Costola #1

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COSTOLA

COSTOLA - NUMERO UNO - GIUGNO 2012

GLI OTTIMISTI SCRIVONO MALE

PERIODICO

MA

IRREGOLARE

NUMERO

UNO

GIUGNO2012



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COSTOLA Cominciarono dicendo che il mondo della piccola editoria era un mondo selvaggio; continuarono dicendo che anche il mondo della grande editoria era un mondo selvaggio. Non si erano dimenticati l’assunto di partenza dal quale erano giunti a quelle conclusioni: erano infatti convinti che fosse per primo il mondo: era lui ad essere un mondo selvaggio. Come si poteva quindi prescindere da un minimo di negatività per continuare a scrivere? Non si poteva, per questo si trovarono ad adottare il pessimismo come arma cosmica con la quale affrontare le barbare leggi del pianeta. Quel poco di ottimismo rimasto, prudentemente tenuto in serbo, lo usarono per altre cose, cose belle da fare, tipo affrontare il mondo dell’editoria. Rimane un dubbio: di chi diamine stiamo parlando?

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C O S T O L E

IN ORDINE D’APPARIZIONE

Mauro Maraschi Andre Coccia Michele Turazzi Alessandro Ansuini Alessandro Busi Diego Fontana Filippo Balestra Edoardo Cavazzuti Luciano Funetta Antonio Koch Simone Rossi Jacopo Nacci Matilde Quarti Gianni Solla Alessandro Beretta

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Sarah Mazzetti Stefano David Giulia Sagramola Robbe Dario Molinaro Emanuele Giacopetti Marco ‘About’ Bevivino Daniele De Batté Yoirene Melmartita Giacomo Bagnara Silvia Giuseppone Fabio Ramiro Rossin Paolo Cattaneo Fabio Tonetto


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I N D I C E

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La famiglia naturale Le mani di Marla Rosso Lettera al Marchese E cosÏ ricominciamo a parlare Il latrinaio Cubetti Mike Certe informazioni Io, Amanda e David Bowie Viaggiare è bello solo se poi Nella condizione irrevocabile 24 x 11 Domenica mattina Ragazza che chiude gli occhi La Betaborfosi

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LA

FAMIGLIA

NATURALE

di Mauro Maraschi illustrato da Sarah Mazzetti

Stasera, per cena, mangerò un cuore. Anni fa, per motivi che non sto qui a spiegare, ho deciso che niente fa schifo, che è solo una questione di differenze culturali, che se qualcuno mangia qualcosa, insomma, allora vuol dire che si può mangiare. Tipo le palle di toro o le locuste caramellate, per capirci. Ho cominciato con le cosce di rana, che non è vero che sanno di pollo, e da allora non mi sono più fermato. È uno degli pochi motivi per i quali viaggio abbastanza spesso. Ecco perché quando stamattina Crista mi ha promesso che mi cucinerà un cuore di porco a momenti la abbracciavo. Poi però non l’ho fatto, anche perché Crista ha cinquant’anni e la conosco da due giorni. Nell’attesa di questo nuovo sapore raggiungo Inge nel suo laboratorio. Inge ha capelli di stoppa e un vago accento tedesco. Anche lei, come Crista, è stata sposata con Jürgen, un uomo leggendario che adesso vive in Svizzera con la sua terza famiglia. Quindici anni fa Inge e Crista decisero di coabitare in questo casolare, di proprietà del loro ex marito, principalmente per permettere alle rispettive figlie di crescere insieme: una soluzione stramba ma comprensibile. Gli altri motivi non li so. Comunque. Per arrotondare la pensione d’invalidità, Inge, che è la moglie più vecchia, costruisce a mano dei macinapepe in mogano, palissandro o ebano, alti venti centimetri, a forma di pedoni degli scacchi. Sono bellissimi, ma costano un occhio della testa, tipo mille euro a pezzo. Penso che chiederò a papà di comprarne uno. Più tardi lo chiamo. Dopo che Inge mi ha spiegato come si progetta un macinapepe – anche se dubito che potrà tornarmi utile, raggiungo Joshua nel patio. Joshua è l’ex ragazzo di Kläe, la figlia di Inge. Al momento sta smanettando con la R4, in panne da una settimana. Io di macchine non ne capisco nulla, ma mettere via i pezzi o passargli una chiave inglese, ecco, questo posso farlo anch’io. E in queste situazioni è sempre meglio rendersi utili. Accanto a noi Kläe seleziona i rottami da trasformare nelle sue sculture steam-punk, che poi va a vendere la domenica giù in paese. Dice che ci fa un sacco di soldi, che la gente ci va matta. Ma la gente è strana. Da quando si sono lasciati, qualche mese fa, Kläe e Joshua non si rivolgono la parola, eppure Joshua continua a frequentare il casolare, immagino nella speranza di far pace. Io sono sempre in tensione quando loro si trovano nello stesso posto, ma poi non succede mai niente. Quando Kläe si allontana, mi scappa di chiedere a Joshua il perché del suo look. Me ne pento subito, magari è una domanda indiscreta e lui potrebbe incazzarsi, ma al contrario mi spiega, con un certo orgoglio, che rasarsi capelli, sopracciglia e peli corporei è l’unico modo di ridurre al minimo il numero dei parassiti umani, onde evitare di nuocere loro quando ci si lava, per esempio. Io non so cosa rispondere, e racconto di quella volta che mi sono tagliato i capelli a zero, anche se non c’entra niente. Poi, per fortuna, il rombo del motore tronca questa parentesi. Joshua esulta e mi abbraccia, quasi avessi qualche merito. Mi abbraccia come mio padre non ha mai saputo fare. Nell’afrore

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della benzina scovo un buon odore di muschio. Risolta la questione R4 vado a innaffiare l’orto con Magdalene, la figlia di Crista. Magdalene ha sedici anni, è esile e anemica e parla poco. È la mia preferita di questo strampalato nucleo familiare. Mentre ci occupiamo di cavolfiori e rape, Magdalene si lamenta di nuovo, nel suo modo laconico ma pungente, della presenza di Joshua. Dice che dovrebbe sparire dalla circolazione, perché tanto Kläe non lo vuole più. Se Joshua fosse una persona riservata sarebbe nello spirito di questa casa accoglierlo a braccia aperte, ma con quel broncio perenne e la pretesa di trasformare in filosofia anche la stesa del bucato, insomma, è una vera palla. Così dice. Finito con gli ortaggi è il momento della vera attrazione di Valle Altrove, la cosiddetta “pentola”. Si tratta di un boschetto circolare, le cui fronde vengono periodicamente potate per simulare un coperchio, con tanto di albero centrale più alto a mo’ di pomello: una di quelle astruserie che se non le vedi non ci credi. È una famiglia di feudatari a mantenerlo così da mezzo secolo. Magdalene ci viene spesso a studiare, nonostante la leggenda vuole che un ragazzo ci sia morto, una ventina d’anni fa, trapassato da un colpo di fucile dei proprietari. Sono cose che capitano, dice lei, su certi colli toscani. Mi prende una certa apprensione. Esorto Magdalene a tornare al casolare, anche perché il momento del cuore di porco si avvicina. Vado a cercare Crista per ricordarglielo. È nel suo studio, intenta a perfezionare una delle sue bambole. Anche se un po’ inquietanti, sono pezzi unici, che i collezionisti comprano a circa duemila euro l’uno. Ce ne sono a centinaia. Penso che chiederò a papà di comprarne una. Più tardi lo chiamo. Dalla cucina sentiamo Magdalene che bestemmia. Ha dimenticato il libro di Schopenhauer nella “pentola”. Kläe si offre di andarlo a recuperare, nonostante stia già imbrunendo. Magdalene la ringrazia e mi spiega, sottovoce, che la sorellastra non sa cosa inventarsi per far capire a

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Joshua che non è più il benvenuto, meno che mai quando ci sono ospiti. Io le assicuro che non mi dà fastidio dormire con lui, il letto è matrimoniale. Lei si scusa ancora, nascondendo il visino nei capelli slavati: l’abbraccerei, se non la conoscessi da due giorni, non avessi dieci anni più di lei e se non fossi così brutto. Ho accettato anni fa la mia bruttezza. Sono alto e sproporzionato, un naso attaccato lì per scherzo e uno sguardo poco sveglio, a quanto ne so. Ma non ci fa niente. Basta non fare mai il primo passo e non disperare: l’amore arriva per tutti, e con lui il sesso. Finalmente ora di cena. Ci sediamo intorno al massiccio tavolo della cucina, intarsiato da Jürgen più di quindici anni fa. Niente tovaglia, posateria spartana. Crista sta facendo saltare in padella il cuore di porco. Per Joshua è stato preparato un peperone ripieno di farro, olive e capperi, una ricetta siciliana adattata al veganismo. Magdalene ha un bicchiere di latte e delle gallette. Kläe ancora non si vede, ma tanto la sua insalata non può raffreddarsi. Inge e Crista accompagnano l’insalata con tartine al fegato di cinghiale e houmus fatto in casa. Sono l’unico con un cuore nel piatto. Nemmeno Crista, che me l’aveva tanto decantato a pranzo, ne ha voluto uno. Dice che è squisito e che fa pure bene, ma che non può mangiarne più di una volta l’anno, o le viene il ribrezzo. Il cuore è piccolo come un uovo. Amaranto scuro, con placche che tendono al rosa, è avvolto da una sottile maglia di capillari. È armonioso, fumettistico, sembra l’idea di un cuore. Lo condisco con un filo d’olio e col macinapepe d’ebano. Lo blocco con la forchetta e ci poggio sopra il coltello. Dopo una prima resistenza, come quando si fa un’iniezione, la lama affonda. Una goccia di sangue gemma da un poro. Sento una fitta al petto. Poi, quando raggiungo il piatto col coltello e le due metà dondolano giù, dall’esterno giunge l’eco di un colpo. Balzo in piedi. Immagino che abbiano sparato a Kläe nel boschetto, proprio come successe al ragazzo della leggenda. Mi prende l’ansia. Poi, però, mi ritrovo davanti lo sguardo sconvolto di Joshua. Un rivolo di sangue gli parte dalla bocca, raggiungendogli il mento. Penso che il proiettile abbia colpito lui, ma anche la seconda ipotesi è sbagliata. Joshua fissa il peperone, addentato a due mani, ci pensa un secondo e poi lo scaglia con violenza contro il camino. Si porta una mano alla bocca lucida di sangue e ci sputa dentro un pezzo del cuore crudo che qualcuno ha nascosto nel peperone imbottito. Dal boschetto arriva il riverbero di un altro colpo, e poi un altro, e un altro. Regolari, sdoppiati e impietosi, i colpi assecondano il mio ritmo cardiaco, lo dominano. Joshua ha un conato di vomito. Trema, lacrima, sta per esplodere. Dà un pugno al piatto, il piatto esplode, lui si ferisce la mano. Poi scappa via, senza urlare. Sentiamo il borbottio del suo motorino che si allontana sulla strada per il paese fino a sparire nel buio di queste calli poco illuminate. Crista e Magdalene esultano. Inge scuote la testa con disapprovazione. Dopo qualche minuto Kläe sbuca da dietro uno stipite, con un bastone in mano e la soddisfazione sulle labbra. Mi squilla il cellulare. È papà. Vuole sapere come sta andando il fine settimana, cosa sto facendo di interessante. Rispondo “niente di che”, gli chiedo se può farmi un bonifico di tremila euro per un macinapepe e una bambola, lui risponde “certo”. Riaggancio.

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L E

M A N I

D I

M A R L A

di Andrea Coccia illustrato da Stefano David

Pietro lavorava da anni come redattore per un quotidiano nazionale, nella sezione distaccata di Milano. Passava le sue giornate davanti al computer, a volte anche sedici ore al giorno, in un bell’ufficio open space. Insieme a lui una mezza dozzina di colleghi e colleghe che, esattamente come Pietro, amavano spendere il proprio stipendio in qualsiasi cosa che li distinguesse dalla massa, entità scura e brulicante che vedevano aggirarsi ogni sera per le strade del centro di Milano e che temevano come la morte. Ma oltre a coltivare il dispendioso vizio della distinzione, che lo portava a spendere centinaia di euro all’anno in accessori tecnologici sofisticatissimi, vestiti su misura da Ercole il sarto, logoranti e noiosissimi corsi di yoga con maestri di calibro planetario e esclusive prime edizioni introvabili dei suoi libri preferiti, ne coltivava un altro, perfettamente speculare, anzi, antitetico al primo, un vizio la cui esistenza, per ovvie ragioni, non aveva mai rivelato a nessuno dei suoi amici e colleghi. Pietro adorava infiltrarsi in quella massa che tanto detestava e schifava. Per questo, un giorno al mese - sempre diverso per non destare sospetti nei colleghi - usciva prima dalla redazione e andava in incognito a comprarsi dei vestiti, scegliendo a casaccio tra i capi seriali di uno dei tanti negozi del centro. Poi, dopo aver comprato ciò di cui aveva bisogno, rigorosamente in contanti per non lasciare alcuna traccia, tornava a casa, si cambiava e usciva in direzione dei locali della movida. Durante quelle sere, Pietro, che nei rapporti personali era sempre molto selettivo, che guardava tutti dall’alto verso il basso e che prima di cominciare una conversazione testava la cultura dell’interlocutore mediante l’ignobile trappola della finta citazione, si trasformava. Quell’uomo, normalmente snob come pochi, una sera al mese si buttava a capofitto nel mondo, ma che, al contempo, lo attraeva, come un abisso. Più di tutto amava andare per locali che non avrebbe mai frequentato, ordinare un drink e scegliere una ragazza, una delle tante che frequentano i primi anni delle università milanesi, magari lo IED o lo IULM, una di quelle piccole figlie un po’ sperdute della provincia italiana, fuori sede che grazie ai pochi soldi che i genitori passavano, loro assaporavano un surrogato di bella vita per qualche anno prima di tornare nell’anonimato di una vita inutile alla periferia dell’impero. Una di quelle appassionate di moda, di fotografia, di musica che normalmente sbavavano dietro a uomini come lui, lavoratori intellettuali di mezza età, ancora in forma e con qualche soldo in tasca. La tattica era ben oliata e funzionava sempre: dopo aver individuato la ragazza, iniziava con l’avvicinarsi al suo gruppetto, tre o quattro amiche, non li sceglieva mai più numerosi per ragioni di convenienza. A quel punto parlava con la più bruttina di un argomento futile, finché la più carina iniziava a puntargli gli occhi addosso, interessandosi a lui. Poi un’escalation di mosse precise, come in una partita di scacchi, ed era fatta. Pietro adorava intortarle con discorsi piroettanti, citazioni magniloquenti, aneddoti inventati,

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racconti spesso senza senso. Gli piaceva mostrare loro un pizzico di vita, quella vera, scostare per un attimo il velo che annebbiava il loro livello di realtà di matricole appena arrivate in città e ammaliarle. Ci riusciva sistematicamente, ci giocava per un paio d’ore nel locale, sorseggiando due o tre Old Fashion e offrendo all’interlocutrice e alle sue amiche altrettanti esemplari di cocktail a loro scelta; poi, intorno a all’una, salutava le amiche e prendeva la porta a braccetto con la prescelta. Abitava in una piccola mansarda nel quartiere Isola, due locali ricoperti di parquet con quadri dei migliori artisti contemporanei alle pareti e scaffali colmi delle edizioni rarissime dei suoi libri preferiti. Tra quelle quattro mura se le scopava per tutta la notte, in ogni angolo e in ogni modo, sfogando tutte le fantasie e gli istinti più bassi che gli giravano per la testa. Adorava quelle nottate, in cui tornava per poche ore il ragazzino poco più che ventenne che non era mai stato, aderendo a quel modello di leggerezza che da sempre detestava, sentendosi pazzescamente vivo. L’unica regola che si era dato era che mai e poi mai avrebbe permesso alle sue ospiti di dormire al suo fianco. Era una regola inalterabile. Si limitava, spacciando la sfrontatezza per eleganza, a chiamare loro un taxi e a pagare la corsa in anticipo. Non poteva correre il rischio che la ragazza di turno, svegliandosi di nuovo sobria la mattina dopo, potesse riconoscere il palazzo dove aveva vissuto l’avventura di quella notte. Non si poteva mai sapere, le ragazzine si innamorano facilmente di uomini maturi, pensava Pietro, e non è il caso di rischiare di ritrovarsi una di quelle puttanelle ignoranti a bussare alla porta in lacrime. Così pensava Pietro, mentre mese dopo mese, anno dopo anno accumulava ragazzine più o meno ingenue sotto le lenzuola, mettendo in fila esperienze oscillanti. Un anno tipo poteva constare di una Cristina, due Giulie, una Giovanna, una Karen, due straniere di cui non ricordava il nome, e poi una Luce, una Omara, una Camilla, una Federica e, addirittura, una Pamela e una Jessica nella stessa serata, anche se questo genere di cose a tre gli era capitato molto di rado. Ad ogni nome Pietro associava il ricordo perfetto della serata, a partire dal tipo e dalla quantità di cocktail che la ragazza aveva bevuto, fino ad arrivare alle sue passioni, ai suoi gusti e al livello di consapevolezza della realtà che questa aveva. Se si interessava di politica o di libri, che musica ascoltava, che cosa voleva fare della sua vita, se fosse pro o contro gli argomenti di pubblica discussione del momento. Ovviamente ricordava alla perfezione anche ogni amplesso, quante volte lo avevano fatto, in che luogo della casa e in che modo. Regolarmente capitava che il giorno dopo queste sue avventure Pietro odiasse visceralmente la ragazzina che si era portato in casa, che la considerasse inutile, come uno qualsiasi degli scarafaggi che schiacciava in giardino, quando durante l’estate andava a slegare la bicicletta. Però durante il loro rapporto, fulmineo e intenso, durato una sola notte, Pietro provava una sorta di amore per loro: esperte o verginelle, grasse o magre, ingenue o ignoranti, alte, basse, grasse o magre che fossero, dal bel viso o dai seni morbidi, durante gli amplessi le amava di un amore sincero, anche se estemporaneo come quelle serate. Poi, però a un certo punto della sua vita, le sue sortite mensili cessarono improvvisamente. Le sue giornate divennero lente e si colorarono del tetro colore della malinconia e della noia. Il suo lavoro, che aveva sempre amato, divenne insignificante. Arrivò a odiare la sua casa, quella mansarda in Isola che aveva ospitato più di un centinaio di avventure fantastiche e in cui aveva vissuto i dieci anni più felici della sua vita. Il peggio fu che capì di odiarla proprio per tutti i ricordi che conteneva.

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C’era una macchietta sopra il calorifero, per esempio, che gli ricordava il sorriso un po’ ebete di una Claudia, marzo del 1999. Il graffio che tagliava longitudinalmente la terza piastrella del pavimento del bagno, contata a partire dalla porta, gli ricordava la voce calda di una Giulia, giugno 2001. Tra il lavandino della cucina e lo scolatoio, una piccola fessura si era aperta nel legno nel giugno 2003 e li era rimasta, insieme al ricordo delle chiappe pesanti di Federica, il cui peso aveva contribuito a crearla. Nel maggio del 2007, una devastante e incredibile grandinata tatuò nella sua mente e sul terrazzino il ricordo indelebile di Erika, dei suoi riccioli neri e del suo corpo mozzafiato. Non ricordava più il titolo del secondo libro a partire da sinistra della penultima fila della libreria vicino alla finestra, che una certa Elena aveva messo a posto girato con la costa in dentro nel settembre 2009, in compenso ricordava perfettamente le sue mani allungate e nodose che ne sfogliavano le pagine lentamente. L’angolo destro dello stipite della porta della cucina era scheggiato, era il dicembre del 2011 e la proprietaria dei denti che lo avevano intaccato si chiamava Silvia. A un certo punto Pietro non ne poté più, ogni dettaglio di quella casa maledetta gli riportava alla mente il ricordo di una delle sue avventure, tagliente come solo i ricordi di qualcosa che è passato e non tornerà più sanno essere. Era diventato vecchio, gli anni era trascorsi, una dozzina di nomi dopo l’altra si erano accumulati a pesare sulla sua memoria e a ricordargli l’esatta distanza che lo separava dalla vita. Una sera, infine, Pietro si sdraiò per terra, stremato, affranto da tutti quei ricordi. Il suo sguardo si fermò su un punto del soffitto apparentemente irraggiungibile in cui si vedevano nitidamente le impronte lasciate per sfregamento, pressione e sudore dalle mani di Marla nel dicembre 2000. Sul viso gli si disegnò un magnifico sorriso.

