20150128 giornata di preghiera per l¹unità dei cristiani

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Giornata di preghiera per l’unità dei cristiani Gerusalemme-Getsemani, 28 gennaio 2015

Introduzione Eccellenze Reverendissime, Rappresentanti delle diverse comunità cristiane e religiose di Gerusalemme, Cari fratelli e sorelle delle diverse comunità ecclesiali della Città Santa, Benvenuti in questo Luogo in occasione della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Oggi siamo tutti riuniti qui, come Chiesa di Gerusalemme, Chiesa Madre, per intercedere tutti uniti al Padre per ciascuna delle nostre comunità di appartenenza. Le circostanze difficili e dolorose nelle quali tutte le nostre comunità si trovano oggi, ci accomunano nella sofferenza, ma anche nella speranza che scaturisce dalla nostra relazione con Gesù, che qui al Getsemani si è consegnato, sul Calvario è morto e dal Sepolcro è risorto. Qui preghiamo tutti insieme perché Cristo ci doni forza e consolazione nel nostro cammino difficile ma ugualmente gioioso incontro al Padre. Il nostro saluto va anche a tutti coloro che ci seguono attraverso la televisione e i canali multimediali, in occasione della XII preghiera straordinaria di tutte le Chiese di Gerusalemme per la Riconciliazione, l’unità e la pace, cominciando da Gerusalemme e procedendo da Gerusalemme, che in quest’occasione si celebra qui al Getsemani.

Possa il Signore convertire i nostri cuori all’obbedienza e all’ascolto reciproco. Possa la Chiesa di Gerusalemme, attraverso la preghiera comune diventare ogni giorno di più esempio concreto per tutta la Chiesa del sincero desiderio di unità e riconciliazione tra tutti i credenti in Cristo.

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Omelia

1Gv 4, 7-16 – Lc 22, 39-46 L’azione liturgica di questa sera ci propone due brani assai diversi del NT che letti assieme ci aiutano a comprendere e a delineare la nostra missione di cristiani in Terra Santa e nel resto delle terre delle nostre rispettive appartenenze.

La prima lettura è tratta da uno dei passaggi più noti e conosciuti del Nuovo Testamento ed è una delle più belle definizioni di Dio: Dio è amore (v. 8), che insieme ad altre due potenti affermazioni presenti nella stessa lettera (Dio è luce [1: 5] e Dio è spirito [4, 24]), ci introducono in maniera straordinaria alla conoscenza di Dio. Il brano che abbiamo ascoltato, comunque, è più che una semplice anche se meravigliosa affermazione e non si limita a definire la realtà di Dio. Esso ci dice qualcosa di ancora più profondo. L’apostolo, infatti, non parla di una conoscenza astratta di Dio, ma di una conoscenza esperienziale. Non ci dice cos’è la conoscenza di Dio, ma ci spiega come conoscerlo: amandoci gli uni gli altri. L’apostolo ci spiega che l’amore non è soltanto da Dio, ma anche congiunge a Dio; esso dà al credente la forma di Dio, cioè il modo con cui Dio ama, e lo mette in comunione con lui. Chi ama, oltre a manifestare di essere nato da Dio, rivela anche di rimanere e di vivere in comunione con lui. Questo approccio, che è chiaro in tutto il brano, viene esplicitato in maniera ancora più evidente nel v. 12: “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane in noi e il suo amore in noi è perfetto”. In questo versetto l’apostolo ci rivela una verità ancora più coinvolgente: non è la conoscenza a determinare nel credente la comunione con Dio, come pretendevano alcuni maestri, ma il vero amore per gli altri. Nell’amore per l’altro, l’amore con il quale Dio ci ama raggiunge il suo vero fine ed è perfetto. Amandoci gli uni gli altri, insomma, realizziamo e diamo forma in maniera perfetta all’amore di Dio in noi e senza di esso Dio non può essere conosciuto. Dio ha bisogno di noi, dell’amore reciproco dei credenti perché sia annunciato e conosciuto in maniera perfetta e ogni volta che questo nostro amore viene ferito dalle nostre infedeltà e divisioni, tale annuncio e tale conoscenza di Dio resta parziale e incompleta, è imperfetta. In breve, Dio oggi si manifesta nella nostra capacità di amore reciproco tra credenti. Se il nostro amore reciproco è ferito da lotte e divisioni, anche l’amore di Dio per ciascuno di noi è ferito e imperfetto. Se non ci amiamo, non possiamo conoscere Dio, perché conosciamo Dio amando l’uomo. Non esistono altri percorsi, non ci sono altre vie. Questo è l’unico modo possibile per incontrare Dio. Da soli non siamo capaci di un amore così grande e per questo “egli ci ha dato del suo Spirito” (13). Cristo è l’espressione concreta e la misura di tale amore di Dio, che da allora è reso possibile anche per l’uomo. E ciò avviene proprio Qui al Getsemani, dove Cristo Gesù si consegna nelle mani degli uomini, e che poi sul Calvario, dona la sua vita per l’uomo. Il Getsemani, il Luogo nel quale ci troviamo, è altamente simbolico. In esso sono accaduti eventi importanti della storia della salvezza. Eventi drammatici, che ci dicono che questo è il luogo della lotta. Ogni luogo, in Terra Santa, incarna una parola particolare, ha un suo volto, un suo modo di raccontare la storia della salvezza. Il monte degli ulivi è il luogo che parla di lotta e di consegne dolorose. E per questa ragione, questo luogo parla anche di speranza, perché dove c’è, una lotta c’è anche una speranza. E infatti questo monte è considerato da Ebrei e Musulmani il luogo dell’attesa escatologica, del compimento finale, del ritorno del Messia, del giudizio. Per noi cristiani tutto questo è già accaduto con l’ingresso di Gesù in Gerusalemme nella domenica che precede la Sua passione. Gesù è passato proprio da qui.

