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STORIES COPYRIGHT © BY INDIVIDUAL WRITERS
Published in Italy by OperaUno All rights reserved Pubblicazione fuori commercio realizzata da OperaUno Tutti i diritti sulla proprietà letteraria e artistica dei testi sono riservati ai rispettivi autori. Raccolta antologica di racconti N. 13 Aprile 2015 Visita il sito web OperaUno: http://operauno.wordpress.com
INDICE HEXADEUS
07. Dreamarchitecture. L’architettura dei sogni RINO DI STEFANO
10. Ai confini della realtà ANDREA RONSIVALLE
20. Attitudine 22. L’altro mondo 25. Pioggia acida ANDREA FALORNI
32. Dormi, piccolo Marco! 35. Che Dio è? 40. Retrogusto di morte ARNALDO NINFALI
47. La strana lezione del Prof. Paggi 50. La maledizione 57. Il racconto 64. L’incidente stradale
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DREAMARCHITECTURE L'ARCHITETTURA DEI SOGNI (brano tradotto in italiano, tratto dal libro “Ich licht in licht” edito in Germania)
di Hexadeus L'affilatura della lama è la sensualità della ragione multidimensionale, multimediale e multiuniversale, architettonizzata in più di 52 percezioni, dalle proiezioni astrali dei meccanismi del sogno vivente che genera ogni realtà. Dio è morto, adesso tocca a noi fare meglio di lui, in modo pienamente casuale i creatori dell'architettura dei nostri sogni, come veri spiriti liberi oltre l'immaginabile. A tutti i padroni di tutti i mondi e alle loro nuove creature. Se la mia arte Cybertop di Cyberpoesia dovesse mirare a qualcosa nel senso dell'architettura dei sogni, allora si tratterebbe solamente di liberare tutte le anime dai disturbi ossessivi e compulsivi che le imprigiona in un'ottica sbagliata di visioni ristrette e sentimenti al di sotto di ogni morte e dalle loro paure e percezioni incastrate nel nulla. Perché la regola numero uno nell'arte della magia multiversale è che non si può forzare nulla, in quanto tutto è inforzabile, comunque postulabile. Immaginatevi di essere la sola persona seduta nella sala di un cinema a guardare un film, la cui regia è stata scritta da voi e di cui siete i produttori. Voi avete diretto la regia e sempre voi ne siete l'assoluto protagonista. Immaginate di indentificarvi talmente tanto nel ruolo che interpretate, da dimenticarvi totalmente chi siete realmente. Associandovi ed assimilando il personaggio interpretato al punto di indentificarvi completamente in lui. Effettivamente, ora, tutti i vostri pensieri, le vostre emozioni, le vostre percezioni, inclusi i vostri sensi, sono diventati un tutt'uno con le scene del film al punto che, senza che ve ne rendiate conto, esso stesso diventa la vostra realtà assoluta, ancora più reale della vostra vera vita e del vostro mondo naturale. Dunque, ora che siete completamente integrati con ogni parte del film, immaginate di essere da quella parte, dentro alla storia, pie~ 07 ~
namente consapevoli del ruolo che state vestendo. Nascerebbero delle discordie, con estreme minacce e reagireste impaurendovi a dismisura. Se la vostra figura, nel ruolo che ricoprite, venisse salvata, reagireste con estremo piacere e vi sentireste liberi. Se vi sentiste sconfitti, anche solo per amore, vi disperereste mentre, se doveste vincere ancora, sareste nuovamente felicissimi. Dopo un po' di tempo, solamente l'idea di evadere da questa illusione, vi sembrerebbe un atto di autodistruzione totale, un vero suicidio emozionale e l'idea verrebbe subito respinta e cancellata. Quindi non ne fareste nulla, continuereste a rimanere bloccati negli eventi che state vivendo sul grande schermo, continuando a vivere nell'illusione che tutto sia reale. Anche se sporadicamente, aveste dei dubbi, trovereste delle prove riguardanti la vostra ragione ed il vostro ego personale, con l'aggravante di essere legati a tutti gli altri attori e ciò comproverebbe che il sogno è effettivamente l'autentica realtà. Esattamente questo, è lo stato in cui si trova imprigionata l'intera umanità, dove tutti noi, siamo intrappolati... Gli abitanti del pianeta Terra, chiamati umani, si trovano in questo stato di incoscienza... Essi si identificano falsamente in ruoli che non gli appartengono e che recitano con altrettanta falsità, sentimentalmente e con i loro pensieri che accompagnano la loro vita cieca. Essi hanno completamente dimenticato, perso la memoria, arrivando a dimenticare addirittura se stessi, dimenticandosi... che il film ha 52 percezioni, delle loro menti (che percepiscono attraverso le interpretazioni mentali e simulazioni neuro interattive, di impulsi bioelettromagnetici, interpretati dai meccanismi dell'anatomia delle loro menti aberrate), hanno dimenticato che non è reale, che non solo sono i creatori, registi e produttori del film, ma che interpretano un ruolo, ogni scena compresa, che si svolge sul grande schermo. ~ 08 ~
A questo punto, immaginate che (dopo esservi identificati in ogni ruolo dell'intera storia del film) riuscite nuovamente a ricordarvi che il film (che è solo un rullino) non è e non era reale. Decidete cosÏ di non volere mai piÚ identificarvi e sostenere tutti quei ruoli, pensieri ed emozioni facenti parte degli eventi e delle scene di una storia da voi stessi creata e generata. Appena vi doveste rendere conto degli effetti (il film) e cercaste di tirarvi indietro (gli effetti) per tornare alle origini della causa (voi stessi), avreste chiaro in mente, come cognizione, il "chi siete o chi eravate" veramente! Vi ricordereste nuovamente che, effettivamente, siete i creatori, i produttori, i registi e di tutti gli altri ruoli, di tutti gli eventi e le scene del film. Che siete solo il riflesso di voi stessi, tra la vostra causa ed il vostro effetto. E che tutte queste dimensioni sono state partorite solo da voi stessi. Incluso Dio... Dunque, appena vi sarete liberati da tutte queste illusioni, (apparenze ed abbagli), vi renderete conto di tutti gli effetti, riguardo l'essere incollati, inchiodati ed appiccicati ad un Karma da sciogliere e che vi siete procurati da soli ogni sofferenza ed ogni dolore. Che voi stessi avete causato (sempre e solo se vi siete identificati nel ruolo del film) e riconoscendo questa forma di architettura, potrete liberarvene autoguarendovi (autoterapia).
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AI CONFINI DELLA REALTÀ di Rino Di Stefano Era una notte molto serena, illuminata da un piacevole chiarore lunare. Il Libeccio notturno, che spirava dal mare, aveva reso il cielo limpido e pulito. Non si vedeva una nuvola. Anche la temperatura, complice la fine dell'inverno e l'approssimarsi della primavera, non era molto fredda. L'autostrada era pressoché deserta. L'auto con le due persone percorreva la A 12 proveniente da Rapallo, in direzione Genova. Erano le ore a cavallo tra un sabato e una domenica: avevano fatto tardi in casa di amici, ma l'indomani avrebbero dormito. Procedevano a circa 100 Km/h e davanti a loro non c'era nessuno. In quel momento l'autostrada sembrava una lunga pista senza fine. Alla guida c'era Paolo, al suo fianco la moglie Francesca. Lui dirigente d'azienda, lei insegnante. Poco prima, mentre ancora si trovavano presso i loro amici di Rapallo, avevano parlato di UFO e dischi volanti. Come il discorso fosse finito proprio su quel tema, difficile dirlo. Forse perché in quel periodo le cronache dei giornali parlavano molto di avvistamenti ufologici e di esseri extraterrestri che avrebbero rapito la vittima di turno. Comunque sia, gli UFO erano diventati un argomento di conversazione. E, come sempre, ognuno diceva la sua. C'era chi non ci credeva, chi si immaginava degli alieni alti e biondi, chi li vedeva come mostruosi e giganteschi rettiloidi e così via. Paolo e Francesca non avevano un'idea da difendere. Entrambi nutrivano una certa curiosità circa l'avvento dei presunti invasori marziani, ma non andavano oltre. Del resto, quando si salutarono con gli altri, avevano già archiviato in un anfratto della loro mente UFO e alieni. Erano circa le due di notte. Avevano fatto tardi. Non avevano bevuto molto. Un drink, non di più, ma niente di pesante. Paolo reggeva bene l'alcol, ma stava molto attento a quel che metteva in corpo. In particolare quando sapeva di dover guidare. Così, ormai sulla strada di casa, mentre in silenzio lasciavano scor~ 10 ~
rere i chilometri dietro di loro, improvvisamente Francesca riprese il discorso degli UFO. - Dì un po', ma tu ci credi? Agli UFO, intendo… - Non saprei. Se facciamo un discorso più ampio, e parliamo dell'intero universo, allora non avrei dubbi: certamente sì. Nel senso che, statisticamente parlando, è impossibile che la terra sia la sola ad essere abitata da una razza intelligente. Ma qui si parla di presunte navicelle extraterrestri che di tanto in tanto verrebbero a trovarci. E perché, poi? Se fossero così tecnologicamente più avanti a noi, cosa ci verrebbero a fare qui? Vengono a vedere gli uomini primitivi come si arrabattano? Quale sarebbe lo scopo? - Non lo so, però li vedono da tutte le parti e da anni. Anche se la stampa cerca sempre di nascondere e camuffare, per non allarmare la gente, di fatto si contano migliaia di avvistamenti. In Italia come nel resto del mondo… - Sì, lo so. E questo è curioso. Ma prima di dire ci credo, preferirei essere sicuro. Li devo vedere, devo essere certo della loro esistenza. Capisci? Non mi va di fare la parte del credulone. Quando li vedrò, te lo saprò dire… Per qualche minuto entrambi tornarono al silenzio di prima. Erano stanchi, l'ora tarda si faceva sentire. Francesca cominciò a chiudere gli occhi. Paolo, invece, si sforzava di tenersi sveglio. Non voleva accendere la radio per non disturbare Francesca, ma si capiva che avrebbe preferito continuare a parlare. Così, tanto per tenere i sensi all'erta. Fu quando dalla A 12 passarono alla A 7 Milano-Genova, là dove l'autostrada percorre il tratto lungo la montagna e si affaccia sull'ampia Val Polcevera, che qualcosa catturò la sua attenzione in cielo. Nonostante il Libeccio, infatti, piantata nel bel mezzo della valle, una grossa nube a forma lenticolare stazionava a circa 300400 metri di altezza. Il vento continuava a spirare dal mare verso i monti, per cui non si riusciva a capire come mai quella nuvola non si spostasse. Del resto i punti di riferimento non mancavano, ad ~ 11 ~
esempio il viadotto sul Polcevera. La nuvola era davvero ferma, vento o non vento. - Ecco, guarda là - disse Paolo alla moglie, svegliandola dall'intorpidimento - guarda quella nuvola, per esempio. Mettiamo per pura ipotesi che fosse un disco volante coperto da una cortina fumogena. Mi vuoi dire chi se ne accorgerebbe? Dopotutto, a quegli esseri, ammesso che esistano e che dispongano della tecnologia di cui si favoleggia, basterebbe creare un po' di fumo e il gioco è fatto. Mi vuoi spiegare chi si prenderebbe il disturbo di esaminare una nuvola in cielo? Sarebbe una follia, non ti pare? E loro, sempre che ci siano davvero, potrebbero continuare a fare ciò che vogliono. Non ti pare? Francesca guardò meglio quella strana nuvola ferma in cielo. Contrariamente al marito, che doveva prestare attenzione alla guida, lei poteva osservarla meglio. In effetti, era di forma perfettamente lenticolare. Ed era anche piuttosto grossa. Ad occhio, doveva avere un diametro di diverse decine di metri. Ciò che la rendeva enigmatica era appunto il fatto che stesse perfettamente ferma, nonostante il vento. La brezza non era fortissima. L'aria non ululava, insomma. Ma si sentiva distintamente. Perché non veniva spinta verso i monti? - Sì, hai ragione. È una nuvola strana. A pensarci, qualora esistessero velivoli in grado di muoversi come i dischi volanti, quello di ricoprirsi di una coltre nebbiosa sarebbe un nascondiglio perfetto. Però, che stranezza… E tornò ad appoggiare la testa sul sedile, chiudendo gli occhi. Anche Paolo smise di guardare la nuvola. Tuttavia, quando scese nel viadotto sul Polcevera, sulla A 10 in direzione Ponente, qualcosa lo allarmò. Per logica, avrebbe dovuto lasciare la nuvola alla sua destra, sulla vallata, mentre lui si allontanava dopo aver fatto una deviazione a 90°. Ma la nuvola non c'era più. Per un attimo pensò che la brezza l'avesse sospinta verso i monti e non si stupì. Ma grande fu il suo stupore quando, alzando leggermente lo ~ 12 ~
sguardo alla sua sinistra, si accorse che anche la nuvola aveva girato a 90° e stava seguendo la sua auto, in direzione Ponente, a poco più di una cinquantina di metri d'altezza. Gli sembrava di sognare, di vivere un incubo. Una sorta di angoscia cominciò a impadronirsi di lui. Il cuore gli prese a battere veloce nel petto. Non era possibile! Semplicemente non poteva essere. Punto. Non sapeva come spiegarsi quello che stava succedendo e ne aveva paura. - Francesca, Francesca, svegliati… Lei sobbalzò. - Che c'è? Che succede? - Guarda sulla sinistra, poco sopra di noi. La vedi anche tu o sono impazzito? Lei si sporse in avanti verso il parabrezza e guardò in su, dove le stava indicando il marito. - La nuvola! Ma che ci fa lì? Cammina con noi? Ma che sta succedendo? Dio mio, non è possibile… - Non sarà possibile, ma è lì. Dal centro della vallata si è spostata alla nostra sinistra e ci sta seguendo, andando controvento. Se non la vedessi non ci crederei, ma è lì, porca puttana. Siamo di notte, su un'autostrada deserta e una grossa nuvola scura ci sta inseguendo. Se lo andiamo a raccontare a qualcuno, ci prendono per matti… - Ma che cosa può essere? Una nuvola non fa così, non può fare così… che diavolo è quella cosa lassù? - Non parlavi di UFO, prima? Se quello non è un UFO, come lo vuoi chiamare? - Dio santo, non può essere. Ci stiamo sbagliando, non è possibile… - Tu credi? E allora mettiamo in moto il nostro cervello e cerchiamo di dare una spiegazione a quanto sta avvenendo. Avanti, comincia tu. Che cazzo è quell'affare che ci sta seguendo? - Ma io non lo so, non lo so. E da dove esce poi, quell'affare? E per~ 13 ~
