UNA PICCOLA DEVIAZIONE di Dario Digeronimo
Ancora.
“Signora, come va? Le contrazioni aumentano?”. Come farò a dirtelo? Stai sbarcando in un mondo che può fare a meno di te. Vieni strillando, pretendi tutto. Sei diverso da tuo padre? Che ha attraversato il mare su una barca piccola quanto il mio utero? “Signora, se le contrazioni aumentano mi chiami. Questo è il pulsante, va bene?”. Tu ancora non esisti. Mi fai un male! Sei solo vita che pretende se stessa. Non sei diverso da tuo padre. Non sei diverso da nessuno. Non sei nessuno. Solo vita. Ed è tutto qui. Come farò a dirtelo?
1
Totò Cibali si accese l’ultima sigaretta della nottata, la prima della giornata. Il cielo aveva il colore della notte che muore. Qualche ombra di nuvole sparse. Le stelle si spegnevano lentamente, inghiottite dal mare. L’onda, rotta dalla prua dell’Anadro che tornava dalla battuta di pesca, con le reti ormai a bordo e il tamburo del motore che riempiva il silenzio del Canale di Sicilia, circolava al largo, prigioniera come l’eco di un orologio antico, un tic-tac geologico indifferente ai mutamenti dei tempi. Una visione forse troppo distante dal suo mestiere di pescatore, eppure a Totò così parse. Tirava la sigaretta pensando con gusto amaro alle sue cose. Gli piaceva avvitarsi sulle sue ossessioni, tormentandosi apposta per sentirsi, di tanto in tanto, speciale. È un modo di ragionare complicato, ma molto semplice da riconoscere. Totò si concedeva un po’ di celebrità con se stesso solo in quel breve tratto di spazio immobile in cui la notte trema davanti al giorno, quando decide di resistere come un mulo alle leggi della natura, anche se per pochi minuti dilatati. A quell’ora si ritrovava sempre lì, solo, sul ponte del peschereccio a pensarci su, come se per qualche momento potesse davvero credere alla bugia che il mondo potesse iniziare e finire con
le sue paure, le sue speranze, i suoi insuccessi. Non credeva affatto che ciò che gli era accaduto negli ultimi sei mesi rientrasse in qualche modo nella categoria degli avvenimenti speciali della vita. Eppure dava sfogo al suo vittimismo proprio per smorzare quest’incapacità che aveva, e che hanno in molti, di sapersi accettare per quella strabiliante e insignificante coincidenza che si è. Non era un’alba di buoni pensieri. Però Totò, quando voleva, sapeva succhiare a fondo la sua sigaretta con una certa eleganza, scuotersi e ripensarci come i cornuti. Le sofferenze dell’anima – si ripeteva - non sono un sentimento speciale. Smorzava così le delusioni della vita. Totò credeva di appartenere alla categoria longeva dei ‘mi piego, ma non mi spezzo’. Non come la moglie, continuava a pensare, la moglie così diritta, e come tutti i diritti così fragile, che basta poco per spezzare una schiena diritta, basta individuare il punto di rottura e far leva. Occorre invece stomaco di ferro, e pelo, per piegarsi e lasciare passare la piena come fa il giunco e risollevarsi vivo e presente, ancora una volta. Su questo forse Totò si sbagliava. Occorrono stomaco di ferro e pelo per tutti. Come quando il mare si fa brutto e allora si riconosce il marinaio. Quante volte aveva avuto paura e aveva pensato di non farcela? Abbastanza. E questo bastava dal metterlo al riparo dalle paure? E cos’era allora quel panico di fondo che ultimamente lo accompagnava ogni volta che l’Anadro virava a nord, verso il balcone di Rosa? In fondo, ma a denti stretti, era disposto ad accettare anche i pensieri peggiori sulla lontananza dalla moglie in quelle settimane di pesca nel Canale di Sicilia. ‘Che vuoi fare Totò, così è la vita. Hai deciso allora, vent’anni fa. E se c’hai turbamenti prendili per quelli che sono, rivoli di aria scirocca nel cervello’. Ma lo scirocco fa uscire pazzi. Davanti al suo mare, Totò pensava che avrebbe sempre amato Rosa. L’amava ancora come quando l’aveva stretta per la prima volta ai suoi fianchi. Lei aveva sedici anni, si conoscevano da sempre. Da allora la loro storia aveva rollato e beccheggiato, qualche tempesta, ma la barra era stata tenuta sempre in rotta. E due spigolette di mare erano arrivate a dare significato all’esistenza. Perché ci possiamo anche scherzare sopra, possiamo immaginarci una vita in cui siamo soli, solo noi a rendere conto di noi stessi, persino una vita libera e senza condizionamenti, ma poi che resta? Era ossessionato dall’idea, peraltro sacrosanta, che egli discendesse in linea diretta spaccata da un uomo delle caverne che ce l’aveva fatta. ‘Ho avuto un padre che ha avuto un padre e un padre e via così come una fucilata tirata in un lampo dalla grotta dei selvaggi fin qui!’. Ora, – scherzava Totò - potendo fare figli, può una persona prendersi la responsabilità d’interrompere una linea diretta che proviene da così lontano? Ne parlava spesso con l’equipaggio, quando il caffè faceva effetto sull’anima dei suoi compagni, sospendendoli per cinque minuti da ogni risentimento per il lavoro, il mare, il freddo, la
lontananza, la fatica, la noia. Fra di loro si raccontavano i progressi dei figli, di quei giorni passati a giocare col prato tenero dei loro capelli. Alla fine gli chiedevano di recitargli quel film americano che a Totò era piaciuto tantissimo per la sua scena madre. Era la storia di un pugno di africani che vengono catturati e trasportati in Sud America come schiavi. Ma lungo la navigazione si ribellano e finiscono nelle mani della marina statunitense. Gli schiavisti, spagnoli, ne reclamano la proprietà, ma gli americani, ormai antischiavisti, vogliono vederci chiaro e istruiscono un processo per stabilire se gli africani fossero effettivamente uomini liberi o semplice merce e quindi di proprietà. Ed ecco la scena madre. Prima della seduta decisiva, il capo dei ribelli, un principe nero d’inaudita bellezza, parla all’avvocato che li difende, e gli dice più o meno – e qui Totò s’alzava in piedi, gonfiava le narici, si lisciava la barba nera che portava incolta e il suo volto greco mimava la fierezza di un guerriero africano dagli occhi rabbiosi e nobili – “Non temere, perché stanotte chiamerò tutti i miei avi, uno a uno, perché vengano ad aiutarmi. Ed essi verranno. – Totò faceva una pausa – Perché io sono l’unica ragione per cui essi hanno vissuto”. Totò ripeteva quell’ultima frase: io sono l’unica ragione per cui essi hanno vissuto. E si commuoveva come un cretino. Ma era un bel sentimento. I figli erano la sua esistenza. E Rosa. E il mare. E anche un po’ se stesso. Ma forse questo se l’era dimenticato. L’equipaggio si commuoveva con lui, o almeno fingeva di farlo. E fingeva non per cattiveria, ma perché è bello provare questo genere di cose, soprattutto a mare. Poi gli uomini filavano a dormire alla spicciolata. Totò aveva il privilegio di poter scegliere il suo turno di guardia e non si lasciava scappare quasi mai l’occasione di restare sul ponte in quelle ore cariche di meraviglia: il passaggio dall’oscurità alla nuova luce lo aveva sempre affascinato moltissimo, come milioni di altri suoi simili d’altra parte. Fare il pescatore dava pochi privilegi, questo era uno. In quella notte di mare con la Polare dritta verso casa, Totò Cibali pareva davvero un pescatore partorito dalla penna di Conrad. A vederlo da lontano sarebbe apparso come al centro di una scena teatrale e non era lontano dalla realtà: nel cono di una piccola luce gialla, ecco Totò, con la barba incolta, i capelli neri arruffati, stretto nella sua palandrana, appena appoggiato al parapetto, con lo sguardo puntato nell’oscurità di una platea immensa e nera, il Mediterraneo intero, muto in attesa delle sue battute. Avesse potuto attaccare il suo monologo, probabilmente sarebbe partito da Rosa. Da sei mesi qualcosa s’era rotto. Dentro di lei, dentro di lui, o forse dentro al mondo che li circondava. Capire le ragioni di una quotidiana malinconia strisciante che s’infilava nel loro rapporto come l’acqua in sentina non era facile. Un altro uomo? Forse, può darsi. Un estraneo s’era infilato nel loro matrimonio. Ma se quell’estraneo fosse proprio lui? Anche Rosa sembrava un’altra donna. Il suo sorriso ultimamente aveva un non so che di artificioso, sembrava forzato. Di tanto in tanto Totò
la sorprendeva nei suoi pensieri e lei sembrava lontana mille miglia. Normale, pensava Totò. Però quando Rosa si dava conto di essere osservata dal marito si scuoteva troppo improvvisamente, e troppo velocemente tornava a lui con quel sorriso che sembrava volesse nascondere segreti inconfessabili anche alla propria anima. Una sensazione, solo una sensazione. Però scomoda come una cravatta per chi non è abituato a indossarla. Quel sorriso gli lasciava un senso di soffocamento latente e la vaga impressione di sentirsi ridicolo. E anche leggermente compatito. ‘Bella quella cravatta, stai bene, sei bello… sembri un altro’. Totò le cravatte le indossava solo nelle grandi occasioni. Era un problema tutto suo. C’entrava poco Rosa. Al centro della scena, davanti al Mediterraneo nero, Totò teneva la scena da attore consumato, tutto concentrato su se stesso per regalarsi quei pochi minuti di celebrità. Il suo monologo silenzioso preferito, la sua scena madre. Si sentiva speciale. I suoi problemi, il suo matrimonio, il suo maledetto conto in banca che non accennava a smettere di ondeggiare fra il nulla e il qualcosa a volte, l’equipaggio di cui aveva la responsabilità, la casa, i figli, Rosa, se stesso, il tempo, i genitori, ancora Rosa e ancora se stesso. E mai che la platea gli restituisse un accenno di applauso o anche un fischio. Ogni tanto qualche luce lontana, navi che incrociavano seguendo la loro rotta, distanti e sfuocate. Ma per il comandante e azionista di maggioranza dell’Anadro era più che sufficiente. “Caffè Totò?”. Fabrizio lo interrompeva sempre sul più bello con quella domanda fumante. Comunque Totò sul più bello non ci arrivava mai. E non ci sarebbe arrivato neanche se Fabrizio, invece di svegliarsi prima di tutti e preparare il caffè, fosse caduto in mare lasciandolo solo con il suo pubblico invisibile fino al pomeriggio seguente. “Certo”. U caruseddu, Fabrizio, a bordo era il più giovane. Appena quindici anni. Totò non capiva proprio come facesse a svegliarsi così presto. Quando era lui, Totò, u caruseddu dell’equipaggio e lavorava con il nonno di Rosa a bordo del San Michele, a lui bisognava sbatterlo giù dalla cuccetta a braccia, e caffè non ne voleva manco ammazzato. Non gli serviva, non gli piaceva, non ne capiva neanche l’odore. Fu molto dopo, quando cominciò a collegare il profumo del caffè con la nostalgia di casa, del paese e di Rosa, che ci prese gusto e finì a berlo così amaro che neanche il veleno, come certe volte è la nostalgia. Fabrizio riapparve con le tazze di caffè. “Perché non dormi, Fabrì?”. “Io a mare non ci riesco a dormire. Mica è paura. Un conto è dormire a casa, un conto a mare. A casa c’è la tua stanza e la finestra è come un televisore. – disse tirando su le spalle - Stai sicuro che non passa niente per la tua stanza. A mare invece ci sono le onde, le altre barche e le navi, c’è il tempo, la pioggia, le nuvole, c’è sempre qualcosa che succede”.
“E che succede? Mare, mare e mare”, rise Totò. “Lo so, dovrei dormire. Ma non mi riesce. Non mi voglio perdere niente”. Totò si voltò quasi con tenerezza verso u caruseddu. Quindici anni e ragionava già come un saggio, così per intuito, per gioventù, per nulla se non per natura. Persino il caffè lo sorseggiava come se già sapesse della nostalgia e del gusto intenso che dà provare la mancanza di qualcosa o qualcuno. “E sentiamo, cosa non ti sei perso stamattina?”. “Mi sono svegliato che ho sentito la frequenza delle onde, tre lunghe, due corte, tre lunghe e una cortissima”. “E che vuol dire?”. “Ancora non lo so. Però facevano così. Dipende dalle mattine. Ieri per esempio è stata onda fiacca e corta tutta la giornata. Come se il mare camminasse a passeggio, nel corso, giù al paese la domenica mattina. - Totò lo osservava divertito e con sincera stima – Ora invece tre lunghe, due corte, tre lunghe e una cortissima. Sembra quasi che trattenga il fiato”. “Minchia che marinaio che vuoi diventare, Fabrì”. “Mi pigli in giro? Anche tu prima contavi le onde? Ho sentito giusta la frequenza?”. “Che contavo e contavo! – la sensibilità du caruseddu lo aveva quasi messo d’umore ciarliero sui casi suoi – Non ti arrabbiare. Pensavo a terra”. Pensare a terra era una formula di quelli dell’Anadro per condensare e chiudere in un’unica frase tutto il mondo che non apparteneva al peschereccio, tutto quello che rimane lì, a terra, quando si salpa, non solo stati d’animo e pensieri, ma anche persone, cose, animali e fatti, perfino ragionamenti. “A terra? Bo. Io ci penso poco a terra quando sono a mare. Sai quando ci penso soprattutto? Quando bevo il caffè”. Totò esultava in silenzio. “E lo bevi amaro?”. “No! Ma quale. Due cucchiaini di zucchero”. “Imparerai anche questo”. “Dici?”. “Dico. Li vuoi due biscotti?”. “Sì, grazie”. “E vatteli a prendere, va. E prendili anche a me”. Quel ragazzo gli faceva una simpatia genetica. “Pronti!”, reagì u caruseddu e sfilò via dal parapetto verso la coperta. Poi si fermò di colpo guardando lontano, come paralizzato da un particolare sfuggito. Si voltò sussurrando. “Totò, Totò… comandante…”.