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Dunque è un luogo che può parlarci in un modo particolarmente forte, perché la lotta fa parte della vita, di ogni vita, di ogni comunità e società e i tempi che stiamo vivendo, purtroppo, ce lo rammentano ogni giorno. Dobbiamo dunque trovare il modo cristiano di viverla. Se apprendiamo il modo cristiano di lottare, diventiamo costruttori di pace. Se invece non facciamo questo passo, rimaniamo in una lotta sterile, una lotta che degenera in guerra, in violenza. Bisogna avere il coraggio di entrarvi, di starci da cristiani, di starci fino alla fine. E siamo al posto giusto per imparare quest’arte.

Che il Getsemani sia un luogo di lotta lo apprendiamo anche dall’AT. Siamo al capitolo 15 del Secondo Libro di Samuele, e vediamo che Davide fugge proprio da qui: “Davide saliva l’erta degli ulivi, e saliva piangendo, e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi” (2Sam 15,30). Il re Davide, dopo la ribellione di Assalonne suo figlio, sale questa collina con nel cuore il dolore per questo figlio che gli si rivolta contro. Non porta con sé l’arca dell’alleanza, e lascia Gerusalemme nelle mani del figlio, perché ama talmente questa città che preferisce abbandonarla piuttosto che rischiare che Assalonne la distrugga. E qual è la lotta di Davide? Davide è un re potente, abituato ad avere facilmente quello che desidera, ad eliminare tutti gli ostacoli che si trova davanti. Era un pastore, figlio minore e poco considerato di una famiglia di Betlemme. Quest’uomo viene scelto da Dio, e da allora c’è un crescendo vertiginoso di potere, di ricchezza, di onore, non sempre ottenuti in modo proprio onesto. Eppure Davide è anche un uomo capace di pentirsi, di ricominciare, e fa esperienza di un Dio che lo perdona, che lo riaccoglie. Ma ora, dentro questa sorta di marcia trionfale, qualcosa inizia ad incrinarsi: non è la minaccia di nemici esterni, ma la minaccia viene da dentro, dalla propria famiglia, da questo figlio amato e ribelle. È un passaggio duro per Davide, doloroso; Davide non capisce, non si spiega quello che sta accadendo, ma accoglie questo passaggio nella certezza che il Signore stesso sta conducendo questa storia. E mette la sua vita nelle mani di Dio. Più volte, in questo bellissimo capitolo, ascoltiamo la sua voce che dice: se il Signore vorrà, ritornerò (cfr 2Sam15, 25); qui Davide capisce che la propria vita è nelle mani di qualcun altro, che tutto ciò che ha è solo grazia, e lascia a Dio la libertà di essere signore non solo dei propri beni, ma anche della propria vita: “Eccomi, faccia di me quello che sarà bene davanti a lui” (2Sam 15,26). Con questi sentimenti Davide sale per questa strada, più o meno dove siamo noi, e questo lo rende così libero, così povero, da saper rinunciare ad ogni sentimento di vendetta, di violenza. Lui, così spesso senza scrupoli, qui si è talmente consegnato a Dio, da rinunciare a difendersi, da rimettere tutto nelle mani di Dio. Davide capisce che l’elezione non è una garanzia, e che, se una garanzia c’è, è la fedeltà di Dio dentro la fragilità dell’esperienza umana, che è la stessa per tutti! Questa è la lotta di Davide. Davide sceglie, e sperimenta che Dio non abbandona, che Dio salva, e che riapre la strada del ritorno e della pace. Da Davide facciamo un salto, e arriviamo a Gesù, perché questo è soprattutto il luogo della Sua lotta. È sempre difficile conoscere cosa vive il cuore di un uomo. È ancor più difficile conoscere il Cuore di Gesù, per cui entriamo in punta di piedi in ciò che Gesù ha vissuto qui, al Getsemani. Il Vangelo di Luca ci dice che Gesù “entrò in agonia” (and being in anguish, and being in a violent struggle) (Lc 22,44). La parola greca “agonia” per noi è diventata ormai sinonimo di sofferenza, ma il suo significato originario è “ lotta per la vittoria”. Da questa parola derivano il termine “agonismo” e tanti altri usati ancora oggi in ambito sportivo. Alcune moderne traduzioni dei vangeli nelle diverse lingue traducono questo passaggio con “Gesù entrò nella lotta”. Agonia e lotta interiore, insomma. Questo è ciò che ha vissuto Gesù. Il Vangelo di Luca