ché sta succedendo a noi? - Questo non lo so e mi interessa relativamente. Adesso quello che voglio sapere è come fare a sganciarci da questa trappola. Perché qualunque cosa sia quella diavoleria, non mi sembra che ci siano dubbi sul fatto che ci stia seguendo. Ce l'ha con noi! - Forse ci sbagliamo, forse è solo una nostra impressione. Può essere suggestione… - Come no, adesso vediamo. Siamo quasi al casello… La tensione si stava facendo pesante. Marito e moglie davano fondo a tutta la loro razionalità per spiegare in qualche modo il fenomeno che li stava interessando, ma la loro mente non riusciva a trovare nessuna spiegazione plausibile. Erano confusi. Confusi e spaventati, come se fossero vittime di qualcosa al di fuori del loro controllo. Si sentivano come delle prede inseguite dai cacciatori. E non c'era un posto dove rifugiarsi, dove salvarsi dal pericolo. Paura e irrazionalità li stavano mandando fuori controllo. Dopo la galleria, si apriva l'uscita verso Genova Pegli. La imboccarono e si fermarono al casello per pagare. Entrambi speravano con tutto il cuore che quella sosta, lasciando l'autostrada, avrebbe messo termine alla loro esperienza. Ma quando guardarono verso il cielo, restarono attoniti: la nuvola era lì, ferma sopra di loro. Era visibilissima, a nemmeno una cinquantina di metri sopra la loro testa. Sembrava che aspettasse che ripartissero. Paolo rimise in moto la macchina e si avviò verso il lungomare. Fedele come un cagnolino, la nuvola li seguì ponendosi sempre sulla loro sinistra. Andava persino alla loro stessa velocità. Mancava poco più di due chilometri per arrivare a casa, in una piazza sull'Aurelia. Ormai Paolo e Francesca avevano davvero una paura indicibile. Francesca si aggrappava al braccio destro di Paolo, come per cercare conforto. E lui aveva qualche problema a tenere fermo il volante, ma non la scostava. Comprendeva il suo stato d'animo. In cuor suo pensava a tutto quanto aveva sentito fino a quel momento sugli UFO e tutte quelle chiacchiere a ruota libera. Qualunque cosa fosse quel~ 14 ~
la cosa discoidale che li seguiva, era reale e concreta. Che cosa avrebbero dovuto fare? Che cosa sarebbe successo? Non voleva neanche esternare più di tanto i propri timori perché avrebbe finito col terrorizzare di più Francesca. Lei contava su di lui. Ma non sapeva neppure a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Anche perché, come si vede in certi film, in giro non c'era davvero nessuno. Di solito, anche di notte, c'è sempre qualcuno che passeggia o un gruppo di ragazzi che ha fatto tardi. Quella notte no. Erano più o meno le 3 e non si vedeva anima viva. Alla fine arrivarono nei pressi della piazza e svoltarono a destra, per parcheggiare. Anche la nuvola si fermò. Enorme nella sua forma scura, lentamente si girò come per sovrastare la piazza. Erano al dunque. Non potevano restare nell'auto e avevano paura a uscire. Francesca era agitatissima e non riusciva nemmeno a parlare. Spettava a lui, a Paolo, aiutare la moglie e rassicurarla. La loro casa era là, a pochi passi. Ma dovevano uscire allo scoperto per arrivarci… - Stai attenta, Francesca - disse Paolo alla moglie, cercando di sembrare deciso e risolutore, per incuterle un po' di coraggio Adesso fermo la macchina, poi usciamo insieme di corsa verso il portone. In tutto sarà ad una quindicina di metri. Teniamoci per mano e cerchiamo di tenere lo stesso passo. Non avere paura, ormai siamo a casa. Sei pronta? Francesca era terrorizzata e faticava anche a parlare. - Sì, sono pronta… Paolo le diede una carezza e la baciò su una guancia. - Bene, al mio via usciamo e corriamo… Uscirono dall'auto insieme, Paolo fece scattare la chiusura e si misero a correre verso il portone. Non guardarono la nuvola. L'unico pensiero che avevano in testa era mettersi in salvo dentro il portone. Fu questione di pochi secondi: lo aprirono con la chiave e furono dentro. Erano al coperto! Tirarono un sospiro di sollievo. Ma non era ancora fatta: dovevano raggiungere l'appartamento. ~ 15 ~
Abitavano al terzo piano. Preferirono salire le scale a piedi, invece di prendere l'ascensore. Passando da un piano all'altro, potevano vedere all'esterno dalle vetrate. La nuvola si stava ancora spostando e questa volta si muoveva tra il palazzo di fronte e il loro. Era davvero grossa e si era abbassata, rispetto a prima. Questa volta non si trovava a più di venti o venticinque metri d'altezza. Come Dio volle, arrivarono finalmente a casa. Quando si chiusero la porta alle spalle, finalmente cominciarono a respirare più lentamente. Si recarono subito nello studio salotto. Francesca, seduta sul divano, non parlava. China su se stessa, aveva la testa bassa e si teneva le ginocchia con le mani. Tremava. - Che ci sta succedendo… - continuava a dire. Ma non riusciva a rispondere. Paolo, invece, non riusciva a stare fermo. Continuava a camminare su e giù per la stanza, come preso da un'ansia incontenibile. Il cuore gli batteva forte e la mente era preda di mille pensieri confusi e disordinati. Nei momenti più critici, si affidava sempre al suo raziocinio. Non cercava di lasciarsi impressionare dalle apparenze o dalle circostanze. In quel caso, però, come poteva spiegarsi quell'incredibile inseguimento? A chi poteva chiedere spiegazioni? Ad un certo punto, si sedette vicino a Francesca e prese le mani di lei tra le sue. - Coraggio, non lasciamoci spaventare più del dovuto. Adesso siamo a casa nostra, al sicuro. Il peggio è passato… - Sì, ma quell'affare è ancora là fuori. E che cos'è? Perché ci sta dando la caccia? Cosa c'entriamo noi con loro? - Non lo so, non saprei che cosa risponderti. Ma siamo al sicuro, ormai. Non dimenticartelo. Ma il dialogo non andava avanti. Non riuscivano a parlare. Restarono così, l'uno accanto all'altra, in silenzio. La tensione era fortissima e le parole non sarebbero state sufficienti a comunicare quello che sentivano nel più profondo dei loro cuori. Era terrore allo stato puro quello che provavano. Un terrore senza nome e senza ~ 16 ~
spiegazioni. I minuti passarono. Francesca aveva la testa appoggiata sulla spalla di Paolo e gli teneva le mani. Paolo cercava come poteva di farla sentire al sicuro, ma era spaventato tanto quanto lei. Restarono così, in silenzio. Fuori, non si sentiva nulla. Sembrava che il mondo intero si fosse addormentato. Poi, circa mezz'ora dopo, Paolo decise che era il caso di dare un'occhiata dalla finestra. - No, che cosa fai? Può essere pericoloso… - lo apostrofò Francesca. Ma lui insistette. - Non possiamo stare così tutta la notte. Te ne rendi conto, vero? Dobbiamo vedere che cosa sta facendo quel coso… Così, decise di aprire la finestra del salotto, accostare leggermente la finestrella della persiana, e scrutare all'esterno. Ogni singolo gesto, ogni mossa, gli costava una certa fatica. Era l'incognito, più che altro, che lo preoccupava. Soltanto la vista dell'esterno gli sembrava un grandissimo risultato. E l'ansia aumentava ad ogni piccolo movimento. Quando però riuscì a guardare, ciò che vide lo rincuorò. La grossa nuvola discoidale stava girando su se stessa, in direzione mare. Era davvero grossa. Lentamente fece un'inversione ad angolo retto e molto gradatamente si avviò verso il mare, andando in senso opposto alla brezza notturna. Paolo continuò a guardarla, come ipnotizzato, fino a quando la grossa sagoma scura non cominciò a confondersi con il buio della notte. - Se ne va, se ne sta andando… - annunciò alla moglie con voce tremante. Francesca strabuzzò gli occhi e sembrò improvvisamente riprendersi dal terrore che l'aveva sconvolta. - Ma sei sicuro? Se ne sta proprio andando? - Assolutamente sì, stai tranquilla. Se n'è andata. Se n'è andata quella maledetta. Qualunque cosa essa sia… Era la fine di un incubo. Ancora scossi e impauriti, senza neppure commentare la fine di quella terribile esperienza, finalmente se ne andarono a dormire. Volevano soltanto dimenticare e riprendersi. L'indomani avrebbero commentato quell'incredibile nottata. Ma ~ 17 ~
non fu un riposo tranquillo, per quel che restava della notte. La mattina, mentre facevano colazione, continuarono a parlare di quell'avventura che li aveva così sconvolti. Entrambi avevano vistose occhiaie e il turbamento aveva lasciato qualche segno. Prima di tutto, giurarono di non raccontarla mai a nessuno. Chi li avrebbe creduti, del resto? Per cui decisero che quella era la soluzione migliore. Ma ciò che non sapevano è che la storia non era ancora finita. Ad un certo punto, Paolo volle uscire fuori in balcone per dare un'occhiata al tetto del palazzo vicino, per calcolare più o meno l'altezza a cui si trovava la nuvola. Uscì dunque all'aperto e, mentre guardava il caseggiato di fronte, gli occhi gli caddero sull'angolo interno del balcone, dove si trovava un mobiletto con alcune piante da fiori. Non c'era più. Guardò meglio in giro, pensando che un'eventuale colpo di vento potesse averlo fatto cadere, con tutte le piante. Anche se la ringhiera del balcone era protetta, per tutta la lunghezza dell'angolo, da una lastra di plastica verde che impediva al vento di colpire le piante. Il mobiletto, però, non c'era più. E con lui erano sparite anche le piante. Intorno, nessuna traccia di legno o terra. Si era semplicemente volatilizzato. - Francesca, vieni qui per favore… Francesca uscì in balcone e seguì con gli occhi il dito del marito che indicava l'angolo vuoto. - Dov'è il mobiletto? E dove sono le piante? - domandò. Si chinò verso lo spazio ormai deserto e con le mani toccò il pavimento del balcone. Niente, era asciutto e pulito. Solo che mobiletto e piante erano spariti. - Che cosa significa? - domandò - Fino a ieri erano qui. Ho versato io l'acqua alle piante… Dove sono finite? - Non lo so, so soltanto che non ci sono più. - Forse è venuto un vento molto forte che ha sollevato il mobiletto e lo ha buttato giù con tutte le piante… - E che cos'era, un uragano? Qui è tutto in ordine, solo che mobi~ 18 ~
letto e piante sono scomparsi… Francesca non voleva accettare quella che sembrava la più allucinante delle soluzioni possibili. La nuvola aveva fatto scomparire le sue piante, come a voler dare un avvertimento: invece di fare sparire voi, faccio sparire le vostre cose. Ma non lo accettava: questa ipotetica versione dei fatti sconfinava nella fantascienza, scombussolava tutto ciò in cui credeva. - Saranno caduti giù, saranno caduti giù… - continuava a dire. E Paolo, che si era reso conto di quanto stava accadendo, temendo per la salute mentale della moglie, alla fine l'accontentò. - Ascolta - disse - qui sotto c'è un falegname. Se il mobiletto è davvero volato giù, lui deve averlo visto per forza. Senza parlare delle piante… Domani, appena apre, vado a chiederglielo, d'accordo? Intanto, do un'occhiata in giro, per sincerarmi che i resti non siano giù. Francesca fece cenno di sì. Paolo si recò subito alla base del palazzo e cominciò a perlustrare la zona palmo a palmo. Da nessuna parte si vedevano i resti del mobiletto e delle piante. L'indomani mattina, inoltre, andò anche a parlare col falegname, il quale cadde dalle nuvole: no, non aveva visto il mobiletto e neppure le piante. Senza contare, disse, che volando giù dal terzo piano, avrebbero fatto un bel danno… Solo a quel punto, Francesca si convinse che la sparizione del mobiletto e delle piante poteva essere correlata alla nuvola. Né la moglie né il marito sapevano darsi una qualunque spiegazione plausibile, ma era successo. A entrambi vennero in mente certi vecchi telefilm intitolati “Ai confini della realtà” che avevano visto negli anni Sessanta. Ma ciò che era accaduto a loro, era successo realmente? Davvero erano stati inseguiti in autostrada, e poi assediati a casa, da una “nuvola”? E chi poteva rispondere? L'unica certezza è che quello sarebbe stato il loro più intimo segreto per tutta la vita. Un segreto, appunto, ai confini della realtà. ~ 19 ~
ATTITUDINE di Andrea Ronsivalle La cosa che mi interessa maggiormente è dormire. Tuttavia, è fin troppo chiaro come chi mi sta intorno non sia disposto ad accettare questa semplice verità. Non si aspettano che io concluda qualcosa nella vita, no - la loro aspirazione è più diabolicamente sottile - pretendono che il sottoscritto si svegli presto la mattina! Ma è colpa mia, chiedo io senza alzare la voce, se ho sempre le palpebre di cemento e il mio cervello non fa che rintanarsi nel suo guscio come una lumaca impaurita? Alle nove del mattino ho un sonno tremendo, a mezzogiorno non ne parliamo, e al calar del sole sono già pronto per andare a letto. Del resto pensate forse che sia felice della mia situazione? A ognuno la sua condanna, se è vero che siamo tutti colpevoli. Ma la differenza è che io, le vostre colpe, non le giudico mica. Ho sempre troppo sonno per farlo. Il problema, si sa, è che per vivere bisogna lavorare. Ma, dico io, se davvero viviamo in una società come si deve, se davvero il nostro è uno stato democratico e solidale, chi soffre d'insonnia dovrebbe lavorare anche per me! Io, dal canto mio, mi impegnerò a sognare per lui. A ognuno la sua arte. Non è questo lo scopo della nostra alleanza? Dopotutto, se sbadiglio ininterrottamente da quando mi sveglio fino prima di riaddormentarmi vorrà pure dir qualcosa. Adesso per esempio mi viene da chiudere gli occhi. Non faccio nulla per evitarlo. La luce è troppo forte, le impurità si fanno sotto e il frutto reclama il suo guscio. Meglio un fodero trapunto di spilli che un'ossidazione certa. Morfeo ha già steso le sue reti e le maglie sembrano strette; ancora pochi minuti. Ecco, è l'ora della mattanza. Il passaggio dall'una all'altra dimensione è fatale al mio involucro. ~ 20 ~
Tutta l'energia della resistenza polverizza le mie vesti. L'effetto è straordinario: sono una sorgente di luce e una valle di potenza. Scuoiato. Il mio perimetro è un fuoco accecante. Strappo via la camicia di forza! Un incontenibile balzo alle pendici della leggerezza! L'armatura è solo per la battaglia, ma io sono un uomo di pace… per la pesca d'altura preferisco i limpidi abissi del cielo… … il giusto nutrimento, se la mia carne pretende di foderare tutta la bardatura… È la pesca grossa ciò che realmente mi importa. Le corazze indossatele voi. Io non attacco e non difendo. E, lasciate che ve lo dica, questo è un bene per tutti voi. Un mio passo nella mischia basterebbe a paralizzare le vostre membra meschine. Ascoltate il mio consiglio, non svegliatemi. Se amate le croste, vi lascio la parte coagulata dei miei sogni. Io intendo superare la soglia. Non voltarmi mai. Sonno mangia sonno. Troppo lento o veloce come il vento.. Guardo avanti.. e sono già arrivato. Sotterro il passato. Troppo lento, troppo consumato. Sogno mangia sogno. Autotrofo. Come l'eternità.
