie dello Stato. Così non può andare avanti: che non investano un euro sulla rete e che non tirino fuori un euro per i treni mi sembra una cosa che non si può accettare. Cosa pensa di Giorgio Gori, il candidato del Pd e suo principale competitor? Il suo slogan “Fare, meglio” non è un implicito riconoscimento che qui in Lombardia si è amministrato bene e che, dunque, posta l’esigenza di migliorare, si è proceduto su una buona strada? io la vedo diversamente, mi sembra uno slogan subdolo. Gori ha moltiplicato gli attacchi negli ultimi tempi, affermando che tutte le politiche della giunta Maroni hanno fallito. Lui ha scelto quello slogan solo per accreditarsi presso un certo tipo di elettorato. Se vedete i suoi manifesti, non c’è mai il simbolo del Partito democratico e i colori e le tonalità sono quelli dei manifesti elettorali del centrodestra. Vuole apparire come un candidato che non è di sinistra, ma la verità è che con lui andrebbe al potere la sinistra. Qualche giorno fa ha fatto una dichiarazione rivelatrice: «in Lombardia non guardiamo alle casacche, guardiamo alle persone». Si vede che si vergogna anche lui della casacca che indossa. Ma soprattutto vuole confondere le acque e le idee ai cittadini: Giorgio Gori è un uomo di Matteo renzi, è un membro del Pd, è il candidato del centrosinistra. fa parte di quella classe dirigente che negli ultimi anni non ha azzeccato le scelte giuste per il nostro paese e ha contribuito a creare la situazione in cui ci troviamo. bisogna tenere in mente quello che lui tende a nascondere: il giorno che dovesse diventare presidente, dovrebbe pagare le cambiali ai partiti che lo hanno sostenuto, dovrebbe concordare con loro le decisioni.
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LE NUOVE LETTERE DI BERLICCHE Ingenuità o calcolo?
Che “razza” di lapsus Troppo facile approfittarne Mio caro Malacoda, è da tempo che non ti scrivo, ma non credere che nelle more sia rimasto inoperoso. Io agisco nell’ombra e nel non detto (ma pur sempre suggerito). E a proposito di dire o non dire, che pensi dell’uscita di tal Attilio Fontana da Varese sulla “razza bianca a rischio”? A me è sembrata una scemenza (e in quanto tale dovrei difenderla, ma il loico che è in me si ribella), ma scemenza non priva di una sua logica. Quale? Io, e l’80 per cento degli italiani, non conoscevo Attilio Fontana, ora so (e con me il 100 per cento degli italiani) che a quel nome corrisponde un candidato alla presidenza della Regione Lombardia. Ingenuità o calcolo? A sua difesa l’Attilio ha prima parlato di lapsus e poi ha citato la Costituzione italiana, che all’articolo 3 proclama che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti Chi vuole fare politica rifletta, alla legge, senza distinzione di sesso, di studi, legga. Ad esempio razza eccetera». Se è per questo poteva citare anche il cardinale Richelieu: il XV emendamento della Costituzione «Datemi sei righe scritte americana, là dove si dice che «il diritto dal più onesto degli uomini, di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati e vi troverò una qualche cosa Uniti o da qualsiasi Stato in ragione del- sufficiente a farlo impiccare» la razza, del colore…». Al francese Pierre Moscovici che l’ha sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace duramente rampognato poteva rispon- (…) assicurerà completa uguaglianza dere con l’articolo 1 della Carta france- di diritti sociali e politici a tutti i suoi se: «La Francia è una Repubblica indivi- abitanti senza distinzione di religione, sibile, laica, democratica e sociale. Essa razza o sesso». assicura l’uguaglianza davanti alla legIl diavolo, poi, gli avrebbe consigliato ge di tutti i cittadini senza distinzione di anche l’acqua santa: un passaggio della origine, di razza o di religione». Gravissimum educationis del Concilio Vaticano II, che qui si riporta nella sua traduzione italiana: «Tutti gli uomini di Pure Gandhi e Kennedy E in un impeto, invero poco sovranista, qualunque razza, condizione ed età, in poteva spingersi sino all’articolo 2 della forza della loro dignità di persona, hanno Dichiarazione universale dei diritti uma- il diritto inalienabile a una educazione». In un crescendo di vis polemica si ni, che estende «a ogni individuo (…) tutti i diritti e tutte le libertà enunciate sarebbe quindi scesi ai colpi bassi e al nella presente Dichiarazione, senza di- “razzista” leghista qualcuno avrebbe stinzione alcuna, per ragioni di razza…». contrapposto la “razzista” renziana, tal Avesse avuto un diavolo come avvo- Patrizia Prestipino della direzione del cato, il Fontana avrebbe scomodato ad- Pd che ebbe a dichiarare: «Se uno vuole dirittura la Dichiarazione di Fondazione continuare la nostra razza è chiaro che in dello Stato d’Israele, il quale, «fondato Italia bisogna iniziare a dare un sostegno
concreto alle mamme e alle famiglie. Altrimenti si rischia l’estinzione». Rotolando con ludibrio autolesionista nel fango si poteva giungere sino all’uso dei mostri sacri: Gandhi e Kennedy. Il primo, in una lettera a Hitler mai giunta a destinazione (ingenuità o calcolo?), scriveva: «Caro amico, se vi chiamo amico, non è per formalismo. Io non ho nemici. Il lavoro della mia vita da più di trentacinque anni è stato quello di assicurarmi l’amicizia di tutta l’umanità, senza distinzione di razza, di colore o di credo». Il secondo, in gran tour europeo, confidava al suo diario: «Abbiamo risalito il Reno. È bellissimo, anche per i molti castelli lungo il percorso. Le città sono tutte deliziose, ciò che mostra come le razze nordiche sembrano essere certamente superiori a quelle romaniche».
Quella «voce dal sen fuggita»
Tanto ti basti, nipote, riguardo al contenuto. Quanto al lapsus invocato dal Fontana (e precedentemente dalla Prestipino), chi ha ancora l’ardire dell’impegno politico rifletta, studi, legga. Ad esempio il cardinale Richelieu: «Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini, e vi troverò una qualche cosa sufficiente a farlo impiccare». Perché ne uccide più la parola che la spada, e il detto vale anche per il suicidio (politico). «Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale», ammoniva Metastasio e impiccare un uomo alle sue parole è usanza talmente diffusa da essere diventato un gioco con cui si insegna il vocabolario ai bambini. Imparare sempre dal Nemico (che pure lui ebbe a sbottare in un «razza di vipere!» rimasto memorabile): «Puri come colombe e astuti come serpenti». Tuo affezionatissimo zio Berlicche
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OGNI GIORNO È UN FAMILY DAY Che cosa vuol dire “fare politica”
di Marco Invernizzi
Non è vero che i partiti sono tutti uguali Capita spesso di dovere rispondere alla domanda: che cosa è il Comitato Difendiamo i Nostri Figli (Cdnf) e che cosa c’entra con la politica? Come si sa, il Cdnf nasce in occasione del Family day del 20 giugno 2015 e organizza sei mesi dopo anche il secondo, il 30 gennaio 2016. Il suo scopo è certamente quello di opporsi al disegno di legge sulle unioni civili, ma anche e soprattutto quello di denunciare la penetrazione nella società italiana dell’ideologia gender, in particolare tramite le scuole. Il rapporto con le istituzioni, con i partiti e in generale con la politica è logico e inevitabile, perché il Family day organizza una parte del popolo italiano per servire la famiglia intesa come cellula fondamentale della società fondata sul matrimonio per sempre di un uomo e di una donna. Si tratta dunque di un evento politico, secondo l’espressione del beato Paolo VI che definiva la politica come una delle più alte Bisogna cercare di fare espressioni della carità. rieleggere i parlamentari Il Cdnf si è sempre “pensato” quindi come una realtà che “fa politica” senza che si sono battuti contro costituire un proprio partito, ma cercan- unioni civili e dat, e i pochi do di “contaminare” quelle forze partiesponenti del Cdnf entrati tiche che si dimostrano disponibili ad nelle liste del centrodestra: ascoltare le istanze del Family day. Da qui nasce l’impegno a scongiurare altre strade non ci sono l’approvazione di una riforma costituzionale ulteriormente centralistica nel un corpo sociale che viene governato da referendum del dicembre 2016 e l’impe- forze politiche. Così ha cominciato a orgno nelle elezioni amministrative della ganizzare corsi di formazione sulla dotprimavera dello stesso anno, per elegge- trina sociale della Chiesa e la storia della re sindaci e consiglieri comunali pro-fa- presenza dei cattolici nella vita pubblica mily, mentre durante questi mesi è con- dell’Italia, perché i princìpi fondamentinuato l’impegno a interloquire con le tali attaccati oggi, la vita, la famiglia, la istituzioni, il ministero dell’Istruzione libertà di educazione e di religione, posinnanzitutto, per cercare di contrastare sono essere difesi e promossi soltanto la penetrazione del gender nelle scuole. all’interno di un progetto culturale e politico concepito e amato. Siamo così arrivati a oggi, alle immiImmersi nel corpo sociale Nel corso di questi mesi il Cdnf si è reso nenti elezioni politiche, che rappresenconto che per difendere e promuovere tano un passaggio importante anche se la famiglia bisogna considerarla all’in- non decisivo nella storia della nazione terno di un contesto sociale e politico, italiana. La salvezza della patria non perché la famiglia cresce o muore dentro verrà dalla politica e tanto meno da elezioni che probabilmente non saranno decisive neppure per dare un governo al paese, ma tuttavia sono un banco di prova per verificare quanti italiani an-
dranno a votare e a quali forze daranno il loro voto. Le forze politiche attuali sono espressione della società, impregnate di relativismo e di confusione sui grandi princìpi antropologici. Ma non sono tutte uguali. Le diverse sinistre e il Movimento 5 Stelle esprimono una concezione dell’uomo incompatibile con i princìpi fondamentali della dottrina sociale, come hanno dimostrato votando a favore delle unioni civili e delle disposizioni anticipate di trattamento, che di fatto hanno aperto al matrimonio omosessuale e all’eutanasia.
Dopo il voto, l’azione
Le forze del centrodestra, anche se non tutte compattamente, hanno avversato queste leggi; in esse vi sono stati alcuni parlamentari che si sono battuti con energia contro queste leggi e il loro impegno va riconosciuto e premiato. Bisogna cecare di fare rieleggere questi parlamentari e i pochissimi esponenti del Cdnf entrati nelle diverse liste del centrodestra: altre strade non ci sono, perché votare un piccolo partito come il Popolo della Famiglia significherebbe disperdere voti e astenersi sarebbe un suicidio politico perché metterebbe il paese nelle mani delle sinistre o del movimento di Grillo. Tuttavia votare bene a poco servirà se al voto non seguirà un’azione culturale capillare, sul territorio, che unisca famiglie e varie competenze, che insomma organizzi la promozione e la difesa di questi princìpi senza i quali il mondo moderno sta voltando le spalle alla vita e sceglie così di morire.
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Le mine vaganti del 2018
L’anno in cui il bazooka non sparerà più
di Rodolfo Casadei Università gratis per tutti, reddito di cittadinanza, reddito di dignità, abolizione del canone televisivo, tasse ridotte all’aliquota unica del 17, o del 20, o del 23 per cento, salario minimo a 10 euro all’ora, abolizione della legge Fornero, aumento dei minimi pensionistici a 730 euro, a 1.000 euro, a… La girandola delle promesse acchiappavoti alla vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo più che incantare gli italiani stimola la loro ilarità, più che creare interesse per il voto suscita la curiosità di stare a vedere chi la sparerà più grossa. Non incide sostanzialmente sugli orientamenti di un elettorato ormai disincantato e meno ingenuo di quanto lo si dipinga, ma rischia di distrarre l’attenzione dai grossi problemi di fronte ai quali l’Italia si troverà nel corso del 2018. C’è in giro una certa euforia perché tutti gli enti finanziari internazionali confermano che c’è ripresa economica nel mondo, in Europa e nell’Eurozona, e perché negli ultimi tre anni il Pil italiano è sempre cresciuto. Le promesse della campagna elettorale sfruttano l’onda del clima di fiducia che si è cominciato a respirare l’estate scorsa. Ma le prospettive sono molto meno rosee di quanto si voglia far credere.
Intanto la crescita italiana è nettamente inferiore alla media di quella dell’Eurozona: 1,5 per cento la prima (dato Istat confermato, nonostante Matteo Renzi abbia twittato ancora il 14 novembre scorso che sarebbe stata dell’1,8), 2,2 per cento la seconda. Lo stesso scarto si registrerà, secondo le previsioni, quest’anno: la crescita del Pil italiano dovrebbe attestarsi sull’1,4 per cento, mentre l’Eurozona crescerà mediamente del 2,1 per cento. La crescita italiana, secondo Eurostat, sarà ancora più risicata nel 2019, allorché tornerà ad essere dell’1 per cento come nel 2015. Per l’Italia la bassa crescita è un grosso problema, perché ogni anno deve fare fronte a uscite per 80 miliardi di euro per il pagamento degli interessi del suo gigantesco debito pubblico. Quando Enrico Letta assunse la carica di presidente del Consiglio all’indomani delle elezioni del febbraio 2013 il debito pubblico ita-
Il Pil italiano dovrebbe attestarsi sull’1,4 per cento, mentre l’Eurozona crescerà mediamente del 2,1 per cento. E i nostri progressi, secondo Eurostat, saranno ancora più risicati nel 2019
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La crescita italiana esiste, ma le prospettive non sono rosee. Dobbiamo sempre fare i conti col nostro debito pubblico, il rialzo dei tassi di interesse, il prezzo del petrolio, le scelte della Cina e degli Stati Uniti. Insomma ragazzi, piano con l’euforia
liano era di 2.017,6 miliardi di euro, pari al 123,4 per cento del Prodotto interno lordo. Dopo cinque anni di governi a guida Pd è salito a 2.275 miliardi (dato del novembre 2017) e al 132,1 per cento del Pil. Per tutta la durata dei governi Renzi e Gentiloni il ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan ha annunciato l’imminente inizio della diminuzione del debito
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Con questa vignetta il Financial Times raffigurò la politica monetaria del presidente della Bce Mario Draghi, intento a sparare soldi col bazooka del quantitative easing per dare ossigeno alle economie europee
pubblico italiano a più riprese, sempre invano: «il debito comincerà a scendere a partire dall’anno prossimo» (intervista a bloomberg del 6 settembre 2015); «il debito pubblico italiano scenderà nei prossimi anni anche nel caso in cui il Pil dovesse diminuire» (Question time alla Camera, gennaio 2016); «il debito pubblico italiano si è stabilizzato, ha smesso di crescere
L’indebitata Italia ha tratto grandi benefici dal quantitative easing messo in atto dalla Bce guidata da Draghi, ma ora anche questa bonanza sta per finire
e non potrà stare fermo per molto tempo, scenderà rapidamente» (24 maggio 2016, all’ecofin a bruxelles); «Se continueranno le attuali tendenze macroeconomiche il debito pubblico italiano scenderà in maniera significativa dal prossimo anno, e deve farlo» (conferenza stampa al termine del vertice autunnale di fmi e banca Mondiale, 14 ottobre 2017).
Le tendenze macroeconomiche potrebbero non aiutare come Padoan e altri sperano per una serie di ragioni. La prima è che nel corso del 2018 i tassi di interesse conosceranno un significativo rialzo in Europa e nel resto dell’Occidente. La Federal Reserve, cioè la banca centrale degli Usa, ritoccherà al rialzo per tre volte i tassi di interesse nel corso del 2018, come ha già fatto durante il 2017. Janet Yellen ha lasciato all’inizio di febbraio la sua carica di presidente della banca dopo aver portato il tasso dei titoli pubblici all’1,25-1,50 per cento. Con i tre rialzi di un quarto di punto previsti entro la fine del 2018 si arriverà al 2,25-2,75 per cento. Alcuni analisti di Wall Street sostengono che i rialzi saranno più di tre e che gli interessi sui titoli del debito federale a 10 anni toccheranno il 3 per cento. A ciò si aggiunga che nel settembre scorso la Federal Reserve ha messo fine alla politica di quantitative easing, cioè di acquisto di titoli federali e mutui immobiliari decisa nel novembre 2008 per controbattere gli effetti della crisi finanziaria che esplose in quell’anno. Nel giro di nove anni il dossier titoli della banca centrale degli Usa è passato da 830 a 4.500 miliardi di dollari, un valore equivalente al 23 per cento del Pil americano. Dall’ottobre 2017 è iniziato un quantitative tightening del valore di 10 miliardi di dollari al mese, che saliranno a 30 nel corso del 2018; all’orizzonte del 2021 il valore del debito detenuto dalla Fed sarà diminuito di 1.000-2.000 miliardi. Che una svolta del genere non abbia effetti sui mercati finanziari si fa fatica a immaginarlo, nonostante le rassicurazioni della Yellen.