“Che c’è?”. “A mare. Uomo a mare. A mare, uomo a mare, là!”, indicava lontano a casaccio, nel mare, con gli occhi chiusi. “Uomo che?” “A mare!”, strillò come se fosse scoppiato un incendio a bordo. C’è chi vince milioni di euro puntandone uno soltanto. C’è chi attraversa il Canale di Sicilia in 29 su una barchetta in vetroresina che può contenere solo sette persone, avere fortuna per le prime decine di miglia, quanto basta per allontanarsi definitivamente dalla costa, e poi rovesciarsi per un’onda, una sola onda presa male proprio quando una donna si è alzata per dare da bere al figlio, sbilanciando il guscio di noce, vederlo capovolgersi, realizzare che è impossibile raddrizzarlo, passare in rassegna quel che si può tentare, far lavorare il cervello in cerca di scampo, rendersi conto poco a poco, e poi di colpo, che sì, potrebbe essere finita, allora cominciare a contare i minuti che ti separano dalla morte, seguire i tuoi compagni che smettono di galleggiare uno a uno, donne e bambini, i bambini per primi. Sì stavolta è finita. Ti tappi le orecchie perché le urla di terrore e i pianti ti fanno affogare prima. Tutto a un tratto cala il buio, la notte improvvisa, allora sei già impazzito, perso. Sopra e sotto sono nulla profondo e alto. La morte è già su di te con il suo manto freddo ma tu vivi ancora per bere l’orrore della fine del mondo. Nuoti, galleggi, preghi, ricordi le favole di bambino, quelle dove un grosso pesce, un delfino, arriva in soccorso dell’uomo che affoga, gli offre la sua pinna e lo porta a riva, in salvo. Oppure un mago, una fata, Dio in persona, tuo fratello che passa di lì per caso. Queste sono le fantasiose speranze dei disperati, immersi in una notte spaventosa di mare aperto, aperto fin dove arriva la vista, fin dove è impossibile che arrivi la vita. Perché sei lì? Come ci sei capitato? C’è chi nella paura gelida del Mediterraneo, naufrago disperato, è costretto a ripassare mentalmente il senso di quel che sta per abbattersi su di lui. È un orrore senza fine. Io termino qui. L’ho scelto io. L’ho provocato io. Sapevo che poteva accadere. Ne avevo paura. È accaduto. Che senso ha morire qui in mare? In questo mare di nessuno? Non rivedere più. Non dare più notizie. Abbandonato, io qui abbandono. Ma la paura più grande è quella di non capire perché sto morendo qui. Allora ripassi la tua storia. Dicono che si ricordi la vita. Non si ricorda un bel niente, questa è la verità. Si fanno i conti. Si tira una riga. ‘Ecco la strada che mi ha portato alla morte’. Perché il pensiero che più ci terrorizza è morire senza un perché, chiaro e tondo. Poco importa che non ce ne siano, in realtà. La morte e la vita sono così. È come spiegarsi a tutti i costi perché ci si innamora e perché ci si disinnamora. Però si fa. L’elaborazione del lutto, la chiamano. Vita e morte, amore e abbandono. Non ci sono spiegazioni, ma per sconfiggere la paura della morte e dell’abbandono vogliamo capire. Il terrore, una banalità. Come la vita vera in epoca di immagini rovesciate, come
quella stupida barchetta in vetroresina che doveva portare a una nuova vita e già si sapeva che finiva così. Non importa molto la frequenza delle onde, lunghe o corte che siano. Ma quando un’imbarcazione ti salva in piena notte mentre stai affogando in mare, è perché ti passa praticamente sopra la testa con le sue luci e le sue voci. Ed è come vincere alla lotteria un’altra vita. Una probabilità che è molto meno di un ago fra migliaia di pagliai. “Qua, Fabrì, corri, un uomo a mare, ferma, accendi il faro di prua, sveglia tutti. Sveglia compà sveglia!” U caruseddu si muoveva sul ponte dell’Anadro come se gli fosse piombato addosso un temporale. Schizzava da una parte all’altra del peschereccio afferrando un salvagente, legando una cima, strillando “Sveglia sveglia!”. Poi si decise a ubbidire agli ordini di Totò, ritrovando un po’ di lucidità. “Laggiù un altro uomo. Aspé Fabrì, ce ne sono ancora. Muovetevi là sotto”. Totò vedeva schiudersi un intero campo di margherite di mare davanti a sé. Accanto ai luminosi petali schiusi degli occhi di un naufrago, ne comparivano altri fra le onde. Un campo di margherite bianche con la corolla nera che fissavano la sua figura come fosse il sole in persona. Totò era corso al timone e accostava lentamente verso di loro. Sull’Anadro nel frattempo gli uomini s’erano precipitati all’esterno. Quando finalmente tutte le luci furono puntate in mare, apparvero ombre di volti scuri spalancate nella speranza a cui ancora non si riesce a credere. L’Anadro calò la scialuppa e tre marinai vi salirono. Raggiunsero i primi naufraghi e li tirarono su, prendendoli dal collo e dalle ascelle e lanciandoli a bordo, come tonni. Attorno a loro erano ricominciate le urla dei dispersi. Ognuno reclamando la sua vincita inaspettata. Un fratello che passava di lì per caso, una maga, una fata, Dio in persona o un delfino, come quello delle favole. Ma non c’erano solo margherite in quel campo. Come gigantesche meduse nere, stoffe lucide e gonfie disegnavano sagome umane sulla superficie del mare. Ed erano molte. Totò si rese conto che quella non sarebbe stata una giornata di sorrisi per lo scampato pericolo. Era un’alba di cattivi fatti. Alla fine, tirarono le somme della pesca nel Canale di Sicilia. Tredici superstiti accovacciati sul ponte, tremanti per il freddo e la paura. Dieci corpi rilassati e immobili, coperti dalla testa ai piedi, senza freddo né tremori. Di questi dieci, tre erano piccoli, uno piccolissimo. “Totò che facciamo torniamo?”. “La Capitaneria che dice?”. “E chi l’ha avvisata? Giovà l’hai avvisata la Capitaneria?”. “Eh?…”.
“Giovà la Capitaneria!”. Il Canale di Sicilia era un cimitero da tempo. Eppure per gli uomini dell’Anadro quella era la prima volta. Alla radio sentivano spesso parlare del loro tratto di mare. La notte precedente erano stati pescati 36 uomini a 58 miglia a sud di Lampedusa da una corvetta della Marina Militare. Mentre un barcone di legno con 30 persone a bordo, avvistato da un aeroplano qualche ora prima, era stato trainato verso le coste siciliane. Andava così da anni. Mare, morti e ricacciati. “Chiamiamo la Capitaneria. Qua ci sono morti e sicuro ce ne sono altri, dobbiamo trovarli”. “Sono morti”, disse piano in italiano uno degli accovacciati. “Parli italiano? Quanti eravate? Ce ne sono ancora vivi?”, rispose Totò. “No. Sono morti. Tutti. Li abbiamo visti affogare. Hai detto la Capitaneria. Sono soldati?”. “Sì. Marinai”. “Non li chiamare. Portaci in Italia”. Totò si avvicinò all’uomo che parlava italiano. Era giovane, magro, con la fronte ampia, ricci capelli neri, il naso leggermente arcuato e il volto un po’ schiacciato. Un siciliano, dall’aspetto. “Li devo chiamare per forza. Da soli mica possiamo trovarli. E poi che vuol dire non li chiamare? Noi dobbiamo portarvi da loro in ogni caso”. “Perché?”. “Come perché? – Totò era sorpreso – Perché sì. Come ti chiami?” “Karim”. L’equipaggio s’era ammutolito ad ascoltare quel ragazzo che parlava l’italiano. “Karim… – continuò Totò – Da dove venite Karim?”. “Io sono algerino, come quelli là. Gli altri sono tunisini e i neri nigeriani. Veniamo tutti dalla Libia.” Totò gli si era messo di fianco. Dietro il profilo dell’algerino spuntarono i lineamenti du caruseddu che con le coperte delle brande in braccio s’era sporto per guardare meglio Karim e non perdersi neanche una parola di quel che diceva. I due profili coincidevano, non fosse stato per quel filo di barbetta ispida che spuntava dalle guance dello straniero. Totò rimase a fissare così u caruseddu. “Dagli quelle coperte, Fabrizio. Quand’è successo che siete finiti in acqua?”. “Ieri pomeriggio, poco dopo il calare del sole”. “Quanti eravate?”. “Ventinove”. “Ne mancano sei”. “Sono affogati stanotte. Quattro donne e due bambini”. “Ah. Sono affogati. Dove? Scusa, domanda stupida”.
“Sì. Stupida. Ma non ti preoccupare”. Totò e Karim si fissarono a lungo. Quella risposta del ragazzo aveva come scosso il cervello di Totò dopo una lunga pausa dominata dall’ansietà e dallo stato delle cose imminenti. Sembrava accorgersi solo in quel momento della sua domanda iniziale, quella di non chiamare la Capitaneria, e ora Totò cominciava ad avere un vago senso di smarrimento. Karim sembrava avere le idee molto più chiare di tutti quelli che erano a bordo dell’Anadro, compreso lui. Quanti anni erano passati? Guardando i volti specchiati di Karim e Fabrizio gli venne in mente la risposta. Venticinque. Stavano tirando le reti a bordo. Era notte. Allora usavano già l’argano per salpare le reti ma la fatica si faceva a braccia. Era il suo secondo o terzo lavoro a bordo del San Michele. Lo aveva chiesto lui a nonno Totò, il nonno di Rosa. Voleva fare il pescatore, non voleva sentire ragione. Anche quella volta era scappato di casa per correre al molo e saltare sul peschereccio proprio mentre lasciava la banchina. Pensava di fuggire dai suoi genitori che lo prendevano a male parole perché lasciasse perdere quell’idea. Allora non sapeva che nonno Totò aveva parlato ai suoi genitori, s’era preso la responsabilità di dargli un mestiere. Era andato a casa sua quando Totò era a scuola. Glielo aveva detto chiaro ai suoi genitori. Se non verrà con me, andrà con qualcun altro. Non è meglio con me? Tanto vedrete che si stancherà. La fatica è fatica forte in mare. Se invece non si stancherà allora vorrà dire che deve essere pescatore. Possiamo farci qualcosa? Sì, lo so deve studiare. Studierà. Ora ci sono le vacanze, magari guadagna anche qualche picciolo. Compare Gino, ascoltatemi, ma possibile che me lo devo ritrovare sempre davanti alla banchina che poi salta dentro quando molliamo? Insomma, io ve lo dico anche per me. Non è che ve lo voglio rubare. A me che m’interessa? Ci conosciamo da sempre, commà. Ci bado io. Ve lo riporto che gli è passata la voglia. Oppure che un domani, chissà, gli lascio il peschereccio. Ho solo femmine a casa. Rosa. E a Totò gli voglio bene come a un nipote vero. Totò però seppe di questo fatto solo molto tempo dopo. E la mattina che il San Michele salpava, scappò di casa, come le volte precedenti. Saltò a bordo proprio mentre i motori staccavano l’imbarcazione dalla banchina. E poi il fatto brutto accadde tre notti dopo. Stavano tirando su le reti e Totò era lì a raccogliere la rete salpata e aiutarla a venire a bordo. Appoggiò lo stivale di gomma sul parapetto e si sporse per aiutarsi nella fatica. Quando si tirano le reti, il peschereccio spinge con i motori avanti piano. Allora Totò perse l’equilibrio e si trovò in mare in un attimo. Il freddo gli tolse il respiro e non gli riuscì neanche di strillare. Cascò nel buio a occhi aperti. Non vedeva niente, il nulla, il nero. La natura lo portò a galla e cercò di capire prima di tutto dove fosse. Vide le luci del San Michele allontanarsi velocemente e abbandonarlo nel vuoto, come un astronauta perduto. A bordo però avevano tutti occhio per lui. Nonno Totò era stato chiarissimo su questo. E quindi lo sgomento durò solo pochi istanti. Poi sentì l’urlo dell’uomo a mare e una luce abbagliante lo accecò. Comunque ebbe paura di morire. Sentiva i vestiti che lo spingevano verso il basso e più lui
