Ariel Toaff
Uno “scomodo” ebreo a Gavardo - a cura di Flavio Casali -
Pro Loco del Chiese | Comune di Gavardo
comune di Gavardo (Provincia di Brescia)
Un paio di anni fa è iniziato a Gavardo, grazie alla passione del dott. Flavio Casali e alla disponibilità della Pro Loco del Chiese, un percorso di conoscenza: forse una parola impegnativa, però la passione che caratterizza ogni anno il corso di cultura e lingua ebraica giustifica questo termine. Appassionati e curiosi si sono avvicinati a questa cultura millenaria così straordinaria che, pur essendo tanto diversa dalla nostra, ci sembra però vicina, forse perché, come si dice, gli ebrei sono fratelli maggiori nella fede e la fede, almeno quella cristiana, attraversa moltissimi aspetti della nostra vita, della nostra cultura, della nostra dimensione civile e quotidiana. Quindi, questo interesse così forte che abbiamo riscontrato nei corsi svolti dal Rabbino Luciano Caro presso il Museo di Gavardo è il segno che ha caratterizzato l’appuntamento con Ariel Toaff dello scorso 18 marzo di cui riportiamo in queste pagine la trascrizione che tante persone presenti ci hanno richiesto. È stato un incontro che abbiamo coltivato da tempo e per il quale ringrazio il prof. Toaff per avere accettato. Seguo sempre con particolare attenzione e interesse le vicende del popolo d’Israele dalle notizie che ci arrivano dalla televisione e che dimostrano quale sia il disegno misterioso che accompagna questo popolo: popolo eletto di Jahvé che sembra non avere ancora trovato il luogo della propria pace nel suo lunghissimo percorso. E’ con questo interesse, con questa attenzione e anche con questa vicinanza ideale che vi auguro una buona lettura. Il Sindaco Emanuele Vezzola Le pagine che seguono sono la trascrizione della conferenza che Ariel Toaff ha tenuto a Gavardo in occasione della presentazione del volume “Il prestigiatore di Dio” il 18 marzo 2011. Ha presentato la serata e interloquito con l’autore il dott. Flavio Casali. La serata è stata organizzata dalla Pro Loco del Chiese, con il patrocinio ed il contributo del Comune di Gavardo. 1
SHALOM, ARIEL !… IL NOSTRO INCONTRO … UN’OCCASIONE ECUMENICA di Flavio Casali “Verrà un tempo che l’effimero bugiardo esploderà facendosi passare come verità assoluta, mentre i sentimenti e le passioni della verità nasceranno in segreto come piccole colpe: resisteranno finché la clandestinità riuscirà a difenderle”. Anna Freud Seppure non sia facile capita, a volte, di conoscere persone straordinarie. Persone che puoi dire di aver conosciuto - non de visu - ma attraverso i libri che hanno scritto o grazie ad articoli di giornale che, oltre a promuovere il volume di turno, rivelano aspetti o particolari dello scrittore che te lo rendono interessante o antipatico o indifferente … La fantasia del lettore vola fino a costruirsi un’ identità del suo “scrittore” immaginaria, irreale e, in fin dei conti, superficiale. La cosa migliore per evitare la mitomania è cimentarsi, consapevoli di un possibile fallimento, in quel piccolo sforzo che, a volte, riesce davvero a trasformare la volontà in potenza. Così, può capitare che attraverso una semplice e-mail un invito venga accettato e possa nascere quel quid che travalica e supera gli aspetti formali e sostanziali legati alla presentazione di un libro e sfocia, nel giro di poche ore, in una stima reciproca, in voglia di conoscenza, in amicizia… A me è successo con Ariel e Yael Toaff e non è accaduto per caso. L’incontro, cercato, voluto, coltivato, desiderato… si è realizzato e in me, nella mia famiglia, negli amici che mi hanno stimolato e aiutato, anche finanziariamente, così come in quanti hanno partecipato alla presentazione gavardese e salodiana del suo libro “Il Prestigiatore di Dio”, non si cancellerà più. Ariel è ebreo, un ebreo famoso, come storico e scrittore innanzi tutto, ma anche come primogenito di Rav Elio Toaff, rabbino emerito della comunità ebraica romana. Come tutti gli altri uomini, anche l’ebreo ha più di un’identità. Appartiene alla comunità umana e pure possiede un’identità ebraica che lo rende diverso dagli altri. Ognuna di queste identità lo obbliga a doveri diversi. 2
Un po’ come Abramo, che si presentò al popolo Cananeo dicendo: “Sono forestiero e residente fra voi” (Gen. 23:4). Ci si può chiedere se non esista una contraddizione in termini, apparentemente opposti. La realtà è che l’ebreo è “residente” al pari degli altri “Cananei” allorché partecipa con loro negli sforzi per il bene della società. Pur tuttavia, dal punto di vista spirituale, l’ebreo è uno straniero, la sua fede è unica, immutata e immutabile da sempre, come il suo modo di vivere basato su idee, verità e comportamenti che lo hanno reso un “diverso” dalla società circostante. Sotto questo aspetto Abramo e i suoi discendenti rimarranno stranieri per sempre. Ariel Toaff è un ebreo aperto al mondo, un – spero di non offenderlo – “riformista”, in grado di rappresentare l’ebraismo in termini universali, smitizzando i tanti luoghi comuni o gli stereotipi di cui tutti (i non ebrei) si riempiono la bocca. Eppure mentre Ariel proclama ad alta voce la propria identità comune a tutti gli uomini, negando ogni settorialismo, il mondo continua imperterrito a considerare tutti gli ebrei membri di una comunità separata, intenta a perseguire propri specifici interessi a discapito dell’umanità intera. Per secoli il mondo, cristianizzato e non, ha abbassato gli ebrei a ruolo di semplici parassiti e li ha esclusi da una vera parità di diritti e di opportunità, considerandoli, fino a tempi non molto recenti, esseri privi di nobili sentimenti e di abilità creative. Eppure – ed è la storia raccontata da Ariel che restituisce a due personaggi ebrei, Abramo Colorni e Maggino Gabrielli, il giusto ritratto di benefattori dell’umanità – una volta che furono loro concesse, non dico “uguali” ma perlomeno “sufficienti” opportunità, si resero immediatamente disponibili a seguire l’imperativo divino di “riempire la terra e di svilupparla”(Gen. 1:28). Colorni e Maggino – ma la schiera di benefattori ebrei è molto più lunga – hanno dimostrato di aver contribuito al benessere generale in misura molto maggiore di quanto ci si potesse aspettare in proporzione alla componente ebraica nella popolazione. Colorni e Maggino ieri, Ariel Toaff e Amos Oz, Luciano Caro e Alex Gizuntermann oggi, così come tutti gli ebrei del mondo sono determinati a partecipare ad ogni impresa civile, scientifica e politica che migliori l’umanità. Si sentono obbligati – e per noi non dovrebbe essere diverso, anche se lo diamo troppo per scontato – ad arricchire la società con i loro 3
talenti creativi. E’ il testamento di Giacobbe, particolarmente rilevante ai giorni nostri. La riconciliazione con Esaù è vicina. Basta volerla. Ci sembra di udire le stesse domande: “Di chi sei?, dove stai andando?, di chi sono queste cose davanti a te?”. La nostra storia comune, “nuova” di millenni, esige di affrontare queste sfide con coraggio e di dare la medesima risposta che era stata comunicata dai messaggeri di Giacobbe migliaia di anni fa. E’ evidente allora che incontri – come quelli organizzati a Gavardo – tra comunità appartenenti a fedi diverse sono non solo possibili ma diventano indispensabili. Piena libertà religiosa e confronto democratico non tollerano alcuna sottomissione alla logica dell’auto giustificazione verso la comunità maggioritaria. Quest’ultima, mentre ancora discute se assolvere o no la comunità ebraica da alcune colpe mitiche – deicidio, rituali di sangue (si ricordi, fra tutte, la vicenda del piccolo Simonino da Trento) – ignora per lo più completamente le proprie responsabilità storiche per le sofferenze ed il martirio inflitti alle minoranze, ai deboli, ai perseguitati. Inoltre, l’ebraismo non deve essere visto come qualcosa che acquista una sua dignità storica per il solo fatto di essere precursore di altre fedi. I riti religiosi – celebrati con grande enfasi liturgica dai PrincipiPrevosti – non hanno alcun valore se le leggi e i principi della giustizia umana vengono calpestati e immolati sull’altare della propria caparbia presunzione. Alla fine, la radice unica e ultima di ogni bisogno umano è sempre e soltanto il bisogno dell’immanenza divina, di conoscere, vedere ed unirsi a Dio. Ariel Toaff ce lo fa capire attraverso i suoi personaggi, attraverso il suo studio di storico e scrittore, attraverso la sua appassionata testimonianza. Lo storico è parte della storia….lo siamo anche noi. Ciò che Ariel ci vuol far cogliere è di più, è un divenire…. Baruch Ha-Shem! (Benedetto il Signore)
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Flavio Casali. Signore e signori, cari gavardesi, grazie di essere qui questa sera ad ascoltare insieme a me Ariel Toaff, ed è un debito quello che io personalmente ho con la vostra comunità, in particolare con il vostro Sindaco, che ha accettato il nostro invito e che ormai da almeno da un paio di anni ci segue e ci sostiene col nostro corso di lingua, ma soprattutto di cultura ebraica, condotto insieme al Rabbino Capo delle Romagne, Luciano Caro. E’ un bel percorso, interessante, simpatico e invito chi magari volesse, per gli anni futuri, approfondire il tema a venire e dare un’occhiata, perché è solo conoscendo, solo studiando che possiamo in qualche maniera capire come è andata la storia e quali saranno il nostro futuro e il nostro destino. Una volta, rabbi Tarfon, rabbi Aqivà e rabbi Josè il Galileo, erano seduti a tavola… Qualcuno pose loro questa domanda: “Che cosa è più grande, lo studio o la prassi?”. Rabbi Tarfon rispose “E’ più grande la prassi”. Rabbi Aqivà invece disse “E’ più grande lo studio”. Tutti i presenti furono d’accordo nel dire: “E’ più grande lo studio, perché lo studio conduce alla prassi”. Ringrazio il Sindaco, Emanuele Vezzola, ed i gavardesi che ci ospitano. Io direi di cominciare subito con una domanda a bruciapelo per conoscere meglio il nostro autore. Chi è Ariel Toaff? Italiano, israeliano, appena arrivato da Tel Aviv, figlio di un grande rabbino che tutti noi abbiamo apprezzato per l’invito, dopo secoli di diffidenza, fatto a Giovanni Paolo II. In definitiva, lo possiamo etichettare come ebreo. Questo senza ombra di dubbio, ma che cosa significa essere ebreo oggi? Certo sappiamo che ebreo è colui che nasce da madre ebrea, ma, professore, questo che è un dato apparentemente formale, seppur sostanziale, non ci basta. Quindi, vorrei chiedere a quest’uomo, che è uno storico, uno scrittore, è stato rabbino, traduttore, professore emerito all’Università Bar Ilan di Tel Aviv, di raccontarci brevemente il suo essere ebreo, essere tutte queste cose che vi ho descritto, con una fortuna, contrappesata dall’onere di un cognome tanto importante. Ariel Toaff. Grazie. Prima di tutto vorrei ringraziare per un invito importante, perché, dopo quasi seicento anni, ritorna un ebreo a Gavardo e direi che ritorna per riprendere un dialogo che sicuramente era presente in quegli anni e che per varie vicissitudini, legate anche alla storia del popolo ebraico che non è mai sedentario, si è interrotto. Io a Gavardo sono arrivato molto prima, perché quando ho comincia5