Energia meno energetica
Com’è noto, Federal Reserve americana e Banca del Giappone non sono le sole grandi banche centrali di paesi altamente industrializzati ad avere condotto una politica di quantitative easing: la Banca centrale europea si è lanciata sulla stessa pista a partire dal 2015, comprando 2.300 miliardi di euro di titoli a colpi di 60-80 miliardi al mese. L’indebitata Italia ha tratto grandi benefici da questa politica, che ha portato il dossier titoli della Bce (anche a causa di altre operazioni di soccorso alle banche europee condotte fra il 2010 e il 2012) a un valore equivalente al 38 per cento del Pil dell’Eurozona. Ora
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anche questa bonanza sta per terminare: nell’ottobre scorso Mario Draghi ha dato il via alle operazioni di rientro del quantitative easing europeo, dimezzando da 60 a 30 miliardi di euro gli acquisti mensili di titoli da parte della Bce, nella prospettiva di azzerarli nel settembre 2018. Risulta al Financial Times che nel Consiglio direttivo del dicembre scorso si sono levate voci per accelerare il rientro così come è stato programmato da Draghi. Il quale ha rimarcato che i tassi di interesse resteranno fermi nel mentre che il quantitative easing sarà portato a termine. Una dichiarazione che lascia scettici: i tassi dell’Eurozona possono restare fermi quando quelli americani e britannici si alzano e quando la Bce non acquista più debito pubblico? Al problema del rialzo dei tassi di interesse del debito si aggiungono problemi macroeconomici che potrebbero incidere negativamente sulla crescita. Il primo è il prezzo del petrolio e dell’energia in generale. Tale prezzo continuerà verosimilmente a salire, dopo aver rimontato
Sul futuro pesano tre incognite: l’indebitamento dell’economia cinese, gli alti livelli di inquinamento di origine industriale e la prospettiva di una guerra commerciale fra Usa e Cina
dai 32 dollari al barile dei primi mesi del 2016 (prendendo come riferimento il Brent) ai 64 dollari del dicembre scorso, perché una coalizione di 24 paesi produttori guidati da quelli dell’Opec ha confermato la politica dei tagli di produzione decisa nel novembre 2016 (quando il Brent costava 44,5 dollari al barile) e attuata con più coesione ed efficacia che in passato. Alla fine dello scorso novembre sotto la guida dei ministri del petrolio di Arabia Saudita e Russia i paesi dell’accordo si sono nuovamente riuniti a Vienna e hanno deciso di prorogare la politica dei tagli di produzione (che ha tolto dal mercato 1,8 milioni di barili al giorno per un intero anno di seguito e che doveva spirare nel marzo prossimo) fino alla fine del 2018.
Trivellare con cautela
In soldoni questo significa che il prezzo continuerà a risalire fino ai 70 dollari al barile e forse fino agli 80. Ma non c’era lo shale oil americano a spingere in basso i prezzi? Non più, pare. Scrive il sito americano Oilprice: «Gli operatori delle compagnie dello shale oil hanno ripetutamente promesso ai loro azionisti che stavolta saranno prudenti, che la loro mentalità è cambiata e non trivelleranno più all’impazzata, cosa che ha portato a un alto livello di indebitamento delle compagnie e ultimamente a una diminuzione del prezzo del petrolio. Gli operatori dello shale oil hanno ripetutamente affermato
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A sinistra, la sede della Banca centrale europea a Francoforte. Sopra, il presidente cinese Xi Jinping
nel corso del 2017 che non ritorneranno a politiche di trivellazione aggressive nemmeno in caso di rialzo dei prezzi». Lo shale oil americano non farà nulla per turbare l’andamento al rialzo del prezzo del petrolio, e anzi lo sfrutterà per alleggerire l’indebitamento delle compagnie e redistribuire profitti fra gli azionisti. Un’altra mina vagante sulla strada della ripresa della crescita economica in Italia è rappresentata dal futuro dell’economia cinese. Per il sollievo di molti il dato del 2017 è stato confortante: il Pil cinese è cresciuto del 6,9 per cento, e per la prima volta dal 2010 la crescita è stata maggiore di quella dell’anno precedente. Ma sul futuro pesano tre grosse incognite. La prima è l’indebitamento dell’economia cinese, la seconda sono gli alti livelli di inquinamento di origine industriale e la terza è la prospettiva di una guerra commerciale fra Usa e Cina. Sulle prime due incognite il governo cinese ha già iniziato a intervenire, ordinando la riduzione della produzione industriale in alcune aree del paese e mettendo un freno all’indebitamento di imprese ed enti locali. Secondo JP Morgan il debito totale dell’economia cinese è pari alla fine del 2017 al 268 per cento del Pil: solo il 55 per cento è debito pubblico; il 166 per cento è debito contratto dalle imprese. Inevitabilmente la riduzione delle emissioni di origine industriale e la stretta sul credito alle imprese rallenteranno la crescita cinese nei prossimi anni, con immaginabili riflessi
sull’export europeo. La terza incognita è nelle mani di Donald Trump: più volte ha annunciato di voler intraprendere una guerra commerciale con la Cina per punire l’asserita competizione sleale cinese. Il 2018 potrebbe essere l’anno nel quale passa dalle parole ai fatti.
Mercato immobiliare fermo
Infine le modeste prospettive dell’Italia trovano riscontro nella stasi del settore immobiliare. Il boom del mattone è sempre stato il principale sintomo della buona salute dell’economia italiana, così come la stagnazione dei prezzi un chiaro indicatore di crisi. Ebbene, proprio nei giorni in cui il governo festeggiava il miglior dato di crescita del Pil di tutta la legislatura, Istat ed Eurostat gettavano una secchiata di acqua fredda sugli entusiasmi: la prima rendeva noto che anche nel terzo trimestre del 2017 i valori immobiliari hanno continuato a scendere, la seconda che nel secondo trimestre l’Italia era stato l’unico paese europeo nel quale i prezzi delle case erano diminuiti
Il nuovo governo si troverà di fronte a una situazione dove i sintomi di ripresa sono contrastati da una congiuntura dei tassi di interesse e del prezzo dell’energia sfavorevole
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(in due terzi degli altri paesi Ue i prezzi sono aumentati addirittura di più del 5 per cento). Questa tendenza va avanti ininterrotta dal 2007: da allora ad oggi le case italiane hanno perduto il 23 per cento del loro valore. Questo significa un drastico impoverimento delle famiglie, considerato che in Italia il 72 per cento dei nuclei familiari è proprietario della casa in cui vive. Il ritmo delle nuove costruzioni è praticamente dimezzato rispetto ai livelli pre-crisi, e il tasso di fallimento delle imprese di costruzione continua a essere nettamente più alto di quello generale dell’industria: nel 2016 il 4,4 per cento delle aziende del settore ha dovuto chiudere i battenti, che è certamente meno del dato registrato nel 2013 (5,5 per cento), ma è quasi il doppio del dato medio di tutte le aziende dell’industria fallite: 2,6 per cento.
Le colpe del Pd
Si può aggiungere che l’Italia e il suo sistema bancario sono vittime di una crisi analoga a quella dei mutui sub-prime americani: la proporzione di mutui sulla casa (o su strutture di edilizia industriale di proprietà aziendale) che i debitori non riescono a ripagare alle banche è il doppio di quella dei prestiti per attività manifatturiere, e pesa sulle banche italiane per 173 miliardi di euro, pari al 42 per cento di tutti i crediti inesigibili. Due fenomeni alimentano una sorta di circolo vizioso: i proprietari non vendono in attesa di un rialzo dei prezzi ma proprio l’esistenza dello stock invenduto ritarda il rimbalzo del mercato; le vendite all’asta di case ipotecate e incamerate dalle banche a indennizzo dei prestiti perduti sono aumentate del 25 per cento nell’ultimo anno e questo ha contribuito al ribasso dei prezzi. In sintesi: l’Italia dei governi a direzione Pd non ha sfruttato la congiuntura favorevolissima rappresentata dalle politiche di quantitative easing e dai bassi tassi di interesse di Bce e Fed, né il lungo periodo di ribasso del prezzo del petrolio; il nuovo esecutivo si troverà di fronte a una situazione dove i sintomi di ripresa economica sono contrastati da una congiuntura dei tassi di interesse e del prezzo dell’energia molto sfavorevole per un paese altamente indebitato e privo di materie prime come il nostro.
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foglietto I suggerimenti di Davos e Fmi
di Alfredo Mantovano
“Quelli che sanno” tutto di populismi, ma ben poco di popolo Per chi voterebbe in Italia chi ha partecipato al recente World Economic Forum di Davos? Rispondiamo per esclusione. Certamente non per le forze politiche qualificate come “populiste”, e quindi Lega, Fdi e M5s. Intendiamoci: tranne il premier Gentiloni, nessuno degli ospiti di Davos ha l’elettorato attivo in Italia; più d’uno ha però sentito il dovere di partecipare al nostro dibattito pre elettorale, andando oltre la pur legittima manifestazione di opinione. Così, per gli analisti di Credit Suisse «le elezioni del 4 marzo sono viste da alcuni investitori come il rischio più rilevante in Europa quest’anno, dato il supporto relativamente alto ai partiti anti-establishment e anche alla luce del debito pubblico costantemente elevato». È per questo che un “governo del Presidente“ guidato da Gentiloni sarebbe «un’opzione sufficientemente rassicurante per i mercati». La società statunitense Citigroup si è mostrata convinta che gli investitori tifino larghe inte- È esagerato parlare se. Il Fmi, mentre ha elevato la stima di crescita dell’Italia, ha però aggiunto che di condizionamenti? Sono «le incertezze politiche creano rischi nel- quei tipi di consigli che vanno la realizzazione delle riforme». ascoltati: come quell’offerta È esagerato parlare di condizionadi don Vito Corleone, mento del voto italiano? Si è nel recinto di quei consigli che è obbligatorio ascol- che non si poteva rifiutare tare: come quell’offerta di don Vito Corleone, che non si poteva rifiutare. Che tuzioni dell’Ue, si ha l’impressione che la senso politico ha demonizzare partiti critica del populismo coincida con la crimarchiati come fuori sistema, se non si tica del popolo tout court: riferirsi troppo comprende la ragione per la quale tanti al popolo è sbagliato, perché fa correre italiani li preferiscono? Quel che è di mo- il rischio che il popolo non avalli quello da qualificare “populismo” è veramente che sta bene alle elité, finanziarie e non. il regno dell’antipolitica? Non è, al con- D’altronde, due leader hanno dovuto latrario, una domanda, spesso disperata, di sciare la guida dei rispettivi governi per intervento della politica? Posta in modo aver commesso l’“errore” di consultare il rozzo, non articolato, ma che esige una popolo: David Cameron col referendum maggiore, non una minore assunzione sulla permanenza in Europa, Matteo Rendi responsabilità politica. Quel voto, al di zi col referendum costituzionale. là del merito dei programmi, chiede con Chi nei singoli Stati ambisce a rapprerabbia alle classi dirigenti di scegliere, sentare i popoli di riferimento potrebbe senza limitarsi – quando va bene – alla fare qualche sforzo in più per venir fuori mera gestione o all’amministrazione. da posizioni banali e irreali. E, per esemDai partecipanti di Davos alle esterna- pio, volendo affrontare seriamente il rapzioni di personaggi autorevoli delle isti- porto con l’Ue, puntare sui meccanismi di intralcio alla assunzione delle responsabilità politiche nelle sedi che contano. Oggi l’Europa ha 28 Stati membri: con l’uscita del Regno Unito scenderanno
a 27, ma l’ingresso dei Paesi candidati farà oltrepassare quota 30. Il confronto politico è impossibile, oltre che per il numero dei partner, per il criterio della unanimità, in virtù del quale Malta o Lussemburgo riescono a paralizzare l’intera Unione in caso di disaccordo. Quelle sedi non offrono né le condizioni né il tempo materiale per confrontare le rispettive posizioni e per far emergere ed elaborare le opzioni politiche di respiro, se necessario anche a seguito di uno scontro duro: col risultato che in genere vengono approvate piattaforme predefinite nelle sedi tecniche. La scelta effettiva è operata in larga parte dalle burocrazie europee, distanti dal sentire dei popoli.
Superare gli slogan
Urge uscire dalla dialettica fra “quelli che sanno” e pretendono di imporre con la minaccia delle ricadute economiche, e la plebe dei nuovi proletari che non fanno più figli ma hanno ancora il diritto di voto, e intendono esercitarlo preferendo quelle forze che dicono di voler respingere gli abusi dei primi. Papa Francesco ha ricordato che l’Europa non è «un insieme di regole da osservare, (…) un prontuario di protocolli e procedure da seguire» . È invece «una famiglia di popoli e – come in ogni buona famiglia – ci sono suscettibilità differenti». Coi criteri di Davos anch’egli ricadrebbe nella categoria dei populisti. Ma chi oggi è bollato in questo modo deve assumersi la responsabilità di oltrepassare gli slogan, di togliersi l’abito caricaturale che gli viene cucito indosso, e di dimostrarsi alternativa credibile a “quelli che sanno”.
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IL MOLOKANO Eutanasia e vita
di Renato Farina
In questo mondo omologato che parla di “bella morte” e finisce col morire di noia Riflessione con gli amici. Prima pagina del 18 gennaio di Libero, che è il quotidiano il cui direttore editoriale Vittorio Feltri è mio fratello. Lui è filoeutanasia, e si batte per la sua legalizzazione senza ipocrisie ed eufemismi tipo testamento biologico e così via (anche se la parola stessa eu-tanasia, che vorrebbe dire il darsi una bella morte, è una bugia, ma non insisto oltre). Sulla vicenda del dj Fabo, Libero ha perciò difeso la scelta di Marco Cappato, a processo per aver organizzato il trasferimento in Svizzera nella clinica dove l’amico si è sottoposto alla pratica del suicidio assistito. Non entro nella vicenda legale: se Cappato abbia commesso un reato o no. Il suo eccellente avvocato Massimo Rossi ha convinto il pubblico ministero a ritenere che «il fatto non sussiste». Torniamo alla prima pagina. L’editoriale di Libero, scritto benissimo da Filippo Facci, ha questa titolatura: “L’eu- È una vita che polemizzo, tanasia del dj Fabo. La politica non ti lama incide poco. È una scia neppure morire in pace. Per fortuna c’è un pm”. È un inno alla libertà. Per tragedia personale, ma mi me è un inno alla morte. Mi sconvolge aiuta a capire che non sono assistere a questo coro universale. Non io che cambierò il mondo ho nessuna voglia però di dialettizzare in pro e contro: è una vita che lo faccio, con un articolo ben riuscito ma non incide in nulla, e per me è una tragedia personale, ma mi aiuta a re- za dell’amore. Lo disse una volta l’ateo stare consapevole che non sono io che Leonardo Sciascia con la frase che diede cambierò il mondo con un articolo ben il titolo a un’intervista di Vittorio Mesriuscito. Nella vita si è servi inutili, ma sori allo scrittore, raccolta poi in un lifiduciosi nel Padrone. bro di Luigi Accattoli: “La speranza di Ma ecco che sul mio giornale, in non morire”. Non solo noi, ma che non quella stessa prima pagina, leggo muoia chi amiamo. E l’amore che, per il questo titolo: “La morte della mamma filosofo Gabriel Marcel, dice all’amico, merita questo film. ‘Coco’ della Disney all’amante, al padre: «Tu non morirai!». coglie un sentimento profondo che la Ringrazio Libero che offre questa nostra cronista, avendolo vissuto per- gamma di colori con cui ciascun lettore sonalmente, vi racconta in un articolo può dipingere il suo quadro esistenziale. commovente”. Verissimo. Eliana Giusta Uno può scegliere. Questa è la sintesi che allarga il cuore di chi legge. La morte faccio qui, io, con voi amici. Ma oggi tutto della madre raccontato dalla figlia porta a non scegliere. A inserire queste giornalista esprime l’esatto contrario due percezioni opposte in unico caldedell’editoriale. Noi non siamo fatti per rone mentale. La cultura dominante la morte! È così evidente nell’esperien- post-ideologica ha questo carattere omologante. Tutto alla fine diventa uguale. Tutto è accettabile, purché susciti sentimenti che tolgano un po’ la noia della vita: il voler morire, il voler vivere, tutto va
bene, purché susciti emozione. Non esiste un terreno solido, certezza sul bene e sul male, in questo mondo dove tutto è relativo, salvo l’umore. Dallo Spirito assoluto di Hegel siamo passati all’umore come assoluto.
Perché cambio nome alla rubrica
È una forma estenuata di moralismo. I moralisti lasciano il passo agli estetisti, anzi alle estetiste. È il dover essere come arte di laccarsi le unghie. La bella morte, una vita carica di passione e/o piacere, non esiste la pienezza della verità e della bellezza, ma solo l’attimo fuggente che non è finestra sull’eterno, ma un’evanescente luccicore da suggere come un midollo, e poi digerire il meglio possibile, senza dolore. La vita come Alka Seltzer, e la morte pure. E allora? Senza lamenti, senza gridare all’apocalisse, procedere senza sguardi torvi. Come chi? Come il Molokano, da cui prende nome questa rubrica. Ho pensato: Tempi cambia per restare fedele. Mi adeguo, cambiando l’insegna del mio bar. Chi leggerà o rileggerà Vasilij Grossman, e il magnifico racconto di viaggio sull’Armenia (paese e nazione per me definitivi) troverà questa setta di Molokani, cristiani russi dalle grandi barbe, eretici bevitori di latte. Resistenti, impavidi, ma senza superbia. Grossman va a trovare nella sua izba Aleksej Michajlovič: un uomo che «non poteva vivere senza la sua fede come non poteva vivere senza pane e senza acqua, e che per essa avrebbe affrontato con fermezza il supplizio della morte sulla croce, la più tremenda prigionia perpetua».