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L'ALTRO MONDO di Andrea Ronsivalle Oggi il sole brilla alto nel cielo. Siamo solo ai primi di marzo, ma è facile intuire, verso mezzodì, come le carezze dei suoi raggi invernali lasceranno presto il posto alle nerbate di quelli estivi. Per ora c'è di che essere allegri: Madre Natura porta in grembo i suoi mesi migliori, una stagione gioiosa è alle porte! Il Sole ci è ancora amico; morbidi baci all'alba, a mezzogiorno amichevoli percosse, di nuovo carezze al tramonto, fra i canti delle rondini e il delicato fruscio della brezza serale. Fra poco le buganvillee del lungomare saranno cariche di germogli. Noi siamo qui come al solito, gli uni vicino agli altri, a contemplare l'orizzonte; ascoltiamo il respiro del mare, ora costante e uniforme, ora affannoso e irregolare. ne conosciamo a memoria il battito vitale. Ammiriamo la sua maestosità e, naturalmente, temiamo la veemenza delle sue correnti e l'energia dei suoi vortici impetuosi. A quest'ora i nostri corpi cominciano a scottare. Niente di insopportabile però. È d'estate, quando il fuoco della vita ci cuoce a puntino, che la nostra orgia multiforme diventa un inferno; scintillanti e ardenti di febbre gli uni sopra gli altri, e nonostante questo, come se non bastasse, calpestati da mille piedi e capovolti in continuazione. In autunno, esausti e consumati. Sopravvissuti. L'ora del rimpianto. In inverno, spenti e freddi. L'ora del riposo. Dell'abbondanza mistica dei fratelli riesumati, del sudiciume, dei mozziconi di sigaretta. Della schiuma sempre più bianca. Ma oggi il sole brilla alto nel cielo. Non fa freddo. Non fa troppo caldo. Succhiamo innocenti le fulgide mammelle della natura, trangugiamo, come latte caldo, una dolce spremuta di luce. Giugno, mese di calura e di sinistri presagi, è ancora abbastanza lon~ 22 ~
tano. Eppure i vicini crepitano, i miei amici si lamentano. E anch'io, non so da dove, sento un clangore di passi! Ecco che un'agile morsa mi cinge i fianchi e mi solleva da terra; mi giungono dal basso il pianto e le urla di parenti e familiari. Per un po' ci faccio caso, ma sono così frastornato che tutto il mio mondo mi sembra un lontano ricordo e non trovo più le orme della mia tristezza e non vedo il volto dell'afflizione che stritola il mio corpo. Sono docile e confuso. Un morbido e fresco involucro si chiude sopra di me, mi avvolge come un guscio; cinque falde snodate e di varia misura fasciano il mio dorso. Sto per soffocare. Poi una spinta improvvisa mi lancia con forza verso l'alto e per tre volte rimbalzo dentro e fuori il mio strano contenitore, come un fiore che entra ed esce dalla sua gemma. La forza di gravità fa ancora resistenza, ma io sono terrorizzato. Dalla mia posizione privilegiata, da questa altezza insolita, posso scorgere - senza fodero - l'immensità dell'oceano; la prospettiva mi sbigottisce. Non faccio in tempo ad espiare le mie colpe nel purgatorio di questa terrazza precaria, di questo fatale trampolino di lancio, che di nuovo le cinque falde mi premono nella loro morsa; dal modo in cui si sono piegate questa volta - energico e sicuro - sento che sta per accadere qualcosa di decisivo. È così. Un lieve scarto indietro, lento e continuato, poi un brusco e repentino scatto in avanti, con il mio corpo compatto che schizza fuori dal suo guscio e si staglia netto nel cielo ceruleo, disegnando una parabola ampia e malinconica. Sono in volo. …come una rondine… in primavera… Fra i gabbiani che fino a poco me la facevano in testa. Sono in volo… per un attimo…. ~ 23 ~
Ma presto supero la curva. La mia ultima curva. Scendo. Precipito. Vedo già la mia scia azzurra. O forse è bianca. No, è nera, nera di paura. Ed ecco che mi viene incontro la caminiera lucente; avanza a gran velocità. Pochi metri, ci siamo quasi. Un tuffo perfetto, preciso, e infrango la sua superficie tersa, attraverso nettamente questa lamina dorata. La mia corsa rallenta, mentre intorno a me guizzano minuscole sfere luccicanti che salutano il mio arrivo; tutto sembra più attenuato, più contenuto, e se continuo a precipitare verso i tenebrosi abissi, proseguo ora con eleganza e delicatezza. Lo spazio muto che mi circonda è ancora colmo di vita e di colori, ma so che vado lentamente verso le regioni del mistero, dove le acque sono più torbide e perpetuo è l'abbraccio delle correnti gelate… Laggiù un branco di cefali argentati fa largo al mio passaggio, si apre in due ali composte, ed io avanzo, mio malgrado, come il Signore dell'oceano, il Principe dei flutti. Lo sapranno che sono solo un sasso, un sassolino pallido e rugoso? Penetro come un proiettile il cuore di un nuovo mondo, il baratro di una coscienza nuova. Sempre più a fondo. L'impressione è quella di una foglia che in autunno si stacca dal suo ramo e atterra leggiadra sul duro asfalto. Grazia e leggerezza. Ma qua dovrebbe essere il contrario, perché io sono sodo e compatto e la sabbia lì in fondo sembra velluto. Imposto la planata e sprofondo nel suo seno; la luce è già un lontano ricordo. Acqua e silenzio e l'elastico fluido del tempo. Ovunque oscurità. In attesa che salga la marea.
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PIOGGIA ACIDA di Andrea Ronsivalle Il sole, nella sua rotondità perfetta, declinava già dietro i tetti dei palazzi nuovi, inondando di luce cremisi il dorso esausto della città. Erano le otto della sera e il quartiere era praticamente deserto e si godeva il suo meritato riposo; la placida cantilena delle campane, in lontananza, non faceva che aumentare quella sensazione di pace. Leonardo uscì sul terrazzo del suo appartamento all'ultimo piano e inspirò profondamente; niente di meglio al mondo che annusare le esalazioni della primavera, specialmente al tramonto. Si appoggiò alla ringhiera e rimase a fissare le sgommate rosa degli aerei sospese nel cielo, le loro traiettorie sghembe come scivoli che davano profondità a quel blu sconfinato. Sarebbe rimasto lì in contemplazione per ore, e non riusciva a capire come la maggior parte della gente potesse rimanere indifferente a una simile veduta. Prima o poi, ne era certo, lui avrebbe fluttuato a quelle altezze, e anche più su. Ma ora viveva sulla Terra, ed era di questo che doveva preoccuparsi. Non poteva fare a meno di pensarci, alla Terra e ai suoi abitanti e a tutte le assurdità con cui aveva avuto a che fare dal momento in cui era nato. Ripensò agli uomini e alle loro attività, mentre il suo sguardo sprofondava insieme al sole fra i bagliori del crepuscolo. E ancora una volta si chiese a che cosa potesse servire tutto il resto, quando il cielo e le stelle, il sole e le nuvole, i fiori e l'aria profumata, bastavano a dare un senso alla vita. Alla sua, quantomeno. Le case, le strade, le auto, i semafori, gli uffici postali e i supermercati, le chiese, i negozi, i libri, il sesso, i matrimoni e i divorzi, i giudici, gli assassini, i parlamenti e i commissariati, gli stati e i popoli, tutte le razze e i caratteri, la fame e la sete. E la spinta dei quat~ 25 ~
trini. Certe sere, più del solito, ne aveva fin sopra la testa di tutta quella roba. Il suo livello di sopportazione diminuiva di giorno in giorno fino a quando si ritrovava definitivamente con le batterie scariche e il morale sotto i piedi. Poi, una volta toccato il fondo, ecco la risalita, lenta e graduale; era un ciclo continuo. Stavolta però Leonardo si sentiva come sospeso in uno stato intermedio, neutro, privo di particolari emozioni; né alti né bassi, né salita né discesa. Non era triste, né ce l'aveva con qualcuno per qualche particolare motivo; semplicemente era come intrappolato in una tagliola di profonda indifferenza; non sapeva come venirne fuori e, dato che non aveva ancora toccato il fondo, non avvertiva nessun urto contrario, nessun impeto di risalita. Forse non c'era più niente da fare, forse questa volta la birra era davvero finita e l'ultimo atto si sarebbe consumato presto, senza fischi né applausi. Poi girò la testa di novanta gradi e vide che da oriente avanzava a gran velocità una mandria di nuvole nere; probabilmente, avanti di questo passo, quello stormo di corvi avrebbe oscurato la volta celeste ben prima che vi provvedesse la notte. Leonardo ebbe come un presentimento, un presentimento intriso di speranza e desiderio; nella sua mente sensibile e sovraeccitata cominciò a farsi largo l'idea che la fine del mondo incombeva e che proprio quei nembi tenebrosi sarebbero stati portatori di sventura per l'intera umanità. Se ne convinceva sempre più con l'incedere delle nuvole e presto non ebbe altri pensieri per la testa che quella fatale profezia. Si mise a pregare con tutto il raccoglimento di cui era capace per la distruzione degli uomini e delle loro opere, degli animali, degli insetti e di tutti quegli esseri e quelle cose che non amava e che non gli permettevano di vivere in pace, senza fastidio e senza preoccupazione. In fondo desiderava solo un po' di tranquillità. Un po' di calma, un ~ 26 ~
po' di bellezza. Esattamente il contrario, cioè, di quello che la vita gli riservava ogni giorno, con il suo corso sgraziato e tedioso. Al lavoro era stata un'altra giornataccia ma a questo ormai Leonardo era abituato; faceva l'aiuto cuoco alla mensa comunale e dunque non poteva essere diversamente. Non era tanto per il lavoro in sé, anche se la paga era ridicola, ma per la gente che lavorava con lui, una marmaglia di individui miserabili. Era come se il fatto di svolgere quel tipo di mestiere li autorizzasse, e anzi li spingesse, a privarsi una volta per tutte della propria dignità. Si lasciavano andare, si facevano trascinare verso il basso dalle circostanze e finivano per recitare alla perfezione il loro ruolo di perfette nullità. Sembrava inevitabile, c'erano tutti dentro fino al collo, nessuno che conservasse un minimo di orgoglio, nessuno che riuscisse a tenere fuori dall'anima quel lavoro di merda e l'ambiente meschino in cui esso rifioriva. Alla fine Leonardo era giunto alla conclusione che probabilmente per quei poveretti la situazione era già disperata in partenza. Era tutto molto triste. I dipendenti del comune non facevano altro che infamarsi vicendevolmente alle spalle, anche se scherzavano fra di loro e a prima vista potevano sembrare tutti amici; non si capiva se davvero fossero convinti di riuscire a salvare l'apparenza o se stessero semplicemente seguendo un copione prestabilito, portando avanti una prassi consolidata nel tempo. Il loro maggior timore era quello di venire fregati in qualche maniera; erano convinti che gli altri esseri umani fossero venuti al mondo esclusivamente con quello scopo, che non avessero altra ragione d'esistere. Per questo erano sempre inquieti e sospettosi e andavano fuori di testa al solo pensiero che qualcuno di quei furbastri potesse congiurare alle loro spalle e passarla liscia. Inoltre ognuno temeva di essere costretto a sprecare le sue preziose energie lavorando qualche minuto in più rispetto ai suoi colleghi fannulloni. Erano proprio una bella squadra. Una bella squadra di sonnam~ 27 ~
buli senza speranza, tutti troppo meschini per capire la situazione, per darsi man forte a vicenda o coprirsi le spalle in caso di necessità. Il mondo era pieno di squadre così. Leonardo non ne poteva più. Aveva sopportato per anni quel degrado umano e adesso la misura era colma; ma il peggio era che, venendo tutti i giorni a contatto con bassezze di ogni sorta e scoprendo gli aspetti più ripugnanti della natura umana, aveva gradualmente smarrito ogni fiducia nel progresso, ogni speranza di rinnovamento. La gente se la prendeva con il lavoro, ognuno dava la colpa della propria grettezza al mestiere che svolgeva; ma era ovvio che non c'entrava niente, in qualsiasi campo dispiegasse la sua opera l'uomo riusciva sempre a far emergere la sua infinita meschinità. Il lavoro era soltanto un pretesto, di questo Leo era convinto. Solo che, a quanto pareva, alcuni mestieri facevano affiorare anche delle qualità ammirevoli, il suo no. Ma non era questo il punto. Non era il lavoro che gli interessava, era il lavoratore, l'uomo, che gli stava a cuore. E dato che l'Uomo l'aveva profondamente deluso, non gli restava che ampliare la prospettiva e prendere in considerazione il contenitore dell'uomo, la Vita. Forse questa si poteva migliorare, forse per la Vita si poteva ancora fare qualcosa. Senza di essa del resto non sarebbe esistito nemmeno lui. E lui, naturalmente, voleva esistere, voleva vivere. Gli piaceva. Era tutto quel trambusto variegato e faticoso che trovava insopportabile. E la mancanza di purezza. Non poteva vivere senza purezza. La semplicità di una nuvola bianca e leggera gli sarebbe bastata all'infinito. Ora però le nuvole erano nere. Leo guardò il cielo con rispetto, ma fieramente, penetrando nell'infinita voragine della sua anima con la confidenza di un fratello; ~ 28 ~
era come se conoscesse ogni sua intenzione, come se potesse comunicare con lui, senza bisogno delle parole, dei pensieri. Ormai sopra la sua testa bionda il sipario si stava per chiudere. Le nuvole in pochi minuti avevano conquistato tutta l'arcata celeste e si erano ingoiate anche gli ultimi ritagli di azzurro. L'aria si era gonfiata e come solidificata e trasudava funesti presagi. Già da tempo gli uccelli erano in fermento, giravano senza un ordine preciso, senza una meta, indifferenti gli uni agli altri, roteavano su stessi starnazzando di continuo; gli insetti non erano da meno, giganteschi sciami di api e di mosche, di cavallette e di tafani, infestavano l'atmosfera e la fendevano in ogni direzione come trombe d'aria impazzite. I cani cominciarono a ululare quando il primo tremendo tuono diede loro il segnale; a causa dello spavento non la smettevano di latrare, e per lo stesso motivo pareva che i gatti, come strizzati da una poderosa scossa elettrica, non sapessero piÚ trovare la loro posa naturale, la loro preziosa distensione muscolare. Tutti, uomini e animali, avevano delle reazioni a dir poco strane, assolutamente spropositate rispetto al semplice presentimento di un temporale. L'istinto di conservazione sballottava i loro corpi irrequieti e li induceva a compiere delle azioni che, da un punto di vista razionale, poco si addicevano alla loro condizione di condannati a morte. Poi cominciò a piovere. Gli improvvisi flash dei lampi annunciarono le prime gocce, mentre il terribile fragore dei fulmini che si scaraventavano al suolo lasciava la terra tremante per lunghi attimi. Si sentivano sbattere porte e finestre e le poche persone che erano ancora per strada si affrettavano a raggiungere le proprie abitazioni e vi si asserragliavano dentro come se fuori fosse scoppiata la guerra. La gente aveva paura della natura. Era cosÏ fin dall'antichità . Quanto all'uomo moderno, ha lo stesso tipo di reazione, nei confronti dei fenomeni naturali, di un domatore di tigri alle prese con ~ 29 ~
l'imprevedibile riottosità di una delle sue belve. Leonardo invece per la prima volta in vita sua si sentiva al sicuro, perfettamente fermo e saldo sul suo piedistallo, al riparo da tutte le correnti che lo avevano sempre fatto mulinare come una banderuola. Finalmente. Finalmente tutto cominciava ad avere un senso. Non era più sul terrazzo di casa sua, ma in piedi su un pianoro sconfinato, su una delle divine ed altissime logge celesti. L'acqua che scorreva sul suo corpo immobile era calda e purificante, e intorno a lui e sotto di lui tutto ruotava e turbinava e l'aria non era la stessa di sempre. Leo alzò di nuovo lo sguardo verso la cupola barocca che lo sovrastava schermendosi gli occhi con il dorso delle mani. Ogni germe di pensiero annegava in quel gorgoglio ininterrotto e si trasformava a sua volta in uno sbruffo frusciante intorno alle tempie e dietro le orecchie. La temperatura dell'acqua era in continuo aumento, ma il suo corpo, sebbene sulle prime avesse provato un lieve pizzicore, si era abituato subito al calore e anzi ne esigeva sempre di più, come spinto da un insaziabile bisogno di purificazione. Anche la Terra si purificava. La pioggia le stava dando una bella ripulita. Con veemenza e precisione. Laggiù, mille cubiti sotto i piedi di Leonardo, ogni cosa ribolliva in un vapore rovente e si scioglieva come neve al sole, flagellata dagli implacabili fendenti di un getto sempre più bollente. Leo si avvicinò allo strapiombo, si sporse dal bordo e vide in fondo al canyon una fiumana incandescente che travolgeva tutto con la sua furia inarrestabile. Non aveva mai visto niente di simile. Non c'era dubbio che era acqua, ma l'effetto che produceva era simile piuttosto a quello di una colata lavica. Uno ad uno il mondo perdeva i suoi colori, i suoi suoni. Si trasformava in una nuvola di vapore caldo e denso. Tante note quante ~ 30 ~
gocce d'acqua davano vita ad una sinfonia vibrante, possente. Una Grande Fuga. Un flusso che si era fatto maestoso, scrosciante. Non c'era altra musica. Il mondo si era nebulizzato. Un ambiente neutro, ma tiepido e accogliente come un ventre materno. Protettivo. Quella che per gli altri era una pioggia acida e corrosiva, per Leo non era altro che una doccia calda e rilassante. Lui lo sapeva perfettamente, e per questo ringraziò Dio e pregò che l'acqua non finisse mai. Poi chiuse gli occhi e lasciò che gli spruzzi della pioggia inondassero senza tregua il suo volto come calde lacrime liberatorie.