to a scrivere delle comunità ashkenazite, cioè di origine tedesca, nell’Italia settentrionale, mi sono imbattuto naturalmente nella comunità di Gavardo e spero di avere occasione questa sera di parlarne più a lungo. La mia biografia. Se voi esaminate la mia biografia così come appare normalmente qui in Italia, comincia con la frase: figlio di Elio Toaff. Direi che da un certo punto di vista, la cosa riempie di soddisfazione; da un altro punto di vista è un limite estremamente difficile da poter valicare. Tra l’altro, tra poco rivedrò mio padre che sta giungendo al compimento del novantaseiesimo di età e, per sua fortuna, completamente lucido, tant’è vero che mi ha detto: “Quando torni da Gavardo e da Salò, fammi un colpo di telefono e dimmi come è andata”, come ha sempre fatto di fronte agli appuntamenti culturali cui io partecipavo. Forse, la biografia più interessante è quella dei primissimi anni di vita. Io sono nato nel 1942 ad Ancona, dove mio padre era rabbino. Famiglia di rabbini, perché mio nonno era il capo dei rabbini italiani e rabbino di Livorno. Mio padre era rabbino di Ancona, l’unico dei fratelli rimasto in Italia dopo le leggi razziali del 1938. Gli altri si erano trasferiti in Israele: un avvocato e un medico, che era impiegato all’Ospedale di Pisa e quando arrivarono le leggi razziali stava operando e gli chiesero di lasciare il bisturi e di andarsene in mezzo a un’operazione. E arrivarono in Israele. Mio padre non andò in Israele, perché mio nonno riteneva che il capo di una comunità non potesse abbandonarla nel momento del pericolo. Nelle memorie che ha pubblicato mio padre nel famoso libro Perfidi ebrei fratelli maggiori di qualche anno fa - ma siccome è longevo ci sarà un volume di aggiornamenti che non sarà meno congruo di quello che è stato pubblicato - ebbene, mio padre racconta che dovette scappare da Ancona e ci rifugiammo, mio padre, mia madre e io sull’Appennino tosco-emiliano. Devo dire due cose. La prima è che mio padre mi ha sempre detto che, se io sono rimasto in vita (nel bene e nel male di chi mi ha potuto conoscere successivamente) è perché una famiglia cristiana mi ha protetto. E quando sono venute le SS, sapendo che c’era un bambino ebreo (ed ero io), quella famiglia contadina disse: “No, sono tutti figlioli nostri.” Le SS dissero: “No”. Allora risposero: “Prendetene uno e vedete un po’ voi”. Allora le SS lasciarono perdere e se ne andarono. La prima cosa era questa. Ma c’è un’altra cosa ancora che forse vi farà sorridere, perché mio padre aveva detto a questi contadini: “Guardate che, per motivi religiosi, ci terrei che mio figlio non mangiasse la carne, perché non è macellata secondo il rito, perché può 6
essere carne di maiale. Non gliela date”. Quando poi mi venne a prendere dopo la guerra e la famiglia mi riconsegnò, durante il primo pranzo che facemmo a casa c’era la carne e io dissi a mio padre: “Mi piace la frittata, dammene un altro pezzo”. E praticamente mio padre capì che in tutto quel periodo quella famiglia aveva cercato di mantenermi esattamente come gli altri figli. Fino a oggi io ritengo di chiamare la carne frittata, perché mi sembra un ricordo certamente positivo. Un altro ricordo è che mio padre fu catturato dai tedeschi (e qui posso ampliare anche rispetto a quelle che sono le sue memorie) insieme al alcuni partigiani e portato in una località dove doveva scavarsi la fossa ed essere poi fucilato. Mentre era lì, fece la conoscenza con una delle SS che era professore di greco e di latino. E allora, a quel punto, si istituì una sorta di amicizia tra i due, per cui ad un certo punto questo tedesco andò da mio padre e gli disse: “Io ti voglio salvare. Fai quello che ti dico e ti salverai”. Quando stavano andando per portare questi che poi sono stati fucilati alle fosse che avevano scavato, il tedesco rimase in fondo insieme a mio padre e a un certo punto gli diede un colpo di baionetta sul braccio e gli disse: “Scappa adesso”. Mio padre, ferito, scappò. Il motivo per cui l’aveva ferito era perché non si dicesse che l’aveva fatto fuggire. Il tedesco si buttò a terra come se fosse stato colpito. E così mio padre si salvò. Nelle sue memorie ricorda che io dissi a mia madre che mio padre sarebbe tornato alle quattro del pomeriggio di quel giorno, perché tutti pensavano che sarebbe morto. E lui alle quattro del pomeriggio tornò. Io non sono in grado di sapere se ho detto effettivamente quello. Comunque, è nelle sue memorie e ritengo che lui ricordi questo fatto come effettivamente avvenuto. Ora, dopo questa lunga digressione, chiarirò subito che, essendo di famiglia rabbinica, io sono stato mandato al collegio rabbinico per diventare rabbino anch’io, dato che ero il primogenito. Dopo Ancona, mio padre è diventato rabbino di Venezia e successivamente è stato chiamato a Roma, che è la comunità più importante. Quando arrivai a Roma, fui mandato da una parte naturalmente alle scuole, al liceo classico, dall’altra parte al collegio rabbinico per diventare rabbino. All’università ho terminato con la laurea in lettere antiche con la specializzazione in storia e successivamente sono stato mandato negli Stati Uniti alla Columbia University dove ho conseguito il dottorato di ricerca in storia ebraica. Contemporaneamente, nel periodo precedente alla mia andata negli Stati Uniti, avevo fatto il rabbino in piccole comunità: ho cominciato con Perugia, poi 7
sono passato a Pisa e contemporaneamente insegnavo anche all’università di Pisa. Nel 1971 ebbi l’invito dall’Università di Tel Aviv e dall’Università Bar Ilan, che è la seconda università di Tel Aviv con 40.000 studenti, per diventare docente di storia. Scelsi la Bar Ilan non perché la preferissi, ma perché in famiglia volevano che, se anche avessi abbandonato il rabbinato, andassi in un’università di impostazione tradizionalista. E così andai e dal 1971 fino a oggi sono stato professore all’Università Bar Ilan e successivamente anche a quella di Tel Aviv, perché ho insegnato anche lì, venendo periodicamente in Italia per gli anni sabbatici, dato che mi occupavo di ebraismo italiano. Tra l’altro quasi tutti i miei libri sono stati pubblicati originariamente in italiano da Il Mulino, gli ultimi da Rizzoli e quello che è uscito pochi giorni fa di nuovo da Il Mulino. Devo dire un’altra cosa e forse è la prima volta che la dico. Da una parte, mi sono trasferito in Israele nel 1971 e tutti hanno cercato di spiegare come mai, invece di rimanere in Italia e proseguire la tradizione famigliare del rabbinato, fossi andato in Israele a fare lo storico. Ebbene, c’è stato chi ha detto che la presenza di mio padre soffocava quelle che erano le mie aspirazioni: niente di tutto questo. Certamente, la presenza di mio padre era notevole, ma non certo come è stata negli anni successivi sul piano politico. Devo dire che il motivo (e lo dico per la prima volta) fu un concorso per vice-rabbino di Roma, un concorso internazionale dove c’erano dei rabbini che erano venuti da Israele e dagli Stati Uniti che dovevano decidere chi era più adatto. Mi pare che ci fossero sette o otto candidati e io presentai la mia candidatura. Vinsi quel concorso e mi accingevo a diventare vice-rabbino di Roma. Senonché, alcuni consiglieri della comunità si presentarono una sera a casa mia, dicendo: “Non ti venga in mente di accettare, perché provocheresti un danno a tuo padre, dato che padre e figlio non possono essere rabbino e vice-rabbino. Abbiamo un’altra proposta da farti: quella di diventare vice-rabbino di Milano”. Naturalmente, a un giovane come me (allora avevo 28 anni) la cosa sembrò un sopruso, mentre oggi a posteriori ritengo che fosse la decisione più giusta. Decisi di trasferirmi in Israele provvisoriamente, poi il provvisorio è diventato definitivo e sono più di 35 anni che vivo in Israele e che insegno nelle università israeliane. Devo dire che nella mia autobiografia volutamente non ho parlato dell’ultimo libro, che ha provocato uno scandalo internazionale. Non ne voglio parlare… Cioè, se qualcuno me lo chiede … Voglio semplicemente dire questo: tutto quello che ho scritto era il frutto di 8