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Kim Jonghyun, cantante e conduttore radiofonico sudcoreano, si è suicidato il 18 dicembre 2017 a soli 27 anni
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Com’è triste l’Eden
Non è sempre facile vivere in paradiso Ricco, bello, famoso e adorato da tutte le adolescenti. Il suicidio per depressione della pop star Jonghyun ha svelato cosa accade nel paese più connesso e online del pianeta: la Corea del Sud. Dove tutto è competizione, apparenza e disperazione di Leone Grotti Jonghyun ha affittato un appartamento per due giorni nel distretto di Gangnam il 18 dicembre. Non c’era nessun motivo apparente per farlo, ma sapeva che nessuno si sarebbe insospettito perché era esattamente quello che ci si aspettava da lui. Gangnam è la beverly Hills della Corea del Sud, il distretto più ricco e chic di Seul, il nuovo cuore finanziario della capitale, quello dove tutti i giovani sognano di abitare, dove le case costano 10 mila dollari al metro quadro e il sole si riflette sull’acciaio e il vetro dei grattacieli moderni, gli stessi presi in giro da Psy, il rapper che nel 2012 con la sua canzone “Gangnam Style” ha stabilito il record assoluto di video più cliccato della storia di Youtube, con oltre due miliardi di visualizzazioni. Dove poteva affittare un appartamento Jonghyun, se non a Gangnam? Ma quel 18 dicembre l’idolo di tutte le ragazzine della Corea del Sud, la voce più importante della boy band Shinee, la stella nascente del filone musicale più ascoltato nel paese, il k-pop, non si recava nel distretto per prendersi una
pausa dai troppi impegni, per godersi un po’ di riposo e di privacy. Jonghyun, 27 anni, aveva affittato l’appartamento per suicidarsi. Una serie di strani messaggi inviati dal cantante sul cellulare della sorella maggiore Kim So-dam hanno fatto scattare l’allarme, ma quando la polizia ha sfondato la porta dell’appartamento era già troppo tardi: Jonghyun si era avvelenato saturando l’aria col monossido di carbonio. La tragica fine della star ha sconvolto un paese intero che si stava tirando a lucido per presentarsi al meglio sotto i riflettori di tutto il mondo, in occasione delle olimpiadi invernali di Pyeongchang, che si sono aperte l’8 febbraio e che si concluderanno il 25. Ma sono le ultime parole di Kim Jong-hyun, questo il suo vero nome, affidate alla sorella e a un’amica, ad aver incrinato la patina di apparente perfezione che riveste una delle nazioni più capitaliste del mondo: «Ti prego, lasciami andare. e dimmi solo che ho fatto bene», ha scritto alla sorella. in un altro messaggio alla cantante Nine9 si è detto «lacerato, la depressione che mi attanaglia mi ha divorato completamente. Non posso più sconfiggerla. Mi sento così solo.
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L’atto di farla finita è difficile. Ho vissuto fino ad oggi solo per questa difficoltà. Ti prego, dimmi solo che ho fatto un buon lavoro. Tu hai lavorato duro. Hai davvero patito tanto. Non ero fatto per diventare famoso. Non so come ho potuto resistere così tanto. addio».
«Dimmi che ho fatto bene»
Nonostante avesse appena 27 anni, Jonghyun era davvero all’apice del successo. Nel paese asiatico i cantanti di k-pop sono più popolari dei calciatori in europa, veri e propri idoli da seguire, amare, osannare ed emulare. Dopo aver esordito nel 2008 sul palco del popolarissimo programma televisivo inkigayo ed essere divenuto protagonista delle decine di “X factor” in salsa asiatica, ha inanellato un successo dietro l’altro tra singoli, dischi e concerti. eclettico e talentuoso, Jonghyun era riuscito a emergere rispetto alla platea dei tanti cantanti “belli e impossibili” dai capelli colorati di improbabili tinte rosa e rosso fuoco sfornati, fagocitati e poi scartati a ritmo forsennato dalla bulimica industria discografica sudocoreana. Jonghyun non era solo una bella voce, era anche un autore e uno stimato conduttore radiofonico. ed è proprio in radio che la star ha fatto una delle esperienze più belle della sua carriera, tanto da dichiarare in un’intervista a Esquire Magazine: «Prima mi vedevo solo come cantante. Poi, quando ho cominciato a mostrare il mio lato umano agli altri in radio, ho scoperto un’altra immagine di me stesso». Ma è proprio l’esperienza più bella e «stabilizzante» della sua carriera che ha dovuto abbandonare nel 2017, dopo tre anni, per dedicarsi a un tour internazionale con la sua band Shinee organizzato dalla sua major. Quando il successo chiama dalle parti di Seul, non c’è tempo per dare spazio al proprio lato umano. Jonghyun era bravo, ricco e famoso ma tutto questo non gli bastava e le sue ultime parole («dimmi che ho fatto bene, dimmi che ho fatto un buon lavoro») rivelano un lato oscuro della Corea del Sud. Nel giro di due generazioni, dopo l’armistizio nella guerra con il Nord, il paese povero e agrario è diventato l’undicesima economia più importante del mondo. il Pil cresce a tassi annuali del 3-4 per cento, la disoccupazione si mantiene stabile intorno al livello fisiologico del 3 per cen-
to (anche se quella giovanile ha superato per la prima volta il 10 l’anno scorso), il Pil pro capite aumenta ogni anno e presto raggiungerà quello dei principali Stati europei. Il 2018 dovrebbe anche essere l’anno che sancirà ufficialmente l’ingresso della Corea del Sud nel novero dei paesi sviluppati. Per quanto riguarda la tecnologia, Seul è la capitale del mondo: il paese è il più connesso del globo, nella patria di Samsung c’è la più alta percentuale di penetrazione di smartphone tra la popolazione: il 70 per cento dei 50 milioni di abitanti, cioè oltre 35 milioni, ne ha uno ma il dato, che per il Wall Street Journal è salito nel 2017 all’85 per cento, già raggiunge quasi il 90 se si considerano solo i giovani a partire dai 6 anni (erano il 21,4 nel 2011). Il cellulare è così indispensabile che Samsung, insieme al gestore telefonico SK Telecom e d’accordo con il governo, ha cominciato da un anno a mettere gratis a disposizione per i turisti stranieri 250 telefonini a settimana, da restituire alla fine del soggiorno, per un massimo di cinque giorni.
Joseon infernale
Tutto può mancare in Corea, tranne la rete. Se il 15 per cento della popolazione circa vive sotto la soglia della povertà, il 99 per cento delle case dispone di una connessione veloce e a basso prezzo. Il paese ha anche la banda larga migliore del mondo e il wi-fi copre ogni singolo angolo del territorio ed è così avanzato che è usuale per i giovani guardare televisione e film in live streaming anche in metropolitana senza rallentamenti. Il virtuale è un compagno quotidiano del reale, tanto che quando il governo ha deciso di limitare l’acquisto e la vendita di bitcoin, una criptovaluta inventata nel 2009 e scambiata in tutto il mondo, 200 mila persone hanno firmato una petizione al premier Lee Nak-yon per chiedere di «non privarci della felicità. Grazie alla criptovaluta, il popolo coreano può sognare come mai gli è stato concesso di fare prima d’ora. Potremmo comprare una casa dove è davvero difficile acquistare un immobile o vivere una vita nella quale facciamo davvero quello che ci piace. Potremmo riuscire a respirare». Al di là dei bitcoin, il messaggio riflette un sentire comune tra i più giovani. Secondo un sondaggio recente, l’88 per cen-
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to di loro vorrebbe abbandonare il paese, se ne avesse la possibilità. Il 93 per cento si vergogna addirittura di essere coreano. Tra le principali motivazioni, l’eccessiva pressione subita nell’ambiente di lavoro e l’insofferenza verso una società troppo competitiva. Non è un caso se tra i giovani è molto in voga chiamare la Corea “Joseon infernale”, dal nome dell’ultima dinastia confuciana che ha governato il paese, prima dell’avvento dell’impero nel 1897, e che ha influenzato in modo indelebile la società dal punto di vista culturale e sociale. «Da piccola mi è sempre stato insegnato che se non fossi andata all’università sarei diventata una fallita senza lavoro», è la testimonianza affidata ai social network di Chloe Park, 24 anni, da poco laureata in psicologia. «Ho lavorato duramente ricurva sui libri, ho investito tempo e denaro. Ora tutti si aspettano che
Quando il governo ha deciso di limitare l’acquisto e la vendita di bitcoin, 200 mila persone hanno firmato una petizione al premier Lee Nak-yon per chiedere di «non privarci della felicità»
io trovi un lavoro ben remunerato, ma non è facile. Sento che non c’è speranza».
Nessuno fa figli
L’aspettativa delle famiglie è alta e tutti i genitori desiderano che i figli si iscrivano alle migliori università per avere accesso a lavori ben pagati. Ma alla fine degli anni Novanta, il paese ha attraversato un periodo di grave crisi economica, che ha ridotto i posti di prestigio e ora la competizione per raggiungere i migliori impieghi, già alta, si è intensificata ulteriormente. Nonostante questo, la pressione familiare e sociale è sempre più forte. L’anno scolastico coreano dura 11 mesi e gli studenti possono passare sui banchi, tra lezioni canoniche e corsi aggiuntivi, anche 16 ore al giorno. Studiare regolarmente di notte è inoltre considerato normale. Solo i migliori, infatti, possono accedere alle più prestigiose università della Corea del Sud, che si contano sulle dita di una mano e che accettano poche centinaia di iscrizioni all’anno. Al loro interno la competizione è altissima e l’ateneo più famoso del paese, il Kaist (Istituto coreano avanzato di scienza e tecnologia), è diventato tristemente noto in tutto il mondo nel 2011, quando in pochi mesi si suicidarono per
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dopo un anno. Le conseguenze sono allarmanti: i giovani sudcoreani affermano di non potersi permettere una casa e una vita familiare. Così i matrimoni continuano a diminuire, al pari dei bambini. La Corea del Sud è infatti il paese con il tasso di fertilità più basso del mondo e nel 2017 ha toccato un nuovo record negativo: appena 1,17 figli per donna.
Ossessione sociale
l’elevato grado di stress quattro studenti e un professore. Una volta terminata l’università, la situazione non migliora. Se la disoccupazione è bassa in percentuale, i posti per giovani con buone lauree e qualifiche sono pochi. Quasi mai una laurea è sufficiente, essendo solo una delle famigerate “spec”, abbreviazione per “caratteristiche”, che ogni buon candidato deve avere secondo gli uffici delle risorse umane delle grandi aziende. Di queste fanno parte, oltre ai titoli di studio e al background familiare, il livello di inglese, le esperienze all’estero, i certificati più diversi (gettonatissimo quello per baristi), le vittorie nei concorsi, le collaborazioni svolte e il volontariato. Anche l’estetica è fondamentale e non sono pochi i giovani che investono nella chirurgia per migliorare il proprio aspetto e avere così maggiori possibilità di impiego. Secondo il Korea Herald, al di là del titolo di studio, i giovani impiegano almeno un anno per costruire i propri curriculum con tutte le “spec” necessarie. Questo impegno, oltre ad essere costoso, spinge molti ragazzi a candidarsi anche per posti di lavoro per i quali in realtà non sarebbero adatti. Il risultato è che un neo dipendente su tre abbandona il proprio impiego in media
Non c’è da stupirsi allora se la Corea del Sud è anche il paese più infelice tra quelli appartenenti all’Ocse, nonché quello dove avvengono più suicidi. Quello di Jonghyun, infatti, non è un caso isolato. Secondo dati risalenti al 2015, in media 37 persone si uccidono ogni giorno e il suicidio è la principale causa di decesso nella fascia di età tra 10 e 39 anni. L’impatto con una società fortemente segnata da capitalismo e individualismo è difficile anche per i nordcoreani che riescono a disertare e fuggire dal regime totalitario di Kim Jong-un, tanto che un terzo di chi raggiunge Seul dopo pochi anni dichiara di volere tornare indietro. «Nella nostra società tutti sono in lotta per raggiungere il “primo posto” e in famiglia spesso si insegna a sconfiggere gli altri», descrive il suo paese monsignor Lazzaro You Heung-sik, vescovo di Daejeon e presidente della Commissione nazionale di Giustizia e pace. «In ogni angolo della società coreana c’è una diffusa pressione alla competizione. È preoccupante, si sottolinea sempre che tutti devono correre per vincere. Questa atmosfera sociale spinge i nostri giovani a considerare gli altri solo come concorrenti nella lotta per la carriera». Lo sviluppo economico è diventato «un’ossessione sociale e ora vediamo le conseguenze di tale ossessione ad esempio nello scioccante tasso di natalità. La Chiesa in Corea sta facendo del suo meglio per insegnare ai nostri giovani che gli altri non sono solo l’oggetto
«L’unico antidoto è il Vangelo. È una risposta semplice, che può esaltare le grandi e positive potenzialità dei nostri giovani. L’uomo non è creato per vincere gli altri, bensì per amare gli altri»
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di una competizione per il successo, ma i fratelli e sorelle con cui si deve camminare insieme. Il mondo non è un campo di battaglia, ma è un luogo per vivere insieme con gli altri». Per il vescovo, l’unico antidoto all’ossessione sudcoreana è «il Vangelo. È una risposta semplice, che può esaltare le grandi e positive potenzialità dei nostri giovani. L’uomo non è creato per vincere gli altri, bensì per amare gli altri. Questa è la verità sull’essere umano che Gesù ci insegna». La risposta di monsignor You è tanto semplice quanto apprezzata dai sudcoreani. Il paese ha infatti conosciuto una crescita record del cristianesimo, passato in mezzo secolo da circa 100 mila aderenti (0,5 per cento della popolazione) a oltre cinque milioni (10,3). «Il coreano è fiero di definirsi religioso», spiega padre Vincent Ri, prefetto degli studi della facoltà teologica del seminario maggiore di Kwangju. «Anche fra gli studenti, gli intellettuali, le persone colte, non esiste lo spirito anti-religioso o ateo comune in Europa. Il fatto religioso è al centro della vita del nostro popolo e questa è un’antica tradizione che lo sviluppo non solo non ha abolito, ma contribuisce a rafforzare». Anche questa volta la ragione è semplice: «Oggi aumentano i problemi e solo il cristianesimo è in grado di offrire risposte adeguate».
La lettera del fan cristiano
L’esempio più lampante è forse il messaggio di cordoglio per la morte del cantante Jonghyun che un suo «fan sfegatato», Lee Soo-yi, ha pubblicato sui social network, subito condiviso da centinaia di giovani: «Carissimo Jonghyun, il mio cuore è spezzato, sono così dispiaciuto di aver saputo solo ora che lottavi contro la depressione. Da giorni mi chiedo che cosa avrei potuto dirti se avessi potuto incontrarti. L’unica cosa che ti avrei detto è che non era colpa tua se eri caduto nella depressione e che c’era un’altra risposta oltre al suicidio alla tua sofferenza. E quella risposta è un bambino nato 2.000 anni fa di nome Gesù. Se tu l’avessi conosciuto, provando di conseguenza la vera gioia e la speranza che non ha mai fine, avresti avuto il coraggio di andare avanti? È terribile non conoscere la risposta a questo “se”. Mi mancherai sempre. Il tuo fan da nove anni, Lee».