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R O S S O di Michele Turazzi illustrato da Giulia Sagramola

Rosso lo sa che da qualche parte c’è il mare. E se chiude gli occhi e fa qualche respiro profondo può anche sentire il rumore dell’acqua che muore sulla sabbia. A lui però non interessa, lui cammina in mezzo agli alberi. La pineta è umida alle undici meno un quarto della notte di ferragosto. Quando Rosso ha legato insieme tre lenzuoli bianchi, in modo da formare una corda e ne ha fissata un’estremità alle gambe del letto, gettando l’altra al di fuori della finestra, non credeva che potesse essere così facile scappare di casa. Eppure ha visto milioni di volte Lupin usare lo stesso trucchetto, ma quello è il ladro più famoso del mondo, mentre lui soltanto un bambino; davvero non credeva che sarebbe riuscito a imitarlo. Un po’ ha avuto paura quando si è trovato da solo sul cornicione del terrazzo, pronto a gettarsi nel vuoto. Poi però ha guardato giù e ha visto un grosso cespuglio tondeggiante e se l’è immaginato morbido. Anche se cado, non mi farò troppo male, ha pensato Rosso. La cosa, in realtà, non era poi così vera, ma Rosso non ha avuto modo di scoprirlo. Ha fatto come Lupin e si è calato giù dalla finestra. Rosso non vuole raggiungere la spiaggia. È la notte di ferragosto e sulla spiaggia si ammassano i turisti con il loro esercito di passeggini per vedere i fuochi d’artificio. Là ci sono anche tutti i ragazzini di città, quelli che rimpolpano la costa per quindici giorni l’anno e si comportano come se il paese fosse loro da sempre; se ne stanno in giro sulle loro biciclette perfette che tengono rinchiuse tutto l’anno negli sgabuzzini delle case-vacanza e riesumano soltanto per lo sfoggio estivo. Loro però non lo sanno che il posto migliore per vedere i fuochi non è mica la spiaggia. È la duna della Castagna. Non sanno neppure che esiste quella duna, talmente è nascosta nel mezzo della pineta, lontana dalle stradine di ghiaia. Rosso è in ritardo. I fuochi iniziano alle undici e lui deve ancora attraversare più di metà bosco per arrivare alla duna. Si ritrova a maledire propria madre, gli ha fatto perdere un sacco di tempo. Sua mamma ha detto, No Rosso, quest’anno no. Ai fuochi non ci puoi andare. E Rosso allora l’ha guardata con due occhi grandi che erano indecisi se scoppiare a piangere o diventare furiosi. Lei non ha aggiunto nient’altro a quella frase, perché la giustificazione le sembrava talmente ovvia da risultare ridondante. Rosso però non era dello stesso avviso, dopotutto era estate e lui i fuochi voleva vederli. E voleva pure incontrare gli amici di sempre, ché era da più di un mese che non li beccava e una cosa del genere non era mai successa. Sulla duna c’è Zuto, che da tre anni consecutivi finisce l’album Panini, e Gian, che ha la mira migliore di tutti quando si arrampica sul tetto dell’albergo del centro e sputa giù cercando di colpire i turisti a passeggio. E pure Nino, tutto bassettino, ma una scheggia in sella alla bici. Sulla duna della Castagna ci sono tutti. Nel punto in cui la stradina di ghiaia si biforca per raggiungere da una parte il mare e dall’altra il campeggio dei tedeschi, Rosso è a metà tragitto. Il percorso che gli manca è il più diffi-

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cile perché le luci dei lampioni svaniscono e la strada prosegue non battuta in mezzo al bosco. La salita non è ripida, ma costante. Rosso dà un’occhiata all’orologio e poi si mette a correre; non vuole perdere l’inizio dei fuochi. Quei due colpi sparati uno di seguito all’altro senza alcuna coreografia che vogliono dire soltanto, Alzate lo sguardo ché inizia lo show, perdere quei due colpi era un po’ come perdersi una parte fondamentale del tutto. Sono quelli di città ad accontentarsi dei fuochi più colorati e vistosi, loro di paese lo sanno che soltanto dopo aver seguito l’intero spettacolo, dai due fuochi iniziali ai tre colpi morti che ne preannunciano la fine, è possibile capirci qualcosa. Solo così loro, piccoli spettatori, possono raggiungere l’autorevolezza necessaria – proprio perché hanno una conoscenza complessiva dell’intero spettacolo – per commentare quel che hanno visto e confrontare i fuochi appena passati con quelli dell’anno prima e con quelli dell’estate precedente ancora. È questa discussione a costituire la reale essenza del ferragosto. Rosso non può arrivare in ritardo. La mamma di Rosso quel mattino si è svegliata agitata. Suo figlio non avrebbe mai accettato di saltare la duna della Castagna. Ma non c’erano alternative, così andava fatto. Lei voleva convincerlo che sarebbe stato uguale guardare lo spettacolo da casa, che non era necessario andare in pineta. Avrebbe aperto le sdraio in terrazzo e portato fuori il tavolino di legno, e là avrebbero alzato insieme il viso sorseggiando qualche schifezza gassata. Era una prospettiva così terribile per Rosso? Poi ha accartocciato il lenzuolo che ancora la ricopriva e ha allungato un braccio verso l’altra metà del letto. Lei lo sapeva che non avrebbe trovato nessun corpo ad attenderla, ma l’ha fatto lo stesso. Il tessuto era freddo. Si è alzata in piedi, avvolta soltanto nella camicia da notte, e si è diretta in bagno. Mentre apriva un armadietto bianco, si è guardata allo specchio, soffermandosi sulle rughe grinzose che le contornavano gli occhi rendendole la pelle un poco bluastra. Ha preso un flaconcino e una bottiglietta di vetro. Con una siringa ha prelevato un po’ del contenuto della bottiglia, per poi sputarlo in un diffusore plasticoso, lo stesso in cui aveva già versato due pastiglie bianche. Poi ha collegato il diffusore ad un marchingegno elettrico e ha portato il tutto in camera di Rosso. Gli ha dato un bacio sulla fronte, sussurrando, Rosso è ora di alzarsi. Rosso sente il respiro farsi veloce. Decide allora di rallentare un poco; ormai conosce abbastanza il proprio corpo – o almeno così crede nell’ingenua arroganza che soltanto i ragazzini della sua età possono avere – da capire quando è ora di rallentare il ritmo. Cerca di concentrarsi su di un’immagine qualsiasi in modo da allontanare l’eterno ritorno del pensiero sui propri polmoni. Non ci riesce. Gli aghi rossastri che ricoprono il terreno sono scivolosi, nascosti dal sottobosco non sono riusciti ad asciugarsi del tutto dalla pioggia di due giorni fa. Ogni tanto Rosso scivola, ma non cade. Il bastardo – questo il vezzeggiativo con cui la madre di Rosso nomina il suo ex – ha preso il telefono in mano soltanto quando ha saputo che Rosso era ricoverato in ospedale. Chi glielo avesse detto, nessuno se l’è mai spiegato. Era da sei mesi che non si faceva sentire. Lei, quando ha capito che la voce all’altro capo del ricevitore apparteneva proprio a lui, si è limitata a dire, Brutto bastardo. Mara, non fare così. Voglio solo sapere come sta Rosso, ha risposto lui. Mara però ha buttato giù la cornetta, usando una forza spropositata per il piccolo movimento che doveva fare, come se fosse un’attrice su di un palcoscenico e dovesse compiere un gesto plateale

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per rendere palesi le proprie emozioni a tutti gli spettatori. Lei però era a casa da sola. Era appena tornata da lavoro e si stava sciacquando il viso, mentre aspettava che iniziasse l’orario per le visite in reparto. Il telefono ha squillato un’altra volta, ma Mara l’ha lasciato suonare. Da quel giorno il bastardo non l’ha più disturbata. Rosso sente un fischio sordo ogni volta che inspira. Mancano cinque minuti all’inizio dei fuochi e lui è ancora lontano. Il petto gli fa male, anche se non è un male continuo come quello che ha provato prima della crisi. È un dolore intermittente che segue il gonfiarsi e lo sgonfiarsi dei bronchi e gli rende difficile ogni movimento. Ora Rosso non corre più, ma continua ad avanzare a passo sostenuto. Segue quel tragitto non battuto che ha percorso così tante volte da poter camminare al buio senza timore di perdersi. Ora può scegliere se percorrere gli ultimi metri dalla parte ripida e scoscesa oppure prendere un piccolo sentiero che circumnaviga la duna e sale da nord, dove è più accessibile. Da quella parte si arriva anche alla scogliera del Pilar. È stato soltanto un paio di anni fa che Rosso si è tuffato da là per la prima volta; non che volesse davvero farlo, quell’altezza gli metteva le vertigini e poi non riusciva a capire perché dovesse essere divertente tuffarsi da lassù, quando poteva continuare a farlo dal molo del porto. Gian però aveva iniziato a dirgli Cacasotto, mentre Zuto e Nino ridevano attorno a lui. Rosso allora aveva chiuso gli occhi e si era lasciato cadere giù. Rosso sceglie la salita. La prima cosa che il dottor Ravelli ha guardato quel giorno è stato il collo di Mara. La pelle abbronzata, come lo sono tutte le pelli di quelli che vivono in riva al mare, e abbronzata di una doratura terrea, non di quel colore falso che si vede in televisione. Deve avere trentacinque anni, non di più, pensava il Ravelli, mentre il suo sguardo dal collo esile rapidamente saliva alle labbra, e ancora più su, verso gli occhi neri. Mara non riusciva a tenere ferma la gamba sinistra, che faceva tambureggiare il tacco scuro sul pavimento. Ogni tanto si mangiucchiava il labbro inferiore. È stato proprio quel movimento ad eccitare il dottore e a convincerlo che una notte con quella donna avrebbe giustificato almeno un mese di rimorsi coniugali. Prima però doveva essere professionale. Gesù sono davanti ad una madre distrutta dal dolore, si sforzava di pensare; e si diceva anche, Ravelli, sei un dottore per Dio – perché lui amava rivolgersi a se stesso per cognome –, ma ogni volta il suo sguardo cadeva su quel labbro. Purtroppo a suo figlio è stata diagnosticata una rara patologia polmonare, ha detto. Poi è stato zitto per qualche istante, in attesa di una domanda che non è arrivata. Non siamo riusciti a delineare con precisione le cause che hanno portato a questa improvvisa degenerazione dell’apparato respiratorio e, in tutta franchezza, per ora ci è difficile anche comprendere del tutto quali saranno le esatte conseguenze. Mara ha serrato i polsi. Quel che è sicuro, però, è che il peggio è passato. Suo figlio potrà uscire da qui; certo dovrà restare sotto costante osservazione e avrà un rigido programma di profilassi da seguire, ma sono sicuro che il peggio è passato. Il Ravelli, dopo quelle parole, ha accennato un sorriso, lasciando scoperti i denti bianchissimi; poi si è avvicinato a Mara allargando un poco le braccia. Lei però non si è fatta toccare, ha solo chiesto al dottore, Quando posso portarlo via da qui? Rosso è in ginocchio. È inciampato su di un ciottolo e non riesce ad alzarsi. Le braccia sono tese e le mani appoggiate sul terriccio serrano nei pugni una manciata di aghi. Guarda per terra

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con gli occhi spenti. Ora riesce a sentire soltanto il sibilo nei polmoni, il respiro cortissimo. Non che manchi molto alla cima della duna. Il cuore gli batte veloce; soltanto una volta l’ha sentito raggiungere questa intensità, il maledetto giorno prima del ricovero. Quel giorno è crollato a terra e tutto gli si è spento davanti. Era l’ora di ginnastica e nel mezzo della corsa lui è caduto giù, come le ancore di acciaio che i pescatori gettano in mare per non andare alla deriva. Lui l’aveva sentito quel fischio nei polmoni, aveva sentito il dolore accendersi e allargarsi per il petto, ma non voleva smettere di correre. Non voleva arrivare ancora una volta ultimo al traguardo. Essere coraggioso come Gian quando si tuffa dal Pilar, e forte a pallone come Nino e quelli della quinta bi; non essere costretto a giocare sempre in porta. Ora Rosso si sente stupido; bloccato a pochi passi dalla cima della duna. Rosso non si ricorda quasi nulla dei giorni in ospedale. Intontito com’era da calmanti e antistaminici, si sentiva sospeso in una dimensione astratta. Aveva un tubo di plastica che gli entrava in bocca e non lo faceva parlare. C’erano sempre delle mani di donna a palpargli la pelle e a volte quelle mani si libravano in aria e davano vita a strane geometrie, nodose come le cortecce di un albero. E poi c’erano i denti dell’uomo in camice bianco, denti orribilmente grossi e perfetti che si muovevano senza sosta. Quell’uomo non toccava mai Rosso, nemmeno lo sfiorava; si limitava ad osservarlo e a dire qualcosa di incomprensibile. Quell’uomo gli faceva paura, emanava un odore puzzolente di tessuti marciti, anche se la pelle e il corpo erano perfetti nella loro scolpita ergonomia; era da dentro che il puzzo veniva. Nella stanza c’erano altri quattro letti, ma sopra quei letti i volti dei bambini cambiavano continuamente; soltanto Rosso restava immobile. Era la notte il momento peggiore. Quando tutto era buio e lui sentiva i passi leggeri che si propagavano dal corridoio, passi trascinati dagli zoccoli ospedalieri, quell’insopportabile rumore. Rosso non riusciva nemmeno a girare il collo perché il tubo non gli consentiva alcun movimento e anche perché, forse, non aveva la forza necessaria per inviare l’ordine ai muscoli. Una spac-

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catura, una netta cesura tra il mondo dell’irrealtà e quello sporco, materiale. Rosso ci fluttuava in mezzo tra questi due mondi, incosciente. Le undici. Rosso lo sa che è questione di pochi secondi. È sempre stato così e lo sarà anche quest’anno. Con un movimento lento riesce a tornare eretto. Su due gambe il mondo sembra migliore. Lo stridio dei bronchi è incessante, ma Rosso riesce a isolare il dolore tra la carne, lasciando la mente se non propriamente libera, almeno in grado di collegare i pensieri tra loro. È con la forza della mente che fa il primo passo, e una volta fatto il primo anche gli altri vengono da sé. Gli ultimi metri, quelli in cui gli alberi hanno ormai lasciato il posto a solitari mucchi di erbacce, gli sembrano infiniti. Un sibilo in aria preannuncia lo scoppio del primo botto. Rosso si lascia cadere per terra. Prova a riordinare le idee mentre alza lo sguardo e sente il secondo botto; ora i fuochi iniziano davvero. Rosso ci metterebbe ancora un paio di minuti per raggiungere Gian e gli altri; loro stanno rivolti verso il mare, quindi sull’altro versante della duna. Rosso continua a guardare in cielo. I primi fuochi appaiono classici, quasi scolastici nella loro alternanza, ma è normale così; i primi minuti rappresentano poco più di un riscaldamento, un’amichevole di metà agosto tra due squadre blasonate. L’alternanza di argento e di rosso richiama i colori dello stemma del comune, mentre la velocità di esecuzione appare appena sufficiente. Rosso ormai non può muoversi. Lo spettacolo è iniziato e lui, in fin dei conti, è qui per questo; gli altri si aspettano da lui un’esegesi dettagliata e per incontrarli ci sarà sempre tempo, mentre i fuochi sono ora e qui. Perderli significherebbe buttare un anno nel cesso. È con fatica che riesce a mantenere il collo teso verso il cielo, perché il busto, sballottato dal cuore tachicardico, è scosso da colpi improvvisi. Il secondo lotto di fuochi alza il tiro, propagandosi per una porzione di cielo maggiore, creando fantasie meno convenzionali, ma in fin dei conti perfettamente in linea con il prologo dell’anno scorso. Rosso non sente più il fischio stridulo dei bronchi perché il suono è coperto dalle detonazioni, ma lui lo capisce che il male è ancora là; dentro la sua gabbia toracica, impiantato sotto pelle, corrode i tessuti muscolari nutrendosi di lipidi e flusso sanguigno. Lo sa, ma il terzo lotto esplode come un vero colpo di genio, collegandosi magnificamente con il preludio di stampo tradizionale, giustificandolo e sublimandolo in una giostra di luci e di suoni che strizzano l’occhio alle tonalità del mare. Ora capisce Rosso. Nulla potrà succedergli finché ci sono i fuochi nel cielo, i polmoni non collasseranno, il cuore non esploderà, vedrà lo spettacolo fino alla fine e non penserà ad altro; le luci nel cielo. Quel che accadrà dopo, ecco lui proprio non lo sa.

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LETTERA

AL

MARCHESE

di Alessandro Ansuini illustrato da Robbe

Parigi, 14 Luglio 1788 Carissima, avrei bisogno di pistole in numero di tre, pagamento alla consegna con l’aggiunta della serie di maschere asiatiche che le avevo promesso e non portato l’ultima volta, mi permetta di offenderla con questo dono che non compensa minimamente il servigio che lei offre a noi tutti, anche adesso, che la immagino sdraiata a testa in giù sul letto come un pipistrello; avrei bisogno di pistole in numero tre, una, per ogni indugiante e caramellosa bimbetta che avrò la cura di allestire con così tanta parsimonia dentro di me, la pistola in questo caso offrirà un servigio diverso da quelli che lei di solito coopta per i suoi avventori, immagino ometti calvi e tipi ossuti dallo sgargiante abbigliamento che tossiscono dentro a fazzoletti con le loro iniziali ricamate a mano, bisognosi di metter fine a qualche tediosa situazione riguardante miseri scopi quali mancanza di denaro, eccesso di denaro, ne conviene, oppure l’onore e altre minuscole faccende riguardanti l’amore, la passione, l’invidia, lei mi comprende immagino, se la mia memoria non m’inganna lei da tempo è conscia che uno più uno dà sempre uno, non è così? Metta la testa diritta, che l’universo si gira da solo durante la notte e lei rischia di trovarsi dalla parte giusta senza averlo desiderato. Dicevamo pistole in numero di tre, e un fucile alimentato dal fulminato di mercurio di cui ho sentito prodigi che ne ridurrebbero in maniera drastica le cilecche, che potrò altresì adattare a scopi diversi prima d’adoperarlo come gli si conviene, scavatrice di profondità, apportatore di luce in posti dove luce non esiste. Mi piacerebbe un giorno invitarla ad assistere ad uno dei numerosi banchetti che io e la mia consorte siamo soliti tenere in casa nostra e non dubito che lei si sappia presentare con la grazia con cui l’uccello del paradiso mima facce invisibili col suo piumaggio per adescare la femmina, o le estenuanti carezze dell’octopus che paiono mimare l’estasi delle onde, col loro ottuso infinito andirvieni. Mi scusi se mi permetto queste divagazioni, ma il regno animale sortisce un notevole fascino su di me, che sono altresì conscio che non ci sia depravazione maggiore che di sottrarsi ciò a cui si tende. Bloccare lo spasmo, inficiare la causa, ogni bellezza nasce da una scelta, ogni inizio è già una fine, bocche senza fame, tremenda mancanza di ciò che non si possiede, di ciò che non si desidera. Pensa che non sappia che non è prendendo che si ottiene? Torture, sevizie, stupri, incesti e altre oscenità sono mezzi per mimare la copula di dio col mondo. Teatro dell’estasi per utopisti mancati. Aspirare a dio è gioco da scimmie. Esserlo è più facile che dimenticarselo. Guardi lì fuori quanti uomini gridano alla rivolta. Li guardi, i loro figli sono seviziati, a loro stessi vengono strappati i denti e le unghie ogni giorno, non vedono l’ora di arrecare il perpetuo danno, capovolgere il tappeto, e sdraiarsi dalla parte opposta. Ora anche lei può sdraiarsi nuovamente a testa in giù. Il mondo si sta capovolgendo proprio in questo momento, mentre viene buio. Lo sa che al Polo Nord il sole non si abbassa

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ma oscilla come una mano desiderosa di toccare qualcosa che non sfiorerà mai? Per sei mesi l’anno. Lentezza e velocità sono denti di una stessa bocca. In realtà, è rimanendo fermi che si arriva alla trasformazione assoluta, che si sfiora la metamorfosi. Un secondo di perfettissimo silenzio potrebbe aprirle la testa in due. Necessito di pistole in numero di tre, (e di un fucile alimentato dal fulminato di mercurio) una per ogni bimbetta caramellosa con la quale esplorerò gli atti pratici del divenire una stucchevole divinità. Il tragico è la consapevolezza della farsa, il ghigno della maschera veneziana, poiché noi non siamo nemmeno qui, nessuna mano divaricatrice dalle punte metalliche ha mai tirato fuori nulla oltre la nostra immaginazione. Non mi parli del dolore per favore, lo esprima. Non compia un atto osceno, lo divenga. Certamente vendere pistole è un’arte onorevole, ma a me sembra che lei ancora non si manchi abbastanza, poiché si desidera. Desidera essere la venditrice di pistole, dicono che indossi guanti di pizzo e minuziosissime veline per coprire i suoi abissi, ho sentito dire di partite intere d’armi consegnate da lei avvolte in contenitori dalle stravaganti fattezze quali scheletri di animali o preziosi manufatti in avorio o legno indiano. Lei, mi permetta, ha la presunzione della bellezza e il peccato dell’eleganza, ha, come dire, già cominciato a piagnucolare prima di nascere, quando bisognerebbe fare un passo prima della scelta e vedere che si ha bisogno esattamente di tre pistole, e di non usarle, per evidenziare l’infinita distanza fra un atto e il suo compimento – mentre finisco di scrivere questi dialoghi destinati all’educazione delle giovani fanciulle le scrivo e la immagino, estemporanea, addirittura violetta nell’ora mediocre, genuflessa sul limitare del letto, le braccia ali di colomba, le mani divaricatici dalle punte metalliche – ripassare verso sera la venditrice non c’è, tornare durante la notte la venditrice sta rappezzando i buchi nelle pagine leccandoci addosso organi per tenere insieme le parti – ma questo si chiama “vedere attraverso” e, ne convengo, si dovrebbe quantomeno rispettare la sua caparbietà; a proposito, sento parlare malissimo di lei in fila per il pane o mentre due ragazzine confabulano in un angolo dopo essere state redarguite indugiando e maledicendo l’autorità con il sorriso sulle labbra – ragazzine di pioggia, scatole sepolte dentro al giardino, verranno da lei a chiedere il fulmine dentro il quale specchiarsi, la voce del tuono, non si usa chiamare così adesso il baluginante ringhiare delle armi? Lei è così voluttuosamente separata dall’opinione pubblica da render pazienza e una viscosa colla unta ogni rapporto orale o scritto con la sua fabbrica di uragani e intemperie da meritare il mio assoluto rispetto e la mia profondissima stima, oltre alla conferma dell’ordine di pistole in numero di tre e di un fucile alimentato dal fulminato di mercurio. Al tempo stesso caramente, internamente, carnalmente la saluto rendendo questa nostra separazione un ostacolo immenso al più cieco e idiota, e dunque più puro, dio in circolazione. Sarà mia cura inviare un messo di fiducia che avrà l’impegno di ritirare per mio conto i preziosi orpelli che intendo adoperare ovviamente senza usarli, per il compimento di questa mia iniziativa volta alla sperimentazione e conseguente descrizione del “come si diventa un dio attraverso il corpo”, manualetto volto alla diseducazione dall’ordine morale, che ho intenzione di far girare per i salotti di Francia per il semplice intento di farmi parlar addosso, possibilmente male, da chiunque ancora non si sia lasciato andare alle più naturali e per questo disumane virtù. D’altronde, per diventare veri repubblicani bisogna prima immaginarlo.