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DORMI, PICCOLO MARCO! di Andrea Falorni Marco Mangani capì che pure quella notte sarebbe trascorsa senza permettergli di chiudere occhio. Come del resto le altre quattro precedenti. Quattro notti, e con quella facevano cinque, di un gelido gennaio toscano, nel quale i suoi genitori avevano deciso di trasferirsi in quel vecchio casolare sperduto per le campagne della collinare frazione Le Mura del Comune di Montaione. Un vecchio casolare che avevano ristrutturato interamente per un paio d'anni e che da cinque giorni era divenuto ufficialmente la loro nuova casa. E da allora per Marco aveva preso inizio quell'incubo! Il suo incubo maggiore! Sempre e solo di notte, perché di notte Lui era lì. Lui che lo importunava e lo spaventava. Lui che più volte lo aveva minacciato e quasi raggiunto, ma per fortuna mai acciuffato. Senz'altro grazie alla sua prontezza di mettersi a gridare nell'intento di fare accorrere uno, se non entrambi, i suoi genitori, i quali, però, se non provare a tranquillizzarlo non mostravano alcuna intenzione di voler assecondare le sue paure. Era un bambino di sei anni e come tale con le dovute visioni notturne. Figurarsi se poteva essere vero quanto raccontava! E quindi il padre e la madre ogni volta avevano cercato di confortarlo come meglio potevano, facendo in pratica quello che fanno normalmente tutti i genitori. Gli spiegarono che i mostri non esistevano. Che era stato solo un brutto sogno. La mamma gli spiegò come a volte le ombre somiglino alle cose brutte che capita di vedere in televisione o sui giornalini, mentre il padre gli garantiva che andava tutto bene, che non doveva avere paura, che nella loro nuova e bella casa non c'era niente che potesse fargli del male. Così a Marco, ognuna di quelle notti trascorse immerso nel terrore più totale, non restava che annuire rassegnato con la testa a quanto detto dai propri genitori, anche se sapeva che non era come dicevano loro. Tanto che poi ogni notte successiva li richiamava con le proprie grida. ~ 32 ~
E pure quella notte, la quinta, durante la quale fuori il vento soffiava e a tratti urlava, Marco Mangani era solo nel suo letto, tutto teso e fermo sotto le coperte, che si era tirato fino al mento, mentre col braccio sinistro si stava schiacciando un peluche contro il petto. Guardò la sveglia elettronica sul piccolo comò posto di fianco al suo letto. La guardò roteando solo gli occhi. Senza il benché minimo altro movimento del corpo. Vide che la mezzanotte era vicina. Pochi secondi mancavano allo scoccare di quell'ora maledetta. E i pochi secondi trascorsero velocemente. Ed ecco un cigolio. Un rumore che gli fece sbarrare gli occhi. Un suono acuto ed irritante, quanto al tempo stesso inquietante e spaventoso per ciò che preannunciava. Le due ante del piccolo armadio situato alla parete opposta a quella in cui era dislocato il suo letto si stavano dischiudendo lentamente. Lentamente quanto implacabilmente. Lui era lì. In quelle tenebre. Era accovacciato come sempre. Come tutte le altre notti prima di quella. Lo intravedeva anche se la stanza era buia. Era impossibile non accorgersi di Lui. Era lì! Ed anche quella notte aveva il solito ghigno stampato sulla bocca e quei due occhi rossi che scintillavano come tizzoni ardenti nel buio della cameretta. - Ciao, Marco, - bisbigliò Lui - Sono tornato. Che voce orribile! Seguita da un'ancor più orrenda risatina che a tratti pareva un ringhio. E con quella voce roca ed inquietante, Lui continuò: - Stanotte mi avvicinerò ancora di più al tuo letto… più vicino! E riuscirò ad afferrarti… e poi a mangiarti! Marco lo fissava paralizzato dal terrore. Gli mancava il fiato anche per gemere solamente. Figurarsi allora come avrebbe potuto mettersi a gridare come le notti precedenti. Ma doveva farlo… se non voleva finire tra le sue fauci! Lui si mosse. ~ 33 ~
Marco ne vide la sagoma strisciare lentamente fuori dell'armadio e ne udì il lieve suono causato da tale movimento. E quegli occhi rossi come il fuoco non smettevano di guardarlo neppure per un istante. Tutto ciò gli fece accapponare la pelle in ogni parte del corpo, mentre gli occhi erano sempre sbarrati. E non riusciva ad urlare. Ancora non ce la faceva. Qualsiasi tentativo facesse, finiva per emettere solo dei fievoli e rochi gemiti. - Sto arrivando, Marco! - sibilò grottescamente Lui - Sto arrivando a prenderti. Sono qui, piccolo! Sono sempre stato qui e sempre ci resterò. E nessuno potrà impedirmelo. Il bambino tremava. Al punto di fare muovere e di conseguenza cigolare il suo letto. - Dormi, piccolo Marco! - continuò Lui a sibilare, per poi aggiungere con un glaciale ringhio: - Sarà meno dolorosa la fine! Il bambino prese a respirare affannosamente sotto le coperte, mentre si stava premendo sempre più l'orsacchiotto contro il torace. Sperava che il fiato gli fosse tornato. Ed allora provò un'altra volta a fare ciò che lo avrebbe salvato come le altre notti. Fece per gridare, ma non ci riuscì di nuovo! Però stavolta il fiato c'era. Assicurato! Se non fosse stato per quella orribile mano che gli tappò la bocca, i suoi genitori sarebbero corsi a salvarlo pure quella notte. La quinta per la precisione!
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CHE DIO È? di Andrea Falorni La stanza era in penombra. L'avvolgibile calato lasciava entrare pochissima luce, che, filtrando attraverso i vetri della portafinestra, permetteva comunque di distinguere discretamente le sagome dei mobili componenti l'arredo di quel vano. Dall'armadio posto di fianco alla porta, al cassettone con specchiera sulla parete a sinistra. Dalle due sedie disposte ai lati della portafinestra sulla parete di destra, al letto in posizione centrale. Tutto rigorosamente di legno scuro e di fattura antica. Lo si poteva notare a colpo d'occhio, pure con una luce scarsa a quel modo. Come del resto era perfettamente individuabile la sagoma umana sotto la coperta chiara posta sul letto. Chiusosi la porta alle spalle, rimase lì fermo ad osservare ancora quella camera, percependone un'atmosfera che lo fece indugiare nel muoversi. C'era qualcosa che non andava in quella stanza. Qualcosa che non aveva immaginato pochi istanti prima, quando era giunto in quella zona residenziale di Montelupo Fiorentino. Parcheggiata la propria autovettura su un lato di Via Sant'Anna, era sceso un po' goffamente a causa dei classici acciacchi dell'età avanzata, e, data una veloce occhiata al nuvoloso cielo pomeridiano di ottobre, promettente un temporale di lì a breve, aveva attraversato la strada, dirigendosi verso il cancello della villetta Dainelli, riflettendo sul solito caso disperato e terminale che gli si sarebbe presentato… Ma non era così! Non era la stessa situazione! E lo capì non appena ebbe varcato la soglia di quella stanza da letto. Sospiri affannosi e frenetici, che si trasformavano anche in rantoli convulsi. Il tutto accompagnato da un continuo e tormentato lamento, che, se pur fievole, rendeva bene l'idea di quanto dolore aleggiasse tra quelle mura. E poi la voce… quella voce rauca e drammaticamente debole che disse: ~ 35 ~
- Venga Padre. Don Giulio si sentì gelare le vecchie ossa, mentre la palpebra dell'occhio sinistro cominciò a vibrargli come di consueto quando era colto da nervosismo. Il pensiero di doversi avvicinare a quel letto gli stava facendo tremare letteralmente le gambe all'interno dei calzoni scuri. Non bastava udire il suono di quel tormento. Adesso doveva anche prendere visione della sua fonte. Lenti passi mosse con un certo indugio. Lenti passi che lo portarono ad avvicinarsi a quel letto. Lenti passi che solcavano quell'aria intrisa di odori. Ed era proprio l'orribile odore della malattia ad avvolgere prevalentemente l'intera stanza. Sì, proprio così, l'odore della malattia giunse pungente e quasi nauseante alle narici del sacerdote. Un odore imprecisato, ma inconfondibile, composto da una miscela di tanti altri ben più noti e definiti. Udita la disperazione, ne poté odorare anche l'essenza, finché non giunse al capezzale del letto, per poterla vedere. E la vide, sì. La vide rannicchiata sotto la coperta invernale, nonostante fosse solo un tiepido ottobre piovoso. La vide scuotersi di tanto in tanto e in maniera improvvisa come attraversata da forti brividi. La vide in volto. Unica parte scoperta. Un viso che appariva più bianco delle pareti, solcato come le valli solcano i monti. Dei capelli quasi più nessuna traccia. Due occhi sgranati che trapanavano la penombra ed incutevano angoscia e senso di smarrimento. - Padre… - mormorò a fatica la donna nel letto. E subito gli occhi le si inumidirono di lacrime, che poi si raccolsero per scenderle lungo le guance. - Padre… guardi come sono ridotta… Don Giulio pensò che nell'arco di qualche altro minuto sarebbe finito disteso per terra. Era intollerabile vedere una sofferenza del genere. Da classico prete di cittadine più o meno piccole, come Montelupo Fiorentino appunto, si era sempre imbattuto in malati completamente o quasi incoscienti, che di lì a breve avrebbero raggiunto il Signore. Mai si era trovato davanti, in tutti quegli an~ 36 ~
ni di vita che si portava sulle spalle, ad una disperazione così evidente e palpabile. E soprattutto faccia a faccia con una malata cosciente del proprio male e capace ancora di emettere parola. Quindi, se da parroco avrebbe dovuto starle il più vicino possibile, rassicurandola ed aiutandola a trovare una sorta di pace spirituale prima del fatale passaggio, da essere umano, quale era pure lui, avrebbe voluto, invece, scappare. Scappare il più lontano possibile da quella camera. Scappare a gambe levate e scordarsi immediatamente di tutto quel dolore. Scappare da classico egoista quale è l'intera società. - Amina, - sussurrò il sacerdote a fatica, osservandola mentre portava fuori da sotto la coperta il proprio braccio sinistro. L'uomo non riuscì ad emettere alcuna altra parola, ma fu solo in grado di prendere tra le sue mani quella della donna. Ed il tocco fu inquietante. Una mano gelida. Ossuta. Deforme. Una mano malata! Don Giulio chiuse un attimo gli occhi, emettendo un forte ed affranto sospiro, mentre tra le proprie mani teneva ancora quella della signora Dainelli. - So che devo morire, - pronunciò un po' confusamente Amina, ma tali parole arrivarono ben chiare agli orecchi del parroco, il quale riaprì di scatto le palpebre, puntando il suo sguardo sconvolto sugli occhi tanto disperati quanto rassegnati dell'altra. - È tanto che lo so che deve capitare, ma ancora non mi è stata concessa questa grazia - riprese la donna. - Ma cosa dici, Amina? - le chiese il prete, stringendole istintivamente più forte la mano - Perché dici questo?” - Secondo lei perché, Padre? - gli rispose all'istante la malata con tale domanda. E poi, con tono basso ed innumerevoli pause tra una parola e l'altra, prese a spiegare: - Anni di dolore e malattia. Questi ultimi mesi allettata e completamente dipendente da mia figlia, che quasi non ha più una vita ~ 37 ~
propria per stare dietro a me. E tutto ciò quando vari dottori mi hanno annunciato che questa malattia non può che portare alla morte, senza che ci siano rimedi più o meno efficaci, dato lo stadio con cui mi ha colpita. Quindi terapie, cure, visite… tutto tempo sprecato. Ecco il motivo per cui mi domando perché la morte ancora non mi abbia presa, se questo è il mio destino… - Segno che il Signore ancora non ha in mente ciò per te. - le rispose il sacerdote - E tu, Amina, che sei sempre stata prima di tutto una donna e poi anche un'insegnante ammirevole di sani principi morali e cristiani, dovresti saperlo che moriamo solo quando lo vuole Dio. La donna lo osservò con perplessità, sottraendo la propria mano da quelle del parroco. Il tutto con un moto quasi di risentimento, che poi lasciò spazio a delle parole che colpirono l'uomo come veri e propri macigni: - Proprio perché so questo, mi domando il motivo di tanta sofferenza. Perché Dio deve farmi patire in tale maniera, se è certo che devo andarmene per questo male? - Amina, - proruppe sconvolto il prete - ti rendi conto di ciò che stai dicendo? Il dolore e la sofferenza avvicinano a Dio. E non possiamo farci niente, se ha voluto questo. Anche Gesù soffrì infinitamente prima di raggiungere suo Padre. - Ed anche Gesù si chiese se per caso Dio lo avesse abbandonato. contrattaccò lei prontamente - Per questo vorrei tanto sapere che Dio è quello che permette che una sua creatura possa soffrire di tali atrocità. - Secondo me hai perduto la ragione per fare certe affermazioni - le disse don Giulio sbigottito. - Possibile che sia la malattia a farmi ragionare così, Padre, - gli annunciò Amina - ma le garantisco che mai come in questo momento mi sono ricreduta su determinate cose. Prima tra tutte la possibilità di porre fine ad una vita angosciata da anni di malattia, per salvaguardare almeno un briciolo della propria dignità uma~ 38 ~
na! Il parroco non proferì nessuna parola né in favore e neppure contro a quanto espresso dalla donna, ma in compenso gli venne istintivamente di compiere un'azione alquanto inconsueta per un sacerdote. Ovvero si piegò in avanti fino a giungerle con le proprie labbra alla fronte squamata, per baciarla. Ritraendosi, si passò lievemente la punta della lingua sul labbro inferiore, scoprendo un sapore di amarezza sconvolgente che derivava da quel bacio. Lì per lì gli venne quasi da accostare tale sapore alla sofferenza che aveva incontrato sotto vari aspetti in quella camera. Dopo di che si fece il segno della croce e disse alla donna: - Pregherò per te, Amina. Detto ciò don Giulio si inginocchiò, se pur a fatica, al bordo del letto, appoggiando sulla coperta i gomiti e congiungendo a preghiera le tremanti e venose mani. Abbassò la testa e chiuse le palpebre, causando la discesa sulle guance di alcune lacrime che gli si erano accumulate negli occhi. Infine prese a pregare, emettendo un leggero bisbiglio, che Amina Dainelli si ascoltò quasi beatamente ad occhi chiusi e con un lieve sorriso sulle labbra.