40. il libro
Il noir L’estate degli inganni
Dannato cazzutissimo Canessa Roberto Perrone torna a ingaggiare il suo eroe solitario per fare effrazione nella storia tricolore. A modo meravigliosamente suo, tra bombe, intrighi, amori, depistaggi e una domanda: “Perché?” di Caterina Giojelli È tornato Annibale “Carrarmato” Canessa, dannato Annibale Canessa. Con quel destino da maschio libero perennemente al crocicchio di alterne venture, i mostri rintanati in scorci di paradiso, le auto con le fiancate crivellate di proiettili, gli intrighi internazionali, la zia Mariarosa che canticchia con la caffettiera sul fuoco. Dannato, cazzutissimo Canessa, a cui Roberto Perrone ha dato in dote l’ineluttabile carisma dell’uomo di punta nella lotta al terrorismo degli anni Settanta, un vecchio buco di pallottola nel fianco, e quel credo testardo nei “perché” di una storia, soprattutto se è una storia grossa e c’è in ballo la verità sull’attentato più sanguinoso in Italia, una verità che a quanto pare non è quella stabilita dalle sentenze. Se infatti con La seconda vita di Annibale Canessa Roberto Perrone ci aveva servito il più bel noir sugli anni del terrore, con L’estate degli inganni (sempre per Rizzoli, 380 pagine, 19,50 euro), il nostro giornalista, scrittore e amico ingaggia il suo eroe solitario per fare ancora una volta effrazione nella storia, riaprire il caso di una strage consumata in stazione durante una torrida estate d’inizio anni Ottanta. Un caso alla Canessa, appunto, dove non conta
chi, cosa, quando e dove (il riferimento alla strage di Bologna del 2 agosto 1980 non è mai esplicito, «molti riferimenti a fatti realmente accaduti non sono casuali, ma si tratta, appunto, solo di riferimenti», avvisa la nota dell’autore), ma contano i perché, un caso a cui mancano i perché. E allora dannato sia Canessa, che in margine a quell’estate di sangue e alla stagione di inganni, depistaggi e tradimenti che ne seguì spazzando via l’ultimo resto di innocenza in Italia, ci dimostra che un uomo che crede alla verità è ancora un uomo pronto a tutto, e ha tutte le armi per farlo. Un abboccamento a Gerusalemme da parte del Mossad, un killer feroce che lo attende in uno chalet alpino, un Mig abbattuto sui cieli del Mediterraneo, un ex ministro annegato in un lago maledetto: da Israele a Monaco di Baviera, da Londra alla Brianza, Canessa si trova a riesumare i segreti di un intrigo interna-
Maledetto Carrarmato, che in margine a una stagione di sangue, inganni, depistaggi e tradimenti ci dimostra che un uomo che crede alla verità è ancora un uomo pronto a tutto, e ha tutte le armi per farlo
zionale che affonda i suoi perché in piena Guerra Fredda e nel conflitto invisibile combattuto dai potenti per la supremazia occidentale. Non è solo, ha dalla sua la leggendaria reticenza a farsi coinvolgere e al contempo a fermarsi davanti a oscure presenze («sono stanco di guardarmi alle spalle»), ed è guardato a vista dalla sua squadra, i soci di sempre che gli concedono briglia pronti a intervenire alla bisogna, il fidatissimo maresciallo Ivan Repetto, l’eccentrico miliardario Piercarlo Rossi “il Vampa”, e il prefetto Calandra, appassionato di donne e cucina. E soprattutto c’è lei, Carla Trovati, la giornalista del Corriere più bella e innamorata del mondo, che tra una smaterassata sudata e l’altra ci mostra tutto, ma proprio tutto di quello sbucciacuori di Canessa «di giorno dolcezza, di notte efferatezza» (che è
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mini ombra drogati di whisky, sigarette, mentine, miti o senza scrupoli, e donne che maneggiano ora penne, caffettiere, lame, che amano gli uomini come se non ci fosse un domani o li ammazzano con la stessa facilità con cui appendono cappotti all’attaccapanni, in un gioco di ambiguità, tradimenti e delazioni, a cui la meravigliosa grammatica di Perrone avvince pagina dopo pagina. Perché il nostro ha la capacità formidabile di inchiodarti a una forma di schiettezza, strappandoti al vivacchiare da lettore per trascinarti su quel sentiero, in quel furgone, su quel materasso, davanti a quell’attentatore e quelle cicatrici di Canessa.
foTo: aNSa
Annibale Maigret
un po’ come dire “buio e luna piena”, giusto per darci il colpo di grazia). eppure la verità non è una certezza a buon mercato, sta in un luogo preciso e non dappertutto, così come l’amore non è tutto due cuori e una fondina, il sangue spezza i legami di sangue, le trame di personaggi rozzi e squallidi sbucati dalla Prima repubblica bruciano legami tra padri e figli, e assaltano gli amici alle spalle.
tabile di stanza alla farnesina, tra divani di pelle bianca, tra palazzi con bandiere libiche listate a lutto, smembrata tra cassaforti forzate da hacker culturisti e sentieri di montagna, in ostaggio di uomini e donne che in questo momento della loro vita si fanno chiamare in un modo ma che erano stati altri, e piazzano ordigni, fendono coltellate, vengono abbattuti dai missili, fanno la posta sotto casa. Uo-
Ombre, ordigni, caffettiere e lame
«Sono stato io a mettere quella bomba, ma non c’è molto da raccontare. Ho preparato l’ordigno, l’ho sistemato in una borsa, l’ho lasciata e me ne sono andato. boom, però posso rivelarvi dettagli più interessanti, la vera ragione della strage, il perché della morte di tanti innocenti… avete un po’ di tempo?». La verità è una bestia insoppor-
L’estate degli inganni è il secondo noir di Roberto Perrone che ha per protagonista annibale “Carrarmato” Canessa. rizzoli, 380 pagine, 19,50 euro
Detto fuori dai denti, sembra di tornare a frequentare il commissario Maigret – ma decisamente più sexy e ostinatamente italiano (grazie, Perrone!) – e leggere Simenon, con quel dono di saper creare esseri viventi in un’atmosfera vivente, dotandoli di una solida caratterizzazione che non scade mai nella psicologia. «Mai togliere all’essere umano la sua dignità personale. Umiliare qualcuno è il crimine peggiore di tutti», spiegava a Giulio Nascimbeni sul Corriere della Sera (anno 1985) lo scrittore che secondo Michel Lemoine avrebbe dato vita a 9.500 personaggi, e Perrone è in questo maestro: entra nel mondo di vittime, colpevoli, testimoni, anche i più fangosi, senza stupore e con grande naturalezza, parla la loro lingua, guarda con i loro occhi, mangia nelle loro trattorie, sa farci correre il loro tempo addosso, perfino quello del feroce «uomo che molti anni prima era stato italiano», della «donna che si faceva chiamare anneke», di un pilota che in punto di morte pronuncia il suo vero nome, quello del «topo» passa dossier, del pirata informatico e della giornalista Pina Carboni, di una vecchia orfana di una famiglia sterminata, quello di uno stimato personaggio che alla resa dei conti fissa Canessa con angoscia. È il metodo Maigret, il metodo di Canessa, il metodo non scientifico, l’unico metodo che arriva ai perché. ed è subito grande noir. Di quelli che alla fine dici bastardo di un Canessa, così dannatamente pronto a pagare un prezzo altissimo al suo autore per non far sconti al nostro vero peccato originale: l’italia può sopportare tutto, tranne la verità.
42. società
Giochi di Stato
Gratta gratta indovina chi vince sempre?
Perché il governo ha deciso, in barba a ogni logica e norma, di estendere la concessione a Lottomatica? Qualche domanda di Rachele Schirle “Decreto urne”, “il governo sceglie di incassare meno” (Il Fatto), “Scoppia la bagarre” (MF), “Il governo in rosso adesso gioca al Gratta&Vinci” (il Giornale), “Ira delle associazioni” (Avvenire), “Il caso arriva al Parlamento europeo” (Vita). Si dice che in politica la logica sia una faccenda più elastica che rigida, altrimenti quello del Gratta e Vinci non sarebbe diventato un caso politico capace di fare a cazzotti col rigor di legge e ogni logica di natura normativa, tecnica, economica, comunitaria e non. Un caso – già discusso in primavera, quando si parlò di “aiuto” e “manina renziana”, e ben confezionato sotto Natale dal governo Gentiloni per la prossima legislatura – che ha avuto l’imprimatur del Senato la mattina del 14 novembre scorso, quando una risicata maggioranza in Commissione Bilancio ha approvato una delle più discusse disposizioni del decreto fiscale per correggere i conti del 2017 e garantire parte di coperture alla legge di Bilancio per il triennio 2018-2020. Tra queste misure, la decisione di estendere la concessione del Gratta e Vinci a Lottomatica: senza gara, per la durata di nove anni e per la stessa cifra sborsata dall’operatore quando si aggiudicò la concessione nove anni fa.
Da allora il dato di raccolta della lotteria istantanea che spopola nei bar e nelle tabaccherie di tutta Italia (in 60 mila punti vendita) surclassando il Lotto, ha registrato però un incremento enorme; da circa 800 milioni nel 2009 si è passati infatti a un volume d’affari pari a 9,2 miliardi di euro l’anno, di cui 1,4 miliardi incassati dall’erario: facile immaginare che grazie all’interesse degli operatori nazionali e internazionali una rimessa a gara avrebbe spuntato allo Stato condizioni ben più vantaggiose. Eppure il decreto conferisce, all’articolo 20, all’Agenzia delle Dogane il potere di prorogare anticipatamente la concessione in essere (in scadenza nel 2019) in cambio di un’entrata certa e veloce per lo Stato pari a 800 milioni (50 da versare subito e altri 750 nel 2018). Il tutto prestando il fianco a un intervento dell’Unione Europea: se infatti al grido “ce lo chiede l’Europa” il governo Gentiloni ha negato il rinnovo automatico ai con-
Anche Confindustria ha contestato la decisione: «Appare in conflitto con la normativa europea e rischia di sortire effetti negativi dal punto di vista erariale»
cessionari balneari, rispettando i dettami di Bruxelles che da sempre invitano a rimettere a gara le concessioni in scadenza per favorire concorrenza e libero mercato, nel caso dei Gratta e Vinci la logica viaggia in senso opposto: «Dalle Autostrade dei Benetton alla A22 del Brennero, i rinnovi automatici delle concessioni pubbliche stanno diventando un vizio nazionale», ha commentato il Fatto.
Sanzioni salate
In verità ci avevano già provato ad aprile, inserendo nella manovra economica correttiva il rinnovo automatico della concessione a Lottomatica per non aggravare il deficit pubblico senza mettere mano alle imposte. Soldi freschi, certi e subito: questa la premura del governo che in molti hanno letto come una premura di una sponda renziana a favore del colosso del gruppo De Agostini Igt che controlla Lottomatica (ribattezzata dai pentastellati “Lottimatica”). Ma non se ne fece nulla, fino a ottobre, quando il caso dei Grattini diventa oggetto di dibattito parlamentare: dalla Lega al M5s, sono tantissimi gli emendamenti proposti a Camera e Senato da diversi partiti contro il prolungamento del monopolio. «Siamo a rischio di salate sanzioni da parte dell’Ue», tuona l’eurodeputato leghista Angelo Ciocca depositando un’interrogazione alla Commissione europea; «Il governo è recidivo», commenta Paola Binetti (Udc); «Abbiamo presentato un emendamento sostitutivo – annuncia la senatrice Lucrezia Ricchiuti di Art1-Mdp – e per la copertura dei 50 milioni sul 2017 abbiamo previsto il versamento di una cauzione da parte dei soggetti che parteciperanno alla gara». Anche Confindustria contesta duramente la decisione che «appare in conflitto con la normativa europea, che considera il rinnovo automatico delle concessioni lesivo delle dinamiche del libero mercato. Inoltre, dal punto di vista del gettito erariale, la misura rischia di sortire effetti deleteri, posto che l’indizione di una gara potrebbe produrre entrate erariali superiori a quelle attualmente stimate dal rinnovo». La tesi del governo che teme di mettere a rischio le coperture immediate è infatti facilmente smentibile: con una lettera datata 9 novembre e indirizzata al ministro Pier Carlo Padoan e al sottosegretario Pier Paolo Baretta, Sisal mette sul
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no i giorni in cui Morando va assicurando che l’orientamento del governo è quello di indire una nuova procedura competitiva, sostituendo i proventi dell’eventuale proroga con quelli della gara, e sui giornali viene ventilata l’ipotesi di accompagnare alla proroga una gara per affiancare a Lottomatica un secondo player.
FoTo: ANSA
La decisione del Tar
piatto la disponibilità a partecipare attraverso il fondo Cvc Capital Partners a una gara pagando il necessario: 800 milioni come base d’asta e un anticipo di 50 entro il 31 dicembre 2017 «al fine di mantenere inalterate le previsioni di cassa allo stato previste». Ma dal governo nessun cenno di risposta. Quello contenuto nell’articolo 20 del decreto fiscale, sottolineano da Sistema Gioco Italia, «è un rinnovo disposto per legge che, in quanto tale, si pone in palese ed aperto contrasto con le disposizioni del diritto comunitario, con la normativa nazionale-Codice degli Appalti e con la giurisprudenza nel merito che hanno tutti disposto l’obbligo di procedere alle assegnazione di appalti e concessioni attraverso procedure concorrenziali pubbliche vietando il rinnovo dei rapporti in essere». Criticità, anomalie e distorsioni confermate peraltro dagli stessi tecnici del servizio Bilancio del Senato in un dossier sul provvedimento datato 24 ottobre: secondo gli economisti di Palazzo Madama, infatti, l’incasso di 800 milioni per il rinnovo della concessione a Lottomatica non sarebbe automatico, tale cifra infatti rappresenta la base d’asta della gara alla quale si presentò la sola Lottomatica nel 2009. Vero è che il quadro normativo che regolava la concessione prevedeva la possibilità di rinnovo per ulteriori 9 anni, ma
la previsione di nuove e maggiori entrate e di modalità di pagamento anticipate rispetto all’avvio della nuova concessione (dal 1° ottobre 2019) sono da intendersi come «imposizione al concessionario di un nuovo onere» o «mera conferma di un obbligo preesistente»? In altre parole, si tratta di un rinnovo o di una proroga? Su questo i tecnici chiedono chiarimenti; nel primo caso le condizioni alla base della concessione originaria verrebbero modificate in maniera significativa e il passaggio da una gara pubblica diventerebbe necessario per legge. Inoltre, non sono stati indicati elementi che giustifichino l’esclusione dell’opzione gara, «che avrebbe consentito di verificare la possibilità di affidare il servizio a una pluralità di concessionari, di tener conto dei suggerimenti e delle critiche espresse dall’Anac (l’Anticorruzione di Raffaele Cantone, ndr) e di permettere l’eventuale adeguamento, qualora ne sussistessero le condizioni, dell’importo dell’una tantum e dell’aggio in senso più favorevole all’interesse erariale». La bocciatura e la richiesta di approfondimenti degli economisti avrebbe dovuto spianare la strada a una modifica della norma, lo stesso viceministro Pd Enrico Morando aveva annunciato in Commissione Finanze al Senato l’apertura del governo a «eventuali miglioramenti». So-
Ma emendamenti, correttivi, richiesta di chiarimenti e di modifiche annunciate non si sono mai concretizzati. Nonostante gli sforzi di Morando, infatti, la mattina del 14 novembre con 13 voti a favore e 11 contrari, la Commissione Bilancio al Senato approva l’intera operazione. Il 20 novembre il Governo pone la fiducia sul collegato fiscale incassando a dicembre la prima tranche di 50 milioni da Lottomatica. Ma la partita è tutt’altro che chiusa. Con un lungo e dettagliato documento il 2 gennaio Sisal ricorre al Tar del Lazio, richiamando la fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’ormai famigerato articolo 20, che disattende gran parte della normativa vigente, e il principio di preminenza del diritto dell’Unione Europea che impone a Stato e pubblica amministrazione di dare piena efficacia alle norme Ue disapplicando, in caso di conflitto, le norme nazionali. Il 7 febbraio, la seconda sezione del Tar ha deliberato di discutere direttamente nel merito il ricorso intentato da Sisal in un’udienza che si terrà presumibilmente tra maggio e giugno. Il caso dei Grattini passa ora al prossimo governo, ma restano le domande. Perché il governo ha anticipato e bruciato i tempi rinunciando a controllare l’andamento del comparto per altri nove anni e fissare una base economica d’asta più alta della precedente? Perché violare ogni principio in tema di concorrenza ed esporre lo Stato, oltre che al rischio di annullamento/ disapplicazione della norma da parte del giudice amministrativo, anche alle conseguenze di una procedura di infrazione? Il 17 maggio scorso la Commissione europea ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia dell’Ue per violazione del diritto dell’Unione. La Società Autostrada Tirrenica, concessionaria della costruzione e gestione dell’autostrada A12 Civitavecchia-Livorno si era vista prorogare il contratto senza gara d’appalto.