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Nell’attesa di non vederla mai, mia sublime, caldamente le raccomando puntualità nell’esecuzione dell’ordine, esortandola, almeno lei, a non cercare dio né nella carne né nello spirito: insultarlo o baciarlo sono espressioni della stessa schiavitù, ma semplicemente, con la caparbietà che le ho riconosciuta – a dimenticarlo giorno dopo giorno, ora dopo ora, fino a renderlo con questa minuziosa opera di diseducazione totalmente indifferente, per arrivare al fine ultimo, farlo scomparire alla coscienza: quando esso sarà totalmente scomparso, non pensato, non ricordato, non immaginato, non desiderato, non insultato, noi non sapremo di lui e in quel momento preciso avremo la sua esatta percezione, vedremo come lui vede noi, e potremo così ottenere ciò che ci è precluso, e che invece è così preciso e netto in ogni altro animale ad eccezione dell’uomo: l’ignoranza. Conoscenza suprema e assoluta di tutte le cose. Per sempre suo, approdo mancato, in corpo e carne. Donatien-Alphonse-François de Sade

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E COSÌ RICOMINCIAMO A PARLARE di Alessandro Busi illustrato da Dario Molinaro

La prima cosa che vedo, quando arrivo al locale indicatomi al momento dell'iscrizione, è la disposizione dei tavoli: a ferro di cavallo. Sul lato libero della sala c'è il bancone in finto mogano con una cinquantina di flut di prosecco e alcuni vassoi di stuzzichini. Dietro il bancone un barista guarda una lista, sorride e mi dice, Ciao Michele, serviti pure, con accento toscano. Prima di iniziare conosco Luigi, un altro partecipante del mio gruppo 25-35, un ragazzo di trent'anni che fa l'operaio in un'acciaieria in provincia e si lampada una volta a settimana, d'inverno, che altrimenti sembra malato, dice. Dopo le presentazioni Luigi mi chiede se è il primo speed date che faccio e gli rispondo di sì. Lui, invece è un abituè, non se ne perde uno di quelli nelle vicinanze, perché sono serate divertenti, piacevoli e dove magari si rimedia pure qualcosa, comunque diverse dal solito. A dire il vero, mi confessa subito, io non ho mai combinato nulla, ma tentar non nuoce, no? Inizia a ridere e si mette una tartina al lompo tutta in bocca, pulendosi le labbra con un piccolo tovagliolo nero di carta. Con un eloquente gesto della mano mi fa segno che è squisita e mi sprona a provarne una ma gli dico che proprio non ho fame. Oh, io vado in bagno, che fra poco iniziamo, mi dice strizzando l'occhio e dandomi una pacca sulla spalla. Mentre Luigi è al bagno mi appoggio al bancone e riguardo la sala. Uno degli organizzatori porta il gruppo 50-60 nella stanza accanto mentre alcune ragazze nostre sono già sedute e aspettano l'inizio: la due, la sette, la dieci e la tredici. La sei, invece, che è in assoluto quella vestita più provocante, sta in piedi vicino all'ingresso, dove si può fumare, e ha già molti ragazzi che le ronzano attorno. Il numero otto le sta letteralmente addosso e fa battute ad alta voce sulla sua bellezza che superano di volume la musica lounge messa dal dj. Nell'attesa rileggo il foglio di presentazione-e-voto che ci hanno lasciato. Vedo che, fra le concorrenti, ci sono sette segretarie, cinque commesse, due maestre e altre professioniste sparse. La numero due è un'avvocatessa. La numero dieci è disoccupata. La numero sette è una studentessa. Alle venti esatte suona la campanella e tutti si siedono. Io mi accomodo davanti alla numero tredici. Carolina indossa un maglioncino cardigan rosa e sorride con fatica, timidamente e arrossendo. Ha il post it con il numero tredici scritto a pennarello attaccato sopra il seno destro, coperto da una canottiera color panna. Dice che, a trentatré anni - non si vergogna a dire la sua età, sottolinea -, vive ancora a casa perché ha incontrato solo stronzi, ma appena trova l'uomo giusto se ne va. Lascia lì i suoi genitori e se ne va a vivere lontano, ovunque lavori lui.

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Certo, lontano, ma non troppo, però, precisa, sorridendo in un sorriso pieno di pietà umana, perché è vero che i miei genitori mi soffocano, però gli voglio un mondo di bene. Io la guardo e annuisco. Se potessi mi alzerei e la saluterei. Se potessi le augurerei buona fortuna per tutto, precisando che, certamente, non sono io la persona che può dare una svolta alla sua vita. Forse, Carolina, le direi, non ti conviene nemmeno che vai agli speed date a cercare quel tipo di uomo, sai? Immagino che le direi questo, ma non so, perché invece sto fermo e la ascolto e, più per immaginazione che per raffinatezza di udito, sento il ticchettio dell'orologio che scandisce i secondi. Carolina mi spiega della felicità di sua madre il giorno che le aveva detto che avrebbe iniziato a lavorare nella scuola materna del suo paese. Dice che i bambini con lei sono sempre allegri, perché lei con loro è felice. Certo, precisa, arrivi a sera che sei sfinita, però come fai a non amarli quei piccolini? A questo punto capisco che la sua storia è finita. La sua timidezza, la sua famiglia, il suo lavoro, il suo marito desiderato, i bambini. I pilastri del suo nucleo identitario di ragazza per bene, gentile, responsabile, semplice e innocente, me li ha snocciolati in due minuti e quarantacinque secondi. Capisco all'istante che devo rispondere qualcosa di veloce, che preceda la richiesta, ma invece raccontami un po' di te. Mentre deglutisco un sorso di prosecco mantengo il sorriso. Certo, sono proprio un amore, dico annuendo, pensa che anche mia nonna mi diceva sempre, studia, così poi puoi diventare, o prete, o dottore. Finisco la frase ridendo. Allargo le braccia e spalanco gli occhi, come a dire, assurdo no?, e così anche lei ride, seppure presumo non le sia ben chiaro perché le abbia detto quella frase. Eh sì, una volta era così, si sente solo di aggiungere. A questo punto la campanella, suonata da uno degli organizzatori in camicia bianca e rasato a zero, risuona in tutta la sala, e la nostra comunicazione si interrompe. Lei rimane seduta e mi saluta dandomi la mano. Ha una stretta morbida ma non sudata. Io le dico che è stato un piacere conoscerla, che magari ci rivedremo. Le sorrido. Lei arrossisce e mi risponde, speriamo. Mentre mi muovo verso la numero quattordici rilancio uno sguardo indietro. Anche Carolina, come me, non ha preso in mano il foglio per mettere la croce sulla casella mi piace. Dubito che ci rivedremo, penso. La numero quattordici mi guarda e sorride. Ha il mento pronunciato e le palpebre superiori che le tagliano a metà la pupilla. Quando vede che mi avvicino, prima di darmi la mano, se la asciuga nel lungo vestito grigio fumo. La numero diciotto si chiama Luisella e ha i capelli ricci castani, ha un sorriso radioso e una stretta di mano forte. Mi chiede se voglio fare la versione mi piace, ma le rispondo che già la sedici me l'aveva fatta fare ma a iniziare tutte le frasi con mi piace si finisce che si parla solo di sesso e poi non ci si conosce. Quando sente così, sorride e mi dice, allora hai fatto qualche minuto spinto stasera. Io le rispondo di sì. Le rispondo che quella ragazza si era effettivamente molto aperta, ma

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che mi aveva anche un po' messo in imbarazzo. Invece dimmi di te, la incalzo, prevenendo la stessa domanda nei miei confronti. Lei, inizialmente, dice che è in imbarazzo a parlare davanti ad uno psicologo e mi chiede di non psicanalizzarla. Io sorrido e le rispondo che non è proprio mia intenzione. Invece di spiegarle il perché io non psicoanalizzi, invece di spiegarle il mio rifiuto dell'essenza religiosa della teoria freudiana, le dico, non sono mica al lavoro, e aggiungo, siamo qui tutti per divertirci, no? Lei si tranquillizza e inizia a raccontarsi. Mi dice che fa la segretaria da un commercialista, che è il lavoro per cui ha studiato, e che, se mi servisse mai una consulenza, sarebbe felice di darmela. Mi spiega che, anche se mi sembrerà stupido, lei registra tutti i giorni la puntata di Uomini e Donne e alla sera, durante la cena, nella sua casa per la quale sta pagando un mutuo trentennale e dove vive da sola, la guarda. Dice che le sue puntate preferite sono quelle in cui ci sono gli anziani. Fanno troppo ridere, aggiunge, secondo me piacerebbero anche a un tipo psicologo serioso come te. Si interrompe, sorride e beve un sorso di Martini con oliva. Certo, magari piacerebbero anche a me, le rispondo, ma perché dici che fanno ridere? Lei sorride di nuovo e inspira.

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Fammi pensare, prende tempo, che pignolo che sei. Io la guardo e prendo il bicchiere in mano. Penso che l'ironia venga dal fatto che questi vecchi sono trattati come orsi che vanno su un mono-ciclo, sono fuori posto. Si esprimono con un linguaggio non loro. Parlano di cose non loro. Si mostrano dissonanti rispetto alla comune idea stereotipata di anziano buono, asessuato e rincoglionito, e così la confermano, e così si ridicolizzano. Alla fine dice che non sa, che fanno ridere perché sono strani. Prendi Rosetta, dice, parla di sesso, dice le parolacce. Insomma, è ben strano per una della sua età, no? Io inizio a ridere e le rispondo che, effettivamente deve avere un effetto, strano, vedere queste scene, poi, però, suona la campanella e la nostra comunicazione si interrompe. Anche stavolta, mentre mi dirigo verso la numero diciannove, lancio un'occhiata indietro per vedere se Luisella ha messo la X sul mi piace. Mi pare di no, penso e sorrido alla mia prossima interlocutrice. Alle ventuno e tredici minuti sto seduto davanti a Marta, la numero otto. Siamo alla fine del nostro primo minuto di conversazione. La musica rimane soffusa, così come le luci, e lei mi racconta del suo ex con il quale si è lasciata dopo sei anni di storia. Dice che aver scoperto che lui la tradiva, per lei, è stata come una sveglia, una sveglia che le ha fatto capire del tempo perso. E quindi eccomi qui, sorride in una sorta di squittio. Io le rispondo che, allora, è proprio vero che non tutto il male vien per nuocere e, assieme, ridiamo e beviamo. D'un tratto, l'atmosfera calda, rilassante ed eccitata al contempo si frantuma contro un suono stridulo, accompagnato da una folata d'aria fredda. Tutte le conversazioni si interrompono e tutte le teste si voltano a guardare verso la porta. Sono entrate due persone, un uomo e una donna sui sessanta, e si guardano spaesate. L'uomo, alto e magro, veste un impermeabile grigio, un paio di pantaloni marroni di fustagno e un paio di Clark zuppe di pioggia. Il suo volto pare allungato e alle guance sembra che sia stato attaccato un peso che le ha fatte scendere, colare verso il basso. La donna, anche lei alta ma visibilmente in carne, indossa un cappotto nero, un paio di calzamaglie color carne e un paio di scarpe da ginnastica nere. Lei indossa anche un berretto di maglia, verde, con un fiore spillato sopra, bianco e rosa. Davanti a loro portano un carrello basso di legno, spinto come se fosse una carrozzina, dentro il quale c'è un cane bastardino, con il pelo corto e bagnato, e con le orecchie basse, con l'espressione affranta e la postura di chi non ha speranze per il futuro, ma rimane in attesa, il cane. Nel vederli, l'organizzatore abbronzato addetto alla campanella scende dal suo trono e chiede loro cosa desiderino, specificando che è un evento privato, specificando, con un marcato tono ironico, che non è un evento aperto proprio a tutti. Dai tavoli si alza qualche risata isolata e subito soffocata. Ah, non sapevamo, risponde l'uomo, quasi mortificato, scusate il disturbo, è che avevamo visto che era aperto, allora siamo entrati. La donna accanto fa una veloce carrellata di noi presenti con lo sguardo e poi abbassa la

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testa. Gira la carrozzina per il cane verso l'uscita. Pensavamo fosse aperto, ripete imbarazzato lui prima di voltarsi e mettere una mano sulla spalla della compagna. Come erano entrati, cosĂŹ escono, con il rumore stridulo della porta e con una folata di vento freddo che attraversa la sala. L'organizzatore fa segno con le mani che erano due svitati e tutti ridono, io compreso. Torna a sedersi sul suo trono. Al mio suono ripartiamo con i tre minuti, grida per farsi sentire, tre due uno, via. E cosĂŹ ricominciamo a parlare.

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I L

L A T R I N A I O di Diego Fontana illustrato da Emanuele Giacopetti

I. La latrina di Babele. Primo: appoggiare il proprio culo su una sedia malconcia, uscita (non indenne) da una scuola elementare degli anni sessanta. Secondo: aprire un quotidiano vecchio di almeno due giorni, o una qualsivoglia rivista di costume, e piantare gli occhi dentro le pagine gialle e gonfie di umidità, dimostrandosi vagamente assorti. Terzo: di tanto in tanto sollevare lo sguardo e ficcarlo ben dentro le pupille dei clienti, assicurandosi che tuffino la sacrosanta moneta nel piattino delle offerte, esattamente come in un edificante rito cattolico, badando però di non mutare la propria inesorabile maschera di indolenza. Valutando con mente serena i semplici comandamenti che governano le mie giornate, si deve convenire che il mio lavoro di latrinaio all’Autogrill non è poi così male. Ha dei lati negativi, questo è innegabile. Il momento peggiore consiste ovviamente nel turno di pulizia e sostituzione carta igienica all’interno degli orinatoi, ma non pensiate che questa attività non nasconda parentesi divertenti. Ogni giorno, all’interno di quegli spazi minimi, prolifera con sorprendente fertilità una vivacissima produzione letteraria di imprecazioni, improperi, invettive di ogni sorta, costellate poi da numeri di telefono, nominativi e avvisi tra i più improbabili e creativi che ingegno umano abbia mai partorito. Del resto ho sempre trovato indicativa la sospetta similitudine che sussiste tra il termine cultura e il vocabolo volgare per “fondoschiena”: non è curioso che secondo le statistiche sia proprio il gabinetto, uno dei luoghi dove si trascorre il maggior numero di ore leggendo? Spesso mi accade di appuntare su un taccuino gli spunti che trovo più brillanti o curiosi: citerò qui, a memoria, un irripetibile “Dio esiste. L’ho sentito abbaiare”, a cui fa eco un “Ossama, ‘ndo cazzo sei?”. Proprio l’altra sera ho trascritto fedelmente un contorto eppure ammirevole pensiero: “Ieri ho detto che il solipsismo ci rende uniti”. Interessanti sono anche, in quest’epoca di interattività imperante, gli interventi letterari che richiedono una partecipazione attiva del lettore. Mi sono imbattuto ad esempio, straccio nella mano destra e detergente in quella sinistra, in questo interessante quesito tracciato con indelebile nero sull’intonaco oltre le piastrelle: “Ami la marijuana?”. Sotto la domanda campeggiavano la colonna del sì e quella del no, e diversi utenti dell’orinatoio avevano già apposto le rispettive preferenze; non me la sono proprio sentita di cancellare quel mirabile intervento. Ma la punta di diamante, l’esempio più alto e rappresentativo di quella che potremmo definire “letteratura da latrina” trovo provenga da un puro atto di meta-vandalismo. Incisa a temperino sul laminato arancione della porta di un gabinetto, ho notato una nebbiosa mattina di novembre la proposizione: “Chi è contro il vandalismo incida una croce qui sotto”. Non sono certo di possedere gli adeguati strumenti retorici per commentare un atto creativo di tale portata, ma ne intuisco tutta la magnificenza: un atto vandalico che chiede al lettore altro vandalismo. Ma la mente che lo ha partorito non si contenta di questo: a ben guardare infatti, l’atto vandalico di incidere una croce, è richiesto solo nel caso si sia contrari al vandalismo. Si genera dunque un portentoso cortocircuito, degno dei celebrati paradossi di Zenone. In quel caso, lungi dal compiere il mio dovere di latrinaio, mi sono ben guardato dal segnalare il problema della porta in direzione e, anzi, ho inciso io stesso la mia brava croce.