sei anni di lavoro e che quando ho presentato alla televisione israeliana nel 2005 i primi risultati di quella ricerca non ci sono state reazioni di sorta, semplicemente una discussione su alcune interpretazioni. Il motivo per cui nel 2007 è scoppiato il pandemonio ancora prima che uscisse il libro, vi ricordate, subito dopo il paginone de “Il Corriere della Sera” con Sergio Luzzatto, e i rabbini intervennero immediatamente, molto prima di avere letto il libro, è una cosa che dovrà essere successivamente indagata per qualche riguarda la psicologia, la paura dell’antisemitismo, che molto spesso fa sì che l’immagine dell’ebreo diventi non viva, ma una caricatura. In questo sono perfettamente d’accordo con mio padre: l’ebreo è come tutti gli altri, ce ne sono stati di buoni, ce ne sono di cattivi, ci sono stati periodi in cui l’ebraismo è stato all’avanguardia, ci sono stati dei periodi e dei luoghi in cui ci possiamo anche vergognare di quello che è successo e di come ci siamo comportati in certe occasioni. Secondo me, questo rende l’immagine dell’ebreo un’immagine viva, l’immagine di un gruppo che ha dato tanto all’umanità, ma che talvolta ha commesso i suoi errori. Io rifiuto e continuo a rifiutare l’immagine stereotipata di un ebraismo virtuale (questo è il titolo anche di un mio piccolo saggio che ho pubblicato per Rizzoli), disancorato totalmente dalla realtà, perché non soltanto non è vero, non soltanto provoca dispetto in chi lo affronta in maniera obiettiva, ma è proprio questo che porta acqua al mulino dell’antisemitismo. Perché, secondo me, l’immagine dell’ebreo come è realmente, quello che ha fatto realmente di bene e quelli che sono stati gli errori inevitabili che ha commesso fanno sì che l’ebreo sia un personaggio umano, un personaggio che può essere amato, può essere criticato, ma presente. Se invece lo mettiamo con l’aureola della santità, nessuno ci crede e indispettisce chi deve affrontare il problema della storia ebraica, che ha avuto dei momenti estremamente tragici, ma su cui non si può condensare tutta l’essenza ebraica. Noi parliamo di Shoah, ma voglio dire con concretezza che l’ebraismo non è nato nella Shoah e non si esaurisce nella Shoah: è stato un episodio estremamente tragico, che ha lasciato delle cicatrici indelebili, ma che non può essere l’unica porta d’ingresso all’ebraismo. L’ebraismo ha dato molto di più: l’ebraismo non è stato soltanto passivo, non è stato soltanto vittima. Questo ho cercato nel mio piccolo di esaminare nei miei libri, compreso l’ultimo, che parte proprio dalla considerazione che un ebraismo non è mai univoco, come il precedente in cui parlavo degli ashkenaziti, dei sefarditi, degli italiani, facendo le debite diffe9
renze. E anche quando scrivo della cucina ebraica sottolineo che la cucina ebraica non è una, ma sono le cucine ebraiche: l’ashkenazita, la sefardita, l’italiana. Ci sono differenze che vanno colte e che sono il prodotto del contatto quotidiano della società ebraica con la società circostante. Quindi, nel caso di quella tedesca con quella tedesca, nel caso di quella italiana con quella italiana. Quando si dice che gli ebrei italiani sono di manica larga, si tratta di uno stereotipo che poi viene applicato anche al “volemose bene” degli italiani, all’italiano con la chitarra, con la pizza, cui piacciono le donne e piace anche fare bagordi. Questa è l’immagine che l’ebreo italiano ha agli occhi degli altri. Questo avviene perché è nel contatto con la società circostante che si creano alcune delle caratteristiche del nucleo ebraico che dobbiamo affrontare. Detto questo, restituisco la parola. Flavio Casali. Colgo l’occasione per sottolineare come l’insegnamento molto pratico che scaturisce dalle sue parole, secondo me, è in linea con ciò che di voi, dei suoi figli, ha detto il rabbino capo Toaff durante un’intervista fatta con Alain Elkann che gli chiedeva: “Lei cos’ha insegnato ai suoi figli?” E lui risponde: “Non ho mai dato a loro un insegnamento teorico. Ho sempre voluto essere loro di esempio per come comportarsi in determinate situazioni. Nella vita ci sono situazioni piacevoli, altre meno piacevoli e altre del tutto spiacevoli. Bisogna saperle affrontare con una certa coerenza, che io ho cercato di insegnare ai miei figli. Dopo che hanno imparato i principi morali su cui si basa l’ebraismo, sono vaccinati contro i possibili sbandamenti, che non possono essere esclusi totalmente (sarebbe presumere troppo), però divengono un’evenienza molto remota”. Si ritrova in queste parole? Ariel Toaff. Perfettamente, perfettamente. Flavio Casali. Bene, entriamo nel vivo della serata, affrontando il libro del prof. Toaff, un libro che è popolato di scienziati, di alchimisti, di chiromanti, tra cui spiccano due figure, per certi aspetti anche abbastanza enigmatiche: quella di Abramo Colorni e quella di Maggino Gabrielli. Si tratta di due ebrei, protagonisti, come tanti altri ebrei del tempo, della vita di corte dei grandi principi. Sono, vorrei dire, delle colonne portanti di tante economie (quella della produzione del baco da seta), addirittura di economie che servono per far vincere le guerre (la produzione del salnitro), ma avremo modo di parlarne. Comun10
que, capaci di inventare ritrovati in grado di aggiungere ricchezza a questi principi, che, ovviamente, li sostengono, li tengono accanto a sé, presso la propria corte, ricevendone i frutti del loro ingegno. Volevo chiedere al nostro professore se si tratta semplicemente di una minoranza di ebrei privilegiata, che può vivere fuori dai ghetti, perché loro potevano vivere fuori dai ghetti col benestare dei principi, ma anche col benestare di Santa Madre Chiesa o, in realtà, è comunque una minoranza sfruttata, seppur pagata, per far crescere i mezzi del potente, del principe di corte. Ariel Toaff. Dunque, va subito chiarito un punto. Il Cinquecento è uno dei secoli più difficili per la compagine ebraica di tutto il mondo. Cominciamo con un avvenimento che ha segnato la vita degli ebrei non meno della Shoah: io parlo dell’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492, seguita successivamente dall’espulsione degli ebrei dal Portogallo, dal nascere del problema del marranesimo, cioè del cripto-giudaismo, dall’espulsione contemporanea degli ebrei dalla Sicilia (considerate che in quel periodo in Sicilia c’erano tanti ebrei quanto in tutto il resto d’Italia). E voglio sottolineare questo fatto. Perché voi abbiate la proporzione di quell’avvenimento, pensate che l’ebraismo nella Penisola iberica, dal punto di vista numerico, era superiore a tutto il resto dell’ebraismo in Europa, cioè tutti gli ebrei italiani, più tutti gli ebrei tedeschi, ecc. non arrivavano a quel numero. Sarebbe come se oggi espellessero gli ebrei da Israele o dagli Stati Uniti. E non era finita lì, perché in alcune regioni dell’Italia e in tutta l’Italia meridionale nel 1541 gli ebrei vengono espulsi. Quindi da Napoli in giù, poco prima della metà del Cinquecento, non c’era un solo ebreo e se sono ritornati lì lo hanno fatto molto dopo, all’epoca dei Rothschild, ecc. nell’Ottocento-Novecento. Quindi, sotto Roma non c’erano più ebrei. Ma anche nello Stato Pontificio la situazione era andata deteriorandosi. Nello Stato Pontificio gli ebrei vengono espulsi nel 1569, fatta esclusione per due località: per il ghetto di Roma e per Ancona. Le motivazioni sono opposte, ma molto significative. A Roma gli ebrei devono rimanere, chiusi nel ghetto, perché, diceva Paolo IV, devono essere testimonianza nella loro misera condizione della situazione miserevole della Sinagoga rispetto alla Chiesa vincente. Quindi, un discorso di carattere teologico. Ma se noi andiamo ad Ancona, il discorso è tutto diverso: ad Ancona gli ebrei, soprattutto i mercanti, rimangono perché Ancona è il porto pontificio che intrattiene rapporti 11
con i Balcani e gli ebrei sono coloro che sono in grado di mantenere questi rapporti commerciali, mercantili con i paesi del Turco e, nello stesso tempo, fare concorrenza a Venezia. Quindi, sulla direttrice Ancona-Ragusa sono gli ebrei che hanno la parte del leone: il mercantilismo è arrivato anche nello Stato Pontificio. Quindi, pragmatismo per quanto riguarda Ancona, teologia per quel che riguarda Roma. Ma nello stesso tempo, se guardiamo bene e se voi in quei giorni foste andati in Vaticano, avreste trovato che il consulente finanziario del papa era ebreo, che il suo medico personale era ebreo e che, quindi, proprio il papa non aveva paura che lo avvelenassero nel corpo e nello spirito. Questo significa due cose: che possiamo scegliere di raccontare la storia ebraica partendo dai ghetti fatiscenti, partendo dalla situazione miserevole degli ebrei, per esempio, nel ghetto di Roma, sotto il Portico di Ottavia, che facevano i cenciaioli, e farne praticamente l’immagine paradigmatica degli ebrei in questo secolo, cacciati e ridotti in servitù nei ghetti. Ma, contemporaneamente, dobbiamo fare un altro discorso, e questo discorso ho cercato di farlo qui: per gli ebrei che sanno adattarsi (perché questo era il vero motivo), che sanno adattarsi al mutamento economico portato dal mercantilismo, cioè che sanno passare dal prestito a interesse, che ormai compiono anche i cristiani, rendendo la funzione ebraica ormai obsoleta; quindi, tutti gli ebrei che riescono a passare dal campo del commercio del denaro al campo del commercio mercantile, dell’impresa mercantile, sono questi che vengono coccolati. Paradossalmente, i pontefici preferiscono i marrani, che sono degli eretici potenziali, agli ebrei che da secoli hanno vissuto a Roma, che non portano nessuna utilità. Uno dei personaggi che io affronto nel mio libro è Maggino Gabrielli, che è un inventore che ha idee e che viene da Venezia. Ebbene, il granduca di Toscana aveva chiuso gli ebrei, come il papa, in due ghetti: a Siena e a Firenze. Maggino Gabrielli inventa la città e il porto di Livorno, dove chiama i mercanti che erano nell’Impero ottomano, scappati dalla penisola iberica, e trasforma Livorno in un porto franco di grandissimo momento. E’ interessante notare che, mentre nello stesso tempo ci sono due ghetti, gli ebrei di Livorno vivono in completa tranquillità, con privilegi, in una situazione praticamente ottima, senza che l’Inquisizione possa minimamente mettere bocca sulle loro traversie passate, sul fatto che, più o meno, quasi tutti avevano preso il battesimo a suo tempo e ritornavano all’ebraismo. Questo, in grande, dimostra questo fenomeno, cioè che se è vero che la massa degli ebrei è rinchiu12