44. il nocciolo della questione
SocietĂ a una dimensione
Il tiranno democratico
Sicuri che in fondo ci sia davvero tutta questa differenza fra il vecchio regime comunista e il moderno sistema liberale? Un gran filosofo polacco alle prese con il “demone� totalitario che si nasconde nel migliore dei mondi possibili di Ryszard Legutko
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46. il nocciolo della questione
La tesi del mio libro The Demon in Democracy è semplice: a dispetto delle enormi differenze, c’è una considerevole somiglianza fra il comunismo e la liberal-democrazia. La tesi è semplice, ma l’insieme di argomentazioni che la sostiene è piuttosto complesso. Quella che segue è la più sintetica argomentazione possibile di quanto affermo. Ciò che rende simili il comunismo e la liberal-democrazia è che in entrambi i casi il sistema politico è così dominante che permea di sé l’intero edificio sociale, tutte le istituzioni, le norme e la mentalità. Come il comunismo rappresentava il quadro di riferimento ultimo di tutto ciò che accadeva in una società comunista, così la liberal-democrazia rappresenta il quadro di riferimento ultimo per tutto ciò che accade in una società liberal-democratica. In altre parole, era nella natura del vecchio regime che ogni cosa dovesse essere comunista ed essere chiamata comunista. Non c’era la famiglia, ma la famiglia comunista, non c’era l’educazione, ma un’educazione comunista, non c’era la società, ma una società comunista, non c’era la morale, ma una morale comunista, non l’arte, ma un’arte comunista. Più tardi, quando nel nostro paese si è affermato un nuovo sistema, ho scoperto con un certo disappunto che anche in una società liberal-democratica si esige che ogni cosa rifletta una logica liberal-democratica: la famiglia dovrebbe diventare liberale e democratizzata, e questo dovrebbe avvenire anche per le scuole, la morale, le norme sociali. Si dà per scontato che anche la religione e le Chiese dovrebbero diventare più liberali e più democratiche nelle loro pratiche e nella loro dottrina; anche Dio è arrivato ad assomigliare a un liberal-democratico, così come nel comunismo Dio, sebbene non esistesse, era comunque un buon comunista. Nel comunismo l’aggettivo “comunista” era una parola pigliatutto: tutto ciò che era comunista era superiore a qualunque cosa non-comunista. Mi sono accorto che anche nella democrazia moderna “democratico” è diventata una parola pigliatutto, così come “non democratico” è una dura espressione di condanna. Tutto ciò mi ha portato a formulare la tesi che entrambi i sistemi abbiano un’inesorabile tendenza a politicizzare tutta la vita; cioè che entrambi i sistemi
Sotto il regime nessun atto era innocuo, tutto era coerente o incoerente con l’ideologia. La coerenza con la dottrina era chiamata correttezza, e la correttezza sostituì la verità e la bellezza tendono a imporre le loro strutture, procedure, princìpi, presupposti su ogni aspetto della società, sulle vite, i pensieri e le azioni delle persone. E non solo questi due sistemi impongono le loro strutture, procedure, princìpi, presupposti, ma credono fermamente che questa imposizione sia benefica, necessaria, desiderabile da parte delle persone, e che sia anche in sintonia con la corrente generale della civiltà.
Quel criterio obbligatorio
La politicizzazione comunista aveva un ambito di applicazione globale ed era dolorosamente intrusiva. Nessuna meraviglia che ad alcuni risultasse insopportabile. Perciò coloro che volevano resistervi cercavano aree dell’esistenza non ancora toccate dalla politica nelle quali potessero trovare rifugio dall’aggressione politica: queste aree potevano essere la vita privata, l’arte, le attività intellettuali, la religione. Ma nella pratica, trovare rifugio si rivelò parecchio difficile: le autorità comuniste erano consapevoli delle strategie di fuga e fecero del loro meglio per annettersi quelle aree e incorporarle nel loro dominio politico. La famiglia e la vita privata sembravano essere le ovvie fortezze entro le quali si sarebbe potuta trovare pace e sicurezza dall’ubiqua presenza dell’ideologia e della propaganda ufficiali. C’erano anche altre fortezze – la memoria storica o la memoria individuale conservata in narrazioni condivise fra amici. C’erano l’arte e la bellezza – le persone cercavano riparo dalla bruttezza e dall’insopportabile
The Demon in Democracy. Totalitarian Temptations in Free Societies Ryszard Legutko Encounter Books 200 pagine
noia dell’ideologia nella poesia classica, nella musica, nei capolavori dei grandi maestri, e sfuggivano alla rimbombante volgarità della neolingua comunista memorizzando vecchie poesie o leggendo letteratura classica, o andando in chiesa per immergersi nella liturgia, nella parola del Vangelo, nel mistero e nella spiritualità. L’esistenza della Chiesa cattolica nel mio paese è stata un fatto di fondamentale importanza per la salvezza dell’anima della nazione. Ma i comunisti, come ho detto, erano perfettamente consapevoli di queste strategie, e fecero tutto quello che potevano per conquistare quei territori. Ciò fu particolarmente vero nei primi tempi del loro regno, quando il volume della nuova ideologia era assordante e la sua intensità tale da istupidire. L’attacco alla vita privata e alla vita familiare fu in quel tempo particolarmente forte. I comunisti erano allora all’avanguardia mondiale dei processi di cambiamento: furono i primi a rendere facilmente accessibile il divorzio, i primi a introdurre l’aborto su richiesta, i primi a conferire potere ai giovani sugli anziani, agli studenti sugli insegnanti, ai figli sui genitori. Ma più tardi il partito comunista lasciò perdere, e la morsa della politica si allentò. Dopo il periodo della tirannia del cosiddetto realismo socialista, l’arte divenne più libera; gli studi umanistici, all’inizio interamente asserviti al sistema, più tardi guadagnarono un po’ di indipendenza; il linguaggio, che all’inizio era stato posto sotto stretta sorveglianza e trasformato in neolingua, più tardi si emancipò considerevolmente dalle catene dell’ideologia. Il metodo per prendere il controllo su queste cose – la famiglia, la vita privata, l’arte, la morale, il linguaggio – fu di introdurre e poi rendere obbligatorio un criterio: il criterio della correttezza. Dal momento che tutto era politico e dal momento che la politica era regolata dall’ideologia, era ovvio che tutto doveva essere compatibile con i princìpi basilari di questa ideologia, e non erano permesse note dissonanti. Non esistevano più osservazioni o atti innocui, perché tutto era chiaramente coerente o chiaramente incoerente con l’ideologia. La coerenza con la dottrina era chiamata correttezza, e la correttezza sostituì la verità, la bellezza, l’eleganza e lo stile. Sempre e in ogni si-
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tuazione – che si trattasse di un’esperienza privata, di un pensiero, di un discorso, di una poesia o di un’affermazione filosofica – questa coerenza doveva essere evidente, chiara, facile ad essere percepita da tutti. Questo significa che ciascuno in tutto ciò che faceva o diceva doveva fare uno sforzo per mostrare questa coerenza, per dimostrarla con una frase, un gesto, un simbolo, al fine di prevenire possibili dubbi e accuse. E precisamente perché le persone erano obbligate a dimostrare la loro correttezza, molti videro in essa un’opportunità per rintracciare e scovare coloro che erano troppo pigri, o troppo spericolati, o troppo ingenui per rendere manifesta la propria correttezza o, orribile a dirsi, la ignoravano deliberatamente.
Non c’è fortezza che regga
Ora permettetemi di dire alcune cose sulla liberal-democrazia. Se quello che ho detto a proposito dell’onnipresenza dei princìpi liberal-democratici nelle società occidentali di oggi è vero, sarebbe naturale chiedersi quanto siano robuste le eventuali fortezze nelle quali alcuni di noi, disgustati dalle nuove ondate di offensive politiche liberal-democratiche, potrebbero cercare di nascondersi. Quanto sono robuste, per esempio, la sfera privata e la vita familiare contro le crociate politiche liberal-democratiche? Le nostre vite private sono più sicure ora di quanto fossero venti o trenta anni fa? In che misura i nostri pensieri sono intrisi di idee liberali e democratiche quando pensiamo alla famiglia, o cerchiamo di organizzare la nostra vita familiare, o di dare consigli ai nostri amici su questioni familiari? Siamo più inclini o meno inclini di prima a parlare di famiglia usando parole dalla connotazione politica come “potere”, “conferimento di potere”, “uguaglianza”, “diritti”, “gender”? La legge è implicata più o meno di prima nel regolare le relazioni familiari? Prendiamo il sesso, che è, si direbbe, la più privata cosa intima di tutte le cose private intime. Negli ultimi decenni il sesso è diventato una materia più o meno regolata e fatta propria dai governi, dal potere legislativo, dalle corti di giustizia e da ogni genere di agenzia? Prendiamo altre possibili fortezze o rifugi: l’arte, la religione, il linguaggio, la storia, la memoria. Oggi essi provvedono una maggio-
Un fIlosofo In PolITIca da cracovIa a sTrasbUrgo Ryszard Legutko è docente di filosofia all’Università Jagellonica di Cracovia ed eurodeputato del partito Diritto e Giustizia, che dal 2015 governa la Polonia. Specialista di filosofia antica e di teoria politica, è entrato nel parlamento polacco nel 2005, dove è stato vicepresidente del Senato. Ha ricoperto per qualche mese la carica di ministro dell’Educazione nel 2007 e poi è stato segretario di Stato nella cancelleria del presidente Lech Kaczynski dal 2007 al 2009, anno in cui è stato eletto al Parlamento europeo, dove attualmente è copresidente del gruppo Conservatori e riformisti europei. Autore di libri di filosofia antica su Socrate e Platone, nel 2016 ha pubblicato direttamente in inglese The Demon in Democracy, dove sviluppa la sua provocatoria tesi sulla convergenza fra il comunismo del passato e la liberaldemocrazia di oggi. È uno degli intellettuali europei che hanno firmato la dichiarazione di Parigi Un’Europa in cui possiamo credere nell’ottobre dello scorso anno.
re o una minore protezione contro le politiche liberal-democratiche? Il linguaggio è libero da condizionamenti politici o è sempre più politicamente controllato? Si può pubblicare facilmente un libro o un articolo che sia in disaccordo col gergo politicamente accettabile? Le restrizioni sono più severe o meno severe di quelle del passato? Le nostre università sono monumenti di libertà e apertura accademiche, rette da uomini probi come il cardinale Newman, o si stanno allontanando da questi standard? Il linguaggio che viene insegnato nelle scuole è lo stesso linguaggio della letteratura inglese e americana o è un linguaggio che assomiglia sempre di più all’incomprensibile gergo delle attuali ideologie politiche?
Prendiamo il sesso, la più privata fra le cose intime: negli ultimi decenni è diventato una materia più o meno regolata da governi, corti di giustizia e ogni genere di agenzia?
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Sfortunatamente, le risposte a tutte queste domande giustificano la conclusione che negli ultimi decenni all’interno delle società liberal-democratiche si sono avuti sviluppi comparabili a quelli delle società comuniste. Il concetto di correttezza ideologica è stato fatto risorgere e gli si è data un’importanza tremenda. Le corti di giustizia, le università, i poteri legislativi e altre istituzioni hanno unito le loro forze per stringere la vite ideologica, e tutto ciò è avvenuto nella presunzione di darci più libertà e più giustizia. Possiamo dire meno cose di prima, siamo sempre più omologati, le nostre menti sono state addestrate al conformismo, ma si deve credere che tutto questo serve ad avere un mondo migliore. Questi sviluppi non dovrebbero sorprenderci, dal momento che riflettono la natura del sistema liberal-democratico. Certamente non è vero, come alcuni dicono e molti di noi accettano senza riflettere, che il sistema liberal-democratico è neutrale rispetto a ogni genere di idee che vengono sostenute e portate avanti al suo interno: sia che siano monarchiche, o aristocratiche, o anarchiche, o comuniste, o conservatrici, o nichiliste. In realtà sia la democrazia che il liberalismo tendono a politicizzare la società in una misura tale che il pluralismo cessa di essere possibile.
Tutti lo stesso punto di vista
La democrazia contiene un meccanismo intrinseco di politicizzazione perché coinvolge nel processo politico più persone di qualsiasi altro sistema. Non c’è nulla nella natura della democrazia che possa impedire al “demos” o alle élite dominanti di imporre il marchio della politica sulle faccende private per sottometterle ai culti politici del momento. Gli uomini democratici – come ha spiegato Tocqueville con superba precisione – tendono ad essere sempre più simili, e di conseguenza ad essere sempre più convinti che ogni persona sana di mente debba avere i loro stessi punti di vista. Pertanto sono sempre più indisponibili a riconoscere la legittimità di ciò che va al di là della loro immaginazione e a tollerarlo. Per quanto riguarda il liberalismo, la cosa è ancora più ovvia. Il liberalismo ha sempre avuto due caratteristiche che lo rendono incompatibile con la neutralità, anche in questioni tradizionalmente
48. il nocciolo della questione
considerate non politiche. In primo luogo, il suo concetto di natura umana è quello di una persona privata, in opposizione all’uomo politico, per usare un concetto aristotelico. In secondo luogo, il liberalismo è essenzialmente politico perché, nonostante le sue dichiarazioni in senso contrario, il suo scopo è di imporre il suo ordine alla totalità degli assetti umani; il liberalismo si colloca sempre al di sopra di altri tipi di assetto perché considera se stesso più ampio, più grande e onnicomprensivo, un meta-sistema, un sistema del secondo ordine, il più adatto a organizzare la vita degli altri. È intensamente politico anche perché è costruito e prende la sua forza da una dicotomia: autonomia contro autorità, libertà contro dispotismo, diritti individuali contro prerogative del governo. Questa combinazione paradossale – da una parte un uomo liberale che è una persona privata che si occupa di obiettivi individuali (denaro, proprietà, carriera, piaceri privati), dall’altra la natura intrinsecamente politica del sistema –, non poteva che infrangere i bastioni che circondavano l’ambito del privato, e impregnarlo di contenuto politico. Pertanto la mia opinione è che il liberalismo, da John Locke in avanti, è stato il principale strumento che ha portato le faccende private sulla pubblica piazza e le ha rese altamente politiche. La rivoluzione sessuale, per fare un esempio ovvio, che ha attribuito un contenuto fortemente politico alla più privata di tutte le questioni, è figlia legittima del liberalismo (come anche del socialismo). Lo stesso dicasi dell’arte politicizzata, che i comunisti credevano dovesse svolgere un ruolo nella lotta di classe e che i liberali usano come un’arma nelle loro guerre legate al gender, e di altre simili imprese di emancipazione. Una volta che abbiamo stabilito che ciò che rende simili il comunismo e la liberaldemocrazia è un insolitamente alto grado di politicizzazione, ci troviamo di fronte a due possibilità. La prima possibilità è ammettere che i comunisti avevano ragione nella loro convinzione che un sistema politico dovrebbe dominare le nostre vite e permeare l’intero edificio sociale, ma hanno fatto un errore – certamente costoso – nell’indicare il comunismo come il sistema che avrebbe dovuto svolgere tale ruolo. In altre parole, non ci sarebbe
nulla di sbagliato nell’onnipresenza della politica, purché il sistema politico sia quello buono. Dal momento che il comunismo non era buono, non lo era nemmeno la pervasività della politica comunista. La seconda possibilità è che i comunisti avessero torto sotto entrambi gli aspetti. Non solo il sistema era cattivo, ma la politicizzazione come tale è sempre una cosa sbagliata, a prescindere dal sistema. Se si sceglie la prima possibilità, la tesi del mio libro crolla. Si potrebbe dire che non c’è nulla di sbagliato nel fatto che ci siano somiglianze fra comunismo e liberaldemocrazia, perché sono semplicemente formali e non sostanziali. Le forme possono essere simili – l’onnipresenza dell’ideologia e della politica – ma la sostanza di ciascuno dei due sistemi è differente: la politica democratica è buona mentre la politica comunista è cattiva.