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RETROGUSTO DI MORTE di Andrea Falorni La tazzina bianca smaltata stava sul rispettivo piattino, sul quale era stato posto pure un cucchiaino. Dal suo interno il caffè appena fatto fumicava, emanando il suo classico ed inconfondibile profumo. E lui se ne stava immobile in piedi con le braccia calate lungo i fianchi ad osservare il tutto con volto inespressivo. Con quei suoi occhi marroni che mostravano apertamente quanto la sua mente fosse altrove. Con le labbra carnose e contornate da un finissimo pizzetto semiaperte. Con il naso col quale ogni tanto tirava su il muco, emettendo il consueto rumore. Il giovane barista al di là del bancone lo guardò un attimo perplesso, mentre asciugava le stoviglie calde e fumanti di lavaggio. Erano passati alcuni minuti ormai dal momento in cui gli aveva preparato il caffè, e lui non lo aveva ancora bevuto. Forse c'era qualcosa che non andava. Forse lo voleva più lungo. Forse lo desiderava corretto. Eppure non gli sembrava di aver udito particolari richieste. Quell'uomo rasato e di corporatura massiccia, quando era entrato, avvicinandosi al bancone, aveva chiesto un caffè. Un semplice caffè. Ma adesso lo stava a fissare, senza berlo. Era decisamente il caso di informarsi se ci fosse qualche problema. - Ci vuole del latte? - gli chiese il ragazzo, senza ottenere alcuna risposta. Allora posò lo straccio ed una delle tante tazzine prelevate dalla lavastoviglie, per posizionarglisi di fronte e ripetere la domanda. Il cliente fu come scosso da un lieve sussulto, che sembrò riportarlo al mondo reale. Volse lo sguardo interrogativo verso il barista e gli domandò cosa avesse detto. - Le chiedevo se desiderava del latte nel caffè - gli spiegò il giovane. - No, grazie - rispose l'uomo, al quale si formò pure un debole sorriso sulle labbra. ~ 40 ~
Poi riposizionò lo sguardo sulla tazzina ed aggiunse: - Mi piace così. Nero… nero come la notte. Il barista lo osservò con una certa titubanza, cercando di abbozzare un sorriso di circostanza. Dopo di che decise di lasciarlo perdere, tornando ad asciugare le tazzine ed i piattini. Quell'uomo era strano. Senza alcun dubbio. Era meglio se non gli diceva altro. Che si prendesse pure il caffè gelato. Tanto a lui cosa importava? Bastava che alla fine gli desse i suoi ottantacinque centesimi di euro. Riccardo Belfiore, poliziotto trentasettenne del Commissariato di Empoli, di madre empolese appunto e con padre di origine siciliana, di Ragusa per la precisione, sollevò la tazzina dal piattino, prendendola con il pollice e l'indice della mano destra. Prima se la portò vicina al naso, per odorare il profumo del caffè al suo interno, che gli arrivò deciso alle narici. Dopo di che se la avvicinò alla bocca e ne sorseggiò un po'. Purtroppo non era più caldo, poiché aveva temporeggiato nel prenderlo, ma in compenso era amaro, proprio come piaceva a lui. Da grande intenditore di caffè quale era, Riccardo non poteva che prendere quella bevanda senza il benché minimo briciolo di zucchero. E tanto meno latte o alcolici. Il vero gusto del caffè secondo lui lo si poteva assaporare solo se non vi era nient'altro ad accompagnarlo. Il primo sorso fu deglutito, e lui si allontanò la tazzina dalla bocca, restando per qualche secondo con lo sguardo fisso sui ripiani al di là del bancone, dove stavano esposte varie bottiglie di liquori. Pensava a come era stato fortunato quella sera ad ottenere l'appuntamento. Eppure era San Valentino. Come mai non era a cena con l'altro? Forse la loro storia era in dirittura d'arrivo? Riccardo non avrebbe potuto desiderare di più. D'altronde la sera prima, quando lui per l'ennesima volta l'aveva chiamata per chiederle di uscire, lei gli aveva finalmente accordato un incontro. E proprio per l'indomani. San Valentino appunto. La porta del bar si aprì, facendogli abbandonare i suoi pensieri. Si ~ 41 ~
voltò e vide un anziano con cappello e giaccone avvicinarsi al bancone. Gli si posizionò di fianco e chiese al barista un caffè pure lui. Nel frattempo Riccardo si portò ancora la tazzina alla bocca, bevendo un nuovo sorso, che gli carezzò la gola. Amaro, sì. Un bel caffè amaro gli ci voleva proprio, prima di recarsi all'appuntamento con lei. Il barista, mentre serviva il caffè all'altro cliente, tornò a lanciargli qualche occhiata incuriosita, senza capacitarsi su cosa stesse passando per la testa a quell'individuo. Si incantava ogni poco e quando si risvegliava dal suo pensare beveva il caffè con fare strano. Inconsueto, se vogliamo dire, per un bevitore di caffè. Mai visto nessuno che lo prendesse in quella maniera. Mai. Erano sempre tutti veloci nel berlo. Due o al massimo tre sorsi e la tazzina era vuota. Addirittura si era trovato davanti persone che anche in un sol colpo l'avevano bevuto. E quello, invece, pareva starsene lì non con un caffè, bensì con un bicchiere di vino speciale quasi fosse stato un sommelier intento nella sua attività di degustazione. Ed ecco che l'altro cliente, infatti, con due sorsi l'aveva già bevuto, mentre Riccardo era in procinto di assaporarne il terzo, senza staccarsi un attimo dai suoi pensieri. Quell'appuntamento, quella sera… A colpo d'occhio pareva che lei avesse preferito lui all'altro. Era un discreto privilegio. E quindi era anche giusto che Riccardo si organizzasse al meglio per quell'uscita. Ed infatti le aveva preparato una sorpresa. Sì, una bella sorpresona. Roba che sicuramente non l'avrebbe fatta più tornare dall'altro. Anzi, da quella sera in poi lei non avrebbe più cercato nessuno. Parola di Riccardo. Il lieve rumore metallico degli spiccioli, mossi dall'anziano lì a fianco nella tasca del proprio giaccone, risvegliò Riccardo dalle sue riflessioni. Quindi, mentre il signore pagava per poi allontanarsi dal bancone e sedersi ad un tavolino poco distante per una veloce lettura di un quotidiano, Riccardo si decise a bere tutto il suo caffè. Lo assaporò come fosse stato il primo di tutta la sua vita. O, ~ 42 ~
peggio ancora, l'ultimo. Poi posò la tazzina sul piattino, e vi fissò nuovamente gli occhi, restando ancora una volta imbambolato e perso nei suoi pensieri. Sarebbe cambiato tutto. Un vero e proprio ribaltone nelle loro vite. Tutto annullato fino ad allora e da ricominciare insieme, come in una nuova dimensione. In una dimensione parallela, gli venne quasi da pensare. Probabile che fosse così, ma al momento non sapeva per certo come sarebbe stato. Poco tempo ancora ed avrebbe ottenuto tutte le risposte. Guardò l'orologio al suo polso sinistro e constatò che le lancette segnavano le nove ed un quarto di sera. Mancavano quindici minuti all'ora dell'incontro, ma decise di avviarsi comunque. Sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei suoi jeans e ne estrasse una moneta da un euro, che mise sul bancone, andandosene immediatamente, senza neanche attendere che il barista potesse fargli il resto. Infatti il giovane non fece a tempo neppure ad afferrare la moneta, che il cliente già era alla porta. E a niente era servito richiamarlo, dicendogli: - Aspetti. Devo darle il resto! Nulla di nulla. Beh, da un certo punto di vista meglio così, anche se si trattava solamente di quindici centesimi d'euro. Però quell'atteggiamento non faceva altro che confermare quanto aveva pensato fino ad allora il ragazzo. Ovvero che qualcosa nella testa di quell'uomo non andava. Il caffè bevuto in quasi dieci minuti, per il continuo assentarsi con la mente. Pagare, lasciando lì una moneta ed andandosene senza prendere il resto e neppure salutando. Sì, qualcosa non andava in quell'individuo, ma lui cosa poteva farci? Niente. Ed allora tante grazie per il resto non preso e arrivederci. Chiusosi la porta del bar alle spalle, vi si fermò di fronte, osservando in entrambe le direzioni l'alberata Strada Provinciale 11, che per il tratto in cui attraversa quella frazione del Comune di Cerreto Guidi, dal nome Bassa, viene denominata Via XXVI Giu~ 43 ~
gno. Guardò a sinistra, verso Empoli e Vinci, verso la chiesa di quel paesino posto sulla riva destra dell'Arno, verso la sua abitazione situata proprio di fronte al luogo religioso. E guardò anche a destra, in direzione di Fucecchio, verso il confine tra le Province di Firenze e Pisa. Quella sera Via XXVI Giugno era stranamente deserta. Ma era facile intuire il perché. Tutti a cena o in un qualsiasi altro posto con la propria dolce metà. In giro solo qualche auto con dei single solitari o appunto delle coppie alla ricerca di luoghi speciali per passare la serata degli innamorati. Dolce metà… tra pochi minuti l'avrebbe incontrata pure lui, anche se non era sicuro di poterla definire in quella maniera. No, proprio no. E neanche con i tanti altri aggettivi o nomignoli smielati, che di solito si sentono all'interno di una coppia. Ne era certo. Senza alcun dubbio si sarebbe anche arrabbiata, se gli avesse sentito pronunciare un termine del genere. La fredda aria notturna di febbraio lo costrinse a tirare fuori da una tasca del giaccone un cappellino bianco di lana, che indossò immediatamente sulla testa rasata. Si risistemò anche un po' la sciarpa chiara legata al collo e si agganciò il giaccone. Dall'altra tasca di quest'ultimo estrasse un pacchetto di sigarette da venti ancora intatto. Tolse l'involucro trasparente e lo aprì, staccando pure la cartina argentata. Prese una sigaretta e se la mise in bocca, ma, prima ancora di afferrare l'accendino nella medesima tasca, si fermò a riflettere una nuova volta. Quel caffè appena preso gli aveva lasciato uno straordinario aroma in bocca. Sul palato, sulla lingua, lungo la gola… Perché toglierlo di mezzo con delle boccate di sigaretta? Non era meglio continuare ad assaporare quel piacevole gusto, anziché sovrapporci quello del tabacco? Vero che una sigaretta dopo un caffè è un bel toccasana, ma per quella sera, o per lo meno per quel momento, Riccardo preferiva lasciar perdere il fumo. Sì, avrebbe affrontato l'incontro con il sapore del caffè in bocca. Con quel sapore che a ~ 44 ~
tratti assumeva un retrogusto strano, quasi nuovo per lui, pur essendo un grande bevitore e conoscitore del caffè. Non avrebbe saputo proprio dire di cosa sapesse, anche pensandoci assiduamente e con estrema concentrazione. Si tolse quindi la sigaretta di bocca, rinfilandola nel pacchetto, che prontamente si rimise in tasca. Dette poi una nuova occhiata alla Strada Provinciale 11 in entrambe le direzioni, e, constatando che nessuno vi stava transitando, la attraversò, ma senza passare da sopra le strisce pedonali poste a pochi metri dal bar. Giunto sull'altro lato s'incamminò in direzione di casa sua e della piazza antistante la chiesa, dove la sua auto era parcheggiata. Quando vi giunse, aprì la propria utilitaria grigia di marca francese, premendo l'apposito pulsante sopra la chiave. Vi entrò e si sistemò sul sedile. Le mani arpionate al volante. Il busto ben aderente allo schienale. La nuca lievemente reclinata all'indietro fino ad incontrare il poggiatesta. Gli occhi rivolti verso il tettino dell'auto. Sbuffò. Un'emissione forte e rumorosa di aria quasi liberatoria da chissà mai quale pensiero o tensione nervosa. Riportò lo sguardo davanti a sé. Rivolto al di là dell'abitacolo di quella macchina. Verso la sua abitazione. Quella villetta unifamiliare, nella quale da tempo ormai abitava da solo e non per sua scelta. Già, non era stato lui a volere tutto ciò. Ed ecco di nuovo a pensare a lei e all'incontro che tra pochi minuti avrebbero avuto. A chissà cosa si sarebbero detti. Lì per lì tante supposizioni sull'eventuale dialogo, ma tanto sapeva bene che qualsiasi cosa venga progettata poi non torna mai. Quindi tanto valeva evitare di scervellarsi su ciò che avrebbero detto o fatto. Quella sera solo una cosa era sicura: la sorpresa! Spostò gli occhi sullo sportello chiuso del cruscotto. Lì dentro c'era la sorpresa per lei. L'unica cosa certa appunto di quell'incontro dai mille punti incerti. In tutti i casi, quindi sia bene che male, quella sorpresa sarebbe saltata fuori. E poi via… ~ 45 ~
Tornando ad osservare la facciata principale di casa sua, si passò la punta della lingua sul labbro superiore, inumidendoselo. Dopo di che sbuffò una seconda volta. Dentro sé sentiva la tensione a livelli da capogiro. Era nervoso. Troppo nervoso. Deglutì della saliva e nuovamente percepì il gusto del caffè preso al bar. Quel piacevole sapore misto al misterioso retrogusto che lo stava accompagnando ormai da alcuni minuti e che lui non era in grado di attribuire a niente di preciso. Chissà come mai adesso sentiva anche nuovi aromi avvolti a quello del caffè. Eppure non gli era mai accaduto prima di allora. Forse la tensione era in grado di variare pure i sapori delle bevande e dei cibi. Possibile? Sinceramente gli sembrava un'assurdità! Non aveva mai sentito dire una cosa del genere. Ma era anche vero che al momento appariva come l'unica spiegazione. Rivolse nuovamente lo sguardo al cruscotto e si allungò col busto in quella direzione per estrarne la sorpresa, che posò sul sedile di fianco al suo. Si incantò un po' a guardarla, quasi non l'avesse mai vista prima di allora. Ed invece la conosceva bene. Molto bene. Ma quella sera l'avrebbe usata per uno scopo diverso dal solito. Sarebbe stata la sorpresa per lei. Per colei che da diverso tempo ormai lo aveva fatto precipitare nel peggiore abisso mai conosciuto prima. Per colei che gli aveva calpestato bene bene il cuore, tirando fuori tutta la crudeltà di cui una donna può disporre. Per colei che Riccardo amava alla follia, nonostante tutto. Stava ancora osservando attentamente la sua pistola di ordinanza, che quella sera sarebbe servita a chiudere una volta per tutte l'insieme di problemi con la sua ex moglie, quando finalmente capì a cosa apparteneva quello strano retrogusto comparso nella sua bocca assieme all'aroma del caffè. Un retrogusto mai assaporato prima. Un retrogusto che addirittura gli sembrava strano da poter gustare. Un retrogusto di morte! ~ 46 ~
LA STRANA LEZIONE DEL PROF. PAGGI di Arnaldo Ninfali
Per come il Liceo quel giorno si presentava si sarebbe detto che gli studenti avessero aderito allo sciopero in massa. Le aule erano quasi tutte deserte o al massimo occupate da un paio di crumiri accompagnati personalmente dai genitori, preoccupati che i loro figli non andassero a mischiarsi con certe teste calde che non avevano voglia di studiare. L'assenza di intere classi permise così a molti insegnanti di tornarsene a casa senza grossi turbamenti di coscienza, dopo aver effettuato le registrazioni di rito. Uno di loro, però, non si era visto. Il prof. Oreste Paggi, docente di lettere al biennio del corso C, quella mattina aveva deciso di stare con i suoi studenti, e all'ora stabilita li aveva raggiunti nella piazza principale della città, da dove il corteo si sarebbe incamminato. Fu contento di vedere che le sue due classi erano al completo. Non lo fu altrettanto, invece, nel constatare che la risposta delle scuole cittadine non era quella che si sarebbe aspettato. Eppure il volantinaggio dei giorni precedenti agli ingressi delle superiori sembrava aver dato buoni frutti, così come le numerose assemblee indette nelle varie scuole per discutere su quella legge odiosa. Al docente venne il sospetto che molti avessero preferito rintanarsi nei bar e nelle sale giochi, alla faccia della contestazione, delle leggi e di quante altre amenità dovevano quotidianamente sorbirsi. All'ora stabilita, tuttavia, i pochi “arrabbiati” che formavano quella specie di corteo si misero in marcia in buon ordine, ma cercando di fare più chiasso possibile. In effetti quel decreto del governo che revocava, con applicazione immediata, la possibilità di avvalersi dell'obiezione di coscienza contro il servizio militare non poteva essere subito subìto a cuor ~ 47 ~
leggero. Il prof. Paggi ne aveva discusso con i ragazzi ed essi avevano recepito il suo messaggio, decidendo di opporsi con ogni mezzo a quella legge ingiusta. Prima avevano scritto lettere di protesta a vari giornali, i quali non ne avevano pubblicata neanche mezza, quindi avevano preso seriamente in considerazione l'eventualità di aderire allo sciopero proclamato dal movimento studentesco. L'insegnante, in cuor suo, aveva approvato, ma si era ben guardato dal dichiararlo, limitandosi a consigliarli di agire secondo coscienza. Così aveva avuto un bel dire, la Preside, che non venire a scuola era illegale, che sarebbe stata costretta a prendere seri provvedimenti disciplinari e cose del genere: avevano deciso per lo sciopero e sciopero era stato. E il prof. Oreste Paggi poteva non essere con loro, quel giorno? Ne andava, ai loro occhi, della sua credibilità. Al diavolo allora le sanzioni disciplinari, la giornata di stipendio, l'opinione dei colleghi e compagnia bella: il suo posto era lì, in quel corteo di quattro gatti arrabbiati che non temevano di affrontare cani feroci. “Andate a lavorare, lazzaroni!”; “Ecco che fine fanno i soldi per la scuola!”; “Eccoli lì gli studenti: fannulloni sono, altro che storie!”; “Legnate come una volta, ci vorrebbero!”: questi e simili altri erano i commenti dei passanti, che consideravano sediziosi quei giovani armati solo di cartelli e striscioni inneggianti alla pace. Molti di quei passanti forse, uscendo di casa quella mattina, si erano compiaciuti che i loro giudiziosi figliuoli, alieni a ogni tumulto e compresi della sacralità della scuola, avessero preferito pensare ai loro bei voti da portare a casa piuttosto che a scendere in piazza a far baccano. Il prof. Paggi, dal canto suo, si limitava a osservare in silenzio quei padri, i quali gli manifestavano tutto il loro biasimo con occhiate velenose. Nel frattempo continuava imperterrito la sua lezione, avendo ~ 48 ~
piena coscienza che era di quelle meglio riuscite. Purtroppo gli costò un giorno di stipendio, una pesante nota disciplinare e gravi danni alla reputazione. - Il posto del professore è in cattedra, non sulla piazza! - lo ammonì la Preside. Lui non rispose, ma era di diverso avviso. Riteneva infatti che la scuola dovesse insegnare ai giovani a sviluppare una coscienza critica, spingendoli a ribellarsi a leggi che reputavano ingiuste e impegnandosi poi a migliorarle. Quel giorno il prof. Paggi, per le vie della città, lo aveva fatto, ed era sereno, consapevole di aver compiuto il proprio dovere. Naturalmente, per quanto chiassosa fosse stata quella manifestazione, qualche tempo dopo il decreto del governo divenne legge e per alcuni anni tutti i giovani dichiarati abili non poterono sottrarsi al servizio militare. Tutti tranne alcuni ex alunni del prof. Paggi i quali, educati a violare la legge, rifiutarono di compiere “il loro dovere”, affrontarono il processo che ne seguì e finirono in carcere con animo sereno. Il sacrificio di quei giovani ebbe una grande risonanza mediatica e si conquistò l'ammirazione di larga parte dell'opinione pubblica. Il mondo politico ne fu scosso e, ben presto, si accese un ampio dibattito che portò a maturazione l'ipotesi di una revisione della legge. Cosa che puntualmente avvenne. Del prof. Oreste Paggi, però, ormai in pensione o, forse, passato a miglior vita, si è soliti ricordare che, pur essendo stato una brava persona, qualche volta trascurava la lezione per parlare di politica e scendere in piazza con i suoi alunni a far baccano.