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II. Assbook. E dopo averne analizzato il lato letterario, soffermiamoci ora sul valore sociale della latrina. Dicevamo infatti dei numeri, che decorano i gabinetti e fioriscono sulle pareti quanto e più delle fantasiose imprecazioni di cui sopra. Prima dell’avvento di Facebook, prima anzi della chat, dell’e-mail e prima ancora che l’intera Internet venisse concepita, la Latrina, e in special modo quella dell’Autogrill, si è configurata spontaneamente come luogo adibito a vero e proprio social-network. Sembrerebbe quasi che le faccende corporali siano un pretesto, e che l’autentica ragion d’essere della Latrina dell’Autogrill vada ricercata proprio nella sua funzione di bacheca per incontri e appuntamenti. Non mi stupirei se scoprissi un giorno che Mark Zuckerberg, il leggendario inventore di facebook, abbia partorito la sua visionaria idea proprio durante un’orinazione all’interno di un gabinetto dell’Autogrill. Certo, non è precisamente la faccia la caratteristica che viene messa in evidenza per aumentare la propria socialità nei locali della latrina, e dunque più che Facebook, si potrebbe proporre di definirla “Assbook”, ma questi sono formalismi che interessano solo relativamente; quello che importa è la brulicante cornucopia di contatti telefonici, completi di nomi, nomignoli e commenti che si possono trovare esposti. E non solo: alle volte sono indicate le prestazioni che si possono ottenere, complete di preferenze o misure, e persino degli orari in cui è preferibile chiamare. Non troverei strano imbattermi in un evento, una nota, un gruppo o persino una fan page. Sono convinto, anzi, che prima o poi troveranno il modo di applicare anche i video sulle pareti dei gabinetti! Qualche volta, lo ammetto, quando mi capita il turno da solo, mi diverto a telefonare ai contatti più curiosi. L’altra sera ho passato un’ora a dissertare amabilmente di cucina etnica con una certa Samantah, che si era premurata di aggiungere sotto al numero di cellulare: “Vietato ai minori di 18. Centimetri, non anni”. Mi piace anche modificare i nomi, trasformando in A qualche O e viceversa, in modo che chi è convinto di telefonare alla sensuale Franca, si trovi invece a dover fare i conti con la voce roca e burbera di Franco il camionista. Qualche volta mi sono divertito a scarabocchiare tra i numeri anche quello di certi colleghi un po’ soli, un po’ sconsolati magari. E una volta, dopo un’ingiusta lavata di capo subita dal gestore dell’Autogrill, così cieco e privo di poesia da non capire il valore artistico di una certa incisione mai segnalata sulla porta di un gabinetto quasi nuova, ho infilato anche il suo nome e il suo numero tra le schiere di “bei maschioni pronti a tutto”. Non ho mai saputo se sia stato contattato oppure no, ma qualcosa mi fa propendere per il sì: non si è mai più lamentato dello stato in cui versa la Latrina, e da qualche tempo appare più sorridente che mai. III. La tazza del Graal. Dirò inoltre che la posizione del latrinaio da Autogrill è di sicuro privilegio anche per chi abbia un minimo di curiosità per le discipline dell’antropologia. Non c’è luogo sulla terra frequentato da una popolazione tanto eterogenea dal punto di vista culturale, sociale, politico ed economico: a chiunque si metta in viaggio, prima o poi, accade di doversi fermare per un bisogno. Dirò di più, la posizione del latrinaio consente di realizzare l’utopia delle utopie, permettendo ciò che nessun’altra posizione permette: l’osservazione pura, la possibilità di osservare il sistema senza in alcun modo interferire con esso. Il latrinaio, quasi fosse un immancabile elemento d’arredo dei locali predisposti all’orinazione, non viene minimamente notato dagli sguardi fugaci degli utenti, che anzi, si accorgerebbero presumibilmente con maggior facilità di

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una sua eventuale assenza, proprio come accade per quelle vecchie carte da parati sdrucite che ricoprono ancora, inosservate, certe antiche stanze, e di cui oramai saltano agli occhi soltanto i lembi strappati e cenciosi. Di persone ne ho viste passare a migliaia, e dichiaro con un certo orgoglio che oramai riesco a stabilire con una precisione pressoché infallibile il tipo di bisogno che l’utente dovrà compiere, basandomi esclusivamente sul ritmo del suo passo. Ho notato inoltre che statisticamente chi indossa un abbigliamento sportivo si lava le mani dopo il bisogno con più costanza di chi veste elegante. E tra chi si lava le mani, circa la metà di chi indossa una cravatta, se le asciuga direttamente sui pantaloni dileguandosi in fretta, senza utilizzare gli appositi asciugatori. Tra i numerosi casi che ho notato, uno su tutti mi lascia ancora perplesso. Successe alcuni anni fa e riguarda un uomo tra i quaranta e i quarantacinque anni, che verosimilmente ne avrebbe potuti avere quarantadue: sarebbe passato del tutto inosservato, se non si fosse recato all’interno di un gabinetto con una noce, una fetta di prosciutto e un vasetto di vetro contenente, a giudicare dal colore, pepe. Quando uscì, non potei fare a meno di soffermare la mia attenzione su di lui: tra le mani reggeva inspiegabilmente uno strano oggetto in tutto e per tutto simile a una noce di cocco. Non riuscii proprio a spiegarmi cosa fosse, fino a quando un giorno, per la prima volta in vita mia, mi imbattei nel reparto salumi dell’Autorgrill in uno strano e misterioso oggetto identico a quello con cui avevo visto l’uomo uscire dalla latrina: si trattava, secondo quanto riportato dall’etichetta, di una “noce di prosciutto al pepe”. Di lì a pochi mesi, le noci di prosciutto al pepe hanno invaso inesorabilmente ogni Autogrill della nazione. Ancora non so darmi una risposta certa, ma tutto mi porta a credere che la noce di prosciutto al pepe sia stata concepita proprio quel giorno, proprio da quell’uomo, proprio in quel gabinetto. È possibile, mi chiedo, che tra le parole, gli improperi, i numeri che ben mi guardo dal cancellare, sia celata una formula alchemica che permetta di ricomporre il tutto, partendo dalle sue parti? E che quella che appare come una comune tazza per soddisfare i propri bisogni sia in realtà la misteriosa coppa del Graal? Se la formula per creare la leggendaria pietra filosofale fosse nascosta lì, dove nessuno la cercherebbe mai? E se dietro la noce di prosciutto si celasse proprio la mistica pietra? Vado ora, che devo sostituire la carta igienica.

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C U B E T T I di Filippo Balestra illustrato da Marco ‘About’ Bevivino

Le mie, in quel periodo, erano giornate tristi. Quindi camminavo triste. Non solo per com’era andata con il cane e la nonna, non solo nemmeno per l’incrocio col rosso o le cose dell’avvocato. Non solo per quell’infermiera maldestra. Oltre a queste infelicità sparse, ero infelice anche per questioni mie, interne, che ad andarle a cercare diventavi ancor più infelice visto che si potevano facilmente trovare lì concrete, le questioni; sommersi là sotto si potevano trovare i motivi di un’infelicità che faceva da silenzioso sfondo al trascorrere delle giornate ma ancor di più si poteva facilmente notare quanto fosse sano e forte l’essersi affezionato a questa infelicità, così sano e forte che dimenticarsene, dimenticarsi dell’infelicità, avrebbe significato dimenticarsi di me stesso. Quindi camminavo triste, tenevo lo sguardo basso e facevo correre la mano lungo la ringhiera, una ringhiera a caso, sfiorandola a balzelli; ogni tanto alzavo la mano e ogni tanto la abbassavo fino tornare a contatto con la superficie dalla quale mi giungevano messaggi di conferma, di presenza, mia, nel mondo. Camminare in quel modo significava che non mi interessava dove stavo andando; significava semplicemente che, come al solito, non importava come stavo e dov’ero, se rinchiuso in una stanza lunga e stretta o se in corridoio o se diventato improvvisamente il cavallo da corsa dentro un ippodromo fermo. Non importava perché comunque, qualsiasi fosse stata la mia condizione, io camminavo, e le cose, tutt’intorno, continuavano. Camminavo, quindi, cammino. Finché per terra, nonostante lo sguardo teso all’oblio, trovo due giornate. Qualcuno deve averle dimenticate lì. Le guardo bene. Sono visibilmente giornate felici. Strano abbandonare due giornate felici a terra, così. Le prendo e me le porto a casa. Sì, qualcuno avrà da obiettare che le giornate non sono mica un oggetto, che tendenzialmente le giornate sono composte da tempo e che il tempo quindi non è che lo puoi trovare per terra come un leccalecca frantumato o le cicche di normali sigarette. La maggior parte delle persone avranno da obiettare, sì, e possiamo anche accettarla un'obiezione di questo tipo, che effettivamente è raro trovare le giornate per terra, così raro che uno potrebbe quasi, a volte, non crederci. Però lui, il protagonista, che sono io, sì, le ho trovate e sapete com’erano fatte? A forma di cubo. Due giornate: due cubetti abbastanza piccoli da stare in una mano. E me le sono portate a casa. Seduto sul divano ho cominciato a cercare di capire qual’era l’effetto che queste giornate mi stavano facendo ora che le avevo trovate. Erano due giornate felici, sì, quindi avrei dovuto in qual-

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che modo essere contento, eppure sapevo che non erano mie, che le avevo trovate, quindi in una certa maniera mi accorsi di essere piuttosto scocciato dalla presenza di queste due giornate felici non mie. In fondo avevo già di che pensare: c’erano in quest’ordine: il cane e la nonna, l’incrocio con il rosso, le cose dell’avvocato e l’infermiera maldestra. Il tutto con le questioni mie interne a fare da sfondo. A ben guardare, aver trovato due giornate felici di un’altra persona non mi rendeva affatto meno infelice ma, anzi, mi faceva innervosire. Aver trovato due giornate felici di un’altra persona contaminava la mia infelicità, che fino a quel momento era stata qualcosa di nobilmente distruttiva, e la sporcava con una punta di rabbia sincera, che a volte fa bene dicono, ma di cui preferivo liberarmi visti i precedenti con il cane e con l’avvocato. In un attimo mi sono deciso: missione: riportare le giornate a chi le ha perse. Vado quindi a casa sua e suono alla porta. Questo tizio ha perso due giornate felici e mi farà del bene dimostrarmi che sono così bravo e che addirittura mi sposto e salgo le scale interne dei palazzi e mi fermo davanti alla porta e suono il campanello per portare le cose perse alle persone. Non sono certo qui per una ricompensa da parte del tizio, ingegner Mauso, mi basta soltanto un auto-compiacimento che possa anche solo lievemente modificare il mio stato di infelicità e portarlo ad essere qualcosa di diverso. Analizzare le differenze, capire in cosa e in che modo sarò cambiato dopo questa buona azione che sto per fare: già questa sarà una bella soddisfazione con cui potrò accontentare per un po’ la mia curiosità. Però non apre. Il tizio, l’ingegner Mauso, non apre. Suono ancora alla porta. Perché non apre l’ingegner Mauso? Suono ancora, suono ancora, suono ancora, suono ancora. Curioso notare, mi accorgo, che non è che sono uno determinato o testardo, no, è che adesso non ho voglia di fare altro. Suono ancora, suono ancora, suono ancora. Suono ancora. «Lei chi è?» inaspettatamente la voce arriva da dietro, dalle stesse scale che ho percorso anch’io; è l’ingegner Mauso in persona, lo riconosco dalla faccia, il fare diffidente, le rughe che dagli occhi fanno il giro di quella faccia e cadono giù per incontrarsi sotto al mento. I sacchetti della spesa, uno per braccio, due sacchetti, pesanti, e le chiavi di casa sospese, precariamente appese al poco di dita rimasto a disposizione del povero ingegnere, tra la tagliente maniglia di plastica del sacchetto e l’ultima falange, interdette, le chiavi, tentennanti in un vuoto temporale in cui io, corpo umano, visibilmente infelice, faccio da ostacolo spaziale nel mezzo di quel percorso breve e abituale che le porterebbero dritte dritte dentro alla serratura. «Ingegner Mauso sono Pier, lei non mi conosce, le ho portato due giornate che ha smarrito». «Cosa intende?». «Guardi qui,» e gli faccio vedere le giornate che ha lasciato. Sono due belle giornate, una con passeggiata e gelato e passeggiata, l’altra con partita di flipper vinta poi amici poi partita di flipper vinta.

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«Non pensavo fosse così forte a flipper», aggiungo, ma lui è troppo diffidente, mi sa che proprio non mi ha ascoltato, non ha notato le sue due giornate felici che tengo in mano. «Non mi interessa quel che dice quel che vuole cosa vuole? Vuole vendermi qualcosa? Molte persone vogliono poi vendermi qualcosa e a me non interessa niente di quel che mi volete vendere, io posso farne a meno, ho imparato molte cose riguardanti quel che non mi serve, io di quel che non mi serve so cosa farne, niente, non ci faccio niente con quel che non mi serve, potrei vivere tranquillamente una vita facendo a meno di quel che non mi serve e non mi serve che mi fai vedere che c’è qualcosa che potrebbe servirmi, non mi serve». Non gli serve. Il discorso dell’ingegnere fila liscio: nella vita non c’è realmente bisogno di molte cose. Però lui, anche adesso, continua a parlare e difendere la sua tesi e darsi ragione sempre di più, mentre io non lo sto mica ascoltando, ormai sto pensando a quel che penso io e io sono concentrato su un’altra roba importante che consiste in questo che avrei dovuto dire subito: mica voglio vendere qualcosa, mica. Sono qui perché voglio restituirgli due giornate felici che ho trovato per terra, per quanto mi riguarda potrei anche andarmene da un momento all’altro «Ecco, infatti, ci terrei a precisare che io guardi che io mica le voglio vendere qualcosa. Io potrei anche andarmene da un momento all’altro. Per quanto mi riguarda». Vedo le sue mani, e sono viola, le dita delle mani, lui è comunque lì, fermo sul pianerottolo, i pesanti sacchetti della spesa gli bloccano la circolazione ma non osa aprire la porta perché ci sono io e preferisce quindi rimanere lì fuori con uno sconosciuto perché uno sconosciuto è lì fuori. «Le sue mani sono viola». Lui se le guarda e ci tiene a precisare: «Le dita delle mani, sì». «Eh». «Eh». Ci guardiamo in faccia, ci sospettiamo a vicenda e vediamo nei nostri occhi la stessa intransigente libertà per un eventuale proseguimento di giornata o di vita che mi vedrebbe comunque vincitore: entrambi non abbiamo nulla da fare ma io sono più giovane e, se le statistiche non si smentiscono, io posso stare qui sul pianerottolo ad attendere che lui apra la porta per almeno 30 anni dopo la sua morte. Concluso questo ragionamento si decide, si avvicina alla porta e infila le chiavi nella serratura. «Non capisco cosa vuole da me, le giornate dice, restituirmi le giornate dice, ma se le ho dimenticate in giro vuol dire che non ci tenevo poi tanto». «Ma sono giornate felici». «Appunto». Casa sua. Entro in casa sua ed è normale. È una casa con un tavolo, le sedie sono tutte lì, ci sono inoltre alcuni interruttori della luce strategicamente posizionati sui muri vicino alle porte e poi altri det-

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tagli sparsi ma più specifici, maniglia, quadro, tappeto e la cucina, presumibilmente di là. «Insomma queste giornate non le interessano?» dico. «Fammi un po’ vedere,» si avvicina e le prende in mano, le guarda un po’, le appoggia sul tavolo, quello descritto poco fa, dice: «Ho dei surgelati nel sacchetto, devo sistemare la roba in frigo». Fa per spostarsi verso la cucina e io sono già pronto a fare delle cose eventuali, quando sarò qui in salotto da solo, quindi scruto la credenza, poi ci sono dei cassetti da aprire, dentro quei cassetti potrei trovare delle cose che chissà poi quel che mi faranno scoprire di quest’uomo, però poi lui mi dice infatti subito: «Vieni anche tu in cucina, neanche ti conosco, non mi va di lasciarti solo in salotto». Allora io mi muovo verso di lui. «Potrò felicemente aiutarla a sistemare la spesa dentro le credenze o i cassetti». «No, ti faccio sedere in quella sedia che c’è in cucina, poi stai fermo, poi parliamo». Tira fuori dai sacchetti degli spinaci congelati a cubetti, mi viene in mente che sono molto simili a quelle giornate felici che abbiamo lasciato in salotto, mi viene quindi in mente che sarebbe il caso di cavarne una bella metafora, un parallelismo astuto, un gioco saggio di conoscenze messe l’una a fianco all’altra a dimostrare qualcosa d’importante sulla vita, i rapporti, la gente. Ma non adesso, ché i surgelati si sciolgono in fretta. Sistema tutte quelle pietanze pronte per essere scaldate dentro al freezer, sistema e sistema fino a venirmi a dire in faccia. Vieni di là con me. Io ci vado. Mi sembra il minimo. Attraversiamo il salotto e vedo le due giornate felici abbandonate sul tavolo, mi mettono un po’ di tristezza lasciate lì ma proseguiamo dritti, lui neanche per un istante vuole concedere lo sguardo a quelle giornate felici. Sempre dal salotto arriviamo davanti alla porta di una stanza che non so, tira fuori una chiave, infila nella serratura, mi dice aspetta un attimo qui e io sono felice perché penso che finalmente mi ha lasciato solo e adesso potrò indagare nella credenza, in qualche cassetto, potrò finalmente sviscerare discernere concettualizzare e invece no, mi chiama, vieni mi dice, vieni vieni. E vado di là, in questa stanzetta che, non ci crederei, è un muretto, cioè, no, una muraglia, no, cioè, un archivio dati negativi incasellati malumori ordinati cubetti impilati, alti, maestosi quasi; l’ingegner Mauso ne ha un paio in mano e con un panno li strofina, tira a lucido alcune delle sue giornate tristi preferite. «Guarda qui,» mi dice mostrandomi un cubetto «qui è quando un mio caro amico ha fatto un incidente in macchina, ovviamente è morto, una costola nel polmone. Questa giornata invece sembrerebbe roba da niente, invece è stata molto importante: uno schiaffone preso, ero molto piccolo e non mi sono mai spiegato perché, e per questo è stato così importante, perché non ce n'era motivo di riceverlo; poi mille altre, aspetta, un lungo bacio dato a una ragazza, quando ho aperto gli occhi ho scoperto che se n’era andata, aveva sostituito le sue labbra con una spugna per i lavandini, poi un piede rotto, un figlio mai avuto, la finale del campionato dei campioni, l’abbonamento a una rivista che però consegnavano alla mia ex moglie, la mia ex moglie, … … … ».

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Prendeva uno per uno ogni cubetto e lo descriveva rapidamente. Sembrava conoscere bene tutte le sue giornate infelici e quel suo fare automatico nella descrizione, uno per uno, dei cubetti, faceva pensare che ogni giorno facesse quell’esercizio di ricatalogazione, come se fosse importante per lui ridistribuire le fonti di infelicità lungo la sua linea della vita, per poter ricordare di essere ancora in vita. Non mi piaceva, non mi piaceva perché sembrava molto simile a me. «Ingegner Mauso», cerco di attirare la sua attenzione ma lui con un cubetto in mano mi parla della cappadocia, di una gita fatta al contrario; «Ingegner Mauso», qui invece di un cavallo quasi pony ma poi non era pony; «Ingegner Mauso» dico ancora, e mi accorgo di essere già un po’ scappato; qualcuno una volta mi raccontò che la disperazione della gente, quando è manifesta, allontana la gente, questa cosa mi era piaciuta, detta così, perché a me non piace la gente, a me piace la disperazione, ma adesso, veder lucidare quest’ammasso di cubetti mi fa venir paura. Saluto mestamente, non conto di essere ricordato in un futuro dall’Ingegnere, nessun cubetto della sua collezione parlerà di me, indietreggio, esco dalla stanza, attraverso il salotto quasi senza preoccuparmi delle credenze e dei cassetti che chissà quante belle cose contengono ma ah, mi accorgo delle due giornate felici sul tavolo, quasi quasi ora, sento che sia giusto che vengano con me, quelle due giornate felici, le prendo, sento dall’altra stanza la voce dell’Ingegner Mauso, continua a elencare tristezze ma io me ne vado, saluto, ciao ingegnere, apro la porta di casa e incontro una ragazza sul pianerottolo, le vedo qualcosa in mano, sono altre due giornate felici dell’Ingegner Mauso, mi dice buongiorno, mi dice che è venuta a portare queste due giornate che ha trovato per strada, aggiunge poi che sono due giornate felici e che quindi le sembrava giusto riportarle a chi le ha vissute. Io penso un po’, è una ragazza bellissima, penso un po’ e mi sorride, penso che dovrei proporle un gelato con la panna e la crema e altre cose sopra, tutte cose sopra al gelato cose dolcissime e i biscotti e le corse sul prato e il gelato zabaione pistacchio crema dolcissima, altre cose caramelle, io penso che sì che no che sì, e non so cosa dirle, penso che c’è il rischio, sì, di passare una giornata felice con questa ragazza, magari con la scusa delle giornate felici non nostre che teniamo in mano, magari, possiamo stare bene felici con le giornate dell’ingegnere tenute lì, magari in tasca, e poi noi ci divertiamo stiamo bene, no, credo che non ce la farò, credo che sarebbe troppo rischioso tentare giornate felici con la prima persona che capita qui, sul pianerottolo dell’Ingegnere e infatti nemmeno le rispondo, poi le rispondo, le dico che l’ingegnere abita lì, la lascio suonare alla porta, scendo le scale di corsa.

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M I K E di Edoardo Cavazzuti illustrato da Daniele De Batté

Tutti i polli che conoscete sono senza testa. La maggior parte di voi ne avrà visti centinaia, sdraiati sul polistirolo, fasciati nel cellofan, senza piume, senza zampe e, soprattutto, senza testa. Ciò che differenziava Mike da qualsiasi altro pollo senza testa era il fatto di essere vivo. Ora, non sono un esperto di ornitologia, non ho mai tirato il collo a un pollo né, tantomeno, mi è mai saltato in mente di mozzare la testa a un animale con un’ascia, ma credo che quella utilizzata da Lloyd Olsen fosse una prassi usuale, se non corretta. Immaginate, quindi, lo stupore di questo allevatore che, partito con la ferma intenzione di uccidere un pollo, non ci riuscì e lo vide zampettare via senza testa. Poche ore dopo, decise di attribuire un nome, Mike, al pollo sopravvissuto. Dopotutto è importante la questione dei nomi. Anche Dio chiese ad Adamo di nominare le cose del creato. Di fatto, se oggi un pollo si chiama pollo lo dobbiamo ad Adamo e se Mike si chiama Mike lo dobbiamo al Signor Olsen. Se poi sia giusto dare un nome a un animale solo nel momento in cui non muore, è tutto un altro paio di maniche. Insomma, capirete che Mike fu, da subito, un pollo speciale e, dopo alcuni giorni di sopravvivenza, fu chiara la sua natura fenomenale. Per questo, il Signor Olsen si trasformò da allevatore in saltimbanco e presentò la sua creatura al mondo con il nome d’arte di “Mike lo straordinario pollo senza testa”. Nel millenovecentoquarantacinque la televisione non era ancora così diffusa ed è comprensibile immaginare che moltissimi americani volessero pagare qualche quarto di dollaro per vedere Mike entrare in scena con una testa posticcia, che in seguito veniva rimossa, e stupirsi di quanto la vita potesse essere ostinatamente radicata dentro a una creatura così insignificante. Dopo pochi mesi di tour, Mike valeva già diecimila dollari. Quando si sparse la voce, ogni allevatore del Colorado mise sul ceppo un pollo dietro l’altro, guidato dalla segreta ambizione di riuscire, con un colpo chirurgico, a non recidere la giugulare lasciando intatta almeno una parte del tronco encefalico, proprio come era successo per Mike. In breve, furono uccisi parecchi polli e, siccome nessuno degli allevatori riuscì a creare un altro Mike, l’unico considerevole fatto fu il vertiginoso incremento dell’offerta di polli che, in un libero mercato, non fece altro che abbassare il valore e l’appetibilità della merce. Mike crebbe di circa tre chili, dopo l’asportazione della testa, ma non credo che molti allevatori sarebbero stati lieti avere le stesse attenzioni che il Signor Olsen riservava al suo pollo. Sì, certo, Mike era vivo. E sì, certo, camminava e sbatteva le ali, ma, essendo privo di becco, non poteva alimentarsi da solo. Ci pensava il Signor Olsen che, con un contagocce riempito di latte e acqua, ingozzava il collo del pollo. Sì, il collo. Un’altra attività con cui il Signor Olsen si dilettava, era la rigorosa e quotidiana pulizia degli orifizi dell’animale la cui pratica necessitava di strumenti appositi.