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dice inoltre che, dentro questa lotta, Gesù prega. E più la lotta si fa pesante, più intensamente Gesù prega. Dobbiamo chiederci cosa c’è in gioco, perché questo momento sia così drammatico. Non è solo il fatto di dovere affrontare la passione, il dolore, la morte. C’è anche questo, ma non solo. In gioco c’è la Volontà del Padre, e quindi la relazione stessa con il Padre. È ciò che Gesù ha di più caro, la sua stessa identità. Questa relazione non è qualcosa di relativo, di secondario, ma è costitutiva dell’identità di Gesù, che è Figlio, e solo Figlio. E Gesù, da sempre, ha vissuto con il Padre una relazione filiale di amore e di obbedienza, di fiducia completa, di reciprocità. Gesù ha ricevuto tutto dal Padre, sempre, e dentro l’obbedienza al Padre Gesù ha trovato la Sua libertà di Figlio. Ora c’è qualcosa di nuovo. Gesù sente tutta l’angoscia di questa fedeltà al progetto del Padre. Perché si tratta di prendere su di sé tutto il peccato dell’uomo, tutto ciò che è disobbedienza al Padre; prenderlo su di Sé come fosse proprio, sentire tutta l’angoscia di questa lontananza. Si tratta di perdersi completamente, di perdere anche il Padre. “Perdere” il Padre, vivere con l’uomo peccatore l’estrema lontananza da Dio, è l’unico modo per rimanere Figlio; è, paradossalmente, l’unico modo per amare il Padre in quest’ora decisiva. Ma quella con il Padre non è l’unica relazione che c’è in gioco qui. C’è anche la relazione con i propri fratelli, con l’umanità che Gesù ha assunto. Gesù se li è portati con sé, in questo giardino, e ha davanti agli occhi la loro estrema fragilità. Bere fino in fondo questo calice amaro è l’unico modo per rimanere fedele e solidale alla relazione con l’uomo, che Gesù ama. E, infine, c’è in gioco un’altra relazione, quella con il maligno, che qui ritorna con la forza della sua tentazione, e spera di trovare un Gesù debole, spera di vincerlo, di insinuarsi fra il Padre e Gesù, così come si era insinuato tra Dio e Adamo. Questa è la lotta decisiva, e a Gesù tocca questo compito immenso di riempire tutto lo spazio della lontananza dal Padre con la sua obbedienza piena d’amore, perché il maligno non trovi posto.