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LA MALEDIZIONE di Arnaldo Ninfali Lavoravano sodo, quei due ragazzi, e mandavano avanti l'officina ereditata dal padre con lo stesso impegno di quando c'era lui. L'Ersilia ne andava fiera e spesso si compiaceva con le amiche dei bravi figli che aveva. E se qualcuna obiettava che erano già in età da morosa, lei rispondeva che il Duce era finito come un salame e adesso non si pagava più pegno a restare giovani. “Allora a chi li lasciano tutti i baiocchi che fanno? Ai preti?”, si sentiva rispondere. “Intanto, che se li godano loro! - replicava lei - Poi sarà quel che sarà”. Ma le malelingue sussurravano che ora, soprattutto, se li godeva lei. I fratelli Alfio e Paride Galetti, infatti, li vedevi vestiti a festa solo la domenica pomeriggio e un sabato sera ogni tanto, quando la madre fingeva di non sapere che andavano a Ferrara. Erano giovani e se aveva chiuso un occhio col loro padre adesso poteva anche chiuderli tutti e due. Bastava che il lunedì mattina presto fossero dietro ai motori e ci stessero tutta la settimana, che il resto per lei andava bene. In paese tutti la chiamavano l'azdaura perché era lei che dirigeva casa e azienda. Pensava a tutto: dagli spuntini per i figli, alle fatture, alla banca, ai clienti e via dicendo. Così poteva andare in giro a testa alta, orgogliosa della casa sopra l'officina dove viveva coi suoi gioielli, e non aveva bisogno d'altro. Se non che, un giorno, una Topolino scaricò in officina una giovane donna la quale chiedeva solo un'occhiata alle candele, mentre il destino le offriva su un piatto l'amore della vita. Paride aveva venticinque anni e la cerniera della tuta abbassata sul petto villoso fu la miccia che scatenò l'incendio nel cuore di Ines. Poi il verde degli occhi, il rossiccio dei capelli arruffati e il sorriso: il sorriso con cui le andò incontro fu quello che la vinse. Illuminava un volto dai tratti regolari che esprimevano un carattere volitivo, tuttavia dolce e conciliante. Le maniche della tuta arrotolate fin quasi sotto le a~ 50 ~
scelle mostravano forti braccia muscolose che armonizzavano con il corpo snello e atletico. Le mani unte di grasso, che sollevarono il cofano e si posarono sul motore come sul tesoro racchiuso in uno scrigno, esprimevano una vivace intelligenza con movenze quasi d'artista. - Signorina, le candele sono da cambiare, ma servirebbe anche una pulitina al carburatore... - fu la diagnosi, formulata con un'inflessione che tradiva dimestichezza soprattutto col dialetto - Me la può lasciare fino a domani? Sotto gli occhi del fratello, che lo guardava basito, Paride si offrì di accompagnare Ines a casa con la 1100 di famiglia, impegnandosi a riconsegnarle la Topolino la sera successiva. Saranno stati dieci chilometri di strada, ma il tempo bastò perché anche Paride non fosse più lui. Ines era entrata nella sua vita in un tailleur color panna la cui giacca, scollata a V e trattenuta in vita, esaltava il busto ampio e la curva morbida dei fianchi. Lo spacco della gonna attillata s'apriva sui polpacci, segnati verticalmente dalle calze e terminanti in sottili caviglie sospese su dieci centimetri di tacco. Lo aveva guardato con occhi intensi ma anche smarriti, come a esprimere sorpresa e curiosità al tempo stesso. E lui allora aveva scorto anche i tratti delicati del volto, le labbra sottili, le guance armoniose, il naso all'insù e i folti capelli castani terminanti in boccoli adagiati sulle spalle. Poi, una volta sedutole a fianco, immerso nel suo profumo, s'innamorò di lei. Da quel giorno Paride cominciò a uscire anche durante qualche sera feriale e in paese presto si seppe che faceva l'amore con una di fuori, un'infermiera del Sant'Anna che andava tutti i giorni in macchina a Ferrara. Una sera che rincasò dopo mezzanotte trovò la madre ad aspettarlo. - Dove sei stato, delinquente? - lo assalì - È vero che te la fai con quella donnaccia che va in Topolino? È vero? Lo sai che ormai mi ~ 51 ~
vergogno ad andare in bottega? - Non è una donnaccia, va bene? Lavora a Ferrara e ci serve la macchina... - È una donnaccia, te lo dico io, è una donnaccia! - e scoppiò in pianto, coprendosi il viso con le mani. - Non è vero. Hanno della terra... suo padre e i suoi fratelli la lavorano e lei ha studiato da infermiera… - Ha studiato? Allora sei a posto: in casa l'ultima parola sarà sempre sua. In più, guida anche la macchina... Dammi retta, a me, Paride: scappa finché sei in tempo... Oppure... Senza promettere troppo, passaci un po' di tempo... Mi capisci no? Non è una donna seria, quella lì, andiamo! Paride tacque e andò a letto serrando pugni e mascelle. Da quella sera, in casa divenne taciturno e assente, vivendo solo del momento in cui avrebbe rivisto la sua amata. L'Ersilia dal canto suo non volle più sentir nominare “quella donnaccia” e lui prese a vivere alla giornata, pensando al futuro solo quando era con Ines: il matrimonio, la casa a Ferrara vicina all'ospedale, i figli che sarebbero venuti, quanti e come si sarebbero chiamati... Tutto sembrava dietro l'angolo, realizzabile come un gioco da ragazzi. Ma quando il discorso cadeva sull'officina tutti quei sogni cozzavano contro una dura realtà: Paride non poteva lasciare sola sua madre. Gli sembrava una vigliaccata che avrebbe scontato per tutta la vita. Lei lo aveva allevato, accudito, preferito al fratello, portato in palmo di mano di fronte alla gente, guidato nelle scelte importanti: non poteva tradirla. Non poteva, e poi quella promessa fatta al padre morente di mandare avanti l'officina assieme ad Alfio... No, non poteva andarsene senza la benedizione della madre. Ines non lo capiva, ma lui non sapeva cosa farci. I due innamorati trascorsero un paio d'anni tra sogni, promesse e amari disinganni, amandosi sempre più. Erano nati per stare insieme e il loro destino - a volte pensavano - sarebbe stato più forte ~ 52 ~
di ogni ostacolo. E fu proprio in un momento di particolare fede in questa verità che presero la decisione, di comune accordo. Non fu difficile trovare l'appartamento a Ferrara, e neanche un'officina bisognosa di un bravo meccanico. Ora bastava solo che Paride rompesse gli indugi e pensasse finalmente alla propria felicità. Affrontò la madre alla presenza del fratello, cupo e taciturno. La donna ascoltò impassibile, quasi la cosa non la riguardasse. Alla fine stette qualche secondo in silenzio, poi si levò dalla sedia su cui era seduta e, uscendo dalla stanza con un macigno sulle spalle, mormorò: - Che tu sia maledetto! Paride si sentì come Caino dopo l'uccisione di Abele. Fuggì di casa e si ritrovò, non si sa come, sull'argine del Po a chiedere la pace alla sua rapida corrente. Ma col pensiero andò a Ines, e si rifugiò nella boscaglia per nascondere al mondo l'infamia della maledizione materna. Rimase molte ore seduto, la schiena appoggiata a un albero, gli occhi persi nel vuoto. Poi si alzò, si avviò verso casa e, giunto in officina, girò la manovella del telefono a muro e si fece passare il reparto di pediatria dell'Ospedale Sant'Anna di Ferrara. Chiese della signorina Bonazzi Ines e quando sentì la sua voce all'altro capo del filo le annunciò che tra loro era tutto finito. Prima di riattaccare, riuscì solo a dire che l'amava moltissimo, che non l'avrebbe mai dimenticata, ma che non gli era possibile legarla a sé per la vita. Qualche giorno dopo ricevette una lettera piena d'amore che conservò per sempre come la più sacra delle reliquie. Poi si chiuse in sé stesso e si gettò nel lavoro con un'alacrità ossessiva, quasi maniacale. A Ferrara non andò più e in paese faceva solo qualche fugace comparsa, sempre con la tuta addosso e le mani unte di grasso. La barba sfatta, gli occhi sfuggenti, non si intratteneva con nessuno e rispondeva al saluto della gente con un impercettibile cenno del capo. ~ 53 ~
L'Ersilia pensava che presto gli sarebbe passata a Paride, così andò in Chiesa ad accendere un cero alla Vergine Santissima per lo scampato pericolo e ricominciò a frequentare la bottega a testa alta. Ma Paride non tornò mai più quello di un tempo, perché la maledizione che si portava addosso, e dalla quale aveva voluto tener lontano la sua Ines, lo avrebbe perseguitato per tutta la vita. Era passato già qualche tempo da quei fatti e all'Ersilia cominciava a dar fastidio l'atteggiamento che il figlio teneva verso di lei. Non le parlava più, le rispondeva a monosillabi, veniva su in casa il tempo per mangiare e subito scappava in officina, dove rimaneva fino a notte fonda. Non era più lui. Sembrava come dominato da una volontà non sua che gli imponeva un comportamento malvagio, di persona cattiva e ingrata verso una madre come lei, che meritava solo rispetto. Strani pensieri cominciarono ad affollare la mente della donna, fosche supposizioni che non tardarono a divenire certezze. Non c'era dubbio, - rimuginava sgomenta - suo figlio era sotto l'influsso malefico di quella donnaccia, la quale continuava a fargli del male per vendicarsi di essere stata lasciata. Quel suo povero ragazzo… glielo aveva rovinato, quella stria! Ubbie di tal genere sconvolgevano la mente dell'Ersilia il giorno in cui decise di scendere in officina per parlare con Paride e cercare di strapparlo definitivamente agli influssi malefici di quell'arpia. Trovò il figlio con la testa sotto il cofano di una 1400 a cui doveva smontare il carburatore. Era solo, perché Alfio era in giro per pezzi di ricambio. Mentre gli si avvicinava, lo vide sollevare la testa dal motore e fissarla con espressione interrogativa. - Paride... - azzardò, con una voce ferma che cercava di mascherare un certo timore. - Sì, mamma, che c'è? - Cos'è che hai, si può sapere? Non sei più quello di prima... Possibile che quella donna... - Lasciala stare! Va bene? - sbottò il giovane in tono irritato - A~ 54 ~
desso non c'è più, sarai contenta! - Sì, ma tu non parli più, non dici più niente... - E cosa c'è da dire? Hai detto tutto tu, no? Alla tua maniera, a suon di maledizioni! - Ma, bambino mio... - E non chiamarmi bambino, per favore, e lasciami lavorare! E tornò ad infilare la testa sotto il cofano sollevato, senza più badare alla madre che si allontanava con il cuore spezzato. Poi, accadde tutto troppo in fretta. Era trascorsa solo una manciata di secondi da quando l'Ersilia se n'era andata, che Paride udì uno stridio di freni proveniente dalla strada e un colpo sordo e terribile. Si sollevò di scatto e si precipitò fuori in preda ad un atroce presentimento. Sulla strada vide qualcuno correre nella direzione di una macchina ferma in posizione scomposta. Davanti ad essa c'era un uomo, in piedi, che si teneva le mani sul capo, ostentando orrore e disperazione. Quando Paride si chinò su sua madre, la donna forse se n'era già andata. Era immobile, gli occhi sbarrati a fissare il vuoto e il volto composto ad una serenità inquietante, per nulla turbata da quegli ultimi terribili istanti. Paride le si inginocchiò di fianco e si piegò a sussurrarle qualcosa all'orecchio, ma lei non era più in grado di dargli il perdono che le chiedeva. In un attimo realizzò che sarebbe stato maledetto in eterno. Per questo, poche settimane dopo il tragico evento, il giovane decise di andarsene, in silenzio, senza dire nulla neanche al fratello: uscì una sera per comprare le sigarette e fece perdere ogni traccia di sé. In paese, per un po', non si parlò d'altro, dando adito alle più bizzarre congetture. Vennero fatte delle ricerche che non portarono a nulla, finché nessuno ne parlò più. Solo quarant'anni dopo, sul finire degli anni ottanta del secolo scorso, in un inverno tra i più rigidi mai ricordati, un vecchio barbone di cui nessuno si era mai curato fu trovato stecchito su una panchina di una ricca e grande città del nord. In tasca aveva un lo~ 55 ~
goro foglietto con sopra scritto qualcosa di cui si leggeva solo il finale: “...ti amerò per sempre. Ines”.