sa nei ghetti, affronta degli stereotipi che non sono più gli stereotipi soliti della pericolosità, dell’ebreo che succhia il sangue del cristiano attraverso il prestito a interesse, che è un nemico, ma un nemico che veniva apprezzato, che veniva stimato: nel Cinquecento l’ebreo è ridicolo, fa una serie di rituali incomprensibili, è un poveraccio la cui situazione economica mostra quanto abbia perso ormai la battaglia. Ebbene, se noi non esaminiamo l’ebraismo dall’angolazione della massa degli ebrei diseredati, tacciati di infamia, inutili, vedremmo che c’erano degli ebrei, gruppi grossi di ebrei che poi convoglieranno nello sviluppo del porto di Amsterdam, oltre a quello di Livorno, Venezia, Londra, Anversa, che avevano la possibilità, avendo fatto una scelta di carattere economico, diciamo così una scelta professionale, che non soltanto li metteva al riparo, ma faceva anche concedere loro dei privilegi. Insieme a questi c’erano individui geniali, come lo stesso Maggino Gabrielli, che inventa un metodo per raddoppiare la produzione annuale della seta, un progetto che viene poi adottato un po’ da tutti in quel periodo, che fa anche scoperte di minore importanza, come delle macchine per spegnere il fuoco (quelle per ripararsi dai terremoti no, perché altrimenti sarebbe ricordato fino a oggi), degli oli speciali per pulire i cristalli oppure la famosa foglietta, vale a dire quella bottiglia a collo largo che c’è fino a oggi di mescita del vino nelle osterie romane. E soprattutto Colorni, che parte prima come cortigiano dei Gonzaga, poi passa agli Este con Alfonso II e, contemporaneamente, lavora anche per i Savoia, facendo anche delle puntate nel Ducato di Milano e in Toscana. Dopodiché, fa il grande salto e si trasferisce in quella che era la capitale dell’alchimia e della scienza d’Europa, Praga, e diventa cortigiano di Rodolfo II. Dopo i suoi successi alla corte di Rodolfo II, si trasferisce a Stoccarda presso Federico di Württemberg e anche lì ha la possibilità di esporre le sue teorie. Vediamo che cosa concretamente Abramo Colorni ha. Prima di tutto, mi sono chiesto come mai fino a oggi io sono stato il primo ad andare in Germania al Wolfenbüttel a esaminare i manoscritti di Abramo Colorni; come mai nessuno fino a oggi (tutti avevano parlato di Abramo Colorni) aveva pensato di spiegare il segreto del successo di un personaggio fondamentale nell’Europa di Rodolfo II, degli Este e dei Gonzaga. E la risposta che mi sono dato è stata molto semplice: perché l’immagine di questi ebrei in certa misura contraddiceva lo stereotipo dell’ebreo vittima, in certa misura. Si doveva per forza di cose vedere che in effetti c’erano state delle eccezioni, e anche delle ecce13
zioni importanti, e se ritorniamo ad Abramo Colorni vedremo che praticamente nell’Euthimetria, che è diciamo così un saggio, che io ho visto con tutti i vari disegni, egli fa due o tre scoperte che erano conosciute in quel periodo ed erano attribuite a lui. La prima, di cui dotava le truppe degli Este, era l’archibugio con tiro a ripetizione. Noi pensiamo che questa fosse una scoperta secondaria, ma era fondamentale in quel periodo. La seconda è quella degli orologi solari, della meridiana a riflessione. E’ vero che c’è chi sostiene che Keplero e altri l’avevano fatta in certa misura in precedenza, ma lui è il primo ad applicarla in Italia. La terza, che è rimasta fino a oggi, è la scoperta del contachilometri: Abramo Colorni applica il contachilometri, l’odometro, alle carrozze. Per cui, viaggiando in carrozza si poteva vedere a quanto si andava e quanti chilometri si facevano. Per cui, successivamente, il contachilometri, che è conosciuto persino da Galileo che lo apprezza, viene adottato anche dai Savoia in tutte le loro carrozze e, praticamente, è una scoperta che regge fino ai nostri giorni. E direi di più, esaminando un secondo testo che si trova sempre nella Biblioteca Cesarea di Wolfenbüttel in italiano (tutti scritti in italiano), la Chirofisionomia, in cui stabilisce non tanto che la chiromanzia è una scienza (anzi, si batte contro la chiromanzia modernamente intesa), ma sostiene che dalla lettura dei segni delle mani si può risalire, non a una previsione futura di quello che succederà, ma alla visione, all’inquadramento, del carattere della persona che ha quei segni sulla mano. Direi che chi ha letto quel testo si rende conto che Cesare Lombroso nella sua Fisiognomica ne tiene conto. Quindi, si tratta di un personaggio che vive tragicamente nel Cinquecento. Non dimentichiamoci che, secondo le mie teorie, viene ammazzato poi, in fondo, perché non fornisce a Federico di Württemberg il segreto per poter fare polvere da sparo da terra, dal salnitro esposto nella terra umida (tutti sapevano che non si poteva fare), ma evidentemente aveva persuaso Federico che questa era una scoperta che poi lui non è disposto a fornire e, in pratica, decide la sua sorte che sarà quella di essere avvelenato a Mantova. Quindi, nato a Mantova, morto a Mantova, ma in mezzo è stato un po’ in tutta Europa. Tra l’altro, Abramo Colorni era anche il più grande Houdini di quei tempi, cioè sapeva scappare di prigione e far scappare la gente di prigione, tant’è vero che il motivo principe per cui Rodolfo II lo chiama a Praga è perché liberi il fratello Massimiliano che era in prigione a Lublino, e poi rimane lì. Quando poi non fornisce a Federico la ricetta del salnitro di terra umida, Fede14
rico lo rinchiude in un torrione e dice: “Fintanto che non tiri fuori la ricetta, rimani qui”, se non peggio, tant’è vero che Kelly e altri, che avevano cercato di scappare di lì, si erano maciullati le gambe. Invece, Abramo Colorni riesce a rompere i chiavistelli, a rompere le catene, a fare dei nodi alla corda per scendere giù e non si fa assolutamente male. Sapeva che lo attendevano alle porte della città per arrestarlo, quindi aveva trovato un altro luogo dove far saltare una parte delle mura con dell’esplosivo silente e trova la via del ritorno in Italia. Tant’è vero che in quegli anni tutti erano sbalorditi nel vedere che era riuscito a scappare. Io ho parlato di due personaggi, ma avrei potuto parlare di un’altra decina di personaggi vissuti soprattutto in Italia, ma anche altrove, in questo periodo, che vengono apprezzati come cortigiani importanti e che forniscono il loro contributo ai regnanti e ai principi dell’Europa di fine Cinquecento. Devo dire che la loro sorte è legata, diciamo così, al principe: o il principe che li tiene sotto la propria protezione muore e lascia l’eredità a un figlio che non è così benevolo nei loro confronti e quindi la loro sorte è segnata, oppure molto peggio quando non riesce a fornire al principe quello che il principe si aspetta da lui o ancora peggio quando ormai tutto quello che doveva fornire l’ha fornito, ecco che il principe è disposto ad abbandonarlo alla sua sorte, che non sempre è una sorte facile e serena. Flavio Casali. Quindi, in realtà possiamo un po’ ribaltare quelli che furono i titoli dei quotidiani nazionali che salutarono l’uscita di questo libro: “Ariel Toaff contro lo stereotipo dell’ebreo sempre vittima”. In realtà, le cose girano a tal punto che quell’inguaribile difetto di essere ebrei alla fine fa sì che quello stereotipo in realtà venga rispettato di più, che a pagare le presunte colpe, le presunte mancanze del padre ci sia il figlio di Abramo che non è così arguto né così ingegnoso come il padre e in qualche maniera viene scaricato dai protettori del padre. Ariel Toaff. Guardi, quasi tutta l’ultima parte del mio libro vuole dimostrare che, contemporaneamente ai successi di Abramo Colorni, nella stessa Mantova venivano bruciati vivi degli ebrei e poi impiccati per i piedi. Flavio Casali. E devo dire che lei è anche molto onesto nella sua prefazione, là dove dice: “Trattasi di un dossier dove tutto era probabile e possibile, fuorché il lieto fine”. Quello che volevo chiederle: secondo 15
lei che cosa ha mosso questi uomini (ma la domanda potrebbe valere anche per un Leonardo da Vinci, per un Galileo Galilei)? Che cosa inseguono, da che cosa vengono spinti: soldi, successo fama, il fatto di essere stati tolti da un ghetto, di non avere il marchio di infamia (che poi è parzialmente vero)? Che cosa li ha mossi in tutto questo loro peregrinare, in questo loro “vendersi” al principe di turno, alla dama di turno, al prelato di turno? Ariel Toaff. Ma, io ho trovato la risposta effettivamente nella prefazione che Colorni fa alla sua Euthimetria per poi portarla a Praga. Qui si dice: perché io mi sto sobbarcando queste continue fatiche, cambiando anche i signori per i quali lavoro? Perché per lui era importante la scoperta in assoluto e gli unici che erano in grado di finanziare i macchinari per queste scoperte erano i principi e per potersele far finanziare doveva presentare a loro l’utile della scoperta. Magari a lui interessava anche farne altre che al principe interessavano meno; al principe interessava l’archibugio con tiro a ripetizione, interessava la polvere da sparo, interessavano tutti i trucchi (lui ha scritto anche un cifrario segreto per la protezione degli agenti al servizio dei principi). Tutta queste cose interessavano molto, ma interessava meno sapere quali erano i mezzi per misurare con precisione la profondità del mare, l’altezza degli edifici, servendosi appunto di macchinari scoperti. Ora, lui poteva ottenere questi macchinari soltanto se offriva ai signori quello che loro pretendevano. E’ abbastanza significativo il fatto che, proprio con Federico a Stoccarda, lui cerca di offrire una serie di scoperte tutte valide, ma Federico rimane fermo: “A me non interessa niente di tutto quello che stai facendo: io voglio il segreto per fare il salnitro di terra umida”. Quindi, il loro non era tanto un discorso di carattere tipicamente ebraico, ma era un discorso di uno scienziato che vuole pervenire a determinate scoperte e che ritiene che i principi con i loro fondi siano gli unici in grado di fornire i mezzi necessari per poter portare avanti le scoperte. Naturalmente, si parla della fama che viene raggiunta, ma è semplicemente un by-product della scoperta stessa: non è per quello che viene fatta. Tant’è vero che in molti casi si sottopongono a continui spostamenti per poter arrivare a fare qualche cosa che in un luogo non sono ormai più in grado di potere compiere perché i finanziamenti sono cessati. Anche oggi accade una cosa del genere. Se voi pensate agli universitari, ai ricercatori che vanno altrove, la domanda che ci poniamo non è tanto se abban16