Quattro evidenze tutt’altro che ovvie
Se invece scegliamo la seconda possibilità e diciamo che l’invasione di ogni angolo e fessura da parte della politica è una cosa sbagliata, a prescindere dalla natura del sistema politico, allora ci troviamo nella posizione di sollevare una seria obiezione contro la liberal-democrazia accusandola di ambizioni totalitarie. Questo a sua volta apre un serio problema teoretico e istituzionale, e cioè come tenere a freno queste ambizioni e quali strumenti offra il sistema liberal-democratico – se ne possiede – per questo fine. Si tratta davvero di un problema fondamentale. La liberaldemocrazia è un sistema che sembra soddisfare tutti i criteri di un ordine buono (criteri che il comunismo, non dovrebbe esserci bisogno di dirlo, non soddisfaceva): pluralità di partiti politici, libertà costituzionale della stampa, libertà costituzionale di formare associazioni, separazione dei poteri, ruolo del parlamento, elezioni. Eppure tutto ciò sembra produrre risultati avversi. Il sistema si
Se non esistono alternative, non c’è nessuna ragione per cui questi sistemi non possano essere estesi ovunque e per cui questa estensione non debba essere presentata come benefica
è dimostrato incapace di generare qualsiasi forma di autolimitazione. Tuttavia potrebbe anche darsi il caso che il problema non sia strutturale e che non abbia una soluzione strutturale, e si collochi più in profondità, in quelle componenti dell’umana esperienza che sono molto più resistenti all’azione umana. Sembra che ciò che unisce comunismo e liberal-democrazia intellettualmente a un livello più profondo e più filosofico siano certi assunti generali, raramente messi in questione, che molti di noi accettano come autoevidenti, ma che sono ben lontani dall’essere ovvi. In realtà sono una parte importante del problema. 1. Il comunismo e la liberal-democrazia sono stati i due più grandi sogni politici della storia moderna. Nessun altro progetto politico è stato tanto universalmente esaltato come la realizzazione definitiva delle aspirazioni della gente. La razza umana – si è creduto e ancora si crede – non potrebbe andare oltre nell’evoluzione politica di quanto è andata col comunismo secondo alcuni, con la liberal-democrazia secondo altri. Ciò che ha unito e unisce il modo di pensare dei sostenitori di entrambi i sistemi è l’assenza logica e storica di qualsiasi forma alternativa di assetto politico oggi o nel futuro. E data la scomparsa di tutte le alternative, non c’è nessuna buona ragione per cui questi sistemi non possano essere estesi ovunque e per cui questa estensione sempre più profonda e più ampia non debba essere presentata come benefica e ragionevole. In altre parole, i comunisti impegnati e i liberal-democratici impegnati patiscono lo stesso errore, l’errore dei grandi sognatori, che potremmo definire una collocazione sbagliata della perfezione: la vera perfezione sta altrove, non nella politica, e certamente non negli assetti politici. 2. Dal momento che entrambi i sistemi si considerano definitivi, non c’è possibilità di compromesso coi loro critici. Chi li critica non è semplicemente un critico, ma un nemico. Nessuna seria discussione è possibile con un non-liberale o con un non-democratico, così come un comunista non discuteva mai seriamente con un non-comunista. Ma la conseguenza di ciò è l’emergere di qualcosa di simile a un fronte unificato. Al tempo del comunismo
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FOTO: ANSA
I comunisti hanno cercato di invertire il corso dei fiumi della Siberia, i liberaldemocratici di ridefinire il matrimonio e la famiglia
abbiamo avuto fronti unificati attorno al partito comunista. Abbiamo qualcosa di simile oggi. Questo è particolarmente vero per l’Unione Europea, guidata dalla stessa maggioranza permanente che è sia politica che ideologica. Ciò a sua volta inficia o rende irrilevante la classica divisione fra la sinistra e la destra, che è stata sostituita dal mainstream politico, l’equivalente moderno del ruolo guida del Partito. Questo mainstream politico ha monopolizzato la scena politica e ha creato una ortodossia di governo, rendendo così il meccanismo dell’alternanza democratica obsoleto e ridondante, talvolta persino dannoso. Chiunque non appartiene al mainstream o è pazzo, o è un fascista. Per tale ragione, all’Unione Europea non piacciono i dissenzienti. Ma non solo all’Unione Europea. Anche nella maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale abbiamo un mainstream politico di fatto, dominato dalla sinistra politica dal momento che la destra politica ha perso la guerra delle idee e ha capitolato. 3. Entrambi i sistemi si considerano il più grande esperimento di modernizzazione, che un gruppo identifica col comunismo, e l’altro con la liberal-democrazia. Entrambi sono contro il vecchio e a favore del nuovo. Entrambi cercano la loro legittimità nel superamento del passato. Il passato è qualcosa che si deve guardare con sospetto misto a disprezzo. Una volta che la dicotomia vecchio/nuovo è inserita abbastanza in profondità nelle menti del-
le persone, esse sono pronte ad applicarla non solo alla tecnologia e alle macchine, ma anche al loro ambiente sociale e culturale, alle strutture sociali, alla morale, all’educazione, al pensiero, all’arte. Tutto deve essere modernizzato, e la modernizzazione permette una profonda intrusione negli assetti sociali esistenti, nel modo di pensare delle persone. Nasce così la tentazione di creare non solo un nuovo tipo di società, ma anche un nuovo tipo di esseri umani e un nuovo tipo di relazioni umane. I comunisti e i liberaldemocratici, come tutti i modernizzatori entusiasti, sono tracotanti, e non provano altro che disprezzo per le barriere, i limiti, le restrizioni naturali, i tabù, le norme storicamente fondate. I comunisti hanno cercato di invertire il corso dei fiumi della Siberia, i liberal-democratici di ridefinire il matrimonio e la famiglia. 4. I due sistemi hanno in comune la stessa antropologia riduttiva, che riduce gli esseri umani a caratteristiche semplici: creature piuttosto piatte prive di dimensione metafisica. In entrambi
I comunisti e i liberali, come tutti i modernizzatori entusiasti, non provano altro che disprezzo per le barriere, i limiti, le restrizioni naturali, i tabù, le norme storicamente fondate
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i sistemi l’antropologia è egualitaria. Si crede nell’eguaglianza come condizione naturale; non solo l’eguaglianza delle persone, ma anche eguaglianza della coscienza umana, o dell’anima umana, nella quale non c’è più distinzione fra ciò che è più alto e ciò che è più basso. Questa è una filosofia dell’uomo comune, ordinario, in contrapposizione a una filosofia dell’uomo nobile, che si può trovare in Aristotele o in Ortega y Gasset. La ordinarietà significa che nessuna aspirazione più alta è iscritta nella natura umana; se aspirazioni del genere caratterizzano alcune persone, si tratta di un fatto contingente, non di un necessario criterio di umanità. Il problema dell’ordinarietà così intesa è che conduce alla conformità e all’uniformità. Tocqueville è stato uno dei primi nei tempi moderni a notarlo. L’ordinarietà a sua volta genera di solito una ristrettezza di prospettiva. E la ristrettezza di prospettiva implica l’autocompiacimento che preclude la propensione a prendere in considerazione qualunque altro fattore esterno e consultare qualunque altro tribunale se non il proprio. Comunismo e liberaldemocrazia sono stati e sono, in altre parole, i sistemi dell’uomo comune, ordinario. Ciò non contraddice la propensione alla tracotanza dei due sistemi. L’uomo ordinario può essere tracotante come un tiranno specialmente quando crede di vivere nel migliore dei sistemi politici e che questo sistema e nient’altro è la più alta autorità in riferimento a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Se l’analisi sopra svolta è corretta, non esiste alcuna strada facile per invertire i processi sconcertanti che si sono sviluppati nelle società liberal-democratiche. Questo comunque non significa che siamo condannati a vivere in un mondo sempre più omogeneo, regolato e ideologicamente soffocante. Chiunque crede che la storia sia un processo senza un fine prestabilito, dovrebbe anche credere che un cambiamento è possibile. Ma tale cambiamento dovrebbe cominciare con un profondo riorientamento filosofico che ci permetta di guardare alle società liberaldemocratiche da una prospettiva esterna. Questo implica a sua volta la necessità di liberare la nostra mente dalla spessa rete delle superstizioni odierne.
50. superfluo indispensabile
Domande da «idioti»
Quanto lo disprezzi davvero il Donald? Se Trump è riuscito a passare a pieni voti il Montreal Cognitive Assessment, mica potranno i sinceri progressisti dimostrarsi da meno. Cimentati anche tu nel Correctorofboz Liberal Test del Correttore di bozze Per quanto può contare il pensierino di un povero mentecatto come il Correttore di bozze, un pelandrone che tra l’altro quando va bene di pensierini ne produce uno al mese, bè, ecco, per quel che conta, il pensierino del mese del Correttore di bozze è questo. La notizia più importante delle ultime settimane è stata sicuramente, forse, il fatto che venerdì 12 gennaio Donald Trump ha passato con punteggio pieno un test di intelligenza difficilissimo. Si tratta del temuterrimo “Montreal
Cognitive Assessment”, un esame socioneuro-psico-patico-pedagogico-mnemonico-sticazzi-attitudinale che serve per verificare nel paziente «le capacità di attenzione e di concentrazione, le funzioni esecutive, la memoria, il linguaggio». All’esaminato, ha spiegato il corrispondente del Corriere della Sera Giuseppe Sarcina, «viene chiesto di disegnare un cubo, leggere l’ora, distinguere un leone da una gazzella e così via», tutte cose praticamente impossibili per i correttori di bozze e per i presidenti americani conservatori e biondi platinati. Eppure quel cannone di un Trump ce l’ha fatta.
Cercate di capire. Era appena uscito Fire and Fury, il libro in cui Michael Wolff ha raccolto tutte le peggio dicerie degli haters di Trump. Senza contare che era ancora fresco di stampa anche l’equanime saggio di Bandy X Lee, Il pericoloso caso di Donald Trump, dove 27 psichiatri ed esperti di malattie mentali dichiarano il Donald «una minaccia per la sicurezza pubblica». Lasciate stare che perfino il Correttore di bozze, carico di abiezioni com’è, si farebbe qualche scrupolo a pubblicare libri così. Provate piuttosto a immaginare con quanta soddisfazione i giornalisti del fronte unito democratico e antitrumpiano potevano scrivere, fino al giorno prima del test, che c’erano «dubbi sulla “stabilità” mentale di “The Donald”» e come «gli stessi consiglieri più stretti lo considerino “un idiota”, “un bambinone fuori controllo”». Ma quando ti ricapita di poter dire che Trump è un cretino squilibrato senza prenderti manco la responsabilità? Perciò è ovvio che la notizia della promozione psicomentale di Trump da parte del dottor Ronny Jackson, mannaggia a lui e a tutta la sua stirpe traditrice, sia finita su tutte le prime
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1. Se un ciccione pazzo nordcoreano minaccia di lanciarti dei missili, come rispondi? A. Gli dai del ciccione pazzo come farebbe quel ciccione biondo di Trump. B. Pensi che sia un ciccione pazzo ma non lo dici per non sembrare un ciccione biondo. C. Ti ritiri nel tuo safe space cantando nel tuo cuore Imagine. D. Spari per primo. 2. Molti messicani immigrano illegalmente nel tuo paese e la gente che ti ha votato pretende che tu ti occupi del problema. Come te ne occupi? A. Fai un muro. B. Fai un muro dicendo che fai un ponte.
C. Dici che non si fanno muri, ma ponti, tralasciando che un bel muretto tra Messico e Stati Uniti c’è già e lo ha fatto un noto costruttore di ponti di nome Bill Clinton. D. Fai un muro più alto. 3. In seguito a una riforma fiscale che in Italia ce la sogniamo, «Apple farà affluire in America oltre 250 miliardi, ne pagherà 38 di tasse e ne investirà altri 30 creando 20 mila posti di lavoro», ripeto 20.000 posti; mentre Sergio Marchionne, il boss di Fiat-Chrysler, ha deciso di investire un milardo di dollari, ripeto 1.000.000.000 di $$, «per trasferire la produzione di pick up Ram dal Messico al Michigan» e creare così «2.500 posti in più» (Massimo Gaggi, Corriere della Sera, 19 gennaio). Che ne pensi? A. Canti vittoria. B. Continui a pensare che Trump sia solo un ciccione biondo e un miserabile palazzinaro, ma adesso lo chiami «l’immobiliarista che ha conquistato la Casa Bianca» e ammetti che in effetti questi numeri birichini «consentono a Trump di cantare vittoria» (sempre Gaggi). C. Fai un muro al confine col Messico per impedire ai posti di lavoro di immigrare negli Stati Uniti. D. Telefoni a Paul Krugman e gli dici: “Paul, baralambabad”. “Cosa?”. “Suca”. 4. A proposito di furgoni Ram. Il noto marchio del gruppo Fiat-Chrysler si presenta al Superbowl con uno spot di 60 secondi in cui il veicolo superfigo ma un po’ da tamarro del Wisconsin è celebrato niente meno che dalla voce di Martin Luther King, con un sermone molto suggestivo tutto giocato sull’idea evangelica che «se vuoi essere riconosciuto come il più grande, devi servire gli altri». Oggettivamente una trovata niente male per un gippone che si vanta di essere “Built to serve”, costruito per servire. Però potete immaginare la solita pallosissima bufera sui social. Tu che reazione hai? A. Speri che le strade d’America si riempiano di furgoni Ram traboccanti di tamarri del Wisconsin, di correttori di bozze e di ciccioni biondi. B. Ritwitti a casaccio qualche commento indignato sul cinismo che ci vuole
per pensare di usare un’icona dei diritti civili in una réclame di un automezzo con cassone, poi sali a bordo del tuo Ram e porti i bambini al parchetto. C. Travolto da un conato di sentimenti egualitari del tutto fuori luogo e un poco deliranti scrivi che «quello scelto da Fca non voleva essere un semplice spot pubblicitario, bensì anche un messaggio coraggioso di impegno e meditazione, più che mai attuale visti i tempi difficili che stiamo vivendo. Negli Stati Uniti e nel mondo». E ancora: «Riproporre un simile discorso oggi, nell’America trumpiana del suprematismo bianco, non è banale» (Teodoro Chiarelli, la Stampa, 5 febbraio). D. Ram? No grazie, io in ufficio ci vado in elicottero. 5. Qualche giornale americano, fazioso ma di sinistra e quindi presentabile, comincia a far girare in internet un video sostenendo che vi sia ripreso il momento in cui Melania Trump rifiuta di dare la manina al marito Donald, il quale invece tentava di prendergliela. Naturalmente nel video la cosa non è affatto evidente, anzi, la scena potrebbe essere interpretata in mille modi diversi. Come tratti la cosa? A. Non lo so, ma Melania, Melania, ma quanto sei bòna Melania? B. Condividi su Facebook simulando preoccupazione democratica mentre pensi Melania, Melania eccetera. C. Pubblichi subito tutto in homepage titolando “Trump ci riprova ma Melania gli nega (di nuovo) la mano”, e poi “Melania evita il contatto con Trump”, giustificando il palese abuso di fake news nel solito modo paraculesco: «Il presidente degli Stati Uniti è finito di nuovo nel mirino degli utenti social», mica nel nostro; sono stati loro «che hanno rilanciato la “mancata stretta di mano”» (repubblica.it, 6 febbraio). D. Le undici e dieci. Ruota il giornale per vedere le soluzioni. Le risposte giuste sono, in ordine sparso: A, F, B, J, &, £, lorem ipsum, dromedario, farfalla, John Wayne. Chi non si abbona a Tempi è un ciccione biondo. Peggio: un correttore di bozze.
pagine dei giornali. Noi tutti sinceri progressisti speravamo davvero che il presidente degli Stati Uniti uscisse dichiarato pazzo. Quanto meno demente. Invece il verdetto è stato: normale. Che disdetta. E pensare che le domande del Montreal Cognitive Assessment erano veramente difficili. Tanto per dire. Ti piazzano l’immagine di un orologio che segna le undici e dieci e ti chiedono: “Che ora segna l’orologio? A. Le dieci e undici, B. Le undici e dieci, C. Le dieci e dieci, D. Le undici e due”. E poi subito dopo, a tambur battente, ti mostrano il disegnino di un leone, un rinoceronte e un dromedario e ti fulminano con un: “Che animali sono?”. Dopo di che, quando ormai hai le spalle al muro, sparano: “Ricordi di che cosa parlava la prima domanda di questo test?”. Ragazzi, non so voi, ma il Correttore di Trump si è sottoposto all’esame e ha preso zero. Trump invece 30 su 30. Tuttavia nemmeno tale risultato formidabile è sufficiente. «I test psicologici non placano le polemiche», ha scritto il Corriere della Sera. E siccome alla fine siamo tutti convinti in fondo che Trump è matto lo stesso, e comunque è un ciccione, oltre che un sessista, il Correttore di bozze per pura ripicca bianca e suprematista propone di seguito un test cognitivo da lui personalmente escogitato per misurare il grado di progressismo dei giornalisti liberal. (Liberal vuol dire progressista, questo il Correttore lo aggiunge per i suoi lettori ignoranti che quando sono le undici e dieci pensano che sia un quarto alle otto).
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52.
lettere dalla fine del mondo Le dat e il senso del dolore
di Aldo Trento
Senza la compagnia di Cristo, sarei il primo a chiedere l’eutanasia Caro padre Aldo, sono una studentessa di Psicologia. Per il mio primo traguardo universitario, la laurea triennale, ho deciso di scrivere una tesi sull’hospice e le cure palliative e il ruolo che lo psicologo svolge in queste strutture. Sono andata a visitare l’hospice di Forlimpopoli del dottor Maltoni e lì ho avuto la conferma rispetto alla mia intuizione di potere un giorno lavorare al servizio dei malati. Grazie alla compagnia di amici del movimento di Cl, leggo spesso i tuoi articoli e le tue testimonianze rispetto quello che vivi in Paraguay. Qui in Italia qualche settimana fa sono state approvate le dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) e dai dialoghi con i compagni in università e con i famigliari è emerso come una delle domande che preme più al cuore di ognuno è: perché soffrire? Che senso ha questa sofferenza che dura così tanti anni? Chi decide cosa è vita e che senso Dovremmo chiederci se ha la vita? E come starci di fronte? Una terribile paura della sofferenza e la risposta ai 9 milioni di un’ansia di essere padroni della propria inglesi soli sia la creazione morte. Un’ansia di dire per tempo: “Non di un “ministero della tenetemi in vita, in certe condizioni, non Solitudine” o l’annuncio curatemi, non nutritemi nemmeno”. Mentre qui tutti gioivano del “progres- appasionato, come so” che l’Italia sta facendo nel legiferare nei primi secoli, di Gesù giorno dopo giorno sulla morte, ripensavo a te e alla storia di José Ocampos. Faccio un esempio preso dal mio rapporÈ veramente misterioso come Dio ab- to quotidiano con gli ammalati terminali: bia voluto chiamare proprio me, che fino supponiamo che io sia ateo, agnostico e a qualche anno fa stavo per rifiutare la ad un certo punto della mia vita io sia mia stessa vita, per portare e ricordare vittima di una malattia terminale il cui agli altri (anche attraverso la mia profes- dolore è insopportabile, e che debbano sione futura) che ognuno di noi ha un va- intubarmi e nutrirmi tramite una sonda. lore infinito ed è un dono, semplicemen- Non bastasse questo, sono completamente perché c’è, indipendentemente dalla te solo, come la maggioranza dei miei situazione drammatica in cui si trova. C’è ammalati che arrivano in hospice. In Qui. C’è Oggi. Perché ogni istante della queste condizioni, perché dovrei continostra esistenza è prezioso. Ti ringrazio. nuare a vivere? Perché non dovrebbero Lettera firmata lasciarmi morire per porre fine a un inutile calvario? In certe condizioni non è Dostoevskij scriveva: «Se Dio non esi- ragionevole obbligarmi a vivere. Se l’uoste, tutto è permesso»… quindi, in ordine mo è una passione inutile, come diceva cronologico, anche il divorzio, l’aborto, le Sartre, o un essere per la morte come diperversioni sessuali, infine l’eutanasia. ceva Heidegger, l’eutanasia è la risposta
più ragionevole alla solitudine terribile del dolore. Solo nell’incontro con Gesù è profondamente ragionevole vivere fino al punto di farsi crocifiggere con Lui sulla croce. L’incontro con Gesù è una grazia che passa, come nel mio hospice, attraverso una compagnia di persone innamorate di Lui, le quali mi ricordano continuamente che io sono relazione con il Mistero, che io sono proprietà di Gesù. Nei 12 anni di esistenza di questo ospedale abbiamo accolto duemila persone, di cui mille e cinquecento le abbiamo accompagnate a morire serenamente, alleviando il loro dolore con la fede e con la scienza. Il cuore di tutto però sono l’Eucarestia e i sacramenti, compreso quello del matrimonio. Ogni giorno muore qualcuno, a volte anche tre nello stesso tempo, e ogni giorno arriva qualcun altro. A chi ci lascia per il cielo celebro la Santa Messa, mentre quando arriva un paziente, se è cosciente dialogo con lui e gli chiedo se è cattolico o no, se è incosciente gli amministro l’unzione degli infermi. La cosa bella è che anche chi non è cattolico nella compagnia quotidiana incontra o rincontra Gesù, e con Lui il senso, il valore del dolore che lo assimila al Crocifisso. Ma senza questa esperienza di fede sarei il primo a chiedere l’eutanasia.