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Di questi particolari e dell’affetto che il Signor Olsen sviluppò per il suo pollo non voglio parlare, perché la loro favola finì dopo soli diciotto mesi, in un motel di Phoenix. Sarebbe cinico descrivere, con dovizia di particolari, la cocente delusione e il grave senso di perdita che il Signor Olsen provò quando, per una banale dimenticanza, vide morire Mike per strangolamento. Per questo, la chiudo qui. Chiunque venisse a conoscenza della storia di Mike il pollo senza testa potrebbe pensare che il narratore, come un novello Esopo, stia utilizzando un escamotage letterario, dicendo una cosa e intendendone un’altra. Ad esempio, Mike potrebbe essere usato per sottolineare quanto sia importante saper cogliere le occasioni, anche le più eccentriche, che la vita propone. O quanto sia cruciale, per un imprenditore, trasformare i rischi in sfide e differenziare il proprio business. O, ancora, quanto sia inutile copiare l’innovazione altrui, senza comprenderne la reale essenza. Facendo riferimento all’eccidio di polli, si potrebbe alludere a una morale simile a “meglio un uovo oggi che una gallina domani” che vedrebbe premiata la parsimonia e punita l’avidità. Oppure la vicenda di Mike potrebbe alludere alla possibilità di un corretto svolgimento delle fun-

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zioni di un organismo a fronte della mancanza di un capo e, quindi, definirsi come metafora politica di un modello gestito dal basso. Infine, gli ultimi giorni di Mike potrebbero essere il correlativo dell’Amore, che all’improvviso ti toglie il fiato, ti dona felicità e fortuna, ma che, se non viene accudito quotidianamente, soffoca sotto la sua stessa essenza. Potrebbe essere tutto questo o, semplicemente, la storia di Mike, il pollo che visse diciotto mesi senza testa.

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C E R T E

I N F O R M A Z I O N I di Luciano Funetta illustrato da Yoirene

a Francesca Lenti

«Ecco. Questo l’ha scritto poco prima.» «Prima di cosa, scusi?» «Prima di morire.» «Il signor Varo le ha spedito questa roba prima di morire?» «Tre giorni prima. Il timbro dice 4 dicembre. Credevo fosse il racconto che dovevo piazzargli su una rivista.» «Capisco. E l’ha piazzato?» «No.» «Ha notato qualcosa di strano negli ultimi mesi, signor Corsari?» «No, tutto normale, se così si può dire.» «Lei conosceva bene Roberto Varo, giusto?» «Sono il suo agente da dieci anni.» «E secondo lei qui c’è scritto perché è morto?» «Non proprio.» «E allora cosa?» «Non sono sicuro di aver capito il perché. Di sicuro però c’è scritto chi è stato.» La sua vita per me non ha segreti. È parecchio invecchiato dall’ultima volta che l’ho visto. È più magro e quasi completamente calvo, ma è lui. Mi è bastato un secondo per riconoscerlo. Ha cambiato auto. Adesso se ne va in giro a bordo di una vecchia Alfa Romeo. Roberto Varo si è trasferito nella nostra stessa via da tre mesi. Avevo perso le sue tracce due anni fa. Il mio matrimonio mi aveva fatto dimenticare Roberto Varo e i piani che avevo per lui. Poi è ricomparso all’improvviso e i piani hanno ricominciato a ronzarmi nella testa come se non se ne fossero mai andati; più precisi, come se nel corso degli anni non avessi mai smesso di limare i dettagli. Se Roberto Varo sembra più vecchio di quanto non sia, è per via dell’eroina. Fa uso di eroina da parecchi anni. Quando viveva a Roma, sette anni fa, già si drogava. Prima non ne ho idea. Comunque già a quei tempi la cosa gli procurava una discreta fama. Da Roma si spostò a Milano. Io lo seguii. Si drogava anche lì. Dopo due anni andò a Ginevra. Comunicai al mio editore che

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avevo intenzione di scrivere sugli ultimi anni di Borges e che sarei andato in Svizzera per un po’. Come avevo fatto a Roma e a Milano, anche a Ginevra lo rintracciai e mi misi a seguirlo. Frequentavo il suo stesso ristorante, la stessa libreria, gli stessi cinema. Compravo eroina da quelli che la vendevano a lui, anche se io non ne ho mai fatto uso. Rimase a Ginevra dal 2007 al 2009. A novembre di quell’anno scomparve nel nulla. Nel corso di quei sette anni Varo pubblicò cinque libri. Io li compravo appena arrivavano in libreria, ovunque mi trovassi. Li leggevo in due o tre giorni al massimo. È senza dubbio uno dei migliori, lo è sempre stato. Conosco la sua opera meglio della mia. Le mie cose più riuscite le ho scritte subito dopo aver letto i suoi romanzi. Se ci penso, credo che l’unica ragione che mi abbia spinto a scrivere sia stato il desiderio di imitarlo, e il desiderio di imitarlo rispondeva alla precisa necessità che avevo di conoscerlo a fondo. Dovevo conoscere tutto della vita di Roberto Varo e in questo le sue opere mi hanno dato una grossa mano. Non credo che Varo abbia mai letto uno dei miei libri. Andai via da Ginevra nel febbraio dell’anno successivo. Varo era sparito. Tornai a Roma e mi misi a cercare informazioni. Rintracciai alcuni suoi vecchi compagni del collettivo politico, ma non sapevano nulla. Presi una casa in affitto e mi misi a scrivere per distrarmi. Al posto della biografia di Borges mi concentrai su un volume sull’opera di Varo. Ci impiegai due mesi. A dicembre venne pubblicato. Non mi restava che aspettare. Mentre ero in attesa, conobbi Maria e me ne innamorai. La scomparsa di Roberto Varo mi faceva bene. Di sicuro si sarebbe fatto vivo per via del mio libro, così decisi che potevo distrarmi un po’. Dopo tre mesi io e Maria ci sposammo e ce ne andammo in Spagna. Al nostro ritorno Maria venne a stare da me. Di giorno lavoravamo, tutti e due in casa. Di notte a volte dormivamo, a volte no. A volte dormivamo di giorno e lavoravamo di notte. A volte capitava che restassimo a letto per ventiquattro ore, mandando il lavoro al diavolo. Ad agosto scrissi un altro libro, in due settimane. Maria lo trovò incredibile e io le credetti. Era un poliziesco ambientato in Svizzera. Lo mandai al mio agente. Nell’arco di una settimana mi telefonò entusiasta. Mi preoccupai di specificare che in testa al romanzo volevo una dedica a Frederich Dürrenmatt, e concordai la pubblicazione per l’anno successivo. Il 22 settembre compii trentacinque anni. Maria organizzò una festa a casa nostra. Ci ubriacammo. Quando gli amici se ne andarono, io e Maria scopammo sul pavimento, un tappeto di macchie di vino e mozziconi spenti. Le dissi che l’amavo. Non lo facevo spesso, ma quella notte sentii che dovevo, per non morire su quel pavimento lurido. Facemmo l’amore altre due volte, poi ci addormentammo. La mattina successiva pioveva a dirotto e Roberto Varo tornò dall’inferno. Avevo lasciato che Maria dormisse ancora un po’ ed ero uscito a cercare qualcosa da mangiare. Entrai in una panetteria e me lo ritrovai davanti. Varo era davanti a me che comprava del pane. Non provai alcuno stupore. Le scarpe di Roberto Varo lasciavano grosse impronte sul pavimento della panetteria. Il cappuccio del suo impermeabile gocciolava. I suoi occhi, dietro gli occhiali rotondi, non guardavano da nessuna parte. Io avevo trentacinque anni e lui quasi cinquanta. Quando uscì dal negozio mi misi a seguirlo mantenendo una certa distanza. Il mio pedinamento non durò molto. Vidi che entrava in un palazzo a pochi metri dal mio, dall’altra parte

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della strada. Tornai indietro, comprai due brioche per la colazione di Maria, due pacchetti di sigarette e rientrai a casa. Misi su il caffè e cercai una copia del mio studio sull’opera di Varo. Sulla prima pagina scrissi: Bentornato e infilai il libro in una busta imbottita. Nascosi la busta in una valigia e svegliai Maria. Mi chiese se l’amavo ancora. Spedii la busta a Roberto Varo quel pomeriggio. Poi rientrai in casa e fumai tutte le sigarette sdraiato a letto. Per tutta la settimana successiva osservai dalla finestra i movimenti di Varo. Annotai scrupolosamente gli orari in cui usciva e quelli in cui rientrava. Più o meno sempre gli stessi. I tempi regolari della vita di Roberto Varo diventarono di nuovo i miei tempi. La mia esistenza riprese ad avere come unico scopo quello di indagare scrupolosamente la sua. Dopo un po’ presi a seguirlo in strada. Nel giro di quattro giorni sapevo tutto sui ristoranti, i percorsi abituali, gli spacciatori e le due donne che frequentava. La mia testa procedeva a una velocità innaturale. Solo Roberto Varo era in grado di precederla. Cominciai anche a scattargli fotografie con la digitale di Maria. Catalogavo le foto in un archivio che tenevo nascosto nella valigia. Una notte mi sorpresi a pensare a come avrei potuto avvicinarlo. Per la prima volta in sette anni realizzai che io e Varo ci saremmo incontrati. Doveva sapere tutto. In pochi minuti dovevo fargli sapere di me l’equivalente di quello che io avevo imparato di lui in sette anni. Gli spedii una fotografia della casa dove era nato che avevo trovato su una rivista. Maria pubblicò la sua prima raccolta di racconti a ottobre. Io ne ero entusiasta, lei se ne vergognava. La sera della prima presentazione restammo in giro fino alle cinque del mattino con un bel po’ di bottiglie di vino in corpo. Appena tornammo a casa, lei scoppiò a piangere. Le parlai per quasi un’ora. Le dissi che non doveva avere paura di quello che scriveva. Le mentii. Alla fine si addormentò. Rimasi ad aspettare l’alba rileggendo e annotando le pagine di quello che secondo me era il suo racconto migliore. Il venticinque ottobre spedii a Varo una foto di mio fratello. Ne scelsi una in cui aveva più o meno otto anni. Sul retro della foto scrissi il nome del posto in cui era stata scattata. In quel periodo lavoravo a una traduzione di un irlandese sconosciuto. Maria era spesso in viaggio per presentare il suo libro. Mi piaceva aspettarla. L’avrei fatto per sempre. Mi piaceva l’odore della sua biancheria dopo sei o sette ore di treno. Una sera seguii Varo fino a un palazzo in via dei Leutari. Sarà stata l’una del mattino. Lo vidi suonare il citofono e sparire dietro il portone. Dopo qualche minuto, una finestra al primo piano s’illuminò e vidi la sagoma di Varo insieme a quella di una donna. Fumavano entrambi. Rimasero un po’ a parlare alla finestra. Lei non faceva che ridere e abbandonarsi contro il corpo di Varo. Passai più o meno mezz’ora a guardare. Stavo quasi per andarmene quando mi accorsi che la donna si inginocchiava. Per un certo tempo osservai la sagoma di Roberto Varo apparentemente sola dietro la finestra. Cercai un’altra fotografia di mio fratello che risalisse più o meno allo stesso anno della prima. Sul retro scrissi di nuovo dove era stata scattata e ancora Bentornato. La infilai in una busta insieme a un’altra che avevo scattato qualche giorno prima. Ritraeva il portone del palazzo di Varo. Spedii il plico mentre andavo a prendere Maria a Termini.

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In quei giorni morì un grande scrittore che viveva a Roma. Ci fu il funerale, seguito da una solenne bevuta. Roberto Varo non si fece vedere. Io e Maria finimmo a giocare a dadi nella camera d’albergo di non so chi. Il mio agente mi chiamò per dirmi che volevano il mio primo romanzo in francese e in spagnolo. Per festeggiare feci l’amore con Maria finché non riuscii più a reggermi in piedi, poi uscii per comprare delle sigarette e ne approfittai per spedire a Varo una copia del certificato del medico legale su cui era scritto che mio fratello si era impiccato a dodici anni nella rimessa. Per un paio di giorni non ci furono movimenti. Roberto Varo rimase in casa con le finestre serrate. La faccenda non mi preoccupava. In tanti anni di osservazione avevo imparato che spariva dalla circolazione quando scriveva i finali dei suoi libri. Qualche giorno prima aveva ricevuto la visita di uno dei tizi che gli procuravano l’eroina. Una quantità sufficiente per resistere a lungo, pensai. Passavo le giornate nel bar di fronte al palazzo di Varo a rivedere la traduzione e a rileggere i suoi libri. Ogni volta mi sembravano più incredibili. Mai sarei riuscito a raggiungere quel livello.

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Una notte Maria si svegliò e si accorse che avevo pianto. Non disse niente. Andò in cucina, versò del vino in due bicchieri, accese due sigarette insieme e me ne infilò una fra le labbra. Fumammo e bevemmo per un’ora senza dire una parola. Poi, senza che lei mi chiedesse nulla, le dissi che stavo meglio, e tornammo a dormire. Ci ho messo un po’ a decidermi, ma alla fine credo che gli farò avere anche l’ultima foto. Ne ho fatta fare una copia in formato più grande e l’ho incollata sulla copertina del suo primo romanzo, L’orda dei cani di notte. Roberto Varo lo scrisse a trent’anni, in Piemonte, nella baita vicino a quella dove abitavo con mio fratello e i miei genitori. Eravamo tutti impazziti per quel simpatico forestiero che veniva da Roma. Nella foto ci siamo tutti. Io ho quindici anni e stringo in mano il bastone da passeggio di Varo, mio fratello ha all’incirca otto anni e siede sulle sue ginocchia. Sulla prima pagina del libro ho scritto i nostri nomi e, in rosso: Ti ho trovato. Ho messo tutto da parte per cominciare a scrivere questo resoconto. Lo spedirò in forma anonima a Corsari, il suo agente. Poi andrò a incontrare Varo a casa sua e gli consegnerò l’ultima fotografia. Credo sarà sufficiente. So che capirà. O almeno lo spero. Il corpo di Roberto Varo venne rinvenuto nel suo appartamento la mattina del 12 dicembre 2011 con la gola recisa da una sola coltellata. Per alcune settimane il testo fornito alle autorità da Stefano W. Corsari, ultimo agente dello scrittore, venne utilizzato dagli investigatori per cercare di fare luce sulla vicenda. Tuttavia nessuno dei personaggi, dei luoghi o degli oggetti menzionati nel testo trovò il minimo riscontro. Il caso venne, dunque, archiviato come suicidio e il testo venne riconsegnato ai depositari dell’eredità artistica di Varo perché ne disponessero come opera letteraria. In seguito alla chiusura delle indagini condotte dalla polizia di Roma sull’accaduto, il testo venne pubblicato nella raccolta di racconti postumi Il feretro a propulsione, a cura di Stefano W. Corsari, e nel volume Tutti i racconti.

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IO, AMANDA E DAVID BOWIE di Antonio Koch illustrato da Melmartita

Stanotte ho sognato che io e Amanda avevamo ammazzato David Bowie e non sapevamo come fare, dovevamo sbarazzarci del corpo, o forse io avevo ammazzato David Bowie e Amanda mi aveva sorpreso nell'atto di trascinare il cadavere e mi aveva chiesto cos'era successo a David Bowie, cosa gli avevo fatto, e io l'avevo pregata di aiutarmi ad occultare il corpo per nascondere quella orribile disgrazia, una grande perdita per il mondo ed era tutta colpa mia, io e David Bowie avevamo cominciato a discutere e ci eravamo infervorati parecchio anche a causa dell'alcol che entrambi avevamo ingerito in grosse quantità, tutti i partecipanti alla festa se n'erano andati e io e David Bowie eravamo rimasti a discutere accanto alla vetrata, poi ci siamo messi a litigare, volavano parole grosse e a un certo punto David Bowie ha alzato le mani, mi ha dato una spinta, mi ha provocato, e io mi sono arrabbiato e gli ho sferrato un pugno sul viso e allora abbiamo iniziato a fare a botte e graffi e morsi, siamo rotolati sul tappeto e David Bowie mirava alla gola, voleva uccidermi, e io invece non volevo ucciderlo, non intendevo ferirlo gravemente, dopotutto era David Bowie anche se mi aveva fatto incazzare, ciononostante ho preso David Bowie e l'ho scagliato contro la grande vetrata nera, il corpo magro e incredulo di David Bowie è volato attraverso il vetro, rompendolo, ed è cascato di sotto, nel giardino, tra l'erba, e allora mi sono reso conto di ciò che era successo e sono corso di sotto, terrorizzato che qualcuno potesse aver visto tutto anche se non c'erano segnali di vita da nessuna parte, gli ospiti se n'erano andati ormai tutti da ore e le strade attorno erano deserte, nere come tutte le case intorno, nere, le finestre nere, vuote, e David Bowie riverso al suolo, bianco, morto, le membra scomposte sopra l'erba e i vetri rotti, sanguinante, gli occhi spalancati, bianchi, la bocca aperta, nera, un macello, un vero disastro, e un gran silenzio. Nascondere, ho pensato subito, occultare, nascondere, dimenticare, e ho afferrato David Bowie per le caviglie e ho cominciato a trascinarlo su per le scale con immensa fatica, volevo portarlo in casa, ed ero quasi arrivato in cima quando è arrivata Amanda. O forse era Amanda che l'aveva ammazzato e io ero arrivato dopo, chissà, sta di fatto che mi trovavo con Amanda a trasportare il cadavere di David Bowie in questa grande casa vuota, io lo tenevo per i piedi e lei sotto le ascelle ed era sconvolta quasi più di me, «abbiamo ucciso David Bowie, abbiamo ucciso David Bowie» continuava a cantilenare con voce infantile e io temevo che perdesse il controllo, che si mettesse a urlare o piangere o che facesse qualche sproposito, «coraggio portiamolo da qualche parte, chiudiamolo in un armadio, in un ripostiglio» gridavo concitato ma in quella casa non c'erano armadi, non c'erano ripostigli né bagni, solo corridoi grigi e vetrate nere e festoni penzolanti e striscioni con la scritta Buon compleanno perché era il compleanno di Amanda e Amanda era stata molto felice che fosse venuto David Bowie, era una cosa da raccontare, e invece poi è successo quel che è successo, David Bowie è morto e la casa è diventata un labirinto da cui non si esce e io cercavo di vedere le cose dal lato positivo, e cioè che

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io e Amanda adesso avevamo un segreto in comune che ci univa per l'eternità ed era il fatto che avevamo ucciso David Bowie, la notizia sarebbe uscita su tutti i giornali del mondo, su tutti i telegiornali, avrebbero mandato in onda degli speciali su David Bowie e io e Amanda avremmo fatto finta di essere sconvolti come tutti gli altri e invece saremmo stati calmi, una calma piatta ci avrebbe invaso dentro rendendoci tutti e due vuoti, uguali e maledetti. Ma a un tratto Amanda mollava la presa e la testa di David Bowie sbatteva sul pavimento di moquette con un tonfo ovattato e anch'io lasciavo i piedi del cadavere e guardavo Amanda con uno sguardo di panico, «non ci sono armadi, non ci sono ripostigli» gridavo fuori di me ma Amanda sorrideva, era calma e sorrideva e mi carezzava il viso e mi diceva «senti lasciamo perdere David Bowie, David Bowie non è importante, lasciamo perdere questa messinscena», e mi spiegava con calma tutte le stranezze della serata, la prima delle quali era David Bowie alla sua festa di compleanno, quando mai David Bowie può venire alla festa di compleanno di Amanda, e io dicevo «ma no, ma come» e lei mi tirava i capelli affettuosamente convincendomi a ragionare, a capire che era impossibile che David Bowie fosse presente alla sua festa di compleanno qui, in Italia o dovunque fossimo, di conseguenza noi non potevamo averlo ucciso perché lui non poteva essere lì, semplicemente non c'era, e io ero smarrito, confuso, stanco, non mi raccapezzavo, «allora senti guarda, io non mi raccapezzo più» dicevo ad Amanda, stranito, e lei ridendo sfiorandomi le labbra con le dita mi spiegava il fulcro della situazione, e cioè che eravamo entrambi fantasmi e ci trovavamo in una specie di limbo, una zona di passaggio in cui niente era reale, né corpo né pensiero, e ricordi e allucinazioni e sogni e paure e desideri e impulsi e stimoli e impressioni si mischiava tutto assieme dentro e fuori di noi per darci un'impressione di realtà, una realtà fittizia che ci facesse vivere qualcosa, un luogo dove tutto era possibile, sogni e incubi mescolati insieme e quindi ecco David Bowie in carne e ossa alla festa di compleanno di Amanda, ed ecco David Bowie morto per colpa nostra, o mia, o sua, e tutto – come potevo constatare – rimaneva comunque uguale. «Ma uguale a cosa?» domandavo ad Amanda, dubbioso. «Uguale, e basta.» «Come, uguale e basta?» «Sì, uguale, da solo.» «Non so, non sono del tutto convinto.» Nel frattempo notavo che Amanda era truccata in modo elaborato e strano, gli occhi erano cerchiati da complicati ghirigori variopinti e portava una bizzarra acconciatura, le ciocche di capelli corvini erano legate insieme con nastri e fiocchi e spille multicolori e il corpo nudo di Amanda era spalmato di una strana sostanza iridescente, sprigionava luce, capivo dunque che Amanda era diventata una sorta di fata, o spirito, o che so io, e i suoi discorsi erano costituiti da cose che avevo sentito da sveglio durante la giornata mescolate con cose che avevo detto o pensato e di cui non serbavo ricordo, e il cadavere di David Bowie era ancora lì, ai nostri piedi, tra noi, e il rimorso di averlo ucciso non mi abbandonava, il senso di colpa mi trafiggeva lo sterno rendendomi difficoltoso respirare. Io dicevo ad Amanda che desideravo un bagno, avrei voluto che in quella casa ci fosse un bagno. «Perché?» «Per pulire.»