s’agitava più lo tiravano giù. Non ricorda come fu, ma a un tratto si sentì sbattere sul ponte del San Michele davanti al volto preoccupato di nonno Totò che gli domandava “Tutto bene, Totò?”. “Non glielo dire, nonno”, fu la risposta di Totò. Il nonno lo guardò forte mentre lo tastava da capo a fondo. Poi rispose solo: “Nun ciù dicu”. E la cosa finì lì. I suoi genitori non lo seppero mai. Anche l’equipaggio del San Michele mantenne il piccolo segreto. I pescatori sanno quando ciarlare e quando starsene muti. Se il nonno avesse raccontato ai suoi genitori quello stupido incidente, Totò non avrebbe più messo piede sul San Michele e neanche su qualsiasi altro tipo d’imbarcazione. La passione del mare e della pesca che gli bruciava dentro finiva lì, occorreva pensare a cos’altro fare, per sempre. In ogni caso, qualsiasi altra fosse ruscito a fare, non sarebbe stata più la sua vita. E ora, venticinque anni dopo, quel ragazzo chiedeva a lui la stessa cosa che Totò aveva chiesto al nonno. “E sentiamo Karim, cosa dovrei fare?”. Il ragazzo non era affatto stupido e colse al volo l’opportunità. “Noi che stiamo bene e non abbiamo bisogno di cure, lasciaci su una spiaggia, ce la caveremo”. Gli uomini dell’Anadro non capivano bene di cosa stessero parlando. Ma u caruseddu sì. Anche lui era rimasto a quella prima richiesta di Karim. “Non li chiamare, portaci in Italia”, aveva detto l’arabo riferendosi alla Capitaneria. “Totò, come facciamo ad avvisare la Capitaneria e a lasciarli su una spiaggia allo stesso tempo?”, fece Fabrizio. Totò si voltò verso i suoi compagni e ne cercò lo sguardo uno a uno. Giovà come al solito non aveva espressione, si rimetteva alle decisioni degli altri. Ignazio scuoteva la testa, perplesso. Fabio, il più anziano, quello che aveva più esperienza a bordo insieme a Totò, quello che era con Totò fin dai tempi del San Michele, l’uomo che capiva anche gli stati d’animo più velati del suo amico Totò, il ragazzo che venticinque anni prima aveva strillato come un’aquila ‘uomo a mare!’ quando aveva visto il mare inghiottirsi Totò con un colpo da maestro, l’amico Fabio, il fratello silenzioso di tanta fatica, il compare che restava a guardare Totò quando recitava la sua scena madre sugli antenati del film e ne capiva il dolore profondo, Fabio non aveva molto da dire. Se c’era una cosa che gli aveva insegnato il mare in quei lunghi anni era quella di saper leggere il volto di Totò quando prendeva una decisione. Non che quella storia di lasciare questi ragazzi così, nudi e crudi, appena sputati dal Mediterraneo, lo convincesse. Ma Fabio conosceva Totò ormai da molto tempo di mare. Tempo vivo. E sapeva benissimo che il suo sguardo non s’era fiiccato negli occhi dei suoi uomini per discuterne insieme, per quanto Totò non facesse nulla che non fosse condiviso e accettato almeno dalla maggioranza dell’equipaggio. Sull’Anadro erano in sei. L’ultimo che guardò Totò era anche l’ultimo arrivato a bordo, Yoosuf, un berbero arruolato qualche mese prima sul molo del paese, che se ne stava lì, alto,
enorme, con la pancia tutta sporgente dalla maglietta bianca a maniche corte e un ridicolo cappuccio di lana blu sull’enorme testa, guardando Totò come se stesse decidendo le sorti del processo del secolo, con aria superba e grave, con un naso curvo e due occhi piccoli e neri che te li potevi immaginare spuntare da un turbante bianco nel deserto, sapendo già in cuor suo qual era la decisione giusta, l’unica giusta per davvero. Ancora non conosceva bene Totò. O forse quello sguardo duro dalle sue parti significava incoraggiare, sostenere una scelta. Fatto sta che contava poco per Totò. L’anzianità a bordo voleva ancora dire qualcosa. “Che c’è Ignazio?”. “Sei sicuro Totò? Ci ficchiamo nei guai con tutte le rate che stai pagando ancora per il peschereccio”. “E a te che te ne frega?”. “A me che me ne frega? Allora hai già deciso, che ne parliamo a fare”. Totò si stupiva ogni momento del suo equipaggio. Ce ne fosse stato uno capitato lì per caso. Ignazio era coraggioso, forte, persino saggio. Un ragazzone enorme con due polsi larghi come remi. Originario di Taranto, nessuno sapeva con esattezza come e perché si trovasse laggiù. Ormai erano sette anni che aveva scelto Totò come suo comandante. Lo aveva scelto lui, come spesso accade con quegli amici che decidono in perfetta solitudine di seguirti per sempre, qualsiasi cosa succeda, senza un perché. Ignazio raramente parlava per sé. Ora a Totò bruciava la risposta che gli aveva sputato il tarantino. Ignazio era fedele, ma rispondeva con una mira spaventosa. “Io non ho deciso. Decidiamo insieme”. “Minchiate. Comunque te lo dicevo perché so quanto hai faticato per mettere su la barca dopo che ti hanno bruciato il San Michele. E abbiamo faticato anche noi a sentirti piangere che di qua e che di là. Primo. Secondo, se metti nei guai la barca metti nei guai tutti. Comunque Totò, manco questo conta. Perché te lo voglio dire. Io questi li lascerei pure dove vogliono. Ma facciamo una cosa fatta bene. Se uno si mette in testa certe cose, le deve fare per bene. Sennò capace che si ritrova a centinaia di chilometri da casa con un nome diverso in compagnia di uno scemo che gioca a fare Robin Hood”. “Scusa ma cos’è che stiamo facendo? Una piccola deviazione…”. “Una piccola deviazione? – rise Ignazio – Una piccola deviazione! Lo sai che quelli che lascerai alla Marina verranno interrogati? E se glielo dicono? E se questi vengono presi dalla polizia e raccontano che c’è un peschereccio che se ne va in giro a lasciare sti poveri cristi sulle spiagge sai chi sei? Sai che diventiamo tutti? Scafisti. Sai che vuol dire? Caruseddu ce lo vai a dire tu a commare Rosa che Totò sta in galera perché è uno scafista? No, scusa Totò, le donne queste cose le devono capire se ne hanno voglia, sennò che ci frega, siamo uomini giusto? Una piccola deviazione! E quando poi pescherai altri tonni come questi che ti guarderanno come loro che farai?
Li lascerai alla spiaggia anche quelli, giusto? Una piccola deviazione dici? Speriamo Totò, speriamo sia piccola. Oppure no. Magari è una grande deviazione. Che dici Totò? Che cos’è una piccola deviazione? Aspetta no – disse volgendosi verso Karim – ho fatto anch’io una domanda stupida, vero Karim?”. “Sì…”. “Sì, lo so. Però mo stai un po’ zitto, eh? Facci fare tutte le domande stupide che vogliamo. Stai tranquillo che tu a Totò mica lo conosci, vero Totò? Quello ti ci lascia sulla spiaggia. E manco lui lo sa perché. Solo che la chiama piccola deviazione. Ehi Karim, ciao piccola deviazione, la vuoi fare tu una domanda stupida? Chiedigli perché vuole fare questa piccola deviazione proprio adesso”. “Piantala Ignazio” – disse Totò. “Perché sennò mi butti a mare?” “Piantala, seguito da un bel per favore”. “Va bene. – Ignazio prese una bella boccata d’aria fresca - Allora facciamo così. Puntiamo alla spiaggia della Torre Silusa. Sono le cinque. In due ore ce la facciamo. Alle sette in quella spiaggia non dovrebbe esserci nessuno. Speriamo di non incrociare nessuno a mare. Giovà mettiti alla radio e ascolta gli altri pescherecci e la Capitaneria, vedi di capire dove stanno e se sono abbastanza lontani da noi. Li lasciamo alla Silusa e ripuntiamo a sud fino alle otto e mezza. Sempre sperando che non ci veda nessuno. Poi dove siamo siamo, avvisiamo la Capitaneria di porto dicendogli che stiamo tornando e di venirci incontro. Magari con un medico. Mica ci siamo dimenticati che abbiamo anche dei feriti, no? Giusto Karim? Pensi che ce la faranno, loro? Sì, ce la faranno. Sai quanto ci costa di nafta, Totò? Chi se ne frega. Alla marina e alla polizia diciamo che è andata così e punto. Giusto Yoosuf?”. “Giusto Ignà – rispose il berbero che adesso sorrideva con quel suo sguardo da delinquente del deserto - ora beviti un caffè”. “Allora Totò, la facciamo questa piccola deviazione?”. Visti da lontano, i gabbiani appollaiati sul comignolo dell’Anadro sembravano piccoli cumuli di neve in attesa di squagliarsi al sole. Ecco perché si alzarono in volo strillando, offesi a morte per quello sbuffo nero e puzzolente che li aveva investiti senza motivo. L’Anadro aveva messo i motori avanti tutta verso la sua piccola deviazione.
2
L’Anadro avanzava abbattendo le bianche creste d’acqua. All’aggressione del peschereccio, rispondeva puntuale il soffio isterico della spuma, una voce da rettile che pareva reclamare il suo pasto mancato. Il mare a volte non si accontenta mai. “Sto andando in Francia a raggiungere mio cugino. Mio cugino si chiama Kamel, vive lì da tre anni. Mi ha trovato da lavorare. Mi ha mandato persino le foto della pasticceria, un bel locale con i tavolini fuori, nel porto vecchio di Marsiglia. Nelle foto ci sono lui e la sua fidanzata e dietro c’è la vetrina della pasticceria. Me le ha mandate lo stesso giorno che le ha fatte. Con il sole, di domenica. Mi ha mandato una mail con le foto. E nelle foto c’era anche il padrone della pasticceria e la moglie. Mio cugino m’ha raccontato che il padrone della pasticceria viene da qualche parte della Spagna, dal nord. Dice che è scappato con i suoi genitori dalla Spagna dopo la guerra civile, vive in Francia da bambino. La moglie di questo pasticciere invece è francese però d’origine siciliana. Dice che lei, la siciliana, è molto brava e per questo la pasticceria dice che va benissimo. Perché dopo essersi sposati hanno cominciato con le ricette della moglie. Ma questo tanti anni fa. A mio cugino gli hanno affittato casa, per questo lo conoscono e gli hanno detto ‘se tuo cugino vale la metà di te, già è il doppio di quello che ci serve’. Mio cugino si chiama Kamel. Parla cinque lingue. Adesso a Marsiglia lavora in una grossa agenzia per il turismo e fa anche il traduttore per l’Università. Guadagna bene e nelle foto aveva un bel vestito e occhiali da sole. Kamel e io siamo cresciuti assieme. Stessi amici, stessa strada e anche lo stesso treno quando siamo partiti per Algeri per andare a studiare. Una vita assieme io e Kamel.
Non lo vedo da tre anni. Da quando lui è partito per l’Italia. Lui non voleva partire. In Algeria stava bene. Il padre era un dipendente pubblico e si stava bene a casa sua. La madre era casalinga. Vivevano tutti in una bella casa con il giardino, con due sorelle e due fratelli, gli altri miei cugini. Una bella famiglia. Anche se io stavo soprattutto con Kamel. Poi un giorno mentre eravamo ad Algeri dove andavamo all’Università è arrivata quella notizia terribile della mamma di Kamel. Le avevano trovato un cancro e non aveva speranze. Le cose brutte arrivano come il brutto tempo”. Karim prese una tazza di caffè dalle mani du caruseddu. Prima di continuare vinse un brivido di freddo con una lunga sorsata ustionante. “Cioè non arriva mai una cosa e basta. Arrivano tutte insieme e sempre una dietro l’altra. Ma tanto uno non ci crede fin quando non gli capita. Allora siamo tornati al nostro villaggio per vedere mia zia. Ma con un’aria che già si capiva che l’estate era finita. Non so dire. Anche il giardino di quella casa sempre pieno di fiori e arance, con la luce che rimbalzava sui muri bianchi come una pozza di sole, sembrava impallidire poco a poco. Mio zio vegliò sua moglie giorno e notte. L’accompagnò per mano e la lasciò andare con delicatezza, solo quando ormai era sicuro che Allah l’avesse raccolta nelle sue braccia possenti e infinite. Lo vedemmo tutti. Eravamo con loro. Lei s’allontanava guardandolo negli occhi e lui le tenne la mano e noi vedemmo tutto. Lei s’allontanava, ma aveva ancora paura e non lasciava la mano di mio zio. E mio zio s’allungava verso la morte per non lasciarla sola. “Credo che abbia visto qualcosa di spaventoso mio zio, per questo poi avvenne quello che avvenne. Credo che si sia sporto troppo accompagnando la moglie e abbia visto qualcosa che l’ha sfinito. Mia zia continuava ad avere paura mentre s’allontanava. Poi dalla piccola finestrella che dà sul giardino vedemmo la luce come avvampare, in effetti il giardino sembrò innondato dal cielo. Brillava tutto, nella stanza e fuori dalla stanza, tranne gli occhi di mio zio che sembravano spenti e stanchi, appannati. Mia zia si sentì… non so dire. Ma guardava quella luce dalla finestrella come una bimba guarda la madre. Poi si voltò verso mio zio, e con gli occhi più sereni e forti e tranquilli e decisi e buoni e rassicuranti che abbia visto, lasciò scivolare via la mano. Mio zio la lasciò andare e lei si spense. I funerali furono bellissimi. “Dopo la morte di mia zia, qualcosa, non saprei dire bene cosa, per molti era malinconia, tristezza o che, ma qualcosa non andava più in mio zio. E anche la fortuna lo abbandonò del tutto. Era grigio, piegato, non capiva quel che gli si diceva. Ti fissava, pensava ad altro, poi ti rispondeva per potersi riallontanare in fretta nelle sue turbe. Passarono tre mesi e si gli guastarono gli occhi. Non ci vedeva più. Fu messo in malattia e dopo altri tre mesi fu lasciato a casa, con un sussidio. Da un giorno all’altro arrivò la povertà. I quattro figli dovettero abbandonare gli studi, anche Kamel.
Però fu deciso che almeno il più giovane, Kamel, dovesse provarci, almeno lui. Così gli pagarono il viaggio in Libia. Kamel attraversò il deserto per arrivarci”. “Anche mio padre attraversò il deserto”, disse Totò. “Quando raggiunse la Libia – continuò Karim – mio cugino trovò subito chi si offriva di portarlo per mare. Ma occorrevano 1500 dollari. E lui non li aveva. Così cercò lavoro e lo trovò in un campo petrolifero. In nove mesi riuscì a mettere i soldi da parte. Ogni tanto mi mandava delle mail dalla Libia. Se l’è passata così e così. Lavorava e guardava il mare. Poi, con i 1500 dollari in mano riempì la sacca e tornò dal tipo che aveva combinato la partenza. Gli diede i soldi, parlò di tutto e si accampò sulla spiaggia perché sarebbe partito solo l’indomani. Quella notte toccava ad altri. “Arrivò un barcone basso, corto e marcio. E gli si stamparono in mente già diversi pensieri brutti. Ma poi addirittura li vide salire, allontarsi e dopo centocinquanta metri rovesciarsi. La barca affondò quasi subito e Kamel riuscì a scorgere tra le onde i cadaveri di molti esseri umani. Pensò che non ce l’avrebbe fatta mai. E invece la sua traversata durò una notte e una mattina ma ce la fecero. Sbarcarono a Lampedusa. E furono subito presi dalla polizia italiana. Insieme agli altri, Kamel fu portato a un centro di permanenza temporanea. Fu rinchiuso lì e poi trasferito a Roma, a Ponte Galeria dove invece lo trattennero un bel po’. Era in una gabbia divisa per gabbie. Senza visite, ovvio. E chi doveva andare a trovarlo? Era angosciato. Lì conobbe uomini e donne d’ogni genere. Un po’ perché parlando bene l’italiano veniva usato come traduttore dalle autorità italiane. Così ebbe modo di conoscere un sacco di storie. Come quelle giovani donne che non si capiva bene come riuscivano a uscire dal centro dopo pochi giorni che erano entrate. O quegli scafisti egiziani che si vantavano delle loro furbate per sfuggire alle motovedette e ai radar. C’era anche un ragazzo su una sedia a rotelle insieme a un vecchio che a Kamel gli ricordava il padre e per questo si prodigava per lui. “Kamel doveva essere espulso, almeno così gli avevano detto. Però lì ci passò tre mesi e ne sarebbero passati di più se la corte europea dei diritti dell’uomo non avesse a un tratto bloccato le espulsioni. Furono liberati e Kamel se la dette a gambe in Francia, perché lì aveva dei lontani parenti e poteva ottenere il permesso per restare. Due giorni dopo essere uscito era a Parigi. Voleva fare il turista e mi mandò una mail con le foto. Poi raggiunse Marsiglia e siccome parla cinque lingue, arabo, francese, italiano, tedesco e inglese, trovò da lavorare in un’agenzia per il turismo e in tre anni ha fatto anche carriera. Prima hai detto che tuo padre ha attraversato il deserto?”. “Sì”. “Anch’io. E ho pagato duemila e cinquecento dollari per attraversare il mare. I prezzi in tre anni sono saliti”. “E tu perché hai lasciato l’Algeria?”.
Karim fu insolente: “Avevo voglia di fare una nuotata”. L’Anadro era in vista della spiaggia della Torre. Il sole era spuntato da poco e si lasciava intuire fra strati multiformi di nubi che si radunavano, nere e puntuali. “E ti ha promesso di trovarti lavoro in Francia? E come ci arriverai a Marsiglia?”. “Ancora non lo so. Intanto però sono dentro, fin qui non ci si può lamentare”. “Ah no. Non ti puoi lamentare - disse scettico Fabio – E poi c’è la pasticceria, no?”. “Sì intanto lavoro nella pasticceria. Kamel dice che è un lavoro sicuro. Io sono quasi laureato in medicina, vorrei finire di studiare in Francia e fare il medico, poi magari tornare”. “Un dottore!”, disse Fabrì. “Un quasi dottore” – precisò Fabio – Ma tu sai com’è l’Europa per quelli come te?”. “È peggio di dove stavo stamattina?”, rispose secco Karim. “No. Certamente no”. I compagni di Karim cominciarono a rivolgersi in arabo all’algerino. “Vogliono sapere quanto manca, per favore”. Le domande si succedevano con una foga crescente. “Vogliono sapere se conoscete qualcuno che ci può aiutare a terra. Per favore”. Un ragazzo prese la mano di Totò e gli disse “Sciocram”. “Vuol dire grazie”, disse Karim. “Prego - fece Totò ritirando veloce la mano – siamo arrivati. Anzi Fabrì prepariamo la scialuppa e vediamo di fare le cose in fretta”. L’Anadro rallentò l’andatura finché si fermò, con i motori accesi. Totò sali con Ignazio sulla scialuppa. La spiaggia era poco distante, ma il mare aveva preso a ingrossarsi, puntuale anche lui con quelle nuvole gonfie che sorpassavano il sole dell’alba ormai piena. I morti erano morti, quelli che proprio non potevano farcela a scendere in spiaggia erano stati infilati sotto coperta. Erano talmente sconvolti e confusi che non c’era stato neanche bisogno di preoccuparsi del loro silenzio, dopo, con la polizia. Totò aveva un piede nella scialuppa e uno ancora sul peschereccio. Il suo volto e quello di Fabio si avvicinarono, soli, come avviene fra due amici che faticano la vita assieme. “Qualunque cosa succeda, Fabio, tu te ne vai di filata in porto. Se vi fermano, dite che ho fatto di testa mia. Se vi chiedono perché non avete avvisato la capitaneria dite che ve l’ho ordinato io”. “Sì, certo. E quelli dicono va bene grazie potete andare. Sbrigati Totò. Qualunque cosa succeda non succede niente, che deve succedere? Più di quello che è già successo? Ti aspettiamo”. Totò spinse via la scialuppa e Ignazio accese il motore. Alla fine ne avrebbero sbarcati sei. Cinque ragazzi dell’età di Karim e un quarantenne calvo e grosso. La piccola traversata dall’Anadro
alla spiaggia fu veloce e senza problemi, nonostante il mare che diventava sempre più grosso, di onda in onda. Totò e Ignazio per sicurezza fecero due viaggi. Quando tutti e sei furono in spiaggia, dalla scialuppa Totò urlò a Karim: “Salutami tuo cugino”. “Lo farò. Grazie di tutto, Totò. Sai che vuol dire Kamel?”. “Che vuol dire?”. “Colui che sopravvive sempre”. La scialuppa condotta da Ignazio aveva ripreso la direzione verso l’Anadro e il rumore del piccolo fuoribordo copriva le voci. “E Karim che vuol dire?”, urlò Totò verso la spiaggia. Ma non potè udire la risposta e si limitò ad alzare il braccio, in segno di saluto. Dopo un’ora e mezza di navigazione verso il largo, Giovà si mise alla radio e avvisò la Capitaneria di porto. Quindi se ne stettero tranquilli ad aspettare. La barchetta in vetroresina dei magrebini, che avevano tirato sul ponte, fu rimessa in acqua e legata capovolta, come l’avevano trovata. I feriti stavano abbastanza bene. Erano per lo più senza forze ma non davano segno di correre pericolo immediato. Dopo un’altra mezz’ora videro in lontananza il baffo bianco di un’imbarcazione che correva verso di loro. Stavano per allungare la statistica del Canale di Sicilia, altro giro, altri morti. Appena a bordo, i marinai della Capitaneria sollevarono le coperte sui cadaveri, s’affacciarono sotto coperta, cominciarono a fare domande in arabo incerto, almeno sembrava incerto perché gli uomini e le donne sdraiati nelle cuccette sgranavano gli occhi senza rispondere. Sull’Anadro salirono anche un paio di ufficiali e un funzionario di polizia, bruno, con il pizzo ben curato e una cicatrice che dal sopracciglio gli scendeva fino allo zigomo, disegnandogli sul volto un aspetto sinistro e pericoloso. Almeno questa fu l’impressione che fece a Totò. Per l’equipaggio dell’Anadro cominciò l’interrogatorio. Dove li avevano avvistati? Proprio lì. Come li avevano avvistati? Per caso. Quanti erano, cioè avevano visto altri cadaveri che non avevano avuto modo di recuperare? No, quelli che abbiamo avvistato sono tutti qui. Il poliziotto con il pizzo restava in disparte e controllava tutto, guardava tutto, con fare sospettoso. A Totò gli fece un’antipatia immediata e definitiva, inoltre immotivata. Un ufficiale di Marina chiese se erano proprio sicuri di non aver visto qualcun altro. No, nessun altro, siamo sicuri, vero? Vero, sicuri. L’ufficiale di Marina si scostò dagli uomini dell’Anadro mormorando un mmh! Poi s’avvicinò al funzionario di polizia, quello con il pizzo e la cicatrice antipatica. Sono diciasette in tutto, gli disse. Ah, rispose il poliziotto. Hanno ripescato i cadaveri e non hanno visto nessun’altro. Ah, continuò il poliziotto, bé se c’era qualcun altro non l’avranno visto perché saranno affogati, quando li hanno trovati? Stamattina. Stamattina? Sì, può essere.
Gli uomini dell’Anadro avevano la coscienza sporca e quel parlottare in sordina, lontano da loro, li metteva a disagio. Però Totò non capiva cosa poteva esserci di storto nella versione che aveva dato. In fondo dal mare li avevano pescati loro, no? Cosa mai potevano pensare di storto questi della Capitaneria? Ma quel poliziotto, quel funzionario, quando apriva la bocca gli pareva una murena dritta davanti alla sua tana. Gli metteva i brividi e ne diffidava istintivamente. “Chi comanda il peschereccio?”. “Quello là. Antonio Cibali. Uno tranquillo”. “Cibali! - chiamò con tono da sbirro il funzionario – Quando arrivate in porto ci vediamo in Questura va bene?”. “Va bene”. “Tutti quanti – ordinò lo sbirro – con documenti, permessi e tutto. Lo straniero che lavora con voi, anche lui, con il permesso di soggiorno. E i documenti del peschereccio”. “Che c’entrano i documenti del peschereccio?”, domandò Totò. “Li voglio vedere. Problemi, Cibali?”. Una murena davanti alla sua tana, un serpente di mare, un essere ripugnante, uno che poteva piacere a una donna con questo fare da stronzo, con gli occhi stretti verso il basso sopra una mascella imbronciata, una faccia cattiva. Un povero coglione che la sa lunga, pensò Totò. Uno di quei soggetti che piacciono alle donne ma senza un amico. E che diritto aveva di rispondergli così da stronzo dopo che, per giunta, loro, queste persone le avevano salvate, in fin dei conti. “Nessun problema, - si intromise Fabio – li volete vedere ora?”. Il questurino d’azione continuava a guardare Totò come a sfidarlo a chi distoglie lo sguardo per primo, un’esibizione di cretineria, visti i rapporti di forza: “No. Li vediamo in Questura”. I marinai trasportarono i cadaveri sulla motovedetta e poi aiutarono gli altri a passare dal ponte dell’Anadro a quello dell’imbarcazione militare. “Allora ci vediamo, Cibali”, dovette chiudere la cicatrice antipatica sopra il pizzo mentre saltava da una barca all’altra. “Occhio che si scivola”, disse Totò. Gli stava proprio sulle palle. Il poliziotto si fermò e si voltò: “Ah Cibali, a proposito. Ho bagnato il giubbotto. Non è che avete una cerata da prestarmi?” “No, mi dispiace”, disse Totò e pensò: ‘e perché non te la fai dare dai marinai della motovedetta?’. Lo sbirro sorrise e saltò a bordo dell’unità militare. L’Anadro dondolava contento al suo gioco preferito sulle onde gonfie. Totò osservava la motovedetta lontana. Chissà se gli riusciva di mettere a fuoco che buona parte dell’antipatia verso
quel poliziotto gli veniva da Rosa. Con la moglie le cose non andavano benissimo. Da vent’anni si conoscevano e pensavano di amarsi, di essere stati creati apposta l’uno per l’altro. “Guarda che non sono tutti uguali, Totò. Va bene, forse era uno sbirro un po’ antipatico però pure tu…”. “No, sentiamo. Pure io cosa? – lo aggredì Totò - Lascia perdere, Fabio. Quello ha una faccia da stronzo che ci puoi scommettere che è uno stronzo. Credi che me la sono presa per le sue parole? Le persone non vanno giudicate da come si comportano, dai sorrisi, dalle risate, o come dice qualcuno, dalla leggerezza del saper vivere. Guardagli la faccia per bene, gli stronzi hanno tutti qualcosa in comune. Ti guardano con l’occhio che ti compatisce, facci caso. Neanche di superiorità. Proprio di compatimento. Poi quelli in divisa, quelli con il tesserino, quelli con un briciolo di potere di niente da nulla, sono i più stronzi di tutti. Si credono padreterni perché hanno la patente per giudicare. E giudicano, giudicano. Passano la vita a giudicare. Prima cominciano con i fatti, poi passano alle impressioni, dalle impressioni alle manie. E quando qualcuno si azzarda a trattarli come meritano, come tutti si meritano almeno una volta nella vita, eccoli non credere neanche ai loro occhi: mii! A mìa? A mìa?. A tìa, sì”. “Che intendi dai fatti alle impressioni?”. “Sai quanti ne ho conosciuti? All’inizio sono tutti timidi, rispettosi, attenti alla legge, anzi neanche alla legge, attenti alla gente che gli ha concesso un potere. Poi magari ne imbroccano una, due, tre… alla quarta già hanno perso la ragione. Sai quant’è difficile scoprire un assassino, un rapinatore? Niente. È il lavoro più facile del mondo. O no? Quante volte giù al bar ci siamo detti: è lui, lui è stato. Per deduzione, perché ci pensi, perché sai come va la vita. E così era! Certo poi cercare le prove è molto diverso. Ma se avessimo – Totò parlava come spiritato – gli strumenti che ha la polizia, cosa credi che io e te non sapremmo fare gli sbirri?”. “No”. “No? E come li scoviamo i banchi di alici, eh? Buttiamo la rete e preghiamo al signoruzzo? Come vai a pescare ogni giorno, Fabio! Come uno sbirro a caccia, ecco come. Però molto meglio, molto più intelligenti. Saremmo ottimi poliziotti, e non perché siamo speciali, come si credono loro”. “Ma perché ‘loro’? Mio cognato…”. “E va bene, come si crede quello e tutti quelli come quello. Saremmo bravissimi e non perché speciali, ficcatelo in testa, ma perché non ci vuole niente! Niente! Poi dopo un po’ che tiri su pesci così facili come ladri, papponi, scippatori, qualche assassino, ti pensi che sei bravo! E ti metti a giudicare. Quello sì, quello no”. “In che senso?”
“Nel senso che è naturale, come quando noi diciamo qual è il pesce che vale la pena e quale no. La nostra esperienza. Siccome peschiamo da un po’ allora ormai rifiutiamo il pesce piccolo. E anche se morto lo ributtiamo in mare. O no? Giudichiamo. E così fanno loro. Non dire che non è la stessa cosa. È l’abitudine a sentirsi Dio nelle proprie cose. Siamo fatti così. Solo che nessun pesce morto viene a reclamare, e farebbe bene a farlo. Invece là, a terra, quelli che hanno un briciolo di potere e si credono dei padreterni fanno male alle persone con il loro giudicare”. “E perché?”. “Perché a giudicare si sbaglia sempre”. “Giusto”, disse Ignazio. “E soprattutto, quando passi la vita a giudicare gli altri, poi lo fai sempre, anche involontariamente. Gli altri li guardi come sono vestiti, li ascolti mentre parlano e cosa dicono, ti costruisci senza neanche saperlo teoremi su quel che secondo te stanno pensando. E non ti accorgi che gli altri, anche i pesci che non vuoi pescare, ti guardano da lontano come un erbivoro guarda il leone. Tu giudichi per mestiere, il mestiere ti fa cacciatore e all’improvviso tutto ciò che ti circonda si sente una preda. E si comporta di conseguenza. Ha paura. E tu che sei sbirro o giudice cominci a pensare ‘ma di che ha paura, che nasconde?’. Solo che dopo un po’ la preda smette di pensare a te e alla paura perché ha anche una vita vera da vivere. Tu invece, sbirro o carabiniere o giornalista o giudice, sei sempre lì. Tra prede vere e prede potenziali. E alla fine come fai a giudicare se la vita reale ti scorre davanti così alterata?”. “Mi sembra che puoi avere anche ragione, però non riesco a seguirti”, rise Ignazio. Per vent’anni Rosa aveva aspettato Totò sul balcone della loro stanza da letto, il balcone di nonno Totò, il balcone dove il nonno di Rosa gli insegnava a giocare a carte e a guardare il mare. Da vent’anni era stato così. Da qualche mese no. Da quando Rosa aveva conosciuto quello sbirro pieno di arie da persona perbene: ma quando mai. Non aveva cicatrici lo sbirro di Rosa. Non era neanche sbirro per davvero. Faceva il finanziere davanti a una scrivania. Però Totò non era così fesso e le cose che diceva le pensava da sempre, solo che ora gli sembravano più vere o forse la fatica della nottata: i morti. Ma il balcone da qualche mese restava chiuso e non era sempre colpa di Rosa. Quando nel primo pomeriggio tornava da scuola, Rosa aveva sempre avuto idea di come impiegare il resto della giornata. La vita era una passione in cui cercare un finale, più in là. Era una traiettoria luminosa in cerca del suo spazio. Totò non immaginava che al termine di quella traiettoria si potesse anche verificare una uscita dal suo campo gravitazionale e un lancio nello spazio, in costante velocità di allontamento. Oggi lo sapeva. E forse era già questo un buon motivo per sentirsi giù. Quando finisce una favola è così. O quando finisce un bel libro. Non poteva esserne certo: la natura cambia, le cose cambiano e si trasformano e forse
la traiettoria stava solo volando più alto, com’è giusto, e a Totò procurava le vertigini. Però il dubbio era un dubbio, e finché ci resta il dubbio che sicurezza abbiamo? Questo pensava Totò. Molti gli dicevano che esiste anche un altro modo di vedere le cose, che proprio perché non esisteva certezza alcuna, ci si debba fidare della maggiore probabilità, cioè insomma della scienza e della conoscenza, per quanto fallace. Allora certo, la presenza di Rosa, il loro passato, quel che avevano fin allora costruito aveva valore. Ma anche a questo modo di vedere le cose si poteva sempre rispondere: e allora? conoscete un finale scontato, un comportamento esemplare, una regola da seguire? Quando si parla di vita, purtroppo, o per fortuna, si parla alla fin fine d’amore. L’amore non ha regole. Il mare sbatteva contro la prua dell’Anadro sempre più prepotente. Dietro ai vetri della cabina, spazzati dai frangenti che si schiantavano sullo scafo, alzandosi in colonne d’acqua innocenti per poi abbattersi con furia sadica sul ponte, le loro teste apparivano a stento, appannate dall’umidità e dagli anni di mare. Dentro, alla luce gialla delle lampade, i loro occhi fissavano un impossibile punto fermo oltre i vetri, nel bel mezzo di in un mare in tempesta: ecco la forza del pensiero. Qui Totò s’appuntava i ragionamenti. Il mare, quest’elegante fluidità circolare così contrastante all’ottusa rigidità della terra, è una biblioteca a cielo aperto dove sfogliare la mente senza la cervellocità che la rende impotente. Soprattutto quando è grigio e le sue onde alte e cattive si sforzano di toccare il cielo, dello stesso colore. Quanti mari esistono e quanti ne avevano visti Totò e tutti i marinai come lui. La rotta da seguire, il rumore del motore che varia tonalità a seconda dell’onda, gli strumenti da tenere a mente e ancora il mare da scrutare sempre: nei colori, nelle forme e nella voce. Il mare parla di tutto. E a Totò parlava di casa. Una casa sempre più lontana mano a mano che s’avvicinava. Il pizzo maleducato fece le scale tre alla volta. Il suo ufficio era la terza porta a destra del secondo piano della Questura. Il piantone fece finta finta di sbattere i tacchi: “Buongiorno Ispettore”. “Buongiorno, buongiorno, è arrivato Vitale?”. “Sì ispettore, è nel suo ufficio”. L’ispettore Pepe spalancò la porta di Vitale, proprio di fronte alla sua: “Alfio. Alfio? Qua non c’è nessuno. Dov’è Vitale?”. “Nel suo ufficio, dottore”. “Quale suo? Il suo o il mio?”
“Il vostro” - disse sospirando il piantone. Ecco uno dei motivi per cui dare del voi risulta ancora essere conveniente da qualche parte: dipende dall’elasticità mentale. “E parla bene, mi fai perdere tempo”. Pepe girò sui tacchi ed entrò deciso nel suo ufficio. Lo accolse il commissario Vitale, che seduto alla scrivania del sottoposto gli sfogliava le carte sulla scrivania. Questa cosa infastidiva non poco l’ispettore Pepe ma non poteva farci niente. Lui rispettava la regola aurea del forte coi deboli e pupo coi forti. Anche quelli appena appena più forti. Almeno sulla carta. La verità stava nel mezzo. Vitale era il suo capo ma non era abbastanza capo per capire tutto quello che passava per la testa all’ispettore e il suo pizzo arrogante. Né l’ispettore Pepe aveva alcun interesse a stimolare l’immaginazione di Vitale. “Allora Umberto, com’è andata? Buona pesca?”. “Sono giù alla reception. Ho fatto provvedere per il trasferimento al grand hotel Cpt”. “E il mare? Com’era il mare? Ti piace così tanto, il mare…”, disse Vitale passando palesemente dalle carte sulla scrivania all’agenda telefonica. L’ispettore Pepe si avvicinò ma non ebbe il coraggio di prendergliela dalle mani o chiuderla. Si limitò a guardare che lettera stesse sfogliando. “Niente Umberto, – continuò il commissario – niente. Ti volevo solo dire che non occorre andare per mare per fare la pesca d’altura che piace a te. La squadra Volante mi ha riferito che hanno preso quattro clandestini. Sono giù in camera di sicurezza. Te ne occupi tu, vero?”. “Certo”. “Bene – concluse alzandosi il commissario – sei hai bisogno di qualcosa mi trovi nel mio ufficio”. Vitale, un uomo robusto e intuitivo, attraversò la stanza, aprì di scatto la porta e fece per uscire: “Io vado a lavorare, Umberto”, disse guardandolo negli occhi e soppesando le parole. “Bene”, si scansò Pepe. “Bene”, ripetè il commissario. “Ah, Alfio. Dov’è che li hanno trovati questi?”. “Sulla statale a sud, vicino alla spiaggia della Silusa, la torre”. E gli chiuse la porta in faccia. L’ispettore Pepe restò a guardare la porta del suo ufficio e a riflettere su quel suo capo, poco affidabile. Poi s’avvicinò alla scrivania e cercò di annotare l’esatta posizione dei fogli sparsi sulla scrivania ma non ci trovò nulla di strano. L’agendina era spalancata alla lettera B. Ma era un’agendina che non poteva dire nulla. Si sedette, aprì la finestra e guardò fuori verso il mare. L’Anadro ancora non era rientrato. Il mare agitato lo aveva certamente rallentato. Le nuvole si facevano sempre più nere e questo non andava per niente bene. Si avvicinava una perturbazione che sarebbe durata almeno due settimane sul Canale di Sicilia. Rovinava un po’ i suoi piani e non solo del week-end. ‘Quattro clandestini sulla statale sud, vicino alla spiaggia della Torre’, pensava
l’ispettore mentre cercava l’accendino d’oro massiccio nel fondo del cassetto, proprio dietro alla pistola, un pesante accendino d’oro massiccio, dono di un ufficiale dei Carabineri, da una parte c’era scritto Somalia, dall’altra c’era una testa di moro mozzata da una spada con inciso sulla lama la parola Tuscania. Un regalo che aveva meritato. Chiamò la Volante e si fece raccontare per filo e per segno di questi quattro. Niente di particolare, dicevano alla Volante. Camminavano lungo la strada senza borse, senza bagagli, senza niente, senza neanche un euro. Naturalmente non avevano documenti. Non parlavano italiano. Quando è passata la Volante non hanno neanche tentato la fuga ma si sono fermati sul ciglio con una faccia che Pirri della Volante definiva attonita. Attonita? Non lo convinceva. Da dove spuntavano questi? “Ora lo vediamo, vero Cibali?”, mormorò tirando dalla sigaretta. Non gli aveva voluto dare la cerata. Non gliela aveva voluta dare perché gli stava sulle scatole? Non l’aveva davvero? O… non ne aveva più? Comunque fosse andata avrebbe dovuto avvisare chi di dovere. Telefonò dal suo cellulare alla moglie ma dall’altra parte non rispose nessuno. Questo Cibali non lo convinceva proprio. Non è che s’era messo in testa qualcosa di strano? E che si credeva di poter fare come gli pareva a lui? Riprese il cellulare e provò ancora a chiamare, ma non la moglie stavolta. Risposero. “Tutto a posto? Sì sono Umberto. Eh, non c’è male. Sono tornato mezz’ora fa. Senti vedi che hanno pescato quattro tonni alla spiaggia. Eh. Boh? Che ne so. Ci vuoi fare un salto? Sì, secondo me è meglio. Poi ti spiego. Vedi se per caso… no no adesso sono qui in Questura, ora ci vado a parlare io. Niente dai un’occhiata. Ti richiamo dopo va bene?”. L’ispettore Pepe guardò l’orologio. Erano le dieci e mezza. Si avvicinò alla finestra per guardare il porto, l’Anadro ancora non si vedeva. Le ambulanze sul piazzale aspettavano di portare i feriti sbarcati dalla motovedetta all’infermeria del Centro di Permanenza Temporanea. Aveva tutto il tempo di andarsi a interrogare questi quattro per bene. Scese le scale e disse all’agente Grosso di prendere le chiavi del gippone. Con passo militaresco arrivò alle camere di sicurezza. “Tutto apposto qui?” “Tutto apposto ispettore, abbiamo preso le impronte, fatto le foto, so’ pronti”. “Vabbè ce li porto io, fatemi firmare. Avvisate l’autorità giudiziaria”. “Come al solito”. “Bravo! Come, al, solito. Risposta esatta. Muovetevi voi altri”. L’agente Grosso spinse abbastanza umanamente i clandestini nel gippone. Gli avevano dato una tuta e delle scarpe da ginnastica. “I panni di questi dove sono?”. “Buttati, perché? Stracci, solo stracci. Mezzi ammuffiti”. “E che avevano addosso?”
“Niente”. “Manco una fotografia?”. “Niente”. L’ispettore Pepe montò perplesso sulla camionetta, poi prima di partire gli venne un’altra domanda: “avevano addosso roba da marinaio?”. “Da marinaio? No”. “Grosso, portiamo questi signori al grand hotel. Ma prima fermati da Sinatra che ci prendiamo due cannnoli e ce li mangiamo andando. Ti va?”. Entrarono nel Cpt addentando i loro cannoli, assolutamente indifferenti al popolo costretto in quelle gabbie. Gabbie all’interno di una gabbia più grossa, che era il recinto del Cpt. Tutto aperto, tutto a vista. Donne, uomini, bambini e malati vivevano nella stessa aia, senza alcuna possibilità di sfuggire agli sguardi di chicchessia. Poveri panni stesi addosso alle reti da polli, vecchi sulla sedie a rotelle abbandonati sotto il sole, bambini annoiati che coltivavano vendette, donne deprivate della speranza e uomini che non desideravano altro che fuggire per ripendersi la vita. Non v’erano che tre possibilità di uscire di là: essere ricacciati in patria, essere baciati dalla fortuna come Kamel o usufruire di una apertura della gabbia grazie a qualche improvvisa sentenza favorevole della corte europea dei diritti umani o fuggire. Per fuggire occorrevano soldi o un’adeguata contropartita in natura. Sei eri riuscito a nascondere una discreta somma da offrire alle guardie tutto era molto semplice. Perché scavalcare quella rete di recinzione non era affatto difficile per un ragazzo in salute, soprattutto quando chi ti deve sorvegliare si fuma una sigaretta voltato dall’altra parte. Per le ragazze, per le belle ragazze, e meglio ancora se molto giovani, uscire era invece ancora più semplice. Si aprivano le porte principali. Un giretto in macchina, un servizietto e via, la libertà. E chi se la sentirebbe di condannare una ragazza che fra un pompino e la libertà sceglie la libertà? Le cose stanno così: lo sanno i giudici che aprono inchieste penali, lo sa l’ispettore Pepe, lo sanno i giornalisti che ne scrivono di tanto in tanto, quando i direttori si distraggono, lo sanno gli italiani, per quei tre secondi filati che ci mette la notizia a entrare e uscire dal loro cervello. Le cose stanno così: nei centri di permanenza temporanea la polizia ci rinchiude tutti: delinquenti con bambini, malati con sani, donne con uomini, fanatici con rifugiati. Questo era uno dei tanti Cpt costruiti in Italia in nome e per conto dell’Italia. Ed era assolutamente identico a tutti gli altri.
3
La piccola folla di anziani radunata sul molo guardava l’Anadro beccheggiare lentamente verso il molo. La mattinata era stata agitata per via del mare e l’immenso ne portava ancora le cicatrici, a tratti, con regolarità. Un’onda lunga davanti a un orizzonte appena appena schiarito, come una piccola sottolineatura rosa al grigio pesante che invece sovrastava. Colto da breve raptus poetico, Totò pensò al rosa di un evidenziatore che evidenziava, appunto, una nottata di schifo. Ma non si può essere sempre così pessimisti nella vita, soprattutto davanti a una tazza di caffè, l’ennesima che u caruseddu gli porse. No. Si preannunciava una magnifica giornata. Tutta da passare fra divise grige, blu e bianche a rispondere a domande precise quanto inutili. E poi quell’uomo con la cicatrice, quel poliziotto. Non che gli facesse paura a Totò, anzi. Ma non vedeva perché avrebbe dovuto anche solo rispondere a mezza sua domanda, a quel serpente. L’Anadro aveva quasi sorpassato i fari del porto. Fra qualche minuto sarebbe apparso il balcone di Rosa, con le grandi bouganville rosse e le piante di menta e basilico che nel solleone della contr’ora aprono le narici e portano con la mente al sole. Su quel balcone il nonno di Rosa chiamava Totò che scappava via, in mezzo alla strada. Totò! Totò! Vini ‘cca.
Totò ricordava gli occhi azzurri di quel vecchio normanno. Veni ‘cca Totò, vini ‘cca. Gli piaceva. E lui piaceva al nonno. Lo faceva salire quando il sole scompariva dietro al campanile della Chiesa Madre. La sedia di legno dove lo faceva sedere era di quelle che si usavano nelle case ancora prima degli anni sessanta e a Totò sembrava enorme. I piedi non gli arrivavano a terra. Nonno Totò – si chiamava anche lui Totò, nonno Totò, ma era Totò da Salvatore; Totò invece, Totò Cibali, era Antonio all’anagrafe, però dalle parti loro quando uno è Totò, è Totò e basta, e tutti e due erano Totò – nonno Totò si metteva sulle gambe una grossa tavolaccia nera e lì dava le carte. Insegnò a Totò a giocare a scopa. Dai conti elementari ai trucchi più impegnativi. Pari in mano, ‘spari a terra, ‘spari in mano. Ed erano lezioni di vita. Il lievito gonfiava i pensieri di Totò e i complicati meccanismi dell’Uomo sembravano giorno dopo giorno più chiari. Meno astrusi. Se hai in mano due sette e per terra ci sono un quattro e un tre, puoi prendere subito uno dei tuoi due sette ma rischi di perdere l’altro. Dopo due o tre fregature, il piccolo Totò capì che forse aspettare non vuol dire non giocare, ma semplicemente giocare meglio. Come dire: stipare per la mano successiva, dove avrebbe raccolto. Quando finalmente il colpo gli riuscì per la prima volta, pensò a un suo trionfo, mentre nel sorriso del nonno vedeva soltano la consapevolezza della mossa giusta. Insomma non aveva fatto niente di speciale, solo giocato bene, ma la mente affinata collegava domande e paure infantili a nuove chiavi di lettura di sto schifo di realtà. Giocando a scopa capiva che la vita era tutta una scelta che riguardava la sua natura. Il settebello subito o la primiera fra un po’? Un punto oggi o tre domani? Lentamente, l’Anadro s’era affacciato sulla casa del nonno, che adesso era la sua casa, dove viveva con Rosa e i loro bambini. Il balcone di Rosa. Su quel balcone le piante di menta e basilico prendevano l’aria delle giornate più luminose che Totò ricordasse. Come l’Anadro, anche Rosa si affacciava curiosa sul balcone durante le loro partite di scopa. Allora era solo una bimba con i capelli corti. Ma anticipava quella femminilità tipica delle donne del sud.
Faceva capocetta dalla
finestrella dello sgabuzzino dove si conservavano i setacci per il grano, vecchi di un secolo, rosicchiati dalle tarle di una vita, pieni di polvere odorante di mistero, il mistero che hanno tutti gli sgabuzzini stracolmi di anticaglie strane e oggetti morti, morti come l’aria dello stanzino, come il tempo che lì dentro sembra non scorrere più.
La foto di una vecchia col fazzoletto nero, sorridente per chissà cosa, forse un matrimonio o un battesimo; scarpe chiodate pietrificate; giochi per bambini; copriletti maleodoranti; valigie di cartone; un cappello militare grigio con i bordi verdi, fermo agghiacciato immobile inutile. Chissà quali strade avrà percorso, quali vicoli polverosi, chissà quanti delinquenti, quanti malintenzionati avrannno tremato e sbandato alla sua vista. E come tutto muore perché tutto muore eccolo lì morto. Ma la sua voce era potente per Totò. Gli pareva di vederlo ancora inseguire feroci contrabbandieri armati di lupara che scapicollavano dalle colline pietrose. Gli pareva di sentirlo ancora urlare: “Alt! In nome della legge!”. E lo spericolato contrabbandiere che non voleva saperne ma si affrettava a raggiungere la gola buia dove anche il più coraggioso finanziere s’arrestava un tanto, quel tanto che bastava al fuggiasco per prendere un risicato vantaggio. Anche gli adulti, anche i finanzieri, hanno ancora paura del buio. Rimaneva incantato, vivendo la sequenza della sua immaginazione che scorreva veloce fino ai colpi intimidatori sparati in alto. Allora trasaliva. Allora la voce degli oggetti morti prendeva il tono del sussurro e gli soffiava nelle orecchie. “Totò… Totò… avevo figli Totò, avevo moglie, avevo amici, avevo un mondo mio, un mondo vivo, a colori, zeppo di parole, parolacce, polvere, case, pavimenti, angoli da svoltare, strade affollate, ritorni per cena, complotti, tradimenti, accordi, gite la domenica in campagna dopo la messa tutti sul carretto di Zi’ Turi, con Cettina che canta mentre infila i fiori di campagna fra i capelli, mentre Giovanni taglia il pane al piccolo Michele e io ammicco al cappello rosa indossato solo per la festa e spero sogno so di restare solo un po’ con il cappello rosa per volare dietro al cespuglio di ginepro fra i mucchi gialli della senape fiorita e passare la domenica più calda e solare della mia vita piena. Piena! Piena vita di pieno tempo che sembrava l’unico possibile perché nostro. Totò… il mondo che tu attraversi è lo stesso che attraversammo noi: giovani sangue rosso speranza in petto sogni voglie carne brame inquietudini paura della morte e dei cimiteri. Lo crederesti Totò? Avemmo paura di noi stessi”. Totò sentiva il bisogno di scappare dallo sgabbuzzino il più velocemente possibile. Le stesse voci le sentiva guardando le vecchie foto in bianco e nero che di tanto in tanto il nonno di Rosa gli mostrava tra una partita e l’altra. Gli capitava di fissare, più
che il centro della messa a fuoco, lo sfondo, dove s’intravedeva, alle spalle dei due carabinieri in posa plastica con i loro baffoni neri spioventi imponenti, s’intravedeva un uomo in bombetta, più spesso col capo scoperto, col panciotto e la catennella appesa, ma più spesso rappezzato da un camicione sporco e sgualcito, con scarpe di cuoio e ghette, ma decisamente più spesso a piedi nudi, camminare velocemente verso un non so dove perso in una sconosciuta frazione del tempo ignota a tutti, persino alla bombetta e ai piedi nudi. Eppure andava. Anzi, direi, correva. Dove? Casa, lavoro, amici, affari urgenti? Nulla di particolare? Una donna? Una donna. Già. Le donne così carnose. Anche allora erano sudori e fiati. Fu allora che gli prese una passione storta per la storia. L’unica materia che valeva la pena di studiare a fondo. C’è tutto nella storia. Totò veni ‘ccà. Pari a terra, ‘spari in mano, ‘spari in mano al nonno. Ormai le regole le conosceva. Rosa continuava ad affacciarsi ma le trecce non c’erano più, il suo volto s’era fatto più spigoloso ma di una bellezza acceccante. Totò sapeva d’amarla da sempre. Il giorno che accompagnarono nonno Totò al campo santo era vestita di nero. Aveva solo sedici anni e gli occhiali da sole le coprivano le occhiaie. All’uscita della chiesa madre Totò guardò verso il balcone e le piante di menta e basilico. Quando pensò allo sgabuzzino, e ai vestiti di nonno Totò appesi accanto al cappello da finanziere grigio verde ammuffito agghiacciato, ripose anche la voce del nonno nel tempo morto. Quella sera portò Rosa a fare un giro con il suo motorino. C’era fra di loro come un tacito patto, quello di riprendersi la vita piena lasciata sulle panche della chiesa. Rosa guidava e lui non seppe far altro che stringerle i seni. S’aspettava di tutto tranne una sua risata, che invece intravide dalle pieghe del suo collo. Si amarono da quella sera e non smisero più per molti giorni. Ma era qualche giorno fa. L’Anadro era con la prua in banchina. Sul balcone di Rosa il sole tingeva di azzurro le foglie della menta, del basilico e della buganville. Nel petto di quell’uomo in piedi sul ponte del peschereccio, con in mano una tazza di caffè e gli occhi verso un balcone pieno di piante, rocava una voce: “Totò… Totò veni ‘ccà”. Ma la persiana era chiusa. E Rosa non s’affacciava, né con le trecce né con il volto spigoloso. I piccoli sicuramente dormivano ancora nel profumo dell’infanzia, teneri. Mentre forse a essere già svegli erano i pensieri di Rosa e forse già vagavano negli occhi di un finanziere
perbene con i capelli grigi e la postura di uomo di mezz’età, più portato a essere vecchio che essere compagno: ma quando mai. Così Totò lanciò in acqua la prima sigaretta della giornata, l’ultima della nottata, e appena il peschereccio accostò, diede volta alla bitta. La piccola folla radunata attendeva curiosa sia il pescato che le ciarle sulla notte appena trascorsa, una notte come tante altre, con il mare gonfio di rabbia sorda che sbatteva il peschereccio in una ronda di tempo acceso. Totò scese a terra, col cuore amaro. Non questa vita, pensava, non questi giorni ma solo Rosa, che il tempo vivo aveva inghiottito da qualche mese nello sgabuzzino accanto ai setacci e alle foto in bianco e nero dove lui era diventato lo sfondo che correva chissà dove e Rosa una voce lontana. “Vado a prendere un caffè”, urlò agli altri dalla banchina. Poi come una pugnalata alle spalle lo colse il pensiero di quel ragazzo mezzo algerino, o forse tutto, vai a sapere, lasciato sulla spiaggia a sud del paese. Mezzo morto, più morto che vivo, comunque vivo. Per quale diavolo di motivo adesso ci pensava! Camminava verso il bar della cooperativa e avrebbe voluto averlo accanto. Magari avrebbe voluto entrare nel bar e trovarcelo lì, per bere un caffè, per farsi raccontare il tempo vivo che lo aveva portato al centro del Canale di Sicilia, a mollo in mezzo a una frattata di cadaveri, di fotografie in bianche e nero che erano i suoi amici. O semplici conoscenti. O semplicemente compagni di ventura in un’avventura senza fortuna. Magari avrebbe potuto parlargli di Rosa e del balcone che non lo aspettava più la mattina, delle piante di basilico e menta che stavano cangiando profumo, avrebbe potuto chiedergli cosa avrebbe potuto fare della propria vita. Come orientarsi in quella bonaccia nebulosa con venti contrari che a dirla sembra impossibile ma, come diceva quel tale? Tutti i venti sono contrari se non hai una direzione. Da dove veniva? Dal liceo? Dal suo professore di storia o da qualche marinaio ubriaco? E che importanza ha. Avrebbe potuto chiederlo a quel ragazzo, aveva studiato. Avrebbe potuto chiedergli cosa avrebbe potuto fare della sua vita. E che poteva dirgli un ragazzo? Poco, forse. O invece tutto, visto che Karim aveva attraversato il Canale di Sicilia su una barca piccola quanto una scarpa. Qualcosa della vita ne doveva sapere per forza. Magari più di lui. Nel bar naturalmente del mezzo algerino manco l’ombra, solo una luce al neon antipatica, segatura per terra, ma l’odore del caffè, almeno quello per fortuna. E per fortuna Alfio s’era svegliato bene e invece delle solite litanie elettroniche da bestia discotecara aveva messo su, per sbaglio, una raccolta di suo padre, che notoriamente non capiva niente, però conservava ancora una raccolta dei Beatles. A Rosa non piacevano molto i Beatles.
A Totò gli venne una bella domanda per se stesso. Ma nonno Totò avrebbe lasciato il mezzo algerino su una spiaggia? Con una pacca sulla spalla, un pacchetto di sigarette e un ‘in bocca al lupo’? E perché avrebbe dovuto farlo nonno Totò, che motivo avrebbe avuto? Ai suoi tempi, un uomo che attraversava il mare era un marinaio; un uomo che galleggiava in mezzo al canale di Sicilia era un marinaio in difficoltà; un uomo che veniva ripescato mezzo morto dal mare, un marinaio vivo. C’erano poche risposte, ai suoi tempi, è vero. Ma non c’erano domande stupide. Chi sei? Che ci fai in mezzo al mare mezzo morto? Cosa sei? Come ci sei arrivato fin lì? Perché e percome e percazzo e perculo. Questo è un tempo umido di domande cretine, tutto qui. Il risultato logico è un cervello pieno di reumatismi. Nonno Totò lo avrebbe portato a casa, avrebbe chiesto a nonna Concetta di preparare qualcosa di caldo, lo avrebbe vestito e molto probabilmente gli avrebbe insegnato la scopa. Forse gli avrebbe presentato Rosa. Forse Rosa si sarebbe affacciata curiosa con le sue trecce nere. “No, meglio la spiaggia e che se la cavi da solo... Ma guarda che pensieri stronzi che faccio stamattina”. Totò prese la sua tazzina e s’affacciò alla porta del bar. Il balcone era ancora chiuso. Ma ormai erano le otto passate. Il balcone era chiuso ma dentro la ferita era aperta. Porco tempo morto! Di andare alla Questura a portare i documenti a quel maleducato pizzo di poliziotto non ci pensava proprio. Almeno da questo si sentiva libero. Sull’Anadro gli uomini stavano sistemando l’attrezzaturra e scaricando il pesce. Ci sarebbero andati loro. Rosa stava ancora dormendo o già vagava lontano da lui. Ccomunque non era sul balcone, non c’era fretta, lei sicuramente non ne aveva. Totò inghiottì il caffè come una medicina e senza neanche rendersi conto di quel che faceva si mise in macchina, per andare alla spiaggia a sud del paese. A cercare Karim, di cui, allora, non conosceva il significato del nome. Tra casermoni di cemento ammuffito, spiagge dorate, discariche abusive, auto della polizia indifferenti, cani randagi liberi anche di lunedì mattina. Tra folate di vento che accarezzano il mare e ne raccolgono la schiuma al largo, lanciandola in aria, vaporizzandola, sublimandola, e rilanciandola ancora più in alto, spezzettandola in mille deliziose allegre vive frizzanti microparticelle che si dividono sempre di più, e sempre di più si spingono con il vento verso le nostre coste, ormai profumo, salsedine, alta atmosfera che si sfracella definitivamente sui ghigni di uomini troppo furbi, troppo intelligenti, troppo duri.
Tra la presunzione di un popolo appartenente al tempo morto che si riempie la bocca di paroloni e cannoli, tra complici con la pistola in mano e assassini con il silenzio in bocca, tra motorini con mocciosi senza casco e occhiali da picchiatori e prostitute africane, e ancora tra auto della guardia di finanza e dei carabinieri assolutamente totalmente definitivamente indifferenti. Tra la mattina arancione e il sole forte delle undici, la Sicilia si stiracchiava, sprecando la sua bellezza. Al solito. Siciliani! – pensava Totò- il sale della terra! Così salati da essere ormai completamente sterili. In soli, venti minuti, Totò raggiunse la spiaggia dove aveva mollato i ragazzi. Non vide nulla e nessuno. Neanche una traccia. Ma questo era fin troppo ovvio. Erano già passate alcune ore da quando li aveva sbarcati. Totò scese dall’auto e si accese una sigaretta. In piedi, appoggiato al cofano, allungava il mento verso l’alto e sbuffava il fumo in silenzio. Per la prima volta doveva pensare veramente diverso. Poteva anche essere divertente cercare Karim. Ma doveva mettersi nei suoi panni. Ed erano pochi. Pensò di nuovo al nonno di Rosa e alla notte prima, quando nella fretta di sbarcarli non gli aveva lanciato neanche un indirizzo, un consiglio, una cazzo di casa sicura. Eppure rimettendo l’Anadro al largo si sentiva bene, pensava di aver fatto tutto il suo dovere di marinaio, d’uomo e persino, con un pizzico d’orgoglio, di fuorilegge. Totò si guardò attorno: fece un bel giro a 360 gradi. Di fronte, il mare. Poi a sinistra, la spiaggia correva fino a un canale d’acqua salmastra a circa un chilometro e mezzo di distanza. Dietro la spiaggia, in direzione del canale, una grossa macchia verde di canne ed erba alta lasciava intuire che lì ci fosse solo palude: difficile da percorrere e soprattutto inutile. Doveva pensare diverso. Si trattava sì di scappare e trovare rifugio, ma anche trovare cibo, vestiti e soprattutto una direzione sensata. Totò s’accese un’altra sigaretta. Di chi si potevano fidare sei ragazzi mezzi marocchini, o forse tutti, vallo a sapere, nei pressi di quella spiaggia? Le prostitute. Forse. Le prostitute erano lì, per strada e, insomma, era già qualcuno a cui chiedere aiuto. E a chi li avrebbe indirizzati una prostituta? Un brivido gli corse lungo la schiena, senza motivo.
Non aveva mai avuto a che fare con le prostitute, nonostante quel che si pensa sui marinai in particolare, e in particolarissimo su tutti gli appartenenti al genere maschile. Totò sorrise a un ricordo: a dir il vero aveva avuto a che fare con prostitute. Ma erano un altro genere. Queste donne sembravano animali legati alla strada, sembravano tutte avere una catena al collo che potesse essere allungata o tirata a piacimento. A dir il vero, pensò Totò, sembravano latrine in cui poter svuotare il proprio sperma senza neanche agitare la sensualità, diciamo, o l’arrapamento o una libidine malata. Più d’una volta aveva sentito giù in paese un noto fascista in baffoni vantarsi di essere andato con una di queste negre. Ne parlava come se avesse appena conquistato l’Abissinia. Razzismo, imbecillità e pigrizia sono tutte figli unici della stessa madre. C’è poco da fare. Si voltò di nuovo a guardare il mare e seguì con gli occhi allenati del pescatore la corrente che scivolava lentamente verso sud, verso l’Africa. Risalì con lo sguardo la spiaggia tentando di concentrarsi, finché scorse, nascosto da una duna, gli antichi merli di una torre d’avvistamento. Una di quelle torri di cui son piene le coste del sud Italia che servivano a segnalare l’arrivo dei pirati saraceni. Allora c’erano soldati di guardia e una pira sempre pronta a essere accesa per dare l’allarme. Oggi sono quasi tutte abbandonate, piene di feci, fazzoletti, riviste pornografiche, odore di muffa, scatolette di carne e vestiti masticati dal mare. Rifugio di ragazzini che hanno saltato la scuola o di disperati. S’incamminò verso la torre. Con un colpo d’occhio rotondo avvertì il disgusto del disfacimento. Come in un rivoltante deja vu, la voce di un edificio del tempo morto si fece distinta nelle sue orecchie. Totò veni ‘ccà. Noi non avemmo paura di quel che siamo, Totò. Si ha paura della morte e degli scheletri, delle casse e della puzza, dei vermi e dei cortei funebri. Totò veni ‘cca. Picchì non si ha paura della polvere. Picchì, Totò picchì? Ma di cosa hai paura insomma? – rispose Totò alla torre – Della morte? Dell’addio? Dell’indifferenza di chi resta? Di scomparire dalla faccia della terra? Di aver perso le tue giornate di colori vivi, vita piena sudore fatica lotta fame amore? La torre copriva il sole proiettando un’ombra di resistenza. Totò si sentì un po’ come quella torre, essere vivente dal senso svanito, parlava ormai un linguaggio che non riusciva a farsi comprendere dal suo mondo e nemmanco da se stesso. Quella torre era sola. Sola. Abbandonata laggiù con le sue pietre moribonde che un tempo bastavano a se stesse, alle proprie ragioni, giuste o storte che fossero, ma che oggi non riuscivano a sbiascicare un ragionevole pensiero riguardo alla loro presenza. Un vecchio abbandonato che parla da solo, ecco la torre. Un vecchio che parla da solo un linguaggio perduto e quindi, per il mondo, arteriosclerotico. Inutile.
Dove aveva già visto quella torre? In una vecchia lettura, forse, in una poesia di un vecchio poeta, due spesse lenti da vista abbandonate dai suoi contemporanei in un lago di sangue in un posto molto simile a quello in cui Totò stava cercando sei ragazzi di borgata. Borgata di mare chiamata Mediterraneo, la nostra povera patria. E finalmente Totò entrò nelle viscere del tempo morto. Vi trovò quel che pensava. Feci, puzza, fazzoletti, pietre smosse, taniche portate dal mare, reti rotte, galleggianti, lattine, vestiti abbandonati. E un lamento lontano. Poco lontano. Un pianto di bambina poco distante. E una voce femminile che si faceva dolce e a tratti adulta per tentare di consolarla. Un suono antico e riconoscibile. Ma non per questo tranquillizzante. Totò uscì dalla torre e si diresse verso le voci delle due donne. Sedute su una pietra gialla, una rotonda negra teneva tra le mani la faccia di quella che senza dubbio sembrava una bambina. La piccola piangeva senz’anima. Sembrava solo un pianto di dolore. La vecchia, che poi tanto vecchia non doveva essere, con un fazzoletto si piegava verso le gambe della piccola e l’accarezzava tra le cosce. Quando buttò il fazzoletto sporco per terra Totò s’accorse che era rosso, rosso color del sangue. Totò prima di avvicinarsi alle due aveva capito già tutto. Indossavano una divisa inconfondibile, con quei disgustosi pantoloncini corti attillatissimi che avrebbero dovuto mettere in mostra la qualità più preziosa delle loro merci grasse, il culo. Il loro culo da prendere da dietro, fra il guard-rail e il cassonetto della spazzatura o dietro la fratta, appoggiati a un pino, non in auto che si sporca, o meglio ancora in quella torre arteriosclerotica, tra feci lattine fazzoletti e vestiti abbandonati. Il loro culo africano grosso e tondo così bello e perfetto che comprarlo lì e lentamente disfarlo era un piacere immenso per chi ancora oggi si spinge fino in Abissinia a trovar un qualche briciolo di potere, che poi vuol dire d’esistenza, non trovandolo nei propri paraggi. E mai nessuno che dica apertamente e chiaramente che il potere, così come la ricchezza immensa, così come il sapere distante, è una malattia mentale. Senza giri di parole. Senza paura di denunciare questa banalità dimenticata. Il potere dell’uomo sull’uomo, in qualunque modo, tempo o stile si manifesti, è una malattia mentale. Una patologia che appartiene alle paure della vita piena. Banalità. Totò l’aveva capito da un pezzo. Tutto ciò che si vuole dimenticare, tutto ciò che si vuole allontanare da sé perché poco comodo oggi si bollava con questa parola dell’epoca industriale: banalità. Musica banale, film banale, libro banale, vita banale, pensiero banale.
Totò aveva percorso solo venti minuti d’auto e aveva trovato la banalità dentro a una banalissima torre abbandonata, dove una schiava adulta consolava una schiava appena acquistata dopo esser stata stuprata, infilzata contro la sua volontà come uno spiedo, come una bestia, da bestie con il pene indurito dal potere più meschino. Eccola lì la banalità, la sconcertante desolazione delle belle facce da televisione, da bar, da università, da caserma dei carabinieri, da palazzo di giustizia, da redazione di giornale o peggio ancora da blog, pronte a rider divertite o a farne un pietoso caso umano. A soli venti minuti dalle case del paese, dove a quest’ora Rosa preparava uno specialissimo piatto di linguine agli scampi guardando uno specialissimo servizio del TG sull’ex coglione reale, sui cessi del Parlamento, sui altri poveri immigrati purtroppo annegati nel Canale di Sicilia a causa del maltempo e della barchetta minuscola sulla quale avevano malpensato di attraversare il Meditterraneo, la povera patria loro. “Serve aiuto?”. La bambina si coprì dietro la negra tonda. “Non aver paura, non voglio niente. Sapere solo se serve aiuto”. “No niente aiuto. Tutto posto” – rispose l’adulta. “Va bene. Ma lei sta male. Non è che volete andare da qualche parte? In ospedale?”. “No ospedale no! Niente niente, lei sta bene. Vero? Dì, stai bene. Che vuoi? Vuoi amore? Con me, con me”. “Amore? No, non voglio amore. Cercavo delle persone. Magari le avete viste. Le avevo lasciate qui stamattina, dovrebbero essere passate da qui, sul presto. Magari le avete viste passare”. “Eh. Cerchi persone qui? Un sacco persone passate. Andate via”. “Queste persone non sono passate con la macchina. Erano a piedi. Erano… non sono ragazzi di queste parti”. “Come?”. “Non sono italiani”. “Non ti capisco”. “Sono appena arrivati. Immigrati, capisci? Come te e lei”. “Qua è pieno di stranieri”. “Da quanto siete qui? “Dalle nove”. “Senti – disse Totò mettendosi le mani in tasca – quanto prendi?”. “Amore? Venti tutto avanti dietro bocca”.
“Va bene, senti. Te ne do il doppio, occhei?, quaranta. Tu mi dici se hai visto passare sei ragazzi scuri, non scuri come te, un po’ più chiari, avevano l’aspetto di uomini che se la sono vista brutta”. “Fantasmi?”. Totò ci pensò su. Poi ne convenne. “Eh! Fantasmi. Ma vivi”. “Ah ah ah! Cerchi fantasmi eh? Brutto quando bianco cerca fantasmi. Ah ah ah! Piccola che ne dici? Cerca fantasmi, spettri! Buuu!”. La piccola si ritrasse ancora di più dietro la grossa negra, piena di paura, tenendosi le lacrime con gli ultimi lembi della sua animuccia. “Cerchi fantasmi scuri che ha sputato il mare. Qui ne è pieno. T’ho già visto a tu”. “A me? Dove?” “Qui stanotte”. “Non hai detto che sei arrivata alle nove?”. “Sì, qui in strada alle nove. Allora fare amore?”. “No. Però i quaranta euro te li do se mi aiuti”. “Aiuto? Vuoi essere aiutato da me?”. Totò posò i soldi vicino alla negra e rispose “Sì. Per piacere, sì”. Sì per piacere sì. Uno strano formicolio gli risalì sul collo. Un sottile piacere autentico, nuovo, come il primo raggio di luce nelle notti buie di mare nero, come la prima boccata d’aria fresca sul ponte dell’Anadro dopo una giornata passata in sala macchine o alle reti a poppa quando il vento ti caccia in gola il veleno del motore. È così facile? Basta un per piacere, un sì per piacere sì a una negra tonda puttana di strada pescata a curare una bambina dallo schifo della banalità? Quanto era banale anche questo brivido? Questo piacere, questo formicolio sul collo che montava al cervello e che gli stava facendo venire una gran voglia di piangere? Un’irrefrenabile desiderio di alzarsi, sedersi accanto alla negra e lasciarsi pulire le sue ferite dalle sue proprie mani? Che succede Totò? Malinconia, tristezza, paura. Mah. La negra lo guardava con gli occhi acquosi ed enormi. Non fosse stato un italiano, un europeo, un bianco, fosse stato il principe nero dell’Amistad forse avrebbe pensato che gli stava leggendo l’anima come carta stampata. “Li ho visti scendere dalla tua barca. Li ho visti nuotare fino alla spiaggia. Sono rimasti lì immobili, a guardare la tua barca allontanarsi fino a quando sei scomparso oltre la punta. Tremavano come foglie. I fantasmi non tremano! Ah ah ah. Poi hanno parlato un po’ fra di loro e si sono divisi. Quattro sono andati verso la strada, dove c’è la tua
macchina, non li ho più visti. Due sono venuti verso la torre. Mi hanno incontrato. Uno parlava la tua lingua. Mi ha chiesto, dove siamo? Boh!, gli ho risposto io. Ah ah ah. In Italia. In Sicilia. Mi ha chiesto se avevo qualcosa da mangiare, da vestire. No, gli ho risposto io, niente. Mi ha chiesto, che ci fai qui? Gli ho risposto, aspetto una persona. Si sono messi tranquilli seduti a parlare nella loro lingua. Poi verso la strada abbiamo visto lampeggiare blu. La polizia. Il lampo camminava e poi s’è fermato proprio un po’ dopo la tua macchina. Gli ho detto, hanno preso gli amici. Sono rimasti zitti a guardare i lampi blu. Poi la luce è andata via. Chi aspetti?, m’ha chiesto ancora quello che parlava la tua lingua. Turi, gli ho detto io? Turi può aiutarci Turi?, m’ha chiesto. Sì sì, ho risposto. Mah. Hanno dormito. Poi alle undici è arrivato Turi in macchina con due ragazze. L’altra è là, vedi? Alla curva. I due si sono messi a parlare con Turi. Non ho sentito che si dicevano. Turi m’ha detto, queste suono le nuove, pensaci tu. Poi sono saliti tutti in macchina e sono andati via”. “E dove sono andati lo sai?”. “No. Forse in paese, forse in campagna a lavorare, forse da Turi, forse boh? Mica lo dicevano a me”. “Dove posso trovare questo Turi?”. “Sta sempre in giro. In campagna raccoglie gli uomini per lavorare. Oppure a casa sua, quando arrivano ragazze nuove. Oggi sono arrivate queste due. Ma non sono mai solo due. La strada è lunga!”. “Dove abita Turi?”. “Sulla collina, là. Non so come si chiama. Io ci sono stata solo quando sono arrivata. Poi un’altra volta, quando mi hanno tolto un figlio di pancia. Non so. Prendi di qua. La seconda strada che sale verso la collina. Ci sono delle curve prima di arrivare a un piano. Ma prima. In mezzo agli alberi con la corteccia gialla e grigia c’è un cancello. Però ci sono tanti cancelli lì. Difficile dire”. “Che macchina ha questo Turi?” “Una macchina grossa, nera”. “Grossa? Quanto grossa? Vuoi dire lunga?”. “No no, tutta grossa. Ruote grosse. Sportelli grossi. Come una jeep. Ma non è una jeep”. “Ho capito. Senti fammi un piacere. Se li rivedi, che ne so, fra un po’, dì a quello che parla la mia lingua che il capitano della barca di stanotte lo sta cercando. E di non temere. Va bene?”. “Va bene. Perché vai a caccia di fantasmi, bianco?”.
“Ciao tu – fece Totò rivolto alla bambina – sicuro che non avete bisogno di niente?”. “Niente da te!” – rise la negra. Che avrà avuto da ridere Dio solo lo sa. E forse lo sa sul serio e non si sbaglia. Cominciava ad annuvolarsi per davvero. In macchina Totò si accese l’ennesima sigaretta. Ultimamente fumava troppo, lo sapeva, e ogni volta che tirava un piccola puntura di spillo si infilava nel polmone restituendogli il pensiero di quanto quel piacere stesse diventando una condanna che non aveva più voglia di scontare. Ma non riusciva a farne a meno. Prese la strada che gli aveva indicato la negra. Andava piano lasciandosi superare da tutti quegli stressati del volante che gli venivano appresso. Cercava un’auto grossa, un SUV nero. SUV vuol dire soldi. Soldi da quelle parti vogliono dire guai. La strada risaliva lungo la collina nera di terra bruciata. In lontananza brillavano i giardini di aranci sempre verdi, annaffiati con l’acqua della mafia locale. La civiltà si diradava mano a mano che la strada saliva, lasciando lo spazio a onde enormi di terra nera, grigia, gialla. Onde che raramente si vedono nel Mediterraneo ma più facilmente nell’oceano. Si alzavano dolcemente. Eppure raggiungevano il cielo. Cento, duecento, trecento metri di mula salita. E il contadino, come il pescatore, ogni giorno doveva raggiungerne la cima e scavalcarla se voleva tornare a casa per cena. Una volta Totò era stato in alta montagna, in Alto Adige, e con un suo amico aveva scalato una vetta per raggiungere un rifugio in quota. L’aria era magnifica, pulita, solitaria. Era mattina presto quando iniziarono la salita e dai sentieri filtrava la luce del primo sole, i rumori della foresta al risveglio, le ombre degli animali che la popolavano. Riuscirono persino a vedere alcuni cervi e delle marmotte. Dopo cinque ore di arrampicata arrivarono al rifugio dove trovarono un fottio di turisti, una polenta con i funghi e una birra gelata. E pensava al Papa, al Presidente, a tutti quegli scrittori e intellettuali che affrontano la montagna come una sfida per trovare il verso e la creatività. La montagna è unica e assomiglia solo a se stessa. La campagna invece guardala lì, così simile al mare. Piatta come una mattina di luglio, accidentata come un maestrale o gravida di cavalloni enormi come colline gialle marroni grigie, bruciate. Ma cos’è davvero sta Sicilia? Un’isola in mezzo al Mediterraneo o un difficile passaggio di mare dove si arenano troppo spesso le speranze, i sogni e le illusioni? ‘Non ci sono taverne per mare’. In Sicilia non ci sono abbastanza rifugi per coloro che vi si arrampicano in cerca di pensieri sgombri e puliti. Ecco perché in questo alto mare di terra
gialla, grigia e marrone non viene in vacanza né il Papa né il Presidente e neanche mezzo scrittore. Dietro una curva Totò dovette frenare. All’improvviso si trovò davanti un cavallo nero, con le zampe anteriori legate da una corda, abbastanza lunga da permettergli piccoli passi in avanti, ma abbastanza corta da togliergli del tutto la gana della corsa, della fuga e della libertà. Il cavallo piantò gli occhi tristi sulla macchina, forse invidiando un suo simile più rumoroso e maleodorante ma padrone di correre e saltare ostacoli e filare via. Totò provò una pena infinita. Una pena che non sapeva da dove gli tornava su, come un rigurgito improvviso a stomaco vuoto. Capita a chi ha una coscienza invisibile. E dalle sue parti la coscienza si divide in due colori: nera o invisibile. Il cavallo zoppicò via facendosi in là. Totò lo segui con lo sguardo, con una voglia di piangere che, beata minchia!, non ne voleva sapere di esplodere né di spiegare chiaramente cosa voleva e da dove veniva. Gli dava inoltre una terribile voglia di sparare parolacce e sproloquiare bestemmie lunghe secoli. A volte sul ponte dell’Anadro, di notte, si lasciava andare a bestemmioni storici, così per sfogarsi un po’. Poi ammutoliva guardando il mare che sbatteva sullo scafo e sembrava rimproverarlo per aver interrotto la sua marcia e averlo costretto ad ascoltare gli strilli di un pesce così piccolo e fragile come lui. Il cavallo s’infilò tra due siepi d’arancio. Totò lo seguiva ancora con lo sguardo. Poi il cavallo abbassò la testa e al suo posto, alla fine del piccolo sentiero fra gli alberi, in una radura, comparve un suo simile maleodorante e rumoroso. Ma molto molto grosso. E nero. Con quattro gomme enormi e tutto il resto. Totò lasciò perdere il cavallo e spinse gli occhi in avanti. La curva c’era, il SUV pure. Mancava solo il cancello. E Karim. E anche un certo Turi, che aveva soldi e una grossa auto nera su cui faceva montare schiave bambine, clandestini appena sbarcati e magari il diavolo in persona. Una combinazione ideale, dalle parti sue, per mettersi alla ricerca di un bel ristorante e farsi una scorpacciata di triglie sognando una vita al nord o il risultato di Palermo-Catania. Invece Totò mise la prima e fatti pochi metri trovò il cancello che cercava. ‘Vietato l’ingresso’. Più chiaro di così. Ma ormai la vita a Totò gli girava all’incontrario.
4
Appena sbarcati, Karim e i suoi compagni si guardarono attorno spaesati. Erano in sei e per nulla convinti di essere davvero sopravvissuti. Si sedettero sulla sabbia fredda di quella spiaggia piena di rifiuti. Il vento era gonfio d’umidità e le onde si polverizzavano sul bagnasciuga. Non era facile riavviare la vita dopo una notte come quella che avevano appena passato. Il terrore di morire affogati era ancora nel loro sangue e circolava all’impazzata. Poi quel peschereccio che veniva proprio contro di loro, roba da non crederci, quella prua che avanzava come in un sogno proprio verso di loro, finché se la trovarono sopra la testa, e la faccia di quel ragazzo che si sporgeva dal ponte del peschereccio e il cappellaccio di lana, i suoi occhi che si incrociavano con i loro. Il salvataggio era stato talmente rapido che adesso quasi sembrava veramente un sogno. Erano passati in un momento dal mare alle tavole dell’Anadro, con una coperta attorno alle spalle e una tazza di caffè in mano, con quegli uomini attorno a loro che parlavano con Karim e non capivano di che stessero discutendo. Come bagliori