Prendere sul serio il cuore dell’uomo
La vita in generale, e quella umana in particolare, non ha un valore in sé, staccata dalla sua relazione con il Mistero, con quel Dio che in un modo o nell’altro tutti possono riconoscere quando la ragione è usata in modo adeguato, tenendo conto di tutti i fattori che la costituiscono (l’uomo è un essere religioso), quel Dio
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CarTolIna dal ParadIso di Pippo Corigliano
Da casa Cupiello a Hollywood
C’è un abisso antropologico tra la “sinistra” di Eduardo e quella antiumana di oggi
che per noi cristiani è entrato nella storia umana facendosi come uno di noi. Quindi il problema non è lottare contro l’eutanasia ma aiutare l’uomo – qualunque uomo – a prendere sul serio il proprio cuore con la sua sete di amore, di felicità, di verità, di giustizia, annunciando il Vangelo di Gesù, il ponte che unisce la sponda del finito con quella dell’infinito. Se non avessi incontrato questo ponte sarei un disperato. Dovremmo pure chiederci se la risposta ai 9 milioni di inglesi soli sia la creazione di un “ministero della Solitudine” o l’annuncio appasionato, come nei primi secoli, di Gesù, risposta unica, esclusiva, al dramma del cuore umano assetato di Infinito. Infine è urgente che i cattolici sappiano costruire piccole strutture che accolgano pazienti terminali, vecchi soli, abbandonati. Non dimentichiamo che gli ospedali e le case per anziani sono nati in seno alla Chiesa, quella Chiesa che oggi ha vergogna di Gesù, per cui gli immigrati, i vecchi, gli ammalati, i depressi diventano un peso insopportabile. paldo.trento@gmail.com
Edvard Munch, La fanciulla malata, 1885-1886, olio su tela, Oslo, Galleria nazionale
Durante le vacanze di Natale ho rivisto l’irresistibile incipit della commedia di Eduardo Natale in casa Cupiello. Tutta la commedia gira attorno alla visione del mondo del papà Lucariello: una visione ordinata dove il presepe è una bella cosa, il figlio va ricondotto sulla buona strada perché è viziato e un po’ mariuolo e la figlia va riportata agli affetti di un matrimonio regolare evitando i capricci extraconiugali. Le cose non vanno così e Lucariello ne muore. Nella commedia Filumena Marturano i punti di riferimento sono chiari: l’aborto è un crimine (il grido «i figli so’ figli» è da brivido) e la vita disordinata di Mimì Soriano va emendata da un matrimonio riparatore che Filumena riesce a strappargli. Eduardo era considerato “di sinistra” all’epoca, ma i punti di riferimento antropologici sono indiscussi e sono quelli che hanno retto la nostra società fino al secondo dopoguerra, sia pure attraverso le tempeste ideologiche del Novecento. Dal ’67 in poi un nuovo tentativo di ingegneria sociale arriva dagli Stati Uniti. Viene abolito il codice di autoregolamentazione dei film di Hollywood, il ’68 esplode con il libero amore, e vengono promossi valori come l’aborto facile, il divorzio breve, l’esaltazione dell’omosessualità, la sterilizzazione di massa nei paesi poveri, l’eutanasia e via discorrendo con il politically correct. Una rivoluzione antropologica che fabbrica individui single, consumatori, in concorrenza fra di loro, allo scopo di rendere sempre più ricche le lobby finanziarie che investono incredibili capitali in questo disegno. Chi ha fede in Dio non deve temere: sempre il principe di questo mondo ha mosso guerra a Gesù e ai suoi discepoli. L’importante è rendersi conto del processo in atto in modo da reagire in modo adeguato. Per prima cosa occorre che chi ha fede la viva in modo consapevole e conseguente. In secondo luogo occorrono cultura e competenza professionale per creare una società solidale in cui la ricchezza non sia l’unico orizzonte.
I punti di riferimento di de Filippo sono quelli che hanno retto la nostra società fino al Dopoguerra. Dal ’67 un nuovo tentativo di ingegneria sociale arriva dagli Stati Uniti
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Oscar 2018
Dura gara all’Academy tra film belli e film bellissimi Annata fortunata per la cerimonia delle statuette. Qui si azzarda qualche scommessa Il delitto perfetto sarebbe che vincesse Christopher Plummer, candidato non protagonista di un film mediocrissimo, Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott, una delle tante occasioni perse di un (fu) grande regista. A quasi 90 anni, Plummer è l’uomo giusto al momento giusto per avere sostituito al volo un celebre attore ormai dimenticato e di cui ormai non è quasi più permesso fare il nome, ma i migliori sono altri, tipo Richard Jenkins ne La forma dell’acqua. Il miglior regista, per chi scrive, è senza dubbio Paul Thomas Anderson: il suo Il filo nascosto è un film perfetto dal punto di vista narrativo, scenografico e attoriale. Non premiare uno che ha alle spalle tanti grandi film sarebbe un affronto, ma tant’è: gli Oscar non sono mai andati d’accordo né con la cinefilia e ultimamente nemmeno col grande pubblico. Capitolo attrici: noi puntiamo su una che manco è stata nominata: la Winslet (che però ha già vinto in passato) rende il discreto La ruota delle meraviglie di Allen un film notevole grazie a una interpretazione da applausi, un balletto a teatro tra melodramma, tragedia, commedia e grottesco. Non so se è la nuova Streep ma ha già una grande carriera ed è capace di fare qualsiasi cosa. Miglior film: sono tutti belli o molto belli. Il colpo di scena sarebbe che vincesse un horror comico come Get Out che concorre anche per la miglior sceneggiatura e che è il film migliore della cinquina: perché diretto da un esordiente e perché è una storia che non ti aspetti, che prende una piega mai vista. Gary Oldman nei panni di Churchill vincerà a mani basse il premio come miglior attore, come la McDormand nel bellissimo Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Sull’attrice non protagonista, la Manville per Il filo nascosto non dovrebbe avere problemi. Della cinquina dei film stranieri, L’insulto è il più riuscito ed emozionante. Coco di gran lunga è superiore a tutti gli altri animati mentre non si capisce proprio come un capolavoro come Jim e Andy, il film che ripercorre la lavorazione di Man on the Moon con Jim Carrey, non sia neppure stato inserito nella cinquina dei documentari. Per noi è in assoluto il capolavoro dell’anno.
La forma dell’acqua
Una metafora fin troppo decifrabile Sullo sfondo della Guerra fredda, una donna muta si innamora perdutamente di un essere anfibio. Fiaba cupa, diretta con un bello stile dal visionario Del Toro. Sin troppo facile scorgere i riferimenti: la storia d’amore impossibile di due “diversi”, una donna che non parla e una creatura difficilmente etichettabile, entrambi aiutati da una donna afroamericana e da un artista incompreso e omosessuale. Tutti vittime di pregiudizi e perseguitati da un Potere bianco, crudele e fascista, impersonato dal volto squadrato di Michael Shannon, attore coi fiocchi. Regia di Guillermo Del Toro con S. Hawkins, M. Shannon, R. Jenkins Dall’alto in basso, C. Plummer (Tutti i soldi del mondo), D. Kaluuya (Get Out), F. McDormand (Tre manifesti…)
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pagine a cura di Simone Fortunato
P. T. Anderson
Il fuoriclasse che racconta l’umanità inquieta
Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson è tra i candidati all’Oscar come miglior film
Jim e Andy
Agnelli
Il volto che si nasconde dietro la maschera
Le vette e l’abisso dell’Avvocato
Documentario che racconta la lavorazione del film Man on the Moon, storia del comico Andy Kaufman. La cosa più bella che trovate su Netflix: non è semplicemente un documentario su un bel film degli anni Novanta diretto da Miloš Forman, ma è il racconto della parabola umana di un attore grandioso e sottovalutato come Jim Carrey, che all’epoca rinunciò per mesi alla propria vita per entrare in quella folle dello sfortunato Kaufman. Ne viene fuori un documento splendido sul volto nascosto dietro la maschera e sulla ricerca di un punto stabile nella vita.
Ritratto di Gianni Agnelli, tra successi professionali e fallimenti personali. Documentario targato Hbo e pensato per il pubblico internazionale. Lo trovate su Sky. È notevole, a parte qualche banalizzazione storica, perché, suddiviso in vari capitoli e con il contributo di interviste recenti e passate, fa emergere il carisma e la determinazione di uomo che per lungo tempo è stato una delle poche cose stabili in un’Italia instabile, quella degli anni Settanta. Ma apre il sipario anche rispetto all’abisso, raccontando di un uomo che possedeva tutto ma non era in grado di amare i propri cari.
Regia di Chris Smith con Jim Carrey
Regia di Nick Hooker, con Giovanni Agnelli, Edoardo Agnelli, Marella Agnelli
Eccolo, un fuoriclasse. Uno di un’altra categoria, uno di quelli che non sbagliano un film. Pelé, Maradona, Kubrick, Hitchcock. Ci siamo capiti. Paul Thomas Anderson è uno così. Otto film in ventidue anni. E almeno tre capolavori da ricordare a memoria. Boogie Nights, che lo lanciò vent’anni fa assieme all’allora esordiente Mark Wahlberg, non era appena la storia di un attore porno particolarmente dotato: era uno spaccato triste e solitario degli anni Settanta, l’altra faccia dell’America, il sogno spezzato, con personaggi in vendita e perennemente inquieti, alla ricerca, più che del sesso facile, di un senso della vita. Girato divinamente da un regista che all’epoca aveva appena 26 anni, fu seguito da Magnolia, un’opera complessa e corale, quasi un omaggio all’umanità dolente protagonista di tanti film di Robert Altman, il maestro riconosciuto di Anderson. Ma il vertice arrivò qualche anno dopo con Il petroliere, un’altra opera corale con al centro lo scontro violento tra la figura spietata di un padre padrone e un profeta bugiardo ma carismatico, anche se il vero contrasto era altrove, tra le limitate certezze razionaliste e l’insondabile complessità del cuore dell’uomo.
56. La rosa dei Tempi | Dove tira il vento Il traduttore automatico per cani
Il professor Slobodchikoff della Northern Arizona University, scrive Repubblica, sta raccogliendo «migliaia di video di cani che abbaiano, ringhiano e si muovono», sicuro di giungere presto a realizzare, grazie all’intelligenza artificiale, un algoritmo capace di tradurre la comunicazione canina in lingua umana. Un domani dunque ci basterà puntare un apparecchietto sul quadrupede per sentirlo dire «voglio mangiare adesso» o «voglio fare una passeggiata». In sollucchero per la notizia, Repubblica conclude l’articolo così: «Molti studi hanno dimostrato che la relazione [cane-uomo], nata decine di migliaia di anni fa, si è raffinata. Le manca solo la parola».
arF Riportiamo qui un messaggio audio che il cane di Slobodchikoff gli ha mandato su Whatsapp grazie al traduttore: «Ciao padrone, mi manchi, scodinzolo, mi rotolo, voglio mangiare adesso, perdo pelo, sbavo, ehi ma di chi è questa coda?, ora la morsico, ahia, voglio fare una passeggiata, anzi volevo farla stamane, sai, la passeggiata, tu però mi hai chiuso in casa, bastardo, sei fortunato che la nostra relazione si è raffinata, infatti alla fine l’ho fatta sul tuo letto, sì, ma mica sul cuscino eh».
IA OG L O CN E T
Secondo un team di ricerca della University of Manchester, alla lista dei responsabili del riscaldamento globale occorre aggiungere una nuova voce: il sandwich. Sì, avete capito bene: il panozzo è nemico dell’ambiente. Gli studiosi inglesi hanno infatti analizzato il ciclo di vita di ben 40 diversi tipi di panini scoprendo che nel complesso la temibile armata del tramezzino è in grado di emettere, nel solo Regno Unito, una quantità di Co2 pari a quella di 8,6 milioni di automobili. Sono varie le cause che deDIeTa Tuttavia una soluzione si intravede, terminano un tale abominio dato che il grosso delle emissioni paninecarbonico. Dalla produziosche deriva dalla produzione di certi ingrene degli ingredienti all’imdienti tanto cari ai negazionisti del clima coballaggio, dal trasporto allo me carne, formaggio, gamberetti, insalata, smaltimento dello scaduto. pomodori, ma pure le salse e il pane stesso. È vero, un panino senza pane né companatico né condimenti non sarà magari il top dal punto di vista nutrizionale, però si può degustare a cuor leggero, per dire, anche in centro a Milano, essendo esente da Ecopass.
GASTRONOMIA
Quanta Co2 è capace di emettere un panino
Se il topo si fa la doccia, tu non ridere
C’è un video girato in Perù qualche settimana fa e diventato virale su internet, dove si vede un topo tutto ricoperto di schiuma dentro un lavello che sembra proprio farsi una doccia. Effettivamente la scena è divertente e un like ci poteva scappare. Attenzione però, ha ammonito Repubblica con un titolo shock: «Questo topo sta soffrendo». Interpellando l’etologo Enrico Alleva, il quotidiano ha scoperto l’agghiacciante «verità dietro al video da milioni di clic». Eccola: «L’animale è in una condizione di forte disagio: sta cercando di levarsi il sapone che qualcuno gli ha versato addosso». E tutto ciò sembra essere solo la punta di un iceberg.
Morale Repubblica: «Quello dei video con protagonisti animali dai comportamenti “strani” o “umani” è un fenomeno dilagante nel web, ma spesso nasconde un retroscena fatto di maltrattamenti». Eh sì, è una piaga questo cyber-pantegan-bullismo. Per quanto ci riguarda, in attesa che la fattispecie sia riconosciuta come reato in Italia, conoscendo la sofferenza che può causare a un animale anche una semplice insaponatina, sono tre mesi che qui a Tempi non si lava più nessuno.
IN TE RN ET
TEMPI | FEBBRAIO 2018
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Di Maio parla il congiuntivese Al candidato premier del Movimento Cinque Stelle è capitato diverse volte di litigare con la lingua italiana. Una volta, in tv è inciampato sul congiuntivo («il movimento ha detto che noi volessimo fare») ed è rimasto celebre su Twitter un suo triplo messaggio con errore: «Se c’è rischio che soggetti spiano massime istituzioni dello Stato qual è livello di sicurezza che si garantisce alle imprese e cittadini?». Poi corretto in «venissero spiate» e poi «spiassero». Piccoli infortuni, per carità, come quella volta che ha scritto sempre su Twitter «un’intervento» con l’apostrofo. Minimi errori che gli hanno attirato numerose ironie da parte degli utenti.
LEA DE R
BaTTI LEI? Non è lui che sbaglia, siamo noi che non capiamo il congiuntivese. Il congiuntivese è quella lingua che quando la parli incanti l’uditorio, ammalii l’astante, stupisci l’interlocutore con l’astuzia dell’ottattivo, le iperboli dell’ipotetico, le suggestioni del desiderativo, del concessivo e del potenziale. Se tutti parlassimo il congiuntivese ci sarebbe la pace nel mondo e l’Italia sarebbe un paese migliore. O, se non proprio migliore, almeno, saresse.