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«Pulire è noioso» diceva dunque Amanda librandosi in aria, su verso il soffitto, e io con lei, passavamo attraverso il soffitto e ci trovavamo nel cielo notturno della città periferica, nero, le case basse, nere, le strade nere sempre più in basso mentre cominciavano ad apparire le prime stelle, ci avvicinavamo allo spazio. «Sta' attento» mi ammoniva Amanda sorridendo divertita, «non avvicinarti troppo al sole, che ti bruci.» Solo allora mi rendevo conto che mi ero presentato alla sua festa di compleanno senza nemmeno un regalo, neanche un fiore, niente, ma a quel punto forse non aveva più importanza.

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VIAGGIARE È BELLO SOLO SE POI di Simone Rossi illustrato da Giacomo Bagnara

Farà troppo caldo. Berremo. Sicuro. E quando siamo stanchi ci fermiamo. Dove siamo siamo? Dove siamo siamo. E facciamo il bagno? Certo. E dormire? Ce l’hai la tenda? No. Ce l’ho io. E quanto stiamo via? Tre quattro giorni una settimana due un mese, non so, vediamo. Fammi accendere. Non ce l’ho, aspetta. Scusa! Hai l’accendino? No, no, aspetta, fermo, ce l’avevo. Insomma? Insomma cosa? Andiamo via o no? E questo non è niente! Ti leggerò tutto! Andremo a vivere a Parigi! E che bizzarri nomi di battaglia! Io ti amo! Ti amo! Ti amo! Vèstiti! Tu sei un angelo in scena! Un mostro sacro! Faremo colpo! Vèstiti! Me ne fotto del mio trono! I morti son morti! Vedremo il mondo! Parigi! Vita mia, a noi due! Ma dove credi di andare? E mentre cerco di dargli la solita risposta un po’ evasiva, Ah, guarda, io partirei anche stasera, però mentre la solita risposta evasiva mi esce dalla bocca come il messaggio registrato di una segreteria telefonica, non posso prendermi una settimana per stare in giro, finisce sempre che spendiamo un sacco di soldi, si finisce sempre a parlare di soldi, i soldi sono sempre un problema. Io di quelli che non hanno problemi di soldi non mi fido. Ma smettila. Ma infatti faccio male, mentre la solita risposta un po’ evasiva mi esce automatica di bocca e mi sento dire: Non posso. Perché? Non ho i soldi. Cazzate. Sputo nel piatto dove vorrei mangiare, alla fine dei conti sarebbe bello non avere problemi di

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soldi, io me lo ricordo com’era non avere problemi di soldi, ce lo ricordiamo tutti: avevamo dodici anni. Ma lavori? Il lavoro fanno bene quelle lingue che lo chiamano travaille, travaglio, come il dolore del parto, o job, che probabilmente sarà una parola africana che vuol dire quanto cazzo pesa questa palla di piombo che mi trascino addosso e questa catena di associazioni mentali che mi parte automatica ogni volta che penso al lavoro, e ci penso spesso, ci penso troppo. Sarà che lavori poco. No, mi esce automatico di bocca un altro no, la solita risposta evasiva con il suo repertorio consolidato di scuse: dovrei lavorare il doppio per mettere da parte i soldi per stare via una settimana con te, e se lavoro poi finisce che non scrivo, e io voglio scrivere, mica lavorare. Questa magari non la scriviamo. No, no, scrivila pure, fa ridere. Fa ridere? Non fa ridere. Quindi mi stai dicendo che non vieni via in tenda con me perché non hai i soldi e comunque non vuoi trovarli perché lo sbattimento di trovare dei soldi ti farebbe scrivere di meno? Eh. Ma cosa scrivi, se non vai mai da nessuna parte? Cosa vuol dire. Salgari, quello che ha scritto Sandokan, non ha mai lasciato l’Italia in vita sua, Kafka faceva il ragioniere, quell’altro... Almeno Kafka di giorno lavorava. Eh, Kafka. Si potrebbero scrivere dei libri su Kafka. Credo che l’abbiano già fatto. Credo anch’io. E poi non è vero che Salgari non ha mai lasciato l’Italia. Nacque a Verona in una famiglia di piccoli commercianti nel 1862, da madre veneziana, Luigia Gradara e padre veronese, Luigi Salgari, commerciante di tessuti presso Porta Borsari, a Verona. Crebbe in Valpolicella, nel comune di Negrar, nella frazione di Tomenighe di Sotto, poi abbandonata per trasferirsi all’attuale “Ca’ Salgàri”. A partire dal 1878 studiò al Regio Istituto Tecnico e Nautico “Paolo Sarpi” di Venezia, ma non arrivò mai ad essere capitano di marina, come avrebbe voluto, anche se per tutta la vita amò fregiarsi impropriamente di questo titolo. In questo contesto navigò le coste dell’Adriatico per tre mesi a bordo della nave Italia Una e questa fu l’unica sua esperienza di mare significativa, mentre non gli fu mai possibile viaggiare nei paesi lontani in cui ambientò la maggior parte dei suoi romanzi, e che lui conobbe solo tramite le letture dei libri. Ma questa cosa dello scrittore squattrinato, non so, non la trovi un po’ logora come immagine? L’originale di questo pezzo l’ho scritto a matita su una Moleskine in treno, figurarsi. Figurarsi. Tra l’altro quella Moleskine ha una storia incredibile. Credo che molte Moleskine abbiano delle storie incredibili. Credo anch’io. Quelli che stanno simpatici a tutti, no, peggio: quelli che dicono “io vado d’accordo con tutti”,

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“dove mi metti sto”, “sono un tipo socievole”, quelli che parlano di loro stessi come si stessero presentando a un colloquio, a un regista, a un produttore, quelli che si descrivono, quelli che si sminuiscono, ma per finta, perché sono umili, ma per finta, perché sono degli esaltati disabituati ad ascoltare la gente, perché la gente è così, la gente sembra sempre che ti stia ascoltando, che segua il filo del tuo discorso, ma non è vero: puoi parlare anche dieci minuti a fila, senza interruzioni, senza ascoltare le interruzioni, ma la gente si fa le opinioni dopo i primi trenta secondi, aspetta nove minuti e mezzo per potere dire quello che pensa, che spesso è quello che pensava dopo trenta secondi, che spesso è una boiata. Io non mi fido di quelli che fanno un vanto della loro bella presenza sociale, non li ho mai potuti sopportare, e stasera ho scoperto che anche tu sei così, maledetto te. Di solito li battezzo dopo dieci minuti quelli come te, e me ne tengo lontano, e invece con te mi ci è voluto un po’ più di dieci minuti, ma la presa di coscienza è arrivata come una stretta a tradimento, e allora vattene. Anzi, no: me ne vado io. No, ci ho ripensato: vattene tu. Me ne vado. Me ne vado e non torno. E la solita risposta un po’ evasiva se fossi sincero sarebbe: Sì, mi piace viaggiare, ma non con te. Viaggiare è bello solo se poi torni e c’è qualcuno a casa che ti aspetta. Non è vero: viaggiare è bello solo se non hai nessuno da cui tornare. Vai così! Sei troppo un nomade! Tu sì che l’hai capita! Da te non ci torno. Non torno da nessuno, hai capito? Quando parto, parto. Quando parte, parte. E non torna da nessuno. Che figo. Che nomade. Ma quando torna, perché deve tornare, quanto torna non c’è nessuno a casa che l’aspetta, e va bene, ma non c’è nemmeno nessuno che lo guardi tornare da solo, allora si sveste, mette l’acqua a scaldare in una pentola e il cellulare silenzioso che tanto qua non prende e comunque nessuno lo chiama per sapere se è tornato e non ha nemmeno nessuno a cui dire che non c’era nessuno ad aspettarlo e questa è la cosa che gli dà più fastidio e il fatto che questa sia la cosa che gli dà più fastidio gli dà ancora più fastidio, più della solitudine. La solitudine è il sentimento più comune della storia dell’umanità: io se penso alla solitudine mi viene in mente Laura Pausini. Io se penso alla solitudine mi viene in mente quella poesia che dice: la mia solitudine è una tigre ammaestrata siamo amici fin da piccini ci vogliamo bene giochiamo come bambini può staccarmi la testa con un morso in qualsiasi momento. —Il primo corsivo è Laforgue. Il secondo è Salgari su Wikipedia. Il terzo è Catalano.

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NELLA CONDIZIONE IRREVOCABILE di Jacopo Nacci illustrato da Silvia Giuseppone

Il fatto che si possa decidere di recarsi e vivere nel futuro non significa che chiunque possa tornare indietro nel tempo ogni volta che lo desidera, quindi la mia massima aspirazione – svegliarmi ogni giorno alle cinque del mattino – non è assolutamente favorita dall’esistenza dei viaggi nel tempo. I viaggi nel tempo sono istituzionalmente regolamentati, forzatamente collettivi – dato che sarebbe un delirio organizzarne di individuali, e quindi non si può scegliere a piacere il momento in cui si torna – e tecnicamente macchinosi: ci sono due convogli al giorno, uno alle dieci del mattino e uno alle diciotto, tre nei giorni festivi, durante i quali è previsto un convoglio serale alle ventidue. È la prima volta che vengo nel futuro, però ti chiamo spesso, quasi due volte al giorno, anche perché dal passato tu non puoi chiamarmi per una qualche ragione che un paio di individui – dei quali una eri tu – hanno tentato di spiegarmi senza ottenere risultati. Intanto noi mangiamo e dormiamo qui nel college dove io sto curando un abstract sul lavoro di un’artista italiana contemporanea -contemporanea qui -, Marzia Beltrami, le cui opere – almeno quelle disponibili qui al museo del college – sono delle sfere trasparenti che contengono omini vestiti da Santa Klaus, tronizzati su stelle argentee dall’aspetto marino o in paesaggi di tecnologia superata, feticci di macchine a energia manuale; qui abbiamo tre sfere di diverse grandezze, due maggiori e una minore. La cosa interessante è che la persona che dovrà giudicare il mio elaborato è la stessa cui, in uno studio di legno di ciliegio, chiedo di mostrarmi come se ne scriva uno e che di fatto redige sul momento una metà di quello che io le dovrò presentare. Decido di andare in spiaggia, raggiungere gli altri: gli scalini del college si aprono su una parallela della strada che costeggia il mare e dagli scalini alla spiaggia ci vanno cinque minuti: si prosegue la grande via interna fino all’altezza del nostro ombrellone, e poi si taglia per la traversa, una strada corta e larga, sulla quale sia affacciano ville importanti, gigantesche. È là che per la prima volta vedo il mio primo fuochista: un ragazzo alto, muscoloso, con i ricci biondi tagliati corti e lo sguardo nobile; con maestria, con leggerezza da rallentatore, sta celebrando dei passi, i passi di uno sport che impone, per bellezza e assieme per tecnica, delle forme: al termine dei passi genera dalle mani una sfera di fuoco la cui traiettoria prosegue in principio davanti a lui e poi si inarca, innalzandosi a due metri dall’asfalto: la sfera è accanto a me appena supero il suo generatore, poi mi vedo a mia volta superato dalla sfera. Proseguo, con piacevole inquietudine, verso la spiaggia. Il nostro ombrellone è nella zona poco affollata a ridosso del limite nord, dove la spiaggia termina per lasciare spazio a un terrapieno di cemento. L’indomani, dopo una breve visita al college dove la relatrice mi suggerisce graziosa di non preoccuparmi, ché ci pensa lei a redigere il mio elaborato, faccio la stessa strada verso il mare con Karbo, che è il più anziano del gruppo di amici che come me sono venuti nel futuro. Il giovane biondo è ancora lì a generare la sfera, e attorno a lui vi sono altri che stillano dalle mani piccole

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fiammelle; ma non hanno la sua consapevolezza tecnica, né lo sdegno altezzoso dello sguardo che ad essa si accompagna. Il Karbo li scruta con odio: quando gli chiedo spiegazioni di quello sguardo mi dice che lo fanno già da tempo e che la temperatura si sta alzando troppo. Mi dice che c’erano stati anche degli incidenti, in passato. Mia sorella, dice guardando dritto davanti a sé a denti stretti, e non dice altro. Trascorre qualche giorno mentre la mia relatrice prosegue nella redazione del mio elaborato al fine di presentarlo a se stessa affinché venga da lei stessa giudicato. Io continuo ad andare al mare con gli altri. Il cielo è ogni giorno più scuro e sulla sabbia bagnata e sporca della riva battono onde torbide di colori sconosciuti. Stendiamo gli asciugamani sulla spiaggia. Da due giorni ho il cellulare spento: ho dimenticato il caricatore nel passato, e ormai ritengo che aspettare di tornare nel passato sia più comodo che cercare di farmi prestare e dover restituire un caricatore: ho già deciso che domani mi imbarco sul convoglio della mattina, quello delle dieci, e vengo a trovarti direttamente. Ma al mattino dopo mi sveglio tardi, sono le undici, il convoglio è già partito. Raggiungo gli altri al mare passando per la solita strada: nella traversa dalle grandi ville il fuochista biondo sta generando sfere di fuoco enormi, che salgono di qualche metro e poi si entropizzano in fumo nerissimo che si disperde nell’aria; accanto al maestro si sono moltiplicati i fuochisti. L’aria è rovente, e me ne accorgo solo ora ma è da quando sono uscito dal college che mi brucia la pelle. Scendo in spiaggia; proprio accanto alla scaletta che conduce dal cemento alla sabbia due giovani si stanno palleggiando una sfera di fuoco; uno dei due, quello che guarda verso il mare, indossa una maschera che gli copre tutta la testa, un volto bianco e grinzoso, calvo e col naso adunco. Arranco sulla sabbia, fredda perché il sole è coperto dal fumo, fino all’ombrellone e dico a Camilo: -Ma vi rendete conto di quello che sta succedendo?- indico il mare che è un fluido di colori innaturali e indefinibili, il cielo è sempre più nero, si respira a fatica e l’aria brucia la gola, -questa situazione sta per trasformarsi in una catastrofe. Ma non lo dico credendoci, sono il solito catastrofista che parla di catastrofi per farsi rassicurare. Guardo Camilo e mi rendo conto che indossa una specie di muta nera da sub, con una linea bianca, simile a una cerniera, che gli scende di lato dal collo e termina poco sopra la vita in una piccola piramide rossa. -Sì, è una catastrofe- mi dice lui serio. Dietro di lui Paolucci indossa la stessa muta e ha anche un casco: nero e triangolare, con un visore nero e opaco, e anche il casco ha una linea bianca che scende dalla tempia destra fino all’altezza della bocca dove devia orizzontalmente per terminare all’altro lato con una piramide rossa. -Devo partire il prima possibile- sento chiaramente che l’agitazione è una risposta adeguata alla mia condizione. Attorno a noi l’aria è un esplodere di disegni di fuoco e fumi neri. -Non si può più tornare- mi informa Camilo, -l’ultimo convoglio è partito stamattina, non ce ne saranno più: hanno avvertito. Il calore acquista improvvisamente una consistenza inimmaginabile fino a un istante fa. L’agitazione diventa panico. -Hai un caricatore per il cellulare? Devo chiamare mia morosa. -Anche le comunicazioni con il passato sono bloccate.

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Sono senza parole, il sudore mi cola ovunque. Sto cercando di capire quanto è vero tutto ciò, perché fatico a concepire l’irrevocabile. Ho sempre faticato a concepirlo. -Tieni- mi allunga un libretto quadrato, grande quanto il booklet di un cd ma molto spesso, con la copertina e le pagine plastificate. La copertina è nera, a tre quarti verso la brossura c’è una banda verticale bianca che termina quasi sul bordo con l’immagine di una piramide rossa. Lo apro, dentro ci sono dei testi su due colonne, come se fosse un libretto di istruzioni, corredati da disegnini neri stilizzati: omini che toccano cisterne e prendono fuoco, omini che si avvicinano a fornelli e lampade e prendono fuoco. Mischiati ai capitoletti di istruzioni, apparentemente senza una logica, ne compaiono alcuni intitolati Ha senso vivere senza speranza? o Ritorno a una biologia senza felicità. Realizzo l’irrevocabile, muore in me con violenza ogni sentimento della revocabilità. Sento il terrore, il terrore e la disperazione. Devo raggiungerti. Devo avvertirti. Questo è più forte di tutto e dentro di me io urlo che devo sentirti. Lo urlo talmente forte che mi sveglio. Capisco dove sono e cosa è successo. Respiro. Respiro ancora. Accendo la luce sul comodino. Pigro guardo l’orologio. Sono le cinque del mattino: mi sono svegliato alle cinque del mattino. Svelto dai, in piedi a fare il caffé, approfitta.

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di Giulio D’Antona illustrato da Brochendors Bros

Dico, la vedi la pallina, perfettamente perpendicolare alla linea? La vedi? Sta scendendo, tra poco incontrerà il gesso. E il gesso è campo. E il campo è il rosso fuoco che ti si attacca ai calzini come una zecca, è quella cosa rettangolare che hai tu e ha lui dall’altra parte della rete, e che tu gli stai portando via morso dopo morso, ace dopo ace. La vedi la pallina? Sta scendendo e tra poco sposterà il gesso, e sbufferà la terra rossa verso l’esterno. Il giudice di gara perderà il secondo, quel secondo fondamentale che gli avrebbe ricordato quanto è importante il rettangolo del campo, quanto è giusto che lui sieda al di sopra di tutti gli altri, quanto merita il rispetto dei soci del club che non fanno che offrirgli da bere. No, dirà, no. E la racchetta che si infrange sul paletto verde, dove il filo metallico della rete si aggancia all’anello, siglerà la fine. Set, gioco, partita. Il giudice ci impiegherà qualche minuto a decidere se scendere dal trespolo, qualche minuto durante il quale tu lo indicherai col dito indice sporco di sangue raggrumato con la polvere, senza dire niente. Ma lui ti conosce, saprà a cosa starai pensando. Vi siete già visti tante volte, ma mai in campo. Alle conferenze stampa, alle feste di apertura e chiusura dei tornei, ai ricevimenti federali. Non vi siete mai detti una parola, ma questo non importa. Dal momento in cui lui si è arrampicato là sopra ha compiuto il giuramento solenne di essere imparziale e attento, di non lasciarsene sfuggire nemmeno una, di considerare la linea come parte del campo. Ha affermato di fronte a tutti i presenti di meritare lo strabordante assegno che la federazione gli verserà a fine stagione, la spilla d’oro di membro benemerito, e il cavalierato per meriti sportivi. Col cazzo. L’avrà chiamata fuori e per questo sarà maledetto per il resto dei suoi anni. Tu non lo conosci bene come lui conosce te, ma è facile. In televisione le telecamere è te che riprendono, mica lui. Se devono intervistare qualcuno, cercano quello in calzoncini e fascetta, e terra rossa azzeccata ai calzini, mica quello pulito in giacca e cravatta. Però il gioco lo conosce, forse meglio di te. Sa che chiudi gli occhi quando servi, un’abitudine idiota che nessun allenatore è mai riuscito a toglierti, e che chi deve fotterti può tranquillamente farlo quando sei a rete. Che l’adrenalina ti porta via il fiato ogni volta che sei vicino a un punto, e che sfasci le racchette contro i paletti e contro le barricate. Che una volta hai rischiato di accecare uno del pubblico, e hai dovuto pagare una multa pari a metà del montepremi del torneo. Ma sei rimasto in gioco, e questo ti ha fatto onore. Quello che non sa il giudice, che non sa il pubblico, che non sa lo schifoso dall’altra parte della rete è che stamattina ti sei svegliato da solo. Nessun paio di gambe lunghe e cosce tornite a gonfiare le lenzuola accanto a te, nessuna cascata di capelli biondi a infestare il cuscino come un morbo, nessun senso di colpa guardando le foto delle tue figlie sul comodino. Non è facile, quando si è abituati. Ti sei svegliato da solo, e facendoti la barba hai pensato che della partita non te ne fregava niente, non te ne fregava niente del torneo né dell’albergo cinque stelle lusso in cui qualche sponsor mu-