donino perché a loro non piace più l’Italia, ma qual è il motivo per cui ritengano di dover andare in un altro posto dove poter continuare la loro ricerca: perché per loro la ricerca è la cosa più importante e dove hanno le condizioni migliori per poterla realizzare loro si recano. Flavio Casali. Questa considerazione senz’altro si ritaglia molto bene sulla figura di Abramo Colorni, che, in fin dei conti, forse, non è così attento alla sorte degli altri ebrei della comunità, mentre mi pare di capire che Maggino Gabrielli, in qualche maniera, ci tenga a essere il portavoce degli ebrei, il console, avere le credenziali per cui si presenta a nome della sua comunità e per la sua comunità tutto sommato è disponibile ad andare incontro agli Este che vogliono fare un porto in quella parte di Adriatico nota come La Mesola, vicino al palazzo del duca, progetto che però fallisce, non va in porto, mentre va molto bene a Livorno, cerca di andare in Germania, ma anche lì ha qualche problema. Ariel Toaff. Anche nella Lorena. Flavio Casali. Anche nella Lorena. C’è più il senso della comunità, forse, in Maggino. Ariel Toaff. Sicuramente. Tant’è vero che lui provvede sempre questi mercanti della condizione base, cioè che ci sia subito la sinagoga, che viene loro concessa, perché ancora una volta i principi subordinano la concessione della sinagoga al fatto che questi mercanti portino effettivamente utilità ai commerci e ai traffici, prima del granduca di Toscana, successivamente della Lorena, vediamo a Treviri e poi nel ducato di Württemberg. Flavio Casali. L’epilogo dei nostri due protagonisti è ovviamente tragico: per Abramo si sospetta un avvelenamento, forse perpetrato da un ebreo rivale che con lui a Stoccarda ha avuto qualche problema, mentre per quanto riguarda Maggino, morto qualche anno prima, lui muore senza lasciare significative tracce. Ma il libro non finisce qui: c’è un ultimo capitolo dove l’autore ci descrive questo mondo che attrae tanto gli ebrei, quanto i cristiani, che in qualche maniera nell’esoterismo cercano di esorcizzare alcune paure. Per cui vediamo cristiani che si rivolgono a streghe o presunte tali ebree ed ebrei, in particolare 17
donne ebree (soprattutto in fase di parto, che quindi devono affrontare una situazione perigliosa) che vanno da contadine cristiane e in qualche maniera si votano all’immagine della Madonna. E qui c’è una sorta di comunanza, per quanto riguarda le superstizioni, le credenze. Come mai questo strano capitolo posto alla fine di questo bel libro? Ariel Toaff. Perché ritenevo a un certo punto di dover sottolineare un fatto. Oggi sembra assodato per noi che cosa sia scientifico e che cosa sia, viceversa, non scientifico, non provato. Ma allora il confine, per esempio, tra alchimia e chimica, tra astronomia e astrologia, tra negromanzia e scienze mistiche della Qabbalah era quanto mai un confine non sicuro e, soprattutto nelle credenze popolari il popolo ebraico era simile al popolo cristiano. E quindi, in un posto come Gavardo non sarebbe stata una cosa assurda vedere che le donne ebree si rivolgevano a una maga cristiana in fama di essere capace di portare fortuna in certi momenti difficili e che la cosa contraria avvenisse. Ho portato numerosissimi esempi, soprattutto nella zona di Verona (a Montagnana e in altri luoghi), dove c’erano ebrei che si rivolgevano alle maghe cristiane, come c’erano cristiani che si rivolgevano a ebrei. Molto spesso i cristiani chiedevano il pane azzimo agli ebrei per poterselo mettere nella bottega, in alto, insieme alle immagini dei santi. In questa religione popolare, popolata di superstizioni e un po’ ecumenica, non erano così chiari i confini tra ebrei e cristiani su chi avesse ragione, probabilmente tutti e due. Non nessuno dei due, probabilmente tutti e due. Flavio Casali. Era forse più chiaro alla Santa Inquisizione che faceva roghi tanto per gli uni, quanto per gli altri. Ariel Toaff. Esattamente. Flavio Casali. Questa indagine sulla superstizione, e mi perdoni se lo faccio, mi spinge anche in qualche maniera a richiamare quelle constatazioni che animano i pregiudizi che motivano il volume Pasque di sangue e contro i quali lei si è scagliato. Innanzitutto, le chiedo che cosa ha a che fare Gavardo con questo libro. Tenete conto che, se voi andate all’indice dei nomi e dei luoghi, Gavardo viene citata per ben quattro o cinque pagine. Come mai, professore? 18
Ariel Toaff. Dunque, non avevo nessuna volontà di occuparmi di Gavardo, diciamo così, in maniera esplicita, ma, quando ho esaminato i fatti di Trento sulla base dei documenti dei processi e dei documenti, c’è stato prima un fatto che era conosciuto da tutti, cioè che uno dei maggiori imputati era un certo Angelo da Verona che proveniva da Gavardo e che aveva dei servi ebrei che provenivano da Gavardo. A questo punto ho cominciato a guardare come questa comunità, che evidentemente era una comunità ashkenazita (tedesca, come tutti quelli che ruotavano intorno alla comunità di Trento) fosse organizzata qui, sulla base della documentazione che io trovavo. Devo dire, oggettivamente, che alcune conferme di quelle che erano state le mie tesi le ho trovate stamattina quando sono andato in archivio a Salò e ho trovato gli stessi nomi che avevo trovato precedentemente. Posso dire questo fatto: Gavardo era un posto di primaria importanza nel periodo di cui ci occupiamo noi, cioè alla fine del Quattrocento. Era di primaria importanza, perché (e la conferma l’ho avuta anche oggi) era una delle due uniche località dove era concesso il prestito a interesse, dove gli ebrei potevano aprire banchi: Gavardo e Iseo. Il che significava che tutta la clientela di Brescia arrivava a Gavardo. Tant’è vero che colui a cui era stata affidata la responsabilità del banco di Gavardo abitava a Brescia, avendo banco a Gavardo, ed era il medico Rizzardo, che faceva parte dell’entourage dei Colleoni capitani della Serenissima a Brescia, quindi un personaggio di prim’ordine. Ora, questo Rizzardo abitava a Brescia e procurava naturalmente i clienti del banco: i bresciani, che precedentemente si erano rivolti altrove, avevano molte possibilità, adesso avevano solo la possibilità o del banco di Iseo o del banco di Gavardo. Per cui lui, qui, aveva fissato anche la gestione del banco da parte dei suoi familiari: un fratello era Enselino, Anselmo, Asher in ebraico, e un altro fratello era Jacob. Jacob era conosciuto: l’ho visto oggi in moltissime petizioni che vengono rivolte a tutte località della zona per cercare di accoppiare a Gavardo altre filiali minori. Le risposte sono tutte negative: Gavardo rimane unica. Ebbene, questo Jacob, che è chiamato altrove Jacob da Brescia (la famiglia era bresciana con banco a Gavardo), lo troviamo poi successivamente di nuovo nel processo di Trento. Lo troviamo quando gli ebrei sono già stati giustiziati e sono rimaste in prigione le donne ebree, che si cerca di far liberare. A Rovereto, fuori dalla giurisdizione di Trento, quindi sotto la Serenissima, si organizza una lobby ebraica con l’intento, insieme al legato pontificio, di portare alla libe19
razione delle donne. A capo di questa lobby chi troviamo? Jacob da Brescia residente a Gavardo, che è detto nei documenti il capo di tutti gli ebrei. Il che fa vedere che l’autorità di questa famiglia di Rizzardo e di Jacob da Brescia era un’autorità indiscussa tra gli ebrei della zona dell’Italia settentrionale nel periodo del processo di Trento. Perché aveva questa importanza? Non c’è il minimo dubbio: non era un’importanza dovuta alla sua scienza rabbinica (non era rabbino), non era un’importanza dovuta al fatto che fosse un grande medico (il fratello lo era). L’unico dato che noi abbiamo era che il banco di Gavardo era uno dei più importanti di tutta l’Italia settentrionale e il bilancio del banco equivaleva al bilancio di banchi molto più importanti in altre città d’Italia. Quindi, Gavardo per me era un nodo importantissimo. Siamo nel 1475. Quindi nell’ultimo scorcio del Quattrocento, Gavardo aveva una funzione molto importante nella direttrice dalla Germania all’Italia di banco che serviva la città di Brescia. Ecco perchè, quindi, noi vediamo a ogni piè sospinto che Gavardo dall’elenco dei nomi risulta più citata di Brescia. Ho visto a suo tempo pubblicato un articolo su Simonino nel “Vallesabbia News” (mi pare fosse nel 2007), in cui si sottolineava l’importanza del mio libro nel fornire nuove notizie sulla comunità ebraica vivente a Gavardo nell’ultimo scorcio del Quattrocento. Flavio Casali. Fatto sta che a Gavardo, oltre che denaro a pegno, si poteva anche avere sangue, polvere di sangue che, opportunamente mischiata a vino, poteva arricchire la Pasqua ebraica. Ci illustra un po’ questa cultura del sangue, ovviamente ritualmente (siamo nel mondo del mito e non del rito, lo chiariamo molto bene)? In che cosa consisteva questa cultura? Ariel Toaff. Dunque, voglio premettere un discorso generale. Camporesi ha scritto del sangue nella cultura cristiana del periodo di cui ci stiamo occupando. Il sangue essiccato come elemento terapeutico di primaria importanza era conosciuto: non c’era farmacia che non fornisse del sangue essiccato. Si riteneva che, praticamente, la vecchiaia potesse essere combattuta con delle opportune pozioni dove fosse sciolto del sangue essiccato. Questa cultura del sangue come elemento terapeutico era presente tra i cristiani ed era presente tra gli ebrei. Devo dire non tra tutti gli ebrei: soprattutto tra gli ebrei viventi nelle valli del Reno e del Meno in Germania. E aveva anche delle 20