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IL RACCONTO di Arnaldo Ninfali Un giorno pensai di partecipare ad un concorso letterario per opere inedite proposto da una nota rivista italiana. Per la sezione narrativa era richiesto un racconto, a tema libero, che non superasse le diecimila battute, e mi misi all'opera. Mi sedetti al computer, aprii un nuovo file di Word e il foglio bianco mi mandò in crisi quasi subito. Cercai di mantenere la calma e non mi sottrassi alla sfida, sicuro che alla fine sarei risultato vincitore. Ma dopo un'ora di incipit gettati al vento a un ritmo impressionante, quel biancore indecoroso continuava a fissarmi beffardo, come fosse lo specchio della mia inettitudine. Io gli chiedevo solo di mostrarsi meno sprezzante della mia umile fatica, ma lui continuava a rispondere picche. Dopo poco il nervosismo sembrò sopraffarmi, ma non avevo nessuna intenzione di mollare. Sfornai ancora una serie di incipit che feci sparire in fretta dopo una prima lettura. Poi, ormai all'esasperazione, ne sparai uno di getto, strapazzando la tastiera con la furia di un animale ferito. Lo lessi e, d'acchito, lo percepii in grado di stimolare la curiosità di chiunque vi si fosse imbattuto. Lo rilessi, mettendomi nei panni di un ipotetico lettore, e mi parve davvero quello giusto. Decisi allora di rompere gli indugi e lo salvai con un liberatorio clic del mouse. Finalmente il foglio bianco aveva tolto il disturbo e la sindrome che lo accompagnava, forse, era stata vinta. Era tuttavia necessario averne conferma certa e definitiva. Per questo dovevo armarmi di pazienza e soffrire ancora un po', come un padre in trepidante attesa della nascita del proprio figlio. Secondo la mia esperienza, infatti, la prova del nove per scoprire se un incipit fosse stato davvero azzeccato consisteva nel salvare e ~ 57 ~
chiudere il file, spegnere il computer e non pensare più a scrivere sino al mattino successivo. E se all'alba di un nuovo giorno, dopo l'ennesima attenta lettura, non mi fossi affrettato a cancellarlo, il mio racconto poteva dirsi iniziato. Così feci, e mi sforzai di pensare ad altro per il resto della giornata. Dovetti però constatare che non era impresa facile, perché incappai in un increscioso infortunio che creò un po' di malumore tra me e mia moglie. Mi accadde infatti di rispondere un “sì” assente a una domanda che mi aveva rivolto, per poi ammettere che non sapevo cosa mi avesse chiesto prima. Me ne dispiacque e avrei voluto scusarmi aggiungendo che, con un incipit in cantiere, ero un po' via di testa, ma forse non avrebbe capito. Così la ascoltai lamentarsi della mia cronica distrazione, dell'indifferenza per la casa e le sue necessità, delle frequenti dimenticanze che mi rendevano poco affidabile. E aggiunse che avrei fatto meglio a pensare meno a scrivere e un po' di più a vivere. La lasciai dire restandomene in silenzio, poi mi rifugiai nel mio studio, dove mi dedicai a mettere un po' d'ordine su quel campo di battaglia che diventava la mia scrivania quando vi restavo aggrappato troppo a lungo. Carte e documenti di ogni genere erano sparsi qua e là, oppressi dai dizionari, aperti sull'ultima pagina che avevo consultato prima di abbandonare la postazione. Non sapevo mai dove metterli, tutti quei fogli, perché ero certo che, qualsiasi luogo avessi scelto, poi me ne sarei dimenticato. Sistemai i dizionari sull'apposito scaffale, radunai le scartoffie secondo l'ordine che mi parve più appropriato e le infilai in qualche cassetto, con la mente sempre in balia di quel benedetto incipit in gestazione tanto nella memoria del computer quanto nella mia testa. Mi muovevo come un automa, spostando oggetti e carte senza vederli né sentirli, percependo la forza dirompente di quelle quindici righe, che mi ispiravano mille possibili soluzioni per l'intreccio su cui stavo meditando. E mentre terminavo il riordino delle mie cose, il resto del racconto prese forma, apparendo ai miei ~ 58 ~
occhi con la nitidezza di un avvincente film. Finché, ad un certo punto, fui in grado di percepire la trama nella sua interezza e capii che era giunto il momento di scriverla. A stento mi trattenni dal riaccendere il computer e partire a razzo, approfittando della fervida ispirazione del momento. Trassi invece un profondo sospiro, come per soddisfare il bisogno d'ossigeno del mio cervello inquieto. Poi passai in cucina, dove aprii il frigorifero e bevvi un bicchiere d'acqua senza aver sete. Mia moglie osservava apprensiva l'espressione stralunata dipinta sul mio volto. - Che hai, non stai bene? - esordì d'un tratto - Sei così silenzioso... Avrei potuto cavarmela con un semplice “Niente, niente, cara” che ne avrebbe aumentato la preoccupazione. Invece quella volta risposi la verità, e assunsi un tono confidenziale, come per renderla partecipe delle ansie che mi affliggevano, rassicurandola, nel contempo, sulle mie condizioni di salute. - Senti cara, - le dissi - mi frulla per la testa una storia che può diventare un bel racconto, se riesco a non dimenticare certi particolari. Vuoi sentirla? Così mi dici se ti piace e, magari, mi aiuti a ricordarla... Lei ascoltò di buon grado e, alla fine, mi disse che la trovava bella. Tornai nel mio studio, avvertendo un benefico calo di tensione. Mi sedetti in poltrona, distesi le gambe, chiusi gli occhi e assaporai la ritrovata serenità interiore. Ora non mi restava che raccontarla, la mia storia. Immerso nel silenzio, sentii le palpebre diventare pesanti e, pian piano, mi appisolai. Continuai tuttavia a percepire la realtà spaziale intorno a me, e dalla parete che mi stava di fronte emerse una sagoma umana vagamente familiare che subito mi turbò. Il suo volto pallido ed emaciato si contorceva in una smorfia astiosa tutt'altro che rassicurante. Vestiva un impermeabile consunto e manteneva la posa dimessa di chi vive in uno stato di estrema prostrazione. Era un uomo sulla cinquantina, ma il diffuso incanuti~ 59 ~
mento e la fronte segnata da profonde rughe lo facevano più vecchio. Le braccia penzoloni lungo il corpo esprimevano amara rassegnazione ad un male di vivere cronico e ineluttabile. Solo gli occhi apparivano indocili, fissi in uno sguardo bieco che sembrava chiedere conto di tanta sofferenza. Si trascinò verso di me senza fare il minimo rumore. - Mi dica una cosa, signore: lei ce l'ha un'anima? - esordì. - Come scusi? - ribattei con un filo di voce. - Ma... davvero non sa chi sono, o fa finta di non conoscermi? - Com'è... possibile? - sussurrai, in preda ad incredulità mista a spavento. - Sì, caro il mio signore... scrittore. - continuò con sarcasmo - Sono io, il protagonista della sua brillante storia, del capolavoro che vincerà il concorso e le darà fama, gloria e... magari, quattrini. Tanti, tanti quattrini: è questo che vuole, vero? - Non mi pare sia così, guardi... - No, lei non ce l'ha un'anima, non ce l'ha. Creda a me... - Ma che dice? Non è possibile... Lei... Lei non... Non esiste... - Non esisto? Non esisto ancora, vorrà dire. Perché domani lei, sì, lei, uomo senz'anima e onore, mi farà esistere. Mi darà la vita, capisce? E non una vita così, a caso, quella che capita, ma una che ha deciso lei, quella che il suo ineffabile cervello ha stabilito, dando libero sfogo a tutto il sadismo da cui è affetto. Provai un senso di disagio, sia per l'oscurità di quelle parole sia soprattutto per l'assurdità della situazione in cui mi trovavo. Avevo di fronte un tale che non esisteva e dovevo pure difendermi dalle sue accuse. Lo trovavo grottesco, così me ne stetti in silenzio. - Senta! - proseguì - Sicuro che io voglia vivere una vita come quella che lei ha pensato per me? Ma insomma, dico io, non poteva almeno lasciarmi vivere la mia storia d'amore? Cosa le costava? Invece no, neanche quella! Ed io... Eccomi qua, mi guardi! Lasciai trascorrere qualche attimo di drammatico silenzio prima di replicare. ~ 60 ~
- Mi dispiace, - dissi - ma... - Ah, le dispiace... Ma com'è buono, lei... Le dispiace. E non sa dire altro? - Purtroppo no, mi creda... - Così lei avrebbe il potere di immaginare vite disperate come la mia e non vite con almeno un po' di felicità... - Lei stesso lo dice, signore: io ho il potere di immaginarla, la vita, non di determinarla. E la mia immaginazione non può che attingere dalla vita reale, purtroppo. Come ho fatto per la sua, condita di un po' di felicità in mezzo a tanti dolori. Non è stata una parentesi felice quella vissuta con la sua Laura? - Sì, ma poi perché me l'ha tolta? Non poteva lasciarla vivere e far morire me? Non mi aveva già colpito abbastanza? Il fallimento dell'impresa, quello della famiglia, con la moglie che mi lascia per un altro e la figlia morta di overdose. No, non bastava ancora: dovevo subire anche la perdita della creatura che mi aveva ridato la vita. Non posso accettare tutto questo! Non posso: capisce? Così adesso io le offro due possibilità: o lei cambia la sua conclusione facendomi suicidare con dignità, o lascia in pace me e gli altri miserabili che popolano la sua squallida storia. - E quindi vorrebbe che rinunciassi a raccontarla, vero? - replicai. - Credo che farebbe davvero una cosa sensata - rispose. - Senta, caro amico, rifletta un momento! - continuai - Ho potuto, io, nascendo, pretendere una vita conforme ai miei desideri? No di certo. Ho dovuto accontentarmi di questa e nemmeno ho la possibilità di lamentarmene con qualcuno, come sta facendo lei ora. Solo che io ho deciso di non farmi travolgere, ma di osservarla con attenzione, per farla mia e mostrarla così com'è: crudele, ingannatrice, perversa e, di tanto in tanto, prodiga di qualche inattesa consolazione. E non è colpa mia se essa contempla anche tragedie come la sua. Mi dispiace, ma non posso fare a meno di raccontare la storia che ho in mente e di far vivere lei, che ne è il protagonista. A questo punto capisce bene che non dipende da me permettere o ~ 61 ~
meno il suo suicidio, ma dal destino, che non le ha dato coraggio per compiere il gesto estremo. - Il destino? E lei faccia finta che non esista, il destino! - Sarebbe a dire, scusi? - Basta che lei mi immagini non come prodotto del destino, ma del sogno. Io voglio vivere la vita che lei sogna per sé. Non le sarebbe difficile: basterebbe che provasse a immaginarsi appagato in tutti i suoi desideri e potrebbe raccontare di un mondo felice e sereno. - Ma falso, signore mio, falso! - replicai con foga - Ed io detesto la falsità, la menzogna, l'inganno. Amo la verità, per quanto amara e dolorosa possa essere. - Bene! - inveì minaccioso - Scriva, scriva la verità, allora! Bravo! Gliela sbatta in faccia ai suoi simili, la verità! Li terrorizzi a puntino! Racconti loro i fatti miei, e degli altri disperati costretti a vivere le vite che soddisfano il suo sadismo innato. - Sono anche affari miei, amico mio... - E non mi chiami amico! Io non sono amico suo! Non lo sarò mai: se lo metta in testa! Lei è la fonte di ogni mia sofferenza. Io vivo nella sua mente perversa, che vuole obbligarmi a esistere! - Allora, secondo lei si dovrebbe mettere la testa sotto la sabbia per non vedere come vanno le cose che affliggono noi poveri mortali e fingere di vivere nel migliore dei mondi possibili, così da non turbare il nostro prossimo. Allora io le chiedo: e l'indignazione dove la mettiamo? La forza dell'indignazione può smuovere le montagne, creda a me! Tenga presente una cosa: il mondo come vorremmo che fosse non esiste e a me non interessa raccontare ciò che non esiste. - Allora, se è per questo, nemmeno io esisto: lo ha ammesso anche lei. Eppure è venuto a importunarmi... - Ora devo ammetterlo, invece, caro signore: lei esiste, eccome se esiste... Ed è più amico mio di quanto creda. I pregi, i difetti, i vizi e le virtù che le appartengono sono reali, sa? Riscontrabili in o~ 62 ~
gnuno di noi, me compreso. E poi, crede di conoscerlo solo lei, il dolore? La nostra vita, purtroppo, è costellata di disgrazie, lutti, malattie e tragedie. Non possiamo farci niente, se non cercare di capire il senso di tutto ciò, sapendo tuttavia che forse non ne verremo mai a capo. Quell'oscuro sembiante umano restò silenzioso, come assorto in pensieri più grandi di lui. Poi si portò le mani al viso come volesse mondarlo da un'impalpabile fuliggine che lo incupiva. - Così è deciso, dunque... - riprese, guardandomi con rassegnazione - Sono costretto a calcare questo palcoscenico e a recitare la mia parte fino in fondo. “O mangi questa minestra o salti dalla finestra”, vero? Si dice così? Le sembra giusto? Ma mi dica un po', lei che è uno che cerca di capire: chi ci guadagna in tutto questo, chi ci guadagna? Vorrei proprio saperlo... - aggiunse a denti stretti. - Vede: se lo sapessimo avremmo risolto il mistero dei misteri e, magari potremmo chiedere conto a qualcuno della grama condizione in cui viviamo: come sta facendo lei con me, anche se non c'entro niente... Stavo per aggiungere anche: “Io sono solo uno che racconta le miserie umane disseminate di qualche gioia qua e là, illudendosi di ricavarne una sorta di affrancamento dalla tirannia del destino”, ma la visione si dissolse all'improvviso e al suo posto apparve il volto di mia moglie, china su di me nell'atto di coprirmi con un plaid. Allora mi venne spontaneo dirle che l'amavo e mi ripromisi di raccontarlo, un giorno, il nostro amore; perché la premurosa tenerezza che lei mi dedicava in quel momento bastava da sola a dare senso a un'intera vita.