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tlimiliardario ti ha piazzato. Non te ne fregava niente dei giornalisti, né della direzione che avrebbe preso la lama del rasoio alla prossima passata. Pelo, contropelo, di traverso. Non te ne fregava niente di niente, perché non deve fregartene niente di niente. Per anni hai inseguito la celebrità nei suoi anfratti più bui, hai perso la strada per i soldi delle vincite e la testa per i culi delle donne, ti sei lasciato trasportare dall’ira, dall’odio per gli avversari, dall’egoismo. Ma adesso basta. Stamattina ti sei svegliato da solo, con un groppo alla base della gola, odiando te stesso e tutte le scelte impulsive che hai fatto, ma più di tutto odiando la tua nuova, ragionata, matura scelta di cambiamento. È una settimana che ti svegli così, che ti trascini sui campi d’allenamento alle otto, e ripeti come un mantra quello che fratello Batista ti ha insegnato. Calma, moderazione, pazienza. Niente più nemici al mondo, solo fratelli che prendono decisioni diverse dalle tue, niente più campi da contendersi, onore da difendere, onore da vincere. Solo il gioco, senza niente in fondo. La stretta di mano sopra la rete, il segno di pace la domenica in chiesa. Diventare un padre amorevole, un ex marito affidabile e un uomo con cui si possano scambiare due parole senza paura di scatenare il demone della competizione. Demone della competizione, così lo chiama fratello Batista. Così chiama quello che eri, e adesso stai lottando per non essere più. Quello dei Rinati in Gesù non è proprio un gruppo di auto aiuto, nemmeno un centro di recupero per anime perse. È piuttosto ciò che un tempo avresti chiamato ritrovo per poveri dementi. Le prime tre sedute le hai passate fissandoti le scarpe, pensando a come cazzo avesse fatto Sara a convincerti a partecipare. Con l’impulso ad ogni parola di alzarti e sfasciare una sedia addosso al predicatore al centro del cerchio, smorzato solo dalla sensazione che senza bere non ti saresti retto in piedi. Alla quarta ti è toccato parlare, e sei arrivato preparato. Ogni sera si mette la storia di uno dei dieci partecipanti in mezzo al cerchio, fratello Batista la analizza sotto la nuova luce della fede e la restituisce a tutti accompagnata da una serie di consigli per vincere il proprio demone. Così, finalmente, rinascere. Loro sono come te: cause perse. Fratello Batista ha chiamato il tuo nome e tu, come avevi visto fare altre tre volte ad altri tre poveracci, ti sei alzato. Eri pronto a sputtanare tutto: li avresti messi di fronte alla realtà, all’evidenza dell’inutilità di quelle serate. Avresti ammesso di aver continuato a partecipare solo per il gusto di vederli crollare uno dopo l’altro, per l’impagabile sensazione di aver avuto ragione ancora una volta. Per sbatterla in faccia a Sara, e alle bambine, e a chiunque altro si fosse trovato sulla tua strada. Avresti puntato il tuo famosissimo dito indice contro il predicatore e avresti scoperchiato la sua impotenza. Poi avresti tirato in mezzo Gesù in persona. Alla gogna, pure lui. Non è stato difficile cominciare, sentivi le mani formicolarti, e la testa ciondolare avanti e indietro. Non riuscivi a tenere fermi i piedi e gesticolavi aprendo e chiudendo capoversi, contando sulle dita mentre elencavi le colpe della sfacciataggine del predicatore, che ti ascoltava a testa bassa, annuendo di tanto in tanto mentre qualcuno esplodeva in grugniti di dissenso. Approfittatore arrogante, che specula sulle disgrazie altrui, che vende un metodo inesistente, fatto di continui soprusi morali e lavaggi del cervello. Lo avresti messo a tacere una volta per tutte. Il tuo demone, per quanto ti riguardava, erano quelli come lui, ed era il momento di metterci un punto.

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È stato lui ad abbracciarti per primo, o sei stato tu a metterti a piangere? Perché è questo che è successo. A un certo punto ti sei ritrovato tra le sue braccia, con la sensazione della lana fresca di lavaggio a riempirti le narici e ad accarezzarti la faccia. Le lacrime che si raccoglievano tra la tua guancia e la sua spalla, e i singhiozzi tenuti a bada dalle sue pacche sulla schiena. Lasciati andare, diceva, te lo meriti, diceva. Tutta quella rabbia repressa per chissà quanto tempo. E tu non riuscivi ad accorgerti di altro se non della sensazione di leggerezza e completezza che ti dava quell’abbraccio. Sparite le partite perse e quelle vinte, i giudici di gara, la tua ex moglie, le ragazzine petulanti da sorbirsi una volta ogni due settimane. Sparita l’ipocrisia del club e delle associazioni sportive, sparita la voglia di scopare senza guardarsi, di bere, del gelo che la cocaina lascia nei polmoni. Sparito il pubblico, i giornalisti e le loro teorie idiote, i tifosi accondiscendenti e quelli contro, chissà perché. C’era solo fratello Batista, con il suo maglione rosso e la sua voce profonda che ascoltavi salire vibrante dalla sua cassa toracica, e in un angolo il gioco. Quel gioco che avevi perso, fatto dell’odore inconfondibile all’interno del tubo delle palline, della sensazione del grip quando è nuovo e del colore che lascia sulle mani quando comincia a disgregarsi, del pop di ogni risposta colpita bene, che basta a lasciarti soddisfatto quale che sia il destino del rimbalzo. Sei tornato a casa galleggiando, ti sei infilato a letto e svegliato da solo, senza altra necessità che quella di tirare sera. Sei andato avanti così per tutta la settimana, sentendoti un idiota la mattina, lasciando montare la rabbia per tutto il giorno e accumulandola come uno scarto prezioso, da espellere la sera, tra le braccia di fratello Batista. Così per tutta la settimana fino ad oggi, fino a questo momento, il momento in cui la pallina sta per toccare la linea. E la linea, è campo.

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D O M E N I C A

M A T T I N A

di Matilde Quarti illustrato da Fabio Ramiro Rossin

Quando io e Michele lo abbiamo conosciuto, Lou non dormiva ancora in mezzo alla strada. O meglio, ci dormiva a periodi alterni, in base a complesse valutazioni meteorologiche, umorali e, molto spesso, sessuali. “Alla fine se incontro una ragazza mica le posso dire: ‘Vieni, ti faccio vedere la mia rientranza tra il marciapiede e la vetrata della banca’, no?” ci diceva. Lou era, strano a credersi dato il suo particolare stile di vita, pieno di donne. Ragazze normali, studentesse, stagiste, cameriere, con una vita stabile e amicizie regolari, tutte caratteristiche che a Lou non interessava possedere. Avevo cominciato a frequentarlo il primo anno di università, nel periodo in cui usciva con una mia compagna di corso; Michele invece era subentrato qualche tempo dopo, quando ci aveva procurato del fumo, di pessima qualità a voler riportare fedelmente gli eventi, ad una festa del dipartimento di Agraria. Poi la mia amica aveva deciso di lasciare Lou. “Non conclude mai un argomento”, mi aveva confidato, “è come cercare di fare un discorso sensato con un Furby strafatto”. Invece io e Michele avevamo continuato a vederlo, entrambi attratti da quel guizzo frenetico che aveva nello sguardo, come se stesse pensando a un miliardo di questioni differenti senza riuscire a dipanarne nessuna. Effettivamente non concludeva mai un discorso, era capace di parlare di alieni, crisi economica, anfetamine, di basi militari abbandonate in Libano, di Chaka Khan, dei Pink Floyd, dell’Armenia, della Basilicata e di quanto fosse proprio una roba da galera che Syd Barrett avesse inciso solo due album da solista. Soprattutto Syd Barrett e l’Armenia erano due questioni che, vai a sapere il motivo, gli stavano particolarmente a cuore. Avevamo scoperto la sua abitudine di dormire per strada solo alcuni mesi più tardi quando, al termine di una serata, mentre stavamo per salire sull’ultimo tram in Porta Romana, Lou si era accomodato sotto un bancomat e ci aveva salutato con un cenno del capo. Non che Lou avesse realmente bisogno di dormire in giro, in realtà era cresciuto in un complesso residenziale nella periferia sud dove i suoi genitori, che gestivano una tintoria, vivevano ancora. Aveva fatto il liceo scientifico, studente mediocre e tranquillo, solo una volta era stato sospeso per aver picchiato con una stampella un ragazzo di una classe più avanti. “Era enorme e stronzo”, ci aveva raccontato, “io ero magrolino e basso e mi aveva preso di mira. Non riuscivo a impedirgli di starmi addosso. Quella distorsione al ginocchio era l’unica occasione che avrei mai avuto di avere al contempo un’arma e un alibi”. Della tintoria di famiglia parlava con orgoglio: “È attiva da tre generazioni. Ha visto due guerre, magari ne vedrà anche una terza”, ci diceva, senza però dare alcun segno di volerci andare a lavorare. Su cosa facesse Lou per sopravvivere, mentre io studiavo e Michele spacciava, non ne avevo idea, sapevo solo che di tanto in tanto riparava computer a signore della Milano bene che lo pagavano più del dovuto.

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Certo era che, oltre all’appartamento dei genitori, avesse un suo monolocale, completamente vuoto fatta eccezione per un materasso, tre scaffali pieni quasi esclusivamente di raccolte di poesia, e cinque chitarre acustiche. Quando gli avevo chiesto cosa ci facesse con cinque chitarre mi aveva guardato come si guarda uno scemo. “Le suono”, mi aveva risposto, con un velo di pietà nella voce. La logica di Lou non faceva mai una piega. Insomma, Lou di tanto in tanto, senza un motivo plausibile e assecondando l’inclinazione del momento, dormiva per strada e con il passare degli anni l’abitudine era via via peggiorata. Passava le nottate, per settimane e settimane, rannicchiato agli angoli degli incroci, nelle rientranze dei portoni, sotto i rari portici che si incontrano nelle vie del centro. Non preferiva un quartiere a un altro. Un mese aveva orbitato in zona Ortica, un altro in Giambellino, era passato dal sagrato del Duomo e da Piazza Affari all’Esselunga di Mac Mahon. Inspiegabilmente però Lou continuava a rimorchiare. Rimorchiava anzi ben più di me o di Michele, impegnati a correr dietro alle nostre vite più che alle donne. In quei casi Lou si metteva la camicia buona, invitava le sue morose a cena in trattoria e poi le portava in quel suo monolocale, rimasto praticamente identico a quando ci avevo messo piede la prima volta. Ogni ragazza gli faceva la stessa domanda che gli avevo fatto io: cosa ci facesse con tutte quelle chitarre. Lou non rispondeva nemmeno e continuava a baciarle. Questo suo vivacchiare, come lo chiamavo io, o stare in comunione con il creato, come lo chiamava lui con una faccia da paraculo che aveva perfezionato nel corso del tempo si interruppe in un autunno particolarmente caldo, come spesso accade, per colpa di una ragazza. Questa in particolare si chiamava Leda. Pallida e bionda senza averne l’aria, sorrideva sempre e sembrava vivere in punta di piedi, quasi stesse aspettando la prima folata di vento per sparire via. Lou ce l’aveva presentata in un bar vicino ai giardini della Vetra; era la prima donna che ci faceva conoscere, con una sorta di imbarazzato incontro ufficiale, in cinque anni. Michele ordinando la birra mi aveva bisbigliato: “Il vecchio perde colpi, a sto giro si è innamorato. Dagli un mese di tempo e smette di dormir fuori”. Intanto Lou l’abbracciava con gli occhi che brillavano, quella biondina fragile e ridanciana. “E tu cosa fai?” le avevo chiesto poggiando le birre sul tavolo. Leda aveva fatto una smorfia imbarazzata, mi era parsa tesa, ma Michele aveva sostenuto fossi paranoico, anche se la sua attenzione in quel momento era assorbita ad aprire una Menabrea con le chiavi di casa. “Mah, varie cose. Sai, come si fa di solito”, aveva risposto Leda. Varie. Michele aveva alzato lo sguardo dalla bottiglia di birra trattenendo una risata. Potevamo dire che Lou avesse trovato la donna della sua vita. Il dramma, poiché al centro di ogni storia c’è un dramma, aveva avuto luogo il venti di novembre quando, come sarebbe stato facilmente prevedibile dai più, Leda aveva scoperto che Lou passava la maggior parte delle sue nottate rannicchiato contro un portone. In quel periodo Lou aveva sviluppato una predilezione per Città Studi, gli piacevano in particolar modo le strade intorno a Gorini, con quelle casette basse che ci potevi guardare la vita dentro, le finestre come tanti televisori. Leda passava così una sera per Moretto da Brescia, con le braccia

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incrociate e lo sguardo fisso per terra di chi si è perso nei suoi pensieri, quando aveva visto accovacciato per terra, con uno zaino per cuscino e una copertina di flanella, quello che non si era ancora decisa a chiamare “il mio fidanzato” per una radicata fobia delle definizioni dei rapporti. Leda allora aveva scosso bruscamente Lou, con le sopracciglia aggrottate e l’ansia che qualcosa di estremamente brutto potesse essergli successo poche ore prima. Lou, assonnato e istupidito, l’aveva guardata per qualche secondo. Prima con espressione colpevole, poi, con il sorrisetto beffardo che indossava ogni volta che non sapeva come cavarsi da un pasticcio, le aveva detto qualcosa che era suonato all’incirca come “Mi sa che hai scoperto il mio segreto”. Allora le aveva raccontato tutto, le aveva detto quanto fosse bello sentire il freddo dell’alba, le aveva spiegato che in ogni momento di solitudine guardava attraverso una finestra diversa, condividendo le cene e le litigate di quelle famiglie che non conosceva e comunque, aveva aggiunto sul finire del discorso, non era una cosa che facesse proprio sempre, in inverno evitava di star fuori e anche nelle mezze stagioni, per quanto la nottata fosse calda, si portava dietro qualche coperta in più. “A volte ne ho talmente tante che le lascio a chi ne ha più bisogno di me”, aveva concluso. Leda, in risposta a tutto quel discorso da poeta paraculo, si era messa a urlare. Si era messa a urlare forte, con la faccia paonazza dalla rabbia e le parole che si accavallavano una sull’altra, che rotolavano sulla lingua e venivano rimasticate prima di uscir fuori. Lou giurava di aver sentito un “non esiste”, un “bugiardo patentato” e anche una serie di epiteti non del tutto lusinghieri rivolti a me e Michele, complici della sua idiozia, che invece di preoccuparci lo assecondavamo mentre buttava la sua vita in mezzo alla strada. Letteralmente. Poi se n’era andata, camminando a passi tesi verso viale Romagna. Così ci aveva raccontato Lou il giorno dopo attorno al tavolo di fornica incastrato tra il bancone del bar e la porta del bagno, mentre Piero ci preparava dei panini con un salame che per gusto e consistenza doveva risalire al ‘93. Lou aveva dichiarato, irremovibile e nervoso, che per quanto fosse dispiaciuto non si sarebbe certo messo a cambiare le proprie abitudini per una tizia qualunque, soprattutto non dopo una crisi isterica come quella che aveva avuto. Anche parlando di Leda e della necessità di farla fi-

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nita non solo con quella relazione, ma con tutte le relazioni in generale, Lou aveva tirato in ballo un’infinità di argomenti diversi, tutti opposti e discordanti tra loro. E mentre parlava e parlava e mangiava quel panino che io ancora avevo davanti quasi intatto, mi era sembrato di risentire la mia amica che diceva: “Non conclude mai un argomento”. Aveva continuato a blaterare finché Michele non lo aveva interrotto, a voce bassissima e un po’ scocciata, come se parlasse tra sé. “Sì, ma ‘sta Leda, ti piace?”. “Certo che mi piace”, gli aveva risposto Lou, con la condiscendenza con cui si spiega a un bambino un’ovvietà. “Va bene, ma ti piace nel senso che te la scopi e ci stai bene, o ti piace nel senso che forse credi che magari potresti anche tipo innamorartene?”. Lou era rimasto in silenzio qualche secondo, poi si era alzato ed era uscito. Io e Michele eravamo rimasti a fissare gli ultimi morsi del suo panino, tristi relitti in un piatto di plastica. L’autunno si era trasformato in un inverno cupo e cattivo. Per giorni eravamo rimasti intrappolati da quella pioggia milanese che non lava ma insudicia, preferendo ripescare vecchi telefilm piuttosto che guadare le circonvallazioni alla ricerca di un vago sentore di vita. Poi una sera Lou si era presentato a casa mia e sul pianerottolo aveva annunciato che aveva deciso di riprendersela, Leda. Michele lo aveva spinto in corridoio e mi aveva passato un pacco di pasta e un barattolo di pelati. “Ma senti, ce lo dici come vi siete conosciuti?” avevo chiesto a Lou mentre cenavamo, cercando di spezzare la cortina di riserbo con cui si ostinava a coprire la faccenda. “Eh, scappava e mi è sbattuta contro”. “Stavo andando a dormire sotto l’Arco della Pace”, aveva proseguito, “e in un attimo mi sono trovato quasi per terra. Aveva le guance tutte rosse, il fiatone e dei capelli disordinati che non si capiva dove iniziassero e dove finissero, quindi invece di augurarle la buonanotte e tirare fuori il sacco a pelo le ho domandato se potevo offrirle qualcosa da bere”. “L’unica cosa che mi è sempre un po’ dispiaciuta”, aveva detto dopo mezz’ora di sproloqui su quanto la loro relazione fosse sotto ogni aspetto perfetta, “è che non mi ha mai detto dove abitasse”. “Cioè non siete mai andati a casa sua?” gli avevamo chiesto. “No”. “E non l’hai mai accompagnata? Non ti è mai venuto in mente di chiederle il suo indirizzo?”. “Non è venuto fuori il discorso”. “Cristo, Lou, come fa a non esser venuto fuori il discorso?”. “Eh, abbiamo parlato d’altro”. “Sai almeno dove lavora?”. “No. Ha detto che faceva varie cose, come ha detto anche a voi. Tra l’arco e Garibaldi, sosteneva, di solito di notte”. Io e Michele ci eravamo guardati e senza aggiungere una parola in più, che sarebbe stata irrimediabilmente di troppo, ci eravamo offerti di accompagnarlo a cercarla. “Strano che tu non l’abbia mai vista, sono posti in cui dormi spesso”, aveva aggiunto Michele. “Già, strano”. Avevamo passato svariate notti alla ricerca di Leda, con Lou che camminava dietro di noi di qualche passo, fingendo di essere completamente disinteressato a quanto stava accadendo, ma

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alla fine non l’avevamo trovata e la vita di Lou, giocoforza, era tornata normale. Continuava a dormire fuori, ormai solo una notte ogni tanto perché era pieno inverno. In quelle sere lo raggiungevamo con una bottiglia di vino e qualcosa da mangiare, crackers, biscotti. Se era giorno di mercato Michele arrivava con un sacchetto di salumi. Lou aveva smesso di parlare di Leda, di nuovo era tornato ai soliti discorsi, l’Armenia che era una terra dimenticata, il riscaldamento globale, l’esistenza di razze superiori disperse nell’universo che da secoli usavano la Terra per i loro esperimenti. Finché un sabato notte, piuttosto tardi, mentre mangiavamo fette di prosciutto sotto al portico di San Lorenzo, avevamo visto una ragazza attraversare in fretta la piazza, con poche ciocche di capelli biondi che si liberavano tra la sciarpa e il cappello e una sacca in bilico sulle spalle ossute. “Quella è Leda”, aveva detto per primo Michele. Lou allora l’aveva seguita. Perché non l’aveva chiamata? Perché non l’aveva fermata? Non so, può darsi che semplicemente non ne avesse voglia. L’aveva seguita quindi fino a una piccola traversa, all’altezza in cui il Naviglio Pavese incontra la circonvallazione esterna, e le si era avvicinato mentre quella cercava le chiavi per aprire un portone. Lou ci aveva raccontato che Leda aveva fatto un balzo all’indietro, quando si era sentita toccare il braccio, e quasi gli tirava una gomitata in un occhio, prima di accorgersi che era lui. “Ti aiuto a portarla”, aveva detto Lou prendendole la borsa. “Quarto piano”, gli aveva risposto lei. “Senza ascensore”, aveva aggiunto. La casa di Leda era piccola e ben arredata, piena di oggetti, con il tappeto dello stesso colore del divano e degli stipiti delle porte. E colori forti ovunque, arancione, rosso, viola. In salotto, in uno spazio angusto tra il divano e la libreria, dove avrebbe potuto trovar posto un televisore non tanto grande o un mobiletto degli alcolici, Lou aveva notato un enorme, vistoso, cumulo di scarpe. Erano tutte da donna, differenti per foggia e per numero, ma in generale piuttosto eleganti. Leda, sedendosi sul bracciolo del divano, si era messa a tirar fuori altre scarpe dalla sacca che aveva portato con sé per accatastarle disordinatamente sulla pila. Erano cinque paia in tutto. Poi aveva lasciato cadere il borsone ormai vuoto per terra. “Vuoi un bicchiere di vino?” aveva chiesto a Lou. Leda rubava scarpe. Per l’esattezza rubava scarpe fuori dai locali, soprattutto discoteche, alle ragazze che le tenevano ciondolanti appese a un dito mentre aspettavano a piedi nudi e stanchi che arrivasse un taxi per portarle a casa. Leda, aveva precisato quella sera a Lou, non le rubava a qualsiasi ragazza, indiscriminatamente. Solo a quelle stupide, che si facevano rimorchiare da, vecchi o giovani non importava, bavosi con la brillantina nei capelli e la mano che fingendosi morta si faceva strada tra i vestiti più viva che mai. “Ma magari a loro piace”, aveva obiettato Lou. “Non importa. Sono stupide. Le scarpe sono una cosa importante, ce le si deve meritare”. Lou l’aveva trovata una cosa insensata e pericolosa, nonché abbastanza delirante, eppure, in un modo che non riusciva a spiegarsi, vagamente romantica. “Poi le rivendo, eh”, aveva precisato Leda, “mica sono completamente matta”. “Ma senti”, le aveva detto allora Lou, “quindi pensi che sia davvero un problema se io ogni tanto dormo per strada?”. Una debole falce di luce si era fatta strada dalla finestra allo schienale della poltrona, era già domenica mattina.