valenze di carattere magico: si riteneva che ingerito nelle dosi giuste questo sangue essiccato potesse proteggere contro il malocchio, per esempio. Era una cultura popolare primitiva, cui facevano capo sia la società contadina cristiana che quella ebraica, che era permeabilissima a questo. Devo dire che nel caso particolare delle celebrazioni della Pasqua, l’ebraismo tedesco era uscito da periodi di persecuzione molto violenta, soprattutto a partire dalle Crociate, ma anche successivamente, e devo dire che gli ebrei erano arrivati al punto di uccidere i propri figli (lo descrivo attraverso i testi) per evitare che cadessero in mano cristiana per essere battezzati a forza. Quindi, centinaia di bambini ebrei trovano la morte per mano dei loro stessi genitori, alcune volte i maestri di scuola uccidono con le proprie mani i propri discepoli affinché non cadano nelle mani dei cristiani che imporrebbero loro il battesimo. Ebbene, come reazione a questo tipo di avvenimento, alcune frange dell’ebraismo ashkenazita trasformano la Pasqua in una celebrazione che non è tanto a ricordo dell’uscita dall’Egitto e del Faraone e delle piaghe, ma la attualizzano, invocando le maledizioni sugli eredi del Faraone. Chi sarebbero gli eredi del Faraone? Sono i cristiani. Per poter rendere magiche, quindi effettive, le maledizioni, nel momento in cui vengono recitate le dieci piaghe d’Egitto, che si aprono con la parola dam, che significa sangue, quando il Nilo viene trasformato in sangue, prendono l’ampollina con il sangue in polvere essiccato (che hanno comprato, perché c’erano dei mercanti che lo vendevano e che spesso anche lo compravano dai contadini cristiani), ebbene, lo sciolgono, non lo bevono e, continuando nella recita delle maledizioni, concludono dicendo che da queste maledizioni Iddio ci salvi e invece cadano sul nostro persecutore. La doppia valenza del “nostro persecutore” è che nell’epoca della Bibbia il persecutore era il Faraone, nell’epoca successiva è diventato Aman, cioè il ministro del re Serse, di cui si ricorda nel Carnevale di Purim la miracolosa salvezza, e adesso ai loro occhi, agli occhi soltanto di alcune frange del gruppo ashkenazita, ecco che il sangue diventa elemento magico che deve rendere micidiale la maledizione liturgica. A questo punto, c’è un altro discorso che voglio fare. Non dimentichiamoci che in qualunque società ci sono degli estremisti (ci sono oggi e c’erano allora), estremisti che avevano di fronte agli occhi quello che era successo e che dicevano no, non può bastare questo: se siamo stati costretti a uccidere i nostri figli, è bene che anche gli altri sappiano provare questo. Naturalmente, non si trattava di una maggioranza, non si trattava 21
del main stream, ma si trattava di estremisti, come li potete trovare anche oggi in qualunque società: gente che è disposta a farsi saltare in aria su un autobus o vendicarsi su dei civili che non hanno compiuto niente unicamente perché hanno colpito altre persone. E non voglio entrare nei vari episodi. C’erano questi estremisti e questi estremisti, come oggi, hanno potuto compiere effettivamente degli omicidi di bambini cristiani. Quello che voglio dire è che, praticamente, non è che il rituale lo giustificasse, ma attraverso il rituale essi davano a sè stessi una spiegazione che poteva essere in qualche misura accettata. In alcuni testi (sia nella prima edizione che nella seconda) sottolineo che molti di questi estremisti (non erano molti) evitavano scrupolosamente di far sapere la cosa alla comunità ebraica, perché li avrebbe sicuramente denunciati. Non parliamo dei sefarditi, degli italiani e degli orientali che non conoscevano neanche questo fatto, perché è tutto collegato a determinati avvenimenti avvenuti in Germania, ma anche all’interno del gruppo tedesco erano una minoranza. Vogliamo fare un altro esempio, che riporto. In quei giorni, come sempre tutti gli anni, due emissari delle comunità ebraiche tedesche arrivarono da queste parti per procurarsi i cedri e i limoni, che erano considerati una magnificenza. Sul lago di Garda si trovavano i cedri e i limoni migliori ed essi venivano ogni anno per comprarli quando erano ancora sugli alberi, quando dovevano ancora maturare completamente, e ne rifornivano le comunità ebraiche tedesche. Era una cosa che avveniva praticamente tutti gli anni. C’era un’altra corrente che da altre parti della Germania raggiungeva San Remo, ma i limoni del lago di Garda erano considerati prelibati, tant’è vero che gli ebrei ashkenaziti sostenevano che gli ebrei italiani hanno la possibilità di avere i cedri e i limoni più belli, quelli del lago di Garda. Tant’è vero che il loro pesce è il migliore perché ci mettono tanto limone e raccontano che mettevano le scorze di limone nella biancheria perché fosse profumata tutto l’anno. Ebbene, questi emissari arrivano in quei giorni a Trento e sentono discorsi che riguardano alcuni estremisti. Allora dicono: “Noi non vogliamo averci nulla a che fare. Voi siete pazzi”, e si allontanano completamente. Sono degli emissari ufficiali e quindi ritengono che queste siano delle assurdità e delle bestialità che non vogliono neanche sentire. Ecco che, quindi, abbiamo un mondo variegato, certamente violento come era il mondo del Medioevo e del Rinascimento, dove certamente potevano sussistere degli elementi di estremismo, naturalmente giustificati dal fatto che ritenevano, a 22
ragione, di essere stati colpiti nei loro figli, che erano stati costretti a uccidere. Quello che voglio dire qui è che, ancora una volta, ho ritenuto di esaminare un ebraismo come era nella realtà, non come era nelle teorie ebraiche o nel messaggio ebraico, ma esattamente come la storia aveva segnato la compagine ebraica, così come in Israele oggi ci sono estremisti che si basano sulla Bibbia per compiere delle azioni che ritengo del tutto riprovevoli e che si ammantano di certe citazioni rabbiniche (di rabbini di allora e di oggi) per giustificare determinate azioni. Non dimentichiamo che lo stesso Rabin è stato ucciso nella piazza dei Re di Israele dopo una manifestazione pacifista da un ebreo osservante, quando in tutto il periodo precedente era stato riesumato un antico rituale secondo cui il traditore doveva essere messo a morte. Io non ritengo minimamente che avessero voluto riesumare il rituale perché ritenevano che si dovesse ritornare alle origini, ma il rituale veniva riesumato in funzione di giustificazione di un atto che comunque avrebbero compiuto. Quindi, il passaggio tra una ritualità immaginaria e un interesse concreto a compiere determinate azioni è innegabile. Esaminare la ritualità, ritenendo che essa sia la ritualità effettiva, è assurdo. Dobbiamo chiederci piuttosto perché determinate ritualità di migliaia di anni prima vengano riesumate in un determinato periodo per compiere determinate azioni e da chi. La domanda è rilevante nel Medioevo, è rilevante nel periodo della Controriforma, è rilevante fino a oggi. Flavio Casali. Avrei ancora tante domande da porre, ma non voglio abusare né della sua pazienza, né della cortese attenzione dei nostri ospiti. Mi piacerebbe chiederle qualcosa sulla Qabbalah, sullo Zohar, che lei ha tradotto insieme a suo padre. Mi fermo qui, lasciando però ai nostri amici un pensiero che ho trovato nel suo volume, il momento in cui nella seconda edizione di Pasque di sangue in qualche maniera l’autore cerca di spigare la sua indagine storica e riporta con una punta di amarezza, che mette in bocca a un dotto rabbino di Ancona dell’Ottocento, una frase che mi è piaciuta molto, che è molto attuale e che può essere utilizzata da tutti noi: “Le parole uscite dalla tua bocca, volando via col vento, arriveranno alle orecchie del tuo prossimo: chi ti vuole bene sentirà quello che tu dici, chi ti vuole male sentirà quello che vuole sentire”. Io lascio la parola a voi, se avete delle domande da fare al prof. Toaff. E farei anche un applauso. 23
Applauso. Flavio Casali. Se qualcuno se la sente di rompere il ghiaccio… Intanto io vi do un paio di notizie. La prima, riguarda ovviamente i gavardesi, è che domani, sabato, alle 10.30 per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ci sarà lo scoprimento del monumento a Garibaldi, ripulito dalle ingiurie del tempo. La seconda pubblicità che ci facciamo, professore, è che se ci volessero lor signori raggiungerci in quel di Salò, alle 18.00 saremo alla libreria Ubik. Non riproporremo le stesse cose, ma saremo anche allietati, se qualcuno di voi le gradirà, da musiche rinascimentali proposte da un cultore di musica del tempo come l’avv. Maurizio Lovisetti, ci saranno anche delle immagini che illustrano quel periodo, e la possibilità di ascoltare musiche che pochi conoscono, per esempio di Vincenzo Galilei, il papà di Galileo (chi lo sapeva che era valente musico!). Sarà una nuova occasione, sempre che ve la sentiate. Forza con le domande… se ne avete. Domanda. Innanzitutto, complimenti, perché è stata una cosa bellissima e molto interessante. Io però le volevo chiedere una cosa: lei parla di questi due personaggi di fine Quattrocento-Cinquecento come degli alchimisti. Allora, che cosa cercavano di fare gli alchimisti? Cercavano di fare delle trasmutazioni, dei passaggi. Però in realtà non era poi tanto importante la materia, cioè i passaggi da metallo a metallo, quanto invece il fatto che dovevano essere dei passaggi di qualità nella spiritualità della persona. Come dei personaggi ebraici potevano vedere questi passaggi di spiritualità, questa crescita, che forse è più tipica di una mentalità cristiana? Ariel Toaff. Nel mio libro riporto un fatto ormai assodato: che il rabbino di Venezia, uno dei più importanti rabbini di Venezia, Leon da Modena, era lui stesso alchimista e che suo figlio, Angelo, che ha pubblicato anche un testo di alchimia, finiva poi con morire per le esalazioni e lavorava insieme a un prete, anch’egli alchimista, che per caso si chiamava Beppe Grillo (l’ho messo nella nota: non era lo stesso). E’ vero, il discorso è molto più ampio, perché allora dobbiamo chiederci perché nel pensiero cristiano la parte dell’ebraismo che viene recepita molto spesso è quella della Qabbalah, da Pico della Mirandola in poi. Praticamente, si ritiene che la Qabbalah sia un ponte di passaggio dal cristianesimo all’ebraismo. E in questo senso anche l’alchimia, che 24