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L'INCIDENTE STRADALE di Arnaldo Ninfali Se ti fai demolire un Mercedes nuovo di zecca da un cretino che poi ti frantuma il setto nasale con un cazzotto puoi legittimamente pensare che quel giorno il tuo santo protettore abbia qualche conto in sospeso con te. Salvo poi doverti tristemente ricredere, come accadde al protagonista della vicenda che vado a raccontare. Il Commendator Mario Lorenzoni, titolare della Lorenzoni Alimentari S.p.A. con sede a Milano, centocinquanta dipendenti e un fatturato annuo di dieci milioni di euro, quella mattina uscĂŹ di casa ritenendosi, come sempre, il solo e geniale artefice della giornata che aveva davanti. Ma si sbagliava, forse perchĂŠ la vita non gli aveva ancora insegnato abbastanza. In tarda mattinata aveva lasciato la sua concessionaria di fiducia a bordo di un nuovo gioiello teutonico e si era diretto verso il distributore per il primo pieno di carburante. Era su di giri, come sempre del resto quando era al volante di un nuovo modello. Ormai aveva perso il conto di quante stelle a tre punte gli avessero fatto l'occhiolino dal fondo del cofano. PerchĂŠ dire Mercedes per lui era dire tutto: la classe, l'eleganza e il fascino di questo marchio non avevano paragoni con quelli di nessun'altra casa automobilistica. Lo facevano sentire a suo agio con tutti e in qualsiasi ambiente si trovasse. Era sempre a posto, col Mercedes, come riteneva convenisse ad uno del suo rango. Felice di appartenere alla cerchia degli uomini di classe, il Commendatore respirava a pieni polmoni il profumo di nuovo che lo avvolgeva e lo inebriava come il delizioso Avana Churchill col quale trascorreva piacevoli serate nell'intimitĂ del salotto domestico. I suoi occhi percorrevano l'abitacolo in lungo e in largo, mossi dallo stupore per le meraviglie che incontravano sul loro cammino. Tutti quei led accesi gli ricordavano un cielo stellato, ~ 64 ~
mentre la strumentazione di bordo pareva quella di un jet. E il computer che segnalava ogni piccola anomalia, e il cambio automatico, e il navigatore satellitare di serie, e l'ampio vano porta oggetti, e il comfort del sedile in cui sprofondare: tutto concorreva a che il Commendator Lorenzoni si sentisse signore del mondo e dimenticasse che l'illusione di onnipotenza nasconde sempre pericolose insidie. In preda all'eccitazione per il suo nuovo, fiammante balocco, non tenne infatti conto che c'era anche la strada da seguire, ogni tanto, e che c'era un incrocio subito prima del distributore. Aveva la precedenza, è vero, ma se qualche imbecille se ne fosse dimenticato non è che il suo Mercedes avrebbe frenato da solo: il prossimo modello, forse, questo ancora no... Niente: i suoi occhi vagavano più sul cruscotto che sulla strada e l'imbecille in effetti era in agguato, quasi fosse proprio in attesa del suo arrivo. Guidava una vecchia Fiat Uno con la quale si appropriò della precedenza e lo centrò sulla fiancata destra. Il tremendo botto scosse i vetri dei palazzi circostanti col fragore di una bomba. I passanti sussultarono all'unisono e si voltarono verso il luogo dell'impatto. Alcuni fecero in tempo a scorgere il Mercedes che planava sulla corsia opposta come un sacco di patate, proprio mentre un SUV proveniente in senso contrario finiva l'opera, con un poderoso frontale che fece scattare i dispositivi di tutti gli airbag presenti a bordo. Il Commendator Lorenzoni, dal canto suo, si ritrovò schiacciato come una sardina contro lo schienale del suo confortevole sedile. Incolume, per fortuna: almeno per ora. Lo estrassero a fatica, integro e fuori di sé per la rabbia a tal punto da rischiare un colpo apoplettico fulminante. Si avventò quindi contro il conducente della Uno e lo afferrò per il bavero. - Idiota! - riuscì solo a dire. Avrebbe voluto scaricargli addosso una montagna di ingiurie, ma gli uscirono fuori solo incomprensibili rantoli sconnessi. Il Mercedes era ridotto a un rottame, un'informe carcassa inerte ~ 65 ~
come quella di un bufalo spolpato dagli avvoltoi. Lorenzoni non ragionava più: si divincolò dall'abbraccio provvidenziale di uno sconosciuto e fece di nuovo per prendere per il collo quel pezzo di cretino. - Senta, mi dispiace, mi sono distratto... - balbettò quello, pallido come un cencio, mentre cercava di sottrarsi all'ira del Commendatore. - Ah, ti dispiace… Ma bravo… Sai cosa me ne faccio io del tuo dispiacere? Idiota! - Moderi i termini, per favore! Comunque, sono assicurato… - Non me ne frega se sei assicurato! Tu sei un idiota, ecco quello che sei! - replicò Lorenzoni, tentando di nuovo di aggredirlo. Non sapeva, il cumenda, - come lo chiamavano in fabbrica - che l'idiota era solo stanco della vita. Un incrocio in più o in meno per lui non avrebbe fatto differenza: anzi, quello lì forse non aveva proprio voluto vederlo. Gli piaceva giocare alla roulette russa e non temere il colpo in canna o il fottuto bus che lo avrebbe mandato dritto al Creatore. Poteva farne le veci anche quel pesante Mercedes, se solo fosse arrivato all'incrocio qualche secondo dopo. Il caso invece aveva voluto diversamente e ora lui era lì, che incassava le ingiurie di un tale a cui aveva appena distrutto l'unica ragione di vita. Tentò quindi in tutti i modi di scusarsi e mostrare quanto fosse dispiaciuto, ma l'ineffabile Commendatore sembrava non voler sentire ragioni: fu necessario tenerlo in due per arginare la sete di vendetta che lo infiammava. - Guarda cos'hai fatto, scemo! Appena uscita dalla concessionaria, capisci? E adesso è da buttare, da buttare… - Senta, - intervenne uno dei due che lo tratteneva - ringrazi il cielo di essere ancora vivo. Quanto alla macchina, l'assicurazione gliela ridarà nuova. - Sì, fra un mese, me la ridà. Ma io ne ho bisogno adesso, non fra un mese! - e riuscì a eludere il controllo dei due paceri quell'attimo ~ 66 ~
sufficiente per stampare un ceffone sul volto del conducente della Uno. Fu allora che quest'ultimo si sentì nello spirito giusto per non lasciarsi sfuggire l'occasione della vita. Aveva lì davanti a sé, tutti assieme, gli infami senz'anima che lo avevano rovinato: il banchiere che, senza preavviso, gli aveva revocato il fido, l'ufficiale giudiziario che gli aveva pignorato la casa, lo strozzino che minacciava lui e la sua famiglia se non avesse pagato fino all'ultimo centesimo; il destino infame che, senza ragione, aveva voluto sprofondarlo all'inferno da vivo. C'erano proprio tutti, e lo insultavano, lo schiaffeggiavano, mostrandogli senza pudore le loro bestiali sembianze. “Adesso o mai più”, disse a sé stesso. Così partì con un diretto al volto che nessuno vide e solo il nostro cumenda sentì, perché gli spappolò il naso. Ora il Commendator Lorenzoni non poteva più dire di essere uscito illeso dall'incidente. Verso le quattro del pomeriggio venne dimesso dall'ospedale. Non era bello a vedersi: fasciato come una mummia dalla bocca in su, gli occhi ridotti a due fessure tra le palpebre tumefatte, due tamponi rossi di sangue pendenti dalle narici, la bocca aperta come un pesce preso all'amo. Si infilò con un mugugno nello scomodo Porsche della moglie, regalo dell'ultimo compleanno. Lui aveva insistito per comprare il SUV della Mercedes, ma a lei piaceva guidare sportivo, quindi... Sua moglie Giulia, un'elegante signora molto ammirata in società, si mise al volante e si avviò verso casa, destreggiandosi con abilità nel traffico cittadino. - Così salta la settimana bianca, quest'anno... - esordì. - Mi pare evidente, no?... 'sto stronzo! Ma lo denuncio, sai... Ah, se lo denuncio! - È il minimo che puoi fare. Guarda come ti ha ridotto... Avevano fissato la settimana di vacanza contando di andarci con la macchina nuova. Si erano impegnati coi loro amici a formare il ~ 67 ~
solito gruppo affiatato di adulti e ragazzi per organizzare dei fuoripista da sballo sulle Dolomiti ampezzane: ormai era diventato un appuntamento annuale a cui non sapevano rinunciare. Anche perché, a frequentare il bel mondo di Cortina, avevano l'opportunità di respirare un soffio di classe che faceva un certo effetto nel loro ambiente di tutti i giorni. Era un po' come fare un corso accelerato di bon ton. Adesso invece sarebbe saltato tutto, perché presentarsi con quella faccia da pugile suonato non era proprio il caso. E poi in Porsche per il secondo anno consecutivo! Sarebbe stato come se la moglie fosse uscita per due volte con lo stesso vestito. L'anno precedente si era sciroppato quello scomodissimo viaggio per compiacere Giulia, la quale aveva trionfato, tra le signore, al concorso del miglior regalo di compleanno ricevuto. E non gli andava giù di non poter essere lui, quell'anno, a competere - e vincere - con i signori. A casa trovarono i figli, affranti per la disavventura del padre e come lui inviperiti con quel delinquente ancora a piede libero. - Papà, davvero non si va più a Cortina, sabato? - chiese Jessica. - Con 'sta faccia che mi ritrovo ti pare possibile? E senza macchina poi... - Ma c'è quella della mamma... Dai, papà... - intervenne timidamente Christian. - Sentite ragazzi, non mi sono già incazzato abbastanza oggi? - Uffa! Con tutte le verifiche che ho la settimana prossima questa proprio non ci voleva - e si ritirò in buon ordine in camera sua, dove la PlayStation lo reclamava da dieci minuti. Verso sera venne a trovarlo Stefano Bertagna. Erano amici fin dai tempi della scuola e adesso era il suo commercialista. Aveva uno studio tra i più rinomati di Milano e curava l'amministrazione dell'élite imprenditoriale lombarda. Neanche lo salutò, quel cafone: come lo vide conciato a quel modo gli puntò il dito contro e si mise a sghignazzare come uno scemo. - Che stronzo, sei! Sono vivo per miracolo e tu ti metti a ridere... ~ 68 ~
rispose offeso Mario. - Proprio per questo rido... Avrei pianto se fossi morto! Certo che farsi rompere la faccia da uno che ti ha appena sfasciato il Mercedes è il colmo. Guarda che eri tu che dovevi romperla a lui... - e giù di nuovo a ridere. - Senti, se sei venuto per sfottermi te ne puoi anche andare... - Dai, non te la prendere... Pensa che sei vivo, piuttosto! Ho visto la macchina e non è un bello spettacolo, credi a me. Comunque, te l'ho sempre detto di passare al BMW... Porta sfiga, il Mercedes. - Stefano, ascolta, fai una cosa: vaffanculo! - Ecco come ricambi i buoni consigli di chi ti vuol bene. Bravo, continua così! Ma se provi una volta un Serie 7, vedrai che il Mercedes lo butti nel cesso... - Invece di sparare stronzate, noto rovina cristiani, riesci a farmi pagare meno tasse, quest'anno? - Oh, ma è un chiodo fisso, il tuo! Lo capisci o no che se paghi molte tasse vuol dire che guadagni molto? Lo sai che quel tizio che ti ha spaccato la faccia le tasse non le paga? - Ah, davvero? Ma bene! Lo denuncio anche per evasione... - replicò Lorenzoni. - Senti, Mario, vacci piano! Prega il Signore che quel poveraccio abbia pagato l'assicurazione perché ormai ha solo gli occhi per piangere. Figurati se vede i segnali stradali! - Cosa vorresti dire? - Che è pieno di debiti, bello mio! È perseguitato dagli strozzini: ha la casa pignorata, l'azienda sotto sequestro e, ciliegina sulla torta, la moglie con una malattia rara. Di' un po': si può essere più sfigati di così? - Vuoi dire che mi tocca rimetterci centomila euro di Mercedes? Oggi mi è proprio andata alla grande, va' là... - Mariooo! Mariooo! Sveglia, perdio! - replicò con foga Stefano Non sa più dove sbattere la testa, lo capisci? - E tu come sai tutte queste cose? ~ 69 ~
- È un mio cliente, lo conosco da anni. Era titolare di un'impresa di materie plastiche, dieci operai. A un certo punto hanno cominciato a non pagargli più le commesse, la banca gli ha chiuso il fido e lui si è inguaiato con gli strozzini. Fa pena, una situazione del genere: non ti pare? - Ah, bene! Così quel bastardo ti fa pena e io, ridotto in questo stato, ti faccio sbellicare. Questa me la segno, stai pur sicuro... - Senti, Mario, seguimi un attimo, fai un giretto sulla terra una buona volta! Sai di chi è la colpa se oggi per poco non ci lasci le penne? Lo sai o no? È di questa fottuta crisi che ha fatto andar via di testa un sacco di gente. Ormai circolare per le strade è come camminare su un campo minato: ti rendi conto? A Milano, adesso, in questo momento, mentre io e te parliamo, di gente che spaccherebbe tutto è pieno! Un imprenditore, capisci? Piccolo, ma sempre un imprenditore era, come te. Tu chiamati fortunato che la gente mangia ancora! Perché, se va avanti così e finiscono i soldi anche per sfamarsi, vedrai che al prossimo botto tu sarai quello della Uno, non del Mercedes! Il Commendator Lorenzoni restò qualche secondo in silenzio, si passò una mano sulla fronte come per alleviare le fitte che gli trapassavano il cranio e disse con un filo di voce: - Allora cosa dovrei fare, secondo te? - Dovresti aspettare invece di avviare azioni legali che non ti porterebbero da nessuna parte. Tanto, guarda: soldi da darti non ne ha, e se viene condannato per lesioni si prende un anno con la condizionale, e a te non dà neanche la soddisfazione di vederlo dietro le sbarre. L'assicurazione invece dovrebbe essere a posto, quindi nel giro di un mese tu riavrai il tuo bel Mercedes. Il Commendatore tacque, come soppesando le parole dell'amico. Poi sembrò quasi avvertire, per la prima volta, il dolore proveniente dal suo viso sfigurato. - Lo sai che ho un mal di testa assurdo? Oh, se ha picchiato duro, quel bastardo!
- Deve avere una rabbia in corpo, quel tizio, che tu sei l'ultimo a cui avrebbe voluto spaccare la faccia: credi a me! Lorenzoni sembrò come appisolarsi per qualche secondo, emettendo una specie di rantolo gutturale; quindi chiese un po' d'acqua. - Così sabato Cortina, eh? - disse, dopo aver bevuto. - Pensi di non farcela proprio a venire? - E come faccio? Il medico mi ha prescritto dieci giorni di riposo assoluto. In quel momento entrò la cameriera spingendo il carrello della cena. - Mi fai compagnia, Stefano? Mangi qualcosa con me? - Mi piacerebbe davvero, ma devo scappare perché stasera abbiamo gente a cena. Sarà per un'altra volta: grazie comunque. Appena ti sarai rimesso, ti offro la cena in un ristorantino dove fanno dei tortelli che sono la fine del mondo. Povero Stefano Bertagna, sempre allegro, spiritoso, gentile, ottimista fino all'eccesso! Lui, così scrupoloso nel mantenere gli impegni presi, non offrì mai quella cena all'amico, perché un evento del tutto inatteso glielo impedì. Di lì a pochi giorni, infatti, fu tra le vittime di una slavina abbattutasi sul gruppo di patiti del fuoripista col quale si godeva la sua ultima vacanza. E dovette dire addio al fascino di Cortina e al bel mondo che vi risplendeva; addio a emozioni, sentimenti, passioni, sogni, affetti: la vita gli sfuggiva proprio mentre credeva di averla in pugno e di saperla dominare con la destrezza con cui dirigeva gli sci sulle candide nevi ampezzane. Per Mario Lorenzoni fu un colpo durissimo. Oltre allo strazio per la perdita di un caro amico, e di molti altri coi quali spesso condivideva ore liete, lo sconvolse il pensiero che solo il caso aveva salvato la sua famiglia da una fine orribile: cioè quel provvidenziale schianto in cui ci aveva rimesso la macchina nuova e il setto nasale. E provò vergogna degli insulti rivolti al disperato che lo aveva
causato salvandogli la vita. Ripensò anche alle parole di Stefano e convenne che aveva ragione da vendere a dissuaderlo dall'intraprendere azioni legali. Così gli diede ascolto, ma poi fece anche di più: assunse quell'uomo nella propria azienda. E non se ne pentì affatto, perché si rivelò ben presto un ottimo collaboratore. Lorenzoni ne ebbe subito stima e ripose in lui piena fiducia. Col tempo i due divennero buoni amici. Quanto alla vita del Commendator Mario Lorenzoni va detto che, da quel tragico miracoloso evento, non fu più lo stesso. La mattina ad esempio usciva di casa un po' meno spavaldo e, nell'attraversare la strada, guardava due volte a destra e due a sinistra. Cominciò a riflettere di più e a sentire meno impellente il bisogno di guidare sempre l'ultimo modello della Mercedes. Si meravigliò poi di sentirsi a suo agio anche se saltava il corso di bon ton di Cortina, optando per altri piacevoli luoghi di villeggiatura. E poi lesse da qualche parte che si era uomini di classe più per quello che si è che per quello che si ha. Be', ci credereste? Alla fine si accorse che la sua vita scorreva molto più serena.
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EI VOLUMI DI QUESTA SERIE antologica vengono
proposti nuovi racconti che riflettono, attraverso le scelte stilistiche ed espressive dei singoli autori, l'intensità delle esperienze umane o l'energia dell'elaborazione fantastica. Da una pagina all'altra la narrazione si snoda tra soggetti diversi che si evolvono in storie struggenti o divertenti, tragiche o romantiche, in ogni caso coinvolgenti per i lettori. La voce di ogni scrittore si distingue da quella degli altri e l'antologia offre, quindi, l'opportunità di scoprire nuove dimensioni narrative e rinnovare, di volta in volta, quel sottile piacere che solo gli amanti della lettura conoscono.
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