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RAGAZZA CHE CHIUDE GLI OCCHI di Gianni Solla illustrato da Paolo Cattaneo

Ingrandisco la foto con il tasto destro, ci sono migliaia di meduse arenate sulla spiaggia, due bambini le toccano con un bastone, chiudo la finestra di firefox, regolo il flap del condizionatore, scrivo su twitter “voi non esistete”, ritorno su youporn, ci sono un nero e due bianche, il volume del portatile è a quattro, vado in cucina, mi fa male la pancia, sulla tavola ci sono due bustine di wurstel aperte, vado a vomitare, resto inginocchiata, dallo stomaco non esce più niente, riapro il frigo, prendo una bustina di wurstel, ne sfilo uno, comincio a masticare, ritorno in camera, il nero è seduto sul divano, una gli è salita a cavalcioni, ha la schiena piena di nei, non mi ricordo come rivedere le meduse, mi arriva un messaggio sul blackberry, mastico un altro wurstel, vado a vomitare, è finita la carta, uso la canottiera, esce solo saliva, ritorno in camera, ho due nuove notifiche su facebook, vado su twitter e scrivo “ho vomitato quarantasette volte”, ritorno al video del nero, prendo due aulin, le giro nel bicchiere, bevo, ritorno a letto, il dolore alla pancia è più forte, vado a vomitare, caccio il wurstel e l’aulin, prendo una multicrentum, la faccio sciogliere sotto la lingua, mastico un altro wurstel, il nero sta venendo in faccia a una, la ragazza chiude gli occhi, ritorno indietro di due secondi, rivedo il momento esatto in cui li chiude, mi arriva un sms della tre, vomito il wurstel prima di arrivare in bagno, sporco la scrivania, il cuscino della sedia, pulisco con un fazzoletto di carta, è solo acqua calda, prendo un wurstel dalla bustina, comincio a masticare, forse oggi pomeriggio mi uccido, lo scrivo su facebook, “forse oggi pomeriggio mi uccido”, mi arrivano dodici mi piace, qualcuno mi ha iscritta a un gruppo sugli scrittori emergenti, prendo un wurstel, mastico, spengo il condizionatore, mi arriva un sms di mio padre, prendo una vivin c, la sciolgo nel succo di frutta, tengo la bocca chiusa, sento le bollicine nella gola, conto fino a dieci, a undici vado in bagno, vomito, sento wurstel, vivin c, bactrim, aulin, rio mare, fetta biscottata, oro saiwa, mi pulisco con il pantaloncino di intimissimi, suonano il citofono, Roberta mi sta aspettando, mi metto la maglietta con la scritta di pagliette, mastico un wurstel, infilo le scarpe, esco senza chiudere a chiave, vomito nell’ascensore, resto accovacciata fino al piano zero, entro in macchina, accendo l’aria condizionata, faccio fermare Roberta fuori da un supermercato, compro quattro confezioni di wurstel, un pacco da dodici di fazzoletti, mastico un wurstel, Roberta ha gli occhiali da sole enormi, mi racconta quello che è successo ieri sera a casa della madre, dice “puttana”, non capisco se ce l’ha con me o con la madre, siamo in un posto dove il blackberry non prende, “muoviamoci”, dico, poi dice nove volte la parola “paura”, vomito fuori dal finestrino, poi memorizzo le parole “trecento euro” e “fotocopiatrice”, mastico due wurstel, Padova è piena di traffico, vomito sul sedile, i pezzi non sono nemmeno masticati, “attenta”, “macchina”, “puttana”, accendo la radio, c’è una trasmissione con gli scherzi, poi c’è la pubblicità di un mobilificio, cambio, ritorno agli scherzi, mastico un wurstel, vomito, “cristo” e “scendi”, prendo un taxi, il tassista parla di un incidente che ha visto la mattina, vomito sul sedile posteriore, ogni volta è sempre più scuro, il dolore alla pancia è sempre più forte, lui non se ne accorge, mi faccio accompagnare sotto casa di mio padre, citofono cinque volte, non risponde, salgo fino al suo appartamento, suono, non risponde al cel-

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lulare, l’autobus che prendo è pieno di cinesi, vomito, uno mi viene vicino, mi parla ma non lo sento, mi addormento per dieci secondi, i cinesi fanno fermare l’autobus, dicono che devo chiamare qualcuno, scendo, mi fermo in un negozio benetton, provo una maglietta, la commessa ha un orecchino sulla lingua, stanno ascoltando i REM, vomito nel camerino, pago con il bancomat, sbaglio due volte il pin, chiamo un taxi, c’è un buco nella tappezzeria, abbandono la maglietta di benetton sul sedile, sono a casa, vomito al secondo piano, il portatile è aperto, il video del nero è andato in loop, ha girato per ventisei volte, ventisei volte sulla faccia della ragazza che chiude gli occhi, leggo l’ultima email di mio padre, c''è la parola “scusa” quattro volte e le parole “incidente”, "retromarcia" e il nome di mia sorella, mastico un wurstel, preparo una muscoril, me la faccio sulla gamba, vomito, non ho la forza di togliermi i pezzetti di wurstel dal collo, piango, vorrei di nuovo la maglietta di benetton, la muscoril mi ha fatto bene, non sento più il dolore nella pancia, mi tocco la lingua, penso a come deve essere infilarci un orecchino, non ho più voglia di masticare, chiudo gli occhi, non si muore con la muscoril, mi addormento, mi sveglio, scrivo su twitter “sono morta da venti minuti”, mastico un wurstel, apro la finestra, salgo sul davanzale, da dove sono sento l’odore della piastrina per le zanzare, devo solo chiudere gli occhi di nuovo e dormire per dieci secondi, ho le braccia lungo il corpo, penso alle meduse che dormono sulla spiaggia, tengo le mani vicino alle gambe, già non mi sento la spina dorsale, la testa, i wurstel dentro la gola, adesso, sotto ci sono delle macchine, farò rumore.

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L A

B E T A B O R F O S I di Alessandro Beretta illustrato da Fabio Tonetto

Chiaramente nottetempo, mi sono trasformato in uno scarafaggio. Una cosa è chiara: io, Gregor Bamba, devo aver esagerato a darci con la cocaina. Pessima situazione, anche perché oggi mi comincia l’M.B.A. in Bocconi per cui i miei genitori hanno tanto penato e sono convinti che mi farà benissimo per lavorare. Hanno anche ragione, ma io non voglio lavorare. Un particolare che non so mai spiegare alla famiglia. Quindi questa cosa che sono diventato nero e lucente mi può anche fare comodo. Loro sempre a dire Adesso ti laurei, diventa importante che trovi un ruolo, devi fare anche l’MBA. Il Master devi fare, mi dicevano, è importante per il tuo futuro. Io non capivo di cosa parlavano. Io avevo zero voglia di diventare Maestro dell’Amministrazione del Business. Poi si dirà Master in Business ADmisnistration con la D di Dolore o AMministration con la M di Mazzata? Due emme o una di? Non lo so. Questo MBA allora mi iscrivo, pago, sono a bordo, anche se ho ancora dei dubbi di pronuncia. Già mi ero laureato spendendo una barca di soldi e adesso di nuovo, ancora denaro per imparare a fare altro denaro, il Master in Business Administration, diceva il sito dell’Università Commerciale Luigi Bocconi, è un anno che incoraggia gli studenti ad andare oltre un modello convenzionale di business attraverso un pensiero creativo e un brillante approccio per risolvere i problemi. Ecco, io ne ho uno vero: devo stare attento che non mi calpestino. Così ridotto come sono, finisce che divento un esperto di microeconomia. Con i libri piccoli piccoli, i conti microscopici, le monetine invisibili; il re della microeconomia, uno scarafaggio, è giusto che sia così. Io non so ancora se c’è un capitale in questo mondo a tantissime zampe, ma mi adoprerò - cazzo che bel verbo, si vede che ho fatto il classico? – mi adoprerò per scoprirlo. Anche perché adesso che sto a scarafaggio tutti i miei compagni già mi stanno sui coglioni. Non mi stavano simpatici prima, non ti dico ora, là fuori, tutti questi capitalisti squali, tutti dei bordocch, babòla, babulòn, babulìn. Volevo dire un’altra cosa, ma questa da dove arriva? I grandi misteri del mio nuovo Blatta Power. Chissà che cazzo c’ho in testa? Però suona bene: bordocch babòla babulòn babulìn.

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Minchia se faccio schifo, sono orribile. Sono tutto nero, ma io vado in Bocconi. In qualche modo ci vado. Zampetto per la camera. Spero di aver lasciato il Mac acceso in Stand By. Che fatica cazzo queste zampette premere i tasti una fatica cazzo. Niente. Non devo perdere la calma. Ecco, mi siedo col culo e il tasto va giù. Bene, molto bene. Acceso? È acceso. Qui se entra qualcuno mi vede grida Che schifo! Aiuto! Mi pesta. Devo stare attentissimo. Voglio vedere come riesco a farmi le seghe da scarafaggio, non so neanche più se ho qualcosa da menarmi. Aspetta che controllo: Wikipedia, scarafaggio. Interessante: ho 40 testicoli. Mi sa che vengo tantissimo. Sono uno scarafaggio con le palle, non un insetto qualsiasi. Certo, devo capire se mi eccitano ancora le belle donne o se mi piacciono solo le brutte, capire se vivo un erotismo entomologo tutto nuovo, se mi eccitano gang bang interracial di Esapodi e Artropodi che ci danno nei fondi della pattuma o storielle di barely legal farfalle sfacciate, leggere e colorate. Lo scoprirò zampettando a giro. Perché io oggi ci vado in Bocconi, non fosse che per fare vedere agli altri cosa succede quando ti costringono, come hanno fatto con me, a fare l’MBA. Dai, ora di muoversi, anche se ho un po’ sonno. Bordocch, babòla, babulòn, babulìn. Saran le dieci di mattino, faccio un pisolino. Bordocch, babòla, babulòn, babulìn. Tanto la lezione, la prima, è tutta il pomeriggio. Come mi suona bene: bordocch babòla babulòn babulìn. *** Quando Gregorio Brambilla la sera precedente era finito coricato a letto dopo aver abusato delle sue canarie nasali, non si aspettava, la mattina seguente, di ritrovarsi trasformato, chiaramente nottetempo, in uno scarafaggio. Invece gli era andata proprio così. Gregorio Brambilla era un esperto di nasi bianchi e tutti gli amici nel giro lo chiamavano Gregor Bamba.

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Si era ritrovato bello come una blatta dopo aver accettato di fare un colpo con uno sconosciuto lungo il Naviglio la notte prima. Svegliatosi presto, dopo una breve analisi della brutta situazione Gregor Bamba, come ogni buon scarafaggio, si era appisolato. I blatteropodi, che non si chiamano così ma ci fa piacere usarlo, sono molto più bravi a muoversi di notte che di giorno e dai recenti studi di Hidehiro Watanabe e Makoto Mizunami dell’università Tohoku, nella città centrosettentrionale di Sendai, hanno anche una certa memoria. Una memoria chimica, chiaramente, ma non così lontana da quel po’ di tossico che portiamo dentro di noi. *** Allora quello che aveva appena incontrato gli chiese: “Ma poi com’è andata?” Gregor rispose: “Mi sono svegliato a mezzo pomeriggio e ho capito tutto, ero finito come in quel racconto del Kafka, La Betaborfosi”. “Vorrai dire La Metamorfosi? Lo conosco”: rispose l’altro. “Sì, scusa, - proseguì Gregor Bamba – devo avere il naso ancora intasato di cocaina. Comunque ne La Betaborfosi c’è Gregor Samsa che si sveglia ed è diventato uno scarafaggio bello grosso, formato famiglia. Tutti lo trattano malissimo, lo ammazzano e non finisce neanche nella raccolta differenziata perché non c’era ancora. Io quel libro mi ha fatto sempre paura. Lo dicevo a scuola, Non fatemelo leggere che poi mi vengono i problemi. Invece hanno insistito ed eccomi qua, ho i problemi: invece di essere due braccia rubate all’agricoltura come quando ero in Bocconi, sono un multizampe a zonzo in città. Ed è una figata. Io non li faccio gli stessi errori di Samsa: sono meno ingombrante, più piccolo, e nero quando sono incazzato. Mi sono detto, Io devo scappare rapidissimo fuori da casa. Andare in Bocconi e fargli capire che è colpa loro se mi sono conciato così. “Forse è perché hai pippato, ma come sei arrivato fino a qui?” “Erano le tre”. Allora esco dalla finestra di camera mia e vado come una lippa lungo i muri del palazzo che non mi vedono bene dalla strada e corro rapidissimo che dietro casa mia c’è un parchetto. Al parchetto sento questa tipa bionda che dice Vado in Bocconi. Mi si drizzano le antenne, sto attentissimo e mi infilo nella borsetta. Ho trovato un passaggio. Il problema è stato quando sono uscito in Bocconi. Casino. Io sono sbucato dalla borsa mentre la tipa era in bagno per vedere com’era in mezzo alle gambe mentre faceva la pipì. Mi dicevo Che sarà mai, non mi si vede, do una sbirciatina. Lei si è spaventata di brutto. Mi sono spaventato anch’io. È rimasta immobile un istante e poi ha iniziato a gridare mentre io ero già bello andato nelle tubature. Ho zampettato come un matto per mezz’ora fino a che sono arrivato in aula. Erano lì tutti bravi abbronzati con i golf a V e le camicie bianche, le ragazze certe gonne e scarpe da ammirare.

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Erano proprio una bellissima futura classe dirigente da conoscere. Sono entrato in aula e ho cominciato a gridare Sono qui per il master, sono qui per il master, sono qui per il master! E quelli niente, prima il silenzio, poi mi hanno visto e hanno iniziato a gridare come i bambini. Hanno cercato di massacrarmi, a librate, borsettate, blackberrate, scarpate, iphonate, gazzettate, meno male che oramai so surfare sui muri. Non capiscono, credono che non sia iscritto. Questi pezzi di stronzi. “Gregor Bamba sarà anche un depravato cocainomane, ma un fesso no, non si fa schiacciare così”. “Come ti capisco, – rispose l’altro – guarda me, arrivo dal Politecnico, ero un ingegnere e adesso sono una lumaca. Ci ho messo tre mesi a venire qui in Bocconi, aspettando le piogge per muovermi meglio, son tutto un viscidone, ma volevo controllare un paio di cose, se altri amici erano finiti come me. E non lo erano, solo io ero diventato lumaca, ma ci davo con la ketamina”. Gregor Bamba aveva incontrato Sergio Lareste, un ingegnere lumaca tossico di ketamina, davanti a una macchinetta del caffè della Bocconi verso le due di notte. I due non avevano più moneta neanche per una bevanda calda e si erano ritrovati a condividere gli avanzi zuccherosissimi della fonda di un mocaccino abbandonato per terra. Avevano fatto subito amicizia, perché erano insetti che parlavano. Mentre i due conversavano amabilmente, alcuni uomini entrarono nel buio. Loro rimasero lontano a guardare. “Cazzo, che odore” – disse Gregor. “Cosa c’è Gregor?” – chiese la lumaca. “Scusa, ma sento la puzza di uno di quei tipi da qui, noi scarafaggi abbiamo un super olfatto”. “Perché lo senti? Lo conosci?” “Inconfondibile, è il tipo con cui ho pippato l’ultima volta. Sai uno di quelli che becchi la notte in giro in Ticinese, ma a tardissima notte, con la valigia piena di fogli, gli occhi un po’ spiritati, uno di quelli che inizia a delirare: questo qua mi diceva che era dei servizi segreti, ma c’aveva la roba buona. Io gli ho dato retta”. “S’è visto quant’era buona – disse la lumaca – guarda cosa sei diventato”. “Parli te, ingegnere ketamina, comunque il tizio è quello lì, chissà cosa ci fa in Bocconi a quest’ora di notte”. “Aspettiamo?” – chiese la lumaca. “Aspettiamo” – rispose Gregor.

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Verso le ore 3.30 si sentì solamente Boom. Uno scoppio che li spaventò. In un corridoio lontano, un’esplosione che lasciò un alone. Poi arrivarono i poliziotti. Era un attentato. Verso le cinque, Gregor riprese a parlare: “Quanto mi fanno incazzare questi bordocch, babòla, babulòn, babulìn, vedrai che domani diranno che sono stati gli anarchici”. “Cosa, scusa?”– chiese Sergio Lareste, l’ingegnere lumaca. “Ho detto Bordocch, babòla, babulòn, babulìn! Continuo a dirlo da quando ho tutte ste zampe”. “È lombardo, – disse l’ingegnere – sono tanti modi di dire scarafaggio”. “Vedi che un motivo c’era? A me vien così, è mia natura, bordocch, babòla, babulòn, babulìn!” Io non sono molto intelligente, ma certe cose le sento: il clima in questa città non è bello, né quello politico né quello atmosferico. Forse questa betaborfosi non è una pena, ma un’occasione per vivere un’altra forma di vita”. “Come sei serio” gli disse la lumaca. “Scusa, - rispose Gregor – volevo fare l’eroe. In realtà voglio almeno scappare. Andiamo in centro e partiamo”. “E come si fa?” “Fidati, - disse Gregor - sono arrivato fino a qui e andrò fino a là”. *** Così, per tante notti successive, tappa per tappa, Gregor Bamba lo scarafaggio portò sul dorso Sergio Lareste la lumaca e arrivarono in piazza Duomo. Visitare la chiesa prima di partire sarebbe stata una cosa troppo lunga. Si accontentarono di gironzolare intorno a un souvenir del Duomo, di quelli con il piedistallo in metallo, dimenticato in strada da qualche giapponese. Erano affascinati anche dalla miniatura dell’antica cattedrale e Sergio Lareste commentò: “Certo, il Duomo di marmo è più bello, più resistente, ma anche questi piccoli souvenir, lo dico da ingegnere, fanno il loro dovere”. *** Si muovevano nella notte lentissimi salutando la città: Addio Bocconi, addio Politecnico, addio Duomo, addio Fighe di Legno, addio Armani, addio Suv, addio Just Cavalli, i nostri piccolissimi eroi riuscirono a salire sulla 63 che li portò all’aeroporto di Linate. Di lì andarono a Roma e ci passarono un mese tra gli avanzi delle merende delle comitive in visita al Santo Papa, poi si divisero: Sergio Lareste, lumaca, partì in cerca di climi più umidi, a Perugia, dove gli avevano detto che pioveva un casino. Gregor Bamba, invece, da scarafaggio riuscì a infilarsi in un bagaglio a mano per il Brasile. *** All’arrivo non ci furono problemi di integrazione, perché i blatteropodi, che non si chiamano così ma ci fa piacere usarlo, anche se sono di seimila specie diverse, tra loro parlano tutti uguale, si capiscono, si vogliono un sacco molto più bene di noi esseri umanizzati. L’unica cosa, per cancellare antichi passati, Gregor Bamba cambiò il suo nome. Oggi si chiama Gregor Samba, sta a Sao Paulo, vive felice e contento. E zampetta. Beato lui: bordocch, babòla, babulòn, babulìn.

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A Emilione, illuminato Maestro della procrastinazione del suicidio

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r i n g r a z i a m e n t i (sotto, in bianco)

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S T O R I E

D I

R E T R O

C O P E R T I N A

O R B E T T I N I

Non chiedete all’orbettino che fine hanno fatto le sue zampe. All’inizio farebbe finta di niente ma poi, ad una maggiore insistenza nel porre la vostra domanda, l’orbettino perderebbe il controllo e, con gesto involontario, praticherebbe un’autotomia lasciando la sua coda mozzata a rispondere per lui e a rivelare la sua identità sauridea di Anguis Fragilis. Vorrebbe i denti velenosi, l’orbettino, per questo si sente realizzato e quasi quasi gioisce quando con una pedata gli schiacciano la testa, come fanno alle vipere.

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