viene ritenuta anche legata alla Qabbalah pratica, è un elemento che viene sviluppato e in un certo senso, come diceva lei, ha un significato anche traslato, non soltanto concreto, ma anche di purificazione dell’anima fintanto che l’anima si erge alla vicinanza di Dio. Quando ero a Mantova, il primo giorno per caso, parlando proprio di Abramo Colorni ho accoppiato al discorso su Abramo Colorni un discorso sullo Zohar e sulla Qabbalah, perché ritenevo che fossero due discorsi molto vicini. Domanda. Intanto, la ringrazio. Ho letto Pasque di sangue nella versione originale (che su E-bay è quotata oltre € 500), perché mi aveva colpito, essendo io di Gavardo, questa centralità che lei dava al nostro paese. Ora, io non ho letto questo suo ultimo libro, ma mi pare di capire, da quello che ci ha indicato questa sera, che lei non si discosta da quello che è il suo pensiero fondamentale, cioè quello di rappresentare l’ebreo, storicizzandolo, contestualizzandolo, ma non togliendo nulla di quello che è stato, anche nei suoi aspetti poco gradevoli. Però quel libro, Pasque di sangue, suscitò una vera e propria crociata contro di lei. Mi ricordo che ai tempi le ho anche scritto, ma lei non mi ha mai risposto. Ariel Toaff. Lei non ha idea di quante e-mail ho ricevuto (ritengo che come media ricevevo dalle 3.500 alle 4.000 e-mail al giorno), naturalmente anche con delle minacce di chi diceva che sarebbe stato versato il mio sangue. Per fortuna, sono ancora qui. Domanda. Il mio messaggio non era naturalmente in questa chiave, ma semmai era un’attestazione di stima, perché lo storico lo aveva fatto in quell’occasione e credo che la sua idea di storia rimanga la stessa anche in questo libro. Ma come mai allora ci fu questa accoglienza negativa? Ariel Toaff. Innanzitutto, l’università mi ha difeso fintanto che ha potuto, cioè fino al momento in cui i finanziatori americani hanno detto: o lo buttate fuori o non beccate più una lira. E mi ricordo che il rettore mi disse: “Senti, che cosa facciamo? Abbiamo il centro per gli studi sul cancro che non può essere completato senza questi finanziamenti?”. Allora si stabilirono insieme alcune mosse che dovevano essere fatte, tra cui quella di ritirare il libro, la seconda era quella di completare 25
l’anno accademico per così dire in sordina e la terza era quella di uscire in anno sabbatico l’anno successivo, fintanto che arrivasse l’anno in cui avrei potuto andare in pensione. Ma, devo dire, che l’università fino all’ultimo mi ha difeso e non poteva fare diversamente, perché erano sei anni che facevo corsi su quell’argomento, lo sapeva perfettamente, e voi sapete che la proposta che viene fatta ogni anno deve essere ratificata. Ma la cosa più importante è che se c’è qualcosa da ridire, i primi che hanno qualcosa da ridire sono gli studenti, che hanno dovuto fare delle tesine, hanno scritto, hanno collaborato, ecc. Se avessero visto in una università diciamo così di stampo tradizionale che c’era qualche cosa che urtava l’immagine ebraica, non l’avrebbero assolutamente accettato. Ma sono stato attaccato. Perché? Perché essendo italiano, ho pubblicato il libro in italiano e non in ebraico. Se fosse stato pubblicato in ebraico, non avrebbe destato alcun problema e sarebbe stato sepolto per tutti gli altri. Invece, l’ho pubblicato in italiano e ha avuto un battage su “Il Corriere della Sera”, come sappiamo. Il problema per cui sono intervenuti ancora prima di leggere il libro (questo è il problema) è che dobbiamo renderci conto che, a torto o a ragione, l’ebraismo diasporico si sente in pericolo, e quindi ritiene che tutti quegli episodi che possono creare dei dubbi o, come mi si disse, che possono portare acqua al mulino dell’antisemitismo, devono essere scrupolosamente evitati. Mi si disse, a suo tempo, che la mia colpa maggiore non era quella di avere fatto quella ricerca, ma quella di averla pubblicata, nel senso che se ne potevano servire anche gli antisemiti. Io ho provato a rispondere che l’antisemita non ha bisogno di una ricerca storica per continuare nel suo antisemitismo: al massimo può aggiungere una nota ai declami che ormai fa da anni. Quindi, non cambia niente e, secondo me, l’immagine di un ebreo sempre vittima, sempre santo, che non ha mai commesso errori, che è stato cacciato, che è stato perseguitato, che è stato ucciso, ma non ha mai fatto niente di riprovevole, per uno storico che abbia rispetto per se stesso è un’immagine non soltanto non vera, falsa, ma controproducente: nessuno di noi ama dei personaggi virtuali, come l’Uomo Ragno. L’ebreo non è l’Uomo Ragno: l’ebreo è stato perseguitato, è stato cacciato, ha dovuto soffrire (le sofferenze del popolo ebraico sono conosciute), ma ha anche commesso degli errori e lo storico non può chiudere gli occhi di fronte a questo. Ma qui si innesta un altro discorso, che è quello della paura che hanno gli ebrei diasporici che ritorni un’ondata di antisemitismo, perché il discorso della parità di 26
diritti, dell’eguaglianza, è un discorso teorico: l’ebreo diasporico teme sempre, in ogni momento, che possa succedere qualche cosa che lo colpisce. Ecco perché, anche quando deve affrontare il problema di ciò che sta avvenendo in Israele, è d’accordo con tutte le decisioni che vengono prese, anche le più problematiche, perché guai a pronunciare una critica, la critica crea una crepa in quella che è l’immagine che si vuol dare. Ma nello stesso tempo, secondo me (e vi parla uno che è ormai da quarant’anni in Israele, che ha combattuto, non uno che non ha offerto niente, che ha insegnato), ebbene io ritengo che la critica sia la base di ogni cosa e che se c’è qualcosa che non va bene (e questo l’ho imparato da mio padre), si dice, non si chiudono gli occhi né a noi, né a quelli che ci guardano. L’antisemitismo si crea molto spesso di fronte a un’immagine falsa, dolciastra, di un ebreo virtuale, che non esiste e che non riconosciamo in quello che leggiamo e che vediamo. Questo non è un discorso che viene fatto agli antisemiti. Gli antisemiti non ne hanno bisogno: hanno le loro teorie e non saranno certo le indagini storiche che li faranno cambiare. Io parlo alle persone che hanno una certa intelligenza, che vogliono un dialogo, che ritengono che un dialogo sia non fatto con le armi, ma sia un fatto importante: fratelli maggiori o minori, quello che vogliamo, ma sempre fratelli. E qualche volta anche i fratelli fanno degli errori, sia quelli maggiori che quelli minori, e si raccontano. Flavio Casali. Professore, però, quello che lei ci sta dicendo può sembrare un paradosso, proprio per il fatto che lei da quarant’anni vive in Israele, che si trova al centro di una specie di polveriera che attualmente che riscoprendo quella voglia di libertà, soppressa nel caso della Libia (vedremo come finirà), che però potrebbe innescare una serie di problematiche dove basterebbe assai poco per fare del Mediterraneo una nuova terra di conquista, se non fare esplodere tutto quanto. Ariel Toaff. Io ritengo, insieme a molti altri, tra cui i miei colleghi, che voi conoscete, Amos Oz, Abraham Yehoshua, Gershon Shofman, che in effetti il discorso debba essere fatto risolvendo il problema palestinese in maniera giusta, cessando l’occupazione e cercando di instaurare dei rapporti cordiali, di amicizia, di vicinanza, di comunanza di interessi col nuovo Stato palestinese. Questo è quello che, secondo me, secondo noi, può garantire anche la sopravvivenza di Israele, non certo uno Stato binazionale dove le due componenti si odiano e 27
verranno alle mani prima o poi. Naturalmente, sembra un discorso molto superficiale, perché ci sono dei problemi sul tappeto e, come sempre, i problemi religiosi sono quelli che sembrano insormontabili: cosa si farà della moschea di Omar, cosa si farà del Muro Occidentale, di chi sarà quel quartiere o quell’altro? Ma, secondo me, il discorso può essere risolto. Era molto spesso, in molte occasioni, vicino a essere risolto. Il discorso di quello che avverrà nel Mediterraneo è del tutto diverso, perché nessuno di noi sa e certamente nessuno di noi può prevedere come si svilupperanno le cose anche nei nuovi governi che verranno instaurati. Non so se vi ricordate quando in Francia c’era Khomeini e tutto il mondo occidentale era a suo favore, tutto il mondo occidentale, e lui era in Francia e fu portato come il liberatore. Adesso voi vedete quale è il pericolo che l’Iran di oggi rappresenta: l’altro giorno abbiamo visto delle navi con missili attraversare il canale di Suez. L’interesse non è quello di aiutare i palestinesi, perché chi manda quei missili sa che poi, dopo aver ammazzato dei civili israeliani, ci sarà la rappresaglia, e certamente non la rappresaglia in Iran, che è lontano. Ma questo è fatto unicamente per creare nuovi problemi. Ora non voglio entrare in una discussione di carattere politico che è molto più complessa, ma certamente la situazione delle società del Mediterraneo e dei Paesi arabi si sta modificando: se si modifichi in meglio o in peggio, lo vedremo, molto dipenderà da chi salirà al potere, ma quasi nessuno ha idea di chi sono i nuovi leader, né ci sono dei nomi. Comunque, il discorso verte anche sull’Italia, perché io ve lo dico adesso, prima di partire: se come viene detto, l’Italia entrerà in conflitto per impegni che essa ha nei confronti delle altre potenze, certamente l’Italia è in prima fila tra quelli che riceveranno… Flavio Casali. Le supposte di Gheddafi. Ariel Toaff. Esattamente. Questo lo sappiamo noi in Israele rispetto a Gaza: tanto più il “tiranno” è disperato, tanto più si dà ad azioni disperate. Certamente, non potrà colpire la Francia, forse neanche Milano, forse anche qui sul Garda siete abbastanza al sicuro, ma non sarei certo che dovunque sarà così. Domanda. Un mio parere personale: la colpa che avete voi israeliti è che pensate che gli altri abbiano le stesse menti nell’affrontare i problemi. Voi ebrei avete la particolarità di pensare con la vostra 28