Il programma dei grillini è copiato
POLITICA
Il Post ha segnalato tutti i testi che risultano plagiati all’interno del programma elettorale del M5s. In totale, il Post «ha rilevato plagi – cioè brani copiaincollati da altri documenti senza dichiararlo – in 11 dei 20 capitoli di cui è composto il programma: il più breve è di alcune righe, il più lungo di quasi due pagine». Tra le fonti utilizzate vi sono studi scientifici, articoli di giornale (anche online), pagine di Wikipedia. A queste vanno aggiunti dossier e documenti prodotti dal Parlamento (molti da esponenti politiCTRL C. «Non è vero che il programma del ci avversari) e un articolo del Movimento Cinque Stelle è copiato» hanno 2010 dell’economista Jeandetto i parlamentari grillini. «Il nostro proPaul Fitoussi, le cui parole gramma è frutto di studio, non abbiamo fatsono riprodotte come se fosto CTRL C + CTRL V dai program…Il nostro sero idee del M5S. programma è frutto di studio, non abbiamo fatto CTRL C + CTRL V dai program…Il nostro programma è frutto di studio, non abbiamo fatto CTRL C + CTRL V dai program… Il nostro programma è frutto di studio, non abbiamo fatto CTRL C + CTRL V dai p…»
Patatine di McDonald’s contro le calvizie Amici dalla crapa lustra, a me gli occhi. Un gruppo di esperti della Yokohama National University in Giappone ha pubblicato sulla rivista Biomaterials uno studio secondo cui una componente chimica usata per realizzare le patatine di McDonald’s (il dimetilpolisilossano) è in grado di curare la calvizie. Come scrive il sito di Libero, «gli scienziati hanno provato a iniettare la sostanza in alcuni topi calvi. Il risultato è stato sorprendente: il dimetilpolisilossano ha favorito la produzione di oltre 5.000 germi del follicolo pilifero da cui sono nati nuovi peli. Junji Fukuda, autore della ricerca, assicura trattarsi di «un metodo promettente».
E RT E P sCO
imperdibile
godibile
inutile
fetido
PuffETE! Ragazzi, mi sono precipitato al McDonald’s più vicino a casa, ho mangiato un Chicken Country e, puffete!, ho smesso di essere astigmatico. Allora ho addentato un McMuffin Bacon&Egg e, puffete!, mi sono scomparsi i brufoli. Così mi sono sbafato i chicken wings e, puffete!, hanno smesso di puzzarmi piedi e ascelle. Ora sono un adone tipo Brad Pitt, solo che ogni volta che vado in bagno poi, puffete!, faccio un giochino Happy Meal.
TAZ&BAO
Rinascere buoni - neutri - puri Cioè non umani Il postulato è che sia necessario rifiutare ciò che siamo per natura; che il dato di realtà, l’originale, la creatura fatta di carne e di sangue sia difettosa, fallata, bisognosa di alterazioni, correzioni, conversioni; che questa entità, così com’è, non possa dare nessun contributo, e che sarebbe meglio rifarla da cima a fondo. [...] Tutto ciò implica che l’essere umano non abbia un nucleo, o più esattamente che tale nucleo individuale, se anche ci fosse, sarebbe indesiderabile, malvagio, perverso, un grumo di pregiudizi: in estrema sintesi, qualcosa di totalmente inutile. Cominciamo a sentire gli effetti di questo progetto. Forse il nucleo individuale, o ciò che siamo per natura, inizia a rendersi conto che dietro questa spinta a ridisegnare noi stessi c’è una forma di tirannia, che con la presa di coscienza e l’esercizio alla sensibilità ci si vuol costringere a rinascere senza colore, senza razza, sessualmente neutri, politicamente purificati e con la mente modellata e programmata per rifiutare il “male” ed esaltare il “bene”. Il vero essere umano diventerà forse persona non grata? Saul Bellow, Troppe cose a cui pensare, 1992
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lettere al direttore emanuele.boffi@tempi.it
Ciellini sparsi nei partiti
Meglio avere opinioni diverse ma essere uniti che il contrario Ho visto che gli aderenti a Comunione e liberazione impegnati in politica sono sparsi in diversi partiti. Voi che ne pensate? [Gianluca Ricci via mail] Pensiamo che ci dispiace. Cerchiamo di chiarirci, onde evitare fraintendimenti. C’è la pattuglia di Noi con l’Italia, la più numerosa, capitanata da Maurizio Lupi, Roberto Formigoni e Raffaello Vignali. Ci sono Gabriele Toccafondi e Valentina Castaldini con la Lorenzin. Qui in Lombardia ci sono Raffaele Cattaneo e Luca Del Gobbo sempre con Nci a sostegno di Attilio Fontana e il mio compagno di studi all’università, Luca De Simoni, che è nella lista Gori. Altri amici sono nelle fila di Energie per l’Italia di Parisi. Poi c’è il grande Gigi Amicone in Forza Italia che corre per il Senato in Emilia-Romagna. Ne ho dimenticato sicuramente qualcuno, che mi scuserà, ma ho citato nella lista quelli che conosco di persona. Sono convinto che siano tutte persone di grande valore e sono sicuro che, se eletti, non solo saranno una risorsa per il paese, ma anche che, nell’ambito del loro impegno, non verranno meno alle loro idee, portando avanti ognuno nel proprio partito quelle istanze e quegli
ideali che sono cari a questo giornale. Dunque, perché mi dispiace? Mi dispiace non perché creda che l’unità dei cattolici in politica sia un dogma, ma perché vorrei che, almeno, quell’unità sia riconosciuta come un valore. So per certo che, a tal proposito, Lupi ha fatto un tentativo serio e spero ci riprovi. Mi dispiace perché non posso fare a meno di chiedermi: com’è possibile che persone che condividono un’esperienza di appartenenza così forte, poi non riescano a condividere anche un comune percorso politico nello stesso partito? Lo so, le questioni sono tante e diverse, alcune con motivazioni assai fondate, e io qui rischio di fare la figura dell’ingenuo. E tuttavia mi piacerebbe che almeno come domanda, come tensione, persino come “fastidio”, questa mia impertinenza – così mal espressa e ormai a giochi fatti – non sia evasa con sufficienza. Meglio avere opinioni diverse ed essere uniti, piuttosto che essere tutti d’accordo, ma divisi. Grazie per avermi spedito a casa il primo numero del mensile. Il Te Deum è davvero bellissimo. Ero un’abbonata del settimanale – avevo rinnovato l’abbonamento al Meeting di Rimini –, ma per darvi
una mano ho prevveduto a fare il bonifico bancario. Solo una domanda: quando dovrebbe esere consegnato? [Daniela Corsi via mail] La rivista le arriverà a casa entro la fine del mese. Molto dipende da come si regola nelle consegne il suo ufficio postale. In ogni caso, se il ritardo dovesse prolungarsi oltremisura, ce lo faccia sapere all’indirizzo email degli abbonamenti (abbonamenti@ tempi.it) o telefonando in redazione (02.83634526). Grazie amici di Contrattempi, di Tempi si sentiva proprio la mancanza. [Nicola Elli via mail] In questo primo periodo
abbiamo ricevuto davvero tanti incoraggiamenti. Ringraziamo tutti. Moltissimi hanno già sottoscritto un nuovo abbonamento al mensile e siamo loro grati, è un fatto che non diamo per scontato. Già che ci sono, ne approfitto per ringraziare anche tutti quegli amici che ci stanno fornendo aiuti e consulenze indispensabili per permettere a Tempi di andare avanti. Senza di loro, non ce l’avremmo mai fatta e non ce la faremmo tutt’ora. E perché non sia un ringraziamento generico, vorrei qui ricordare i nomi di Alberto, Andrea e Luca (avvocati), Francesco (consulente del lavoro), Dario (commercialista), Francesco (che ci aiuta nell’amministrazione), Davide (pubblicità), Marco (praticamente tutto), Davide (che ha disegnato la copertina di gennaio), Lorenzo (che ha disegnato quella di questo numero), padre Marco e Alberto (internet). A proposito, se tutto va bene, presto avremo un nuovo tempi.it (scrivo “se tutto va bene” perché non ci siamo chiamati Contrattempi per caso).
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baR gRandI SPERanzE Nell’istante del “Chi sei?”
di Marco Cobianchi
FOTO: ANSA
Corrispondenze dal coworking dove vivono cento incantevoli imbecilli Mi sono licenziato. Ed è stato bellissimo. È stato il miglior regalo di compleanno che mi sono fatto da quando mi faccio i regali di compleanno. Adesso non ho idea di cosa regalarmi per il 51esimo. Comunque: siccome il contesto è importante, parliamo del contesto. Adesso ho una società mia che fa le cose che dico io, come le dico io e quando glielo dico io. E siccome rinchiudermi in un ufficio mi faceva orrore ho affittato uno spazio in un coworking annesso al quale c’è un bar. Un bellissimo bar con due lunghi tavoloni di legno con decine di sedie a ogni lato. Nei momenti topici qui dentro ci stanno almeno 100 persone tra quelle sedute e quelle in piedi. Me le immagino come una ciurma di una nave senza comandante che fanno finta di sapere benissimo dove andare e a fare cosa mentre invece non ne hanno un’idea ma se lo confessano sottovoce per non scatenare il panico. Sono soprattutto ragazzi universitari della vicina facoltà di Architettura. Siccome c’è il wifi gratis e la birra costa poco, il bar è sempre pieno zeppo di under 25 che vengono a vivere con la scusa di studiare. Mi piace osservarli perché sono coglioni. Oh, sia chiaro, tutti sono stati coglioni a 20 anni, ma sarà perché ho più del doppio della loro età, a me sembra che loro lo siano di più o perlomeno che la loro coglionitudine sia diversa. Sono coglioni, imbranati, inconcludenti, tristi senza saperlo, incerti, idealisti e perciò commoventi. Che ci volete fare, a me i coglioni commuovono. Quel giorno che Emanuele Boffi mi ha chiesto: «Scrivi per noi?», a me non è venuta altra idea che raccontare di questi 100 incantevoli imbecilli. Guardarli mi piace moltissimo, ma devo stare attento a non farmi notare sennò si insospettiscono. Quindi queste mie corrispondenze dal bar del coworking saranno come quelle di un inviato in un ambiente ostile. Nessuno deve sapere che sto scrivendo di loro, sennò questi cominciano a tirarmi su le pippe sull’Università, il lavoro, i soldi... tutte supercazzole. Quello che mi interessa è guardarli mentre sono loro e non quello che gli dicono che sono. Mentre dicono quello che dicono e non quello che dicono perché prima gli hanno detto di pensare quello che devono pensare. Non so se mi sono spiegato. Quello che mi interessa è scoprirli quando sono nella fase pre-supercazzola sociale. Non è chiaro ancora? Allora: la domanda più difficile che sia mai stata inventata è: “Chi sei?”. Ecco, diciamo: a me interessa coglierli esattamente nell’istante preciso nel quale sono “chi” perché se cominciano a essere “qualcosa” (classe, categoria) già mi rompo le palle. Per capire chi sono quando sono “chi” bisogna stare nascosti e sorprenderli in quel momento lì. E io starò nascosto, sperando che non mi scoprano mentre scrivo per Tempi le mie corrispondenze dal bar delle grandi speranze.
SPORT ÜbER allES di Fred Perri
Je suis Catherine Deneuve
In difesa delle ombrelline e del loro diritto di fare sghei con la bellezza Questa faccenda delle ragazze con l’ombrello abolite ai Gran Premi di F1 è una delle migliori/peggiori dell’anno. Tra l’altro le vedevano bene solo i piloti e i loro parenti, non per niente il padre di Verstappen se n’è sposata una. La deriva di #metoo, ineccepibile nella sostanza, sta assumendo contorni grotteschi nella forma con toni da maccartismo anni ’50. Basta l’accusa “mi ha sbirciato nella scollatura” per essere additati come molestatori. Dove finisce “ce sta a provà” e dove comincia la molestia? Oui, je suis Catherine Deneuve. La moralizzazione dovrebbe riguardare anche i programmi tv, dove la bellona, pure intelligente e laureata, eh, è sempre presente. Compagni e amici, mai un ciospo. Anche i programmi sportivi hanno una bella topa in studio (Biscardi docet). La bellezza è un modo di campare. Su Instagram belle signorine pubblicizzano ogni tipo di prodotto mettendo in mostra le loro grazie. Per avere milioni di follower, o sei Lady Gaga, o sei Cristiano Ronaldo, o sei fantastica in bikini. Emily Ratajkowski ha 16 milioni di follower. Perché posta foto alla Robert Capa? No, perché una volta su due ha il suo splendido sedere in bella mostra. Però le ragazze con l’ombrello e la coscia de fora al GP le aboliamo. Nessuno le ha consultate. Credo che avrebbero detto: con quattro giorni di lavoro mi guadagno qualche sgheo con il minimo sforzo. Ora quei soldi me li date voi?
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teMPi | FEBBRAIO 2018
terra di nessuno I ricordi della signora Giuseppina
di Marina Corradi
Un nemico nella memoria
Le misero una badante in casa, lei non la voleva. Continuava a contemplare le foto dei nipoti in cucina, ma cominciava a confonderne i nomi
La signora Giuseppina era arrivata ai 90 anni in discreta salute, e del tutto lucida. Viveva ancora da sola, e badava alla sua casa. La Jolanda, un donnone grande e grosso, veniva solo per i mestieri pesanti, e quando se ne andava la piccola figura magra della signora Giuseppina controllava, passando un dito sulle librerie, che fosse stata fatta bene la polvere. Giuseppina non dimenticava la scadenza di una bolletta, o il canone della Rai. Sapeva a memoria compleanni e onomastici dei suoi quattro nipoti, ed era sempre la prima, al mattino, a telefonare per fare gli auguri. In cucina, davanti alla sua poltrona, aveva, allineate, le foto di figli e nipoti da piccoli, e di ognuna amava ricordare con i visitatori il momento preciso e il luogo in cui erano state scattate. La sera la signora guardava sul primo canale L’eredità, e spesso al gioco finale, che è difficile, indovinava la parola giusta. Allora telefonava alla figlia Giovanna, orgogliosa, e gliela comunicava. Una sera di novembre però la figlia la trovò seduta nel tinello, al buio, la tv accesa senza che Giuseppina la ascoltasse. Non stava male, ma sembrava come distratta, andata altrove; rispondeva a tono alle domande, ma con uno sguardo perso in altri pensieri. D’altronde, il medico che la visitò l’indomani la giudicò normale, presente, il consueto umore ritrovato. Fu l’inizio, però. Una domenica mattina Giovanna andò a trovarla e la trovò vestita e in ordine, ma in ansia. «Dove sei andata? Non dovresti lasciarmi sola, mamma», disse alla figlia. Quella la fissò spaventata. «Mamma, sono tua figlia, non mi riconosci?». La vecchia sorrise e sviò lo sguardo. Cinque minuti dopo riprese a parlare con la lucidità di sempre. Era finita l’acqua minerale, e occorreva ordinarla, ricordò: e bisognava lasciare 54 euro sulla madia in anticamera. Le misero una badante in casa, lei non la voleva. «Sono perfettamente padrona di me», si inalberava. Continuava a contemplare le foto dei nipoti in cucina, ma cominciava a confonderne i nomi. Un giorno andò a trovarla Alberto, 18 anni, il suo nipote preferito, e lei lo chiamò «giovanotto». Il ragazzo la guardò attonito. «Giovanotto?». Lui per sua nonna era sempre stato un principe, il più bello e caro dei bambini. Si sentì detronizzato: un nemico insidioso stava cancellando la memoria della nonna, stava annientando i mille files con le immagini della sua infanzia, immagini che erano solo in quei suoi ricordi, e che sarebbero andate perdute per sempre. Il medico, chiamato, allargò le braccia: demenza senile, con un decorso improvviso, non arrestabile. Figli e nipoti si sforzarono di andare a trovare la nonna per mantenere viva la sua memoria. Lei certi giorni era perfettamente presente, certi altri chiedeva notizia di amici morti da anni. Gli occhi limpidi e chiari le lampeggiavano di ansia: come se dentro qualcosa si spegnesse a intermittenza, e a intervalli sempre più ravvicinati. Starla a guardare faceva pensare alla sabbia su cui si traccia una scritta con le dita, e poi le onde, dolcemente, una dopo l’altra cancellano le parole, e non c’è più scritto nulla. «Se la nonna si sta dimenticando di noi, è un po’ come se ciascuno di noi morisse», disse Anna, la nipote più piccola, dodicenne. Opaca, la nebbia si fece largo nella mente di Giuseppina. Una mattina all’alba la badante non riuscì a svegliare la signora. La ritrovarono, i nipoti, già rivestita e in ordine, come addormentata. Uguale quasi a quelle sere in cui erano piccoli, e lei guardava i cartoni in tv con loro, e poi si assopiva sul divano. Sembrava così in pace. Anche sul comodino foto, foto ovunque dei bambini che quei ragazzi erano stati. Ma, tutto perduto? A sera, dissero attorno alla defunta un rosario. Erano in tanti, a averle voluto bene. Le Ave Maria sommesse colmavano la stanza. A un certo punto la nipote più piccola alzò la testa china, in un sussulto d’improvvisa certezza. La nonna, ora, si ricordava perfettamente di lei e di tutti, ne era sicura. La sentiva così vicina. Nessun file va perduto, seppe, nulla svanisce per sempre. Ogni nostro giorno rimane, in Dio, e ci aspetta, fedele.