Dunque Gesù deve scegliere, se andare fino in fondo a vivere la fedeltà del proprio essere Figlio del Padre e Fratello dell’uomo. Come fa a scegliere? Gesù sceglie pregando. Il testo di Luca ci dice che la preghiera non è la lotta, ma il modo cristiano di stare nella lotta, cioè quel modo che porta la lotta dentro la relazione con Dio, che porta Dio dentro la propria lotta. La preghiera è già vittoria, perché è già fiducia, consegna, apertura di sé all’Altro. E Gesù riempie tutto con la sua preghiera, con il Suo grido, con il suo sì definitivo. È una preghiera durissima, per cui Luca dice che al termine Gesù si “rialza” dalla preghiera, una preghiera che ti mette a terra. Ma è così che Gesù trova la forza di rimanere fedele alla propria libertà, che è la libertà dei figli, del Figlio. Infine Gesù sceglie, e sceglie l’obbedienza che rimette ordine nelle relazioni, perché l’ordine delle relazioni è questo amore che si dona tutto, fino alla fine, come ci insegna anche l’apostolo Giovanni. Cari fratelli e sorelle, la Parola di Dio oggi ci richiama a due atteggiamenti tipici della vita cristiana, atteggiamenti che devono contraddistinguere la nostra testimonianza in tutto il mondo, soprattutto nelle nostre terre, qui in Medio Oriente, martoriato da persecuzioni e umiliazioni di ogni genere.

Il primo atteggiamento è quello dell’amore reciproco. I cristiani devono farsi riconoscere non per la potenza delle loro opere e delle loro istituzioni. Non saranno le nostre strategie a salvarci! Il nostro amarci gli uni gli altri deve essere la luce che illumina e che rende presente concretamente nelle nostre opere l’amore di Dio per l’uomo. Le nostre opere devono dire,

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insomma, non la nostra potenza (che non abbiamo!), ma devono indicare chiaramente chi siamo e a chi apparteniamo, a Dio che ci ha amati per primo, che ha inviato il suo Figlio per la nostra redenzione, che ci chiama all’amore reciproco. In questo contesto, le divisioni e le gelosie tra noi sono una chiara contro testimonianza della nostra comune chiamata alla fede battesimale. È vero che le tragedie che ci circondano ci hanno avvicinato molto gli uni gli altri, e che la sofferenza attuale di tutte le nostre comunità, senza distinzioni, ci accomuna in quello che è stato definito “ecumenismo del sangue”. Dio voglia tuttavia che tale ecumenismo sia segnato non solo dal sangue, ma soprattutto dal nostro donarsi l’un l’altro, gratuitamente, come il nostro Salvatore ci ha insegnato. È questa l’unica testimonianza alla quale siamo chiamati.

Il secondo atteggiamento è la preghiera. Può sembrare strano oggi di fronte alle tante ingiustizie e soprusi, limitarsi a reagire con la preghiera. Sembrerebbe una risposta intimistica e spiritualistica. Come possiamo limitarci a pregare, quando il mondo ha bisogno di azione contro il male che imperversa, contro le innumerevoli ingiustizie che ci coinvolgono direttamente? Verrebbe da pensare, come risposta, ai tanti esempi biblici, nei quali è la preghiera a Dio che risolve i conflitti e non la sola azione dell’uomo, dalla lotta d’Israele contro Amalek (Es. 17) fino al brano che abbiamo ascoltato oggi, nel quale Gesù prega e invita a pregare. La preghiera non è la risposta contro il male del mondo, che richiede certo un’azione concreta, coordinata e l’impegno di ciascuno per essere fermato. Essa però, come abbiamo già detto, ci consente di comprendere il modo nel quale stare dentro questa lotta contro il male, nella quale il credente si trova continuamente. “Non bisogna avere un approccio consumistico alla preghiera, che non produce risultati. La preghiera introduce ad un atteggiamento, ad una condizione, ad una relazione. La preghiera non produce; la preghiera genera. Non sostituisce l’opera dell’uomo, ma la illumina. Non esonera dal percorso, ma lo indica” (Pizzaballa - Assisi 2014). A volte le nostre appartenenze e le paure reciproche prevalgono sul comando dell’amore, ma questa sera, noi cristiani di Gerusalemme, appartenenti alle diverse chiese e alle diverse tradizioni cristiane, qui dal Getsemani, come la primitiva comunità cristiana, in obbedienza al comando del nostro Salvatore, vogliamo rinnovare il nostro impegno all’amore reciproco, al sostegno vicendevole e alla preghiera comune ed essere una piccola luce che risplende in questa nostra Terra martoriata ma sempre tanto amata. Fra Pierbattista Pizzaballa, ofm Custode di Terra Santa

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