testa e non accettare le cose come vengono dette. Gli altri, gli arabi, soprattutto (se lei guarda la storia) sono fermi a un concetto diciamo teologico secondo il quale tutto dipende da Dio (non si sa se c’è o non c’è), che devono morire per Dio e devono obbedire al capo e non discutono. Pensare di poterli fare ragionare è una cosa assurda. E poi una curiosità: voi siete il popolo dell’alleanza, il popolo eletto con Dio e per duemila anni avete vissuto su questa alleanza. Forse Dio è stato un po’ distratto nei vostri confronti. Esiste ancora questo patto al giorno d’oggi? Ariel Toaff. Bah, questo bisognerebbe domandarlo a Dio. Non sono in grado di… Anche se mio padre è un interlocutore diciamo così privilegiato, non credo che neanche lui abbia queste risposte. E’ un dato di fatto che il problema del Medioriente sia un problema che si sviluppa anche sul piano delle categorie mentali, e sappiamo benissimo che le categorie mentali della società islamica (con rare eccezioni) non convivono con i criteri della democrazia. Su questo punto non abbiamo dubbi. Però, non voglio neppure essere disperante, perché se io arrivo alla conclusione che con gli arabi non si può arrivare mai a una pace, allora vuol dire che credo nella distruzione dello Stato di Israele, perché oggi come oggi nella società politica attuale non posso immaginare che Israele possa far fuori i suoi nemici senza che nessuno intervenga . E tra l’altro ritengo che anche un’azione di questo genere sarebbe estremamente riprovevole. Quindi, praticamente, è come con i genitori: ciascuno convive con quelli che ha, più o meno bene, cercando di fare i passi che gli consentano di migliorare e di ottenere dei risultati. C’è che ritiene che guadagnare tempo è quello che serve. Secondo me, quello che serve è fare dei tentativi. I tentativi non sempre riescono, ma sono l’unica cosa che si può fare in questa situazione, altrimenti l’alternativa è soltanto la guerra. E soltanto la guerra significa nuove morti, nuove tragedie e il popolo ebraico non è un popolo di centinaia di milioni di persone: siamo pochi milioni di persone un po’ sparse ovunque, molti di quelli che sono arrivati in Israele sono reduci dai campi di sterminio, i loro figli, ecc. Non vogliamo ricreare in Israele una situazione simile. D’altra parte, l’alternativa delle armi è un’alternativa che la stessa Bibbia non ritiene che sia l’unica strada. Quando la Bibbia dice “non con la forza e non con gli eserciti, ma con lo spirito di Dio si può andare avanti”, in questo senso ritengo che Dio non abbia cambiato idea e che, quindi, spetti a 29
noi fare un discorso che non sia soltanto un discorso di sangue e di violenza. In fondo, il risultato non dipende né da noi, né dagli altri, ma dipende dalla costellazione in cui ci troveremo, dal fatto che Dio ogni tanto dia un’occhiata anche dalle parti nostre, anche se ritengo che sia impegnato attualmente molto di più in Giappone. Applauso. Domanda. Voi avete un matriarcato e penso che sia la forza di Israele. Perché non cercate di creare un matriarcato anche presso i palestinesi? Le madri hanno in mano i loro bambini da quando nascono fino ai quattordici anni. Perciò, le donne palestinesi istruite, forse, sono l’anima più efficiente per creare quel progetto di pace. Ariel Toaff. Era questa la tesi, non tanto basata sulle donne, quanto sull’istruzione, di Rabin, il quale riteneva che soltanto il miglioramento economico e l’istruzione sono i due dati che possono portare avanti una società. In effetti, se voi esaminate questo fatto, e ve lo dico con assoluta certezza: gli arabi israeliani non accetteranno mai di far parte di uno Stato palestinese, perché, nonostante le tensioni, nonostante gli squilibri negli investimenti, ecc., hanno raggiunto un livello che certamente non è simile, nemmeno si avvicina, a quello dei loro vicini e parenti palestinesi di oltre confine. Quindi, che cosa ha portato a questo cambiamento? Due fatti: il miglioramento economico e l’istruzione (il mio medico è un medico palestinese bravissimo). Non voglio dire la frase dell’antisemita che dice anch’io ho un amico ebreo, ma praticamente è normale che ci siano dei rapporti. E questi arrivano all’università, sono laureati. Dire che questi arriveranno a ritenere che… Assolutamente è assurdo, dato che il miglioramento economico e l’istruzione hanno portato di fatto a chiamiamola così all’occidentalizzazione degli arabi israeliani. Flavio Casali. Ci terrei, a proposito di matriarcato, a citare un pensiero di una grande donna ebrea, Golda Meir: “Possiamo perdonare gli arabi se uccidono i nostri bambini. Ma non possiamo perdonarli se ci costringono ad uccidere i loro. Avremo pace solo quando gli arabi ameranno i loro bambini più di quanto odino noi.” Domanda. Volevo farle i complimenti per la presentazione che ha fat30
to e per il coraggio che ha avuto a pubblicare Pasque di sangue. Che non sia piaggeria è dimostrato dal fatto che l’ho comprato e poi non l’ho letto, però è uno dei libri che sono interessato ad approfondire. Mi interessava il discorso che lei faceva sul portare l’ebreo, e forse il popolo ebraico, giù dal piedistallo. Mi hanno sempre affascinato queste figure un po’ controverse, come i Nassì o Leon da Modena, che era dedito al gioco e aveva perso ingenti somme al gioco, fino ad arrivare a un libro che io ho apprezzato moltissimo che era Gli ebrei di mafia, anche per una diversa prospettiva sull’ebraismo totalmente nuova. E devo dire che, sicuramente, indagarle più a fondo può limare quel fastidio dell’ebreo sempre così perfetto… Ariel Toaff. Ma, vede, questo discorso volevo farlo a proposito di Madoff: qual è il discorso dell’antisemita e viceversa il discorso della persona obiettiva e dell’ebreo che ha paura? L’ebreo che ha paura, dice Madoff, non è ebreo, non è osservante, quindi non è ebreo. Chi non è antisemita dice: vedi, anche tra gli ebrei c’è gente così. L’antisemita dice: Madoff è l’ebreo tipico. Queste sono le grosse differenze: l’antisemita va a pescare l’ebreo malvivente e dice: tutti gli ebrei sono malviventi e si ritiene che per combattere questa tesi bisogna dire non c’è nessun ebreo malvivente. E’ ridicolo e porta armi proprio a quello che sostiene: ecco vi posso dimostrare che costui è così, quindi voi tutti siete così. Queste sono le differenze che compaiono anche oggi nella discussione o anche la scoperta di ebrei che non sono ebrei: cioè una persona che fa il mafioso e ha il nome ebraico, ecco che a un certo punto si dice che è ebreo. Cioè il titolo stesso. Mentre viceversa se uno è uno stupratore, si dice: uno stupratore ha stuprato quattro bambini. Se è ebreo, ci sarà scritto: un ebreo stupra quattro bambini. Quindi immediatamente la gente dirà che tutti gli ebrei sono così, la comunità ebraica dirà che non lo è assolutamente, anzi era stato cacciato via da tempo. Così il discorso non può andare avanti. Il discorso può essere soltanto un discorso serio, che prescinde dagli stereotipi e che, nello stesso tempo, affronta anche i capitoli meno edificanti che esistono nella nostra storia, come avviene nella storia di ognuno. Potrei chiedere a chiunque di voi se ha degli episodi della sua vita in cui ritiene di essersi comportato male. Se qualcuno si alza e dice no, io sono sempre stato perfetto e le poche volte in cui è successo qualcosa è per colpa degli altri; mi hanno picchiato senza che io avessi nessuna colpa… 31
Domanda. Vorrei fare al professore una domanda. Ho visto il libro che avete lì davanti di Sholomo Sand, “L’invenzione del popolo ebraico”. Vorrei sapere in Israele adesso se si sta prendendo coscienza anche degli aspetti più controversi. Ariel Toaff. Certamente, lei pensi che Sand continua a essere professore, continua ad avere i suoi studenti. Esistono delle tesi che non vengono affrontate come qui nella Diaspora, dicendo è tabù, non si può affrontare il discorso. No, il mondo intellettuale israeliano è poliedrico, affronta tutti i temi, li affronta meglio, li affronta peggio, ci sono degli errori, ma con apertura mentale. Non ha paura dell’antisemitismo. Ecco, la differenza dell’ebreo israeliano rispetto all’ebreo diasporico è che per l’ebreo israeliano l’antisemitismo non esiste: non ha paura dell’antisemitismo, ha paura, diciamo così, dei confini, ma non certamente dell’antisemitismo. Domanda. Però, scusi, lei parla di antisemitismo. Ma non c’è solo l’antisemitismo, c’è anche un sentimento, spesso inconsapevole e diffuso, che è l’antigiudaismo, l’antiebraismo: boicottare alcuni tipi di alimenti, parlare dei palestinesi fuoriusciti come non viene fatto per nessun altro gruppo che ha subìto le stesse situazioni. Per esempio, non si è mai parlato neppure in Italia degli ebrei che sono stati cacciati dai Paesi arabi. Per cui, non c’è soltanto l’antisemitismo, che è chiaro e che è facile identificare, ma c’è tutta una corrente sotterranea… Ariel Toaff. C’è la tesi che molto spesso l’antisemitismo si maschera oggi con antisionismo. Questo è un dato di fatto. Domanda. Sì, ma oltre all’antisemitismo ci sono anche tante espressioni e forme che sono latenti. Ariel Toaff. Su questo punto non abbiamo dubbi che il fenomeno è conosciuto e, secondo me, è impossibile sradicarlo. Certamente non lo si può sradicare con la persuasione, ma soltanto, come dicevo anche in un’intervista a “Il Corriere della Sera”, soltanto con l’istruzione, con l’educazione. Questa è l’unica maniera. Flavio Casali. Signori, mi spiace, ma devo togliere la spina. Venite domani a Salò così proseguiremo con le domande. Dategli ancora 32
qualche minuto di respiro, cosÏ potrete far autografare i vostri libri al prof. Toaff. Anche perchÊ la signora Toaff si arrabbia con me e non va bene. Ariel Toaff. Ma si arrabbia in ebraico‌ Applauso Flavio Casali. Se volete appropinquarvi, senza obbligo, naturalmente. Vi ricordo domani alle ore 18,00 presso la libreria Ubik.
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Finito di stampare nel mese di agosto 2011 © Pro Loco del Chiese - Gavardo Ideazione e grafica, Daniele Comini Si ringraziano le Gallerie Commerciali Bennet s.p.a. di Gavardo per il sostegno all’iniziativa
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ISBN: 978-88-905449-1-0 Le foto sono di Enrico Buccella, Gavardo (BS).
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stampa “Grafiche Tumminello” via della Ferrovia, 52 - 25085 Gavardo (Bs)
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“Vieni e considera. Il pensiero abissale è il principio di tutto” (Zohar) Storie, aneddoti, personaggi straordinari, gente comune, luoghi, cultura, tradizioni, fede: sono i frutti prelibati di un incontro, quello con Ariel Toaff, uno dei rappresentanti più significativi della letteratura italo – ebraica, che ha regalato al pubblico bresciano un percorso, nel tempo e nello spazio, per mettere a fuoco le peculiarità del popolo “eletto” da Dio. (f.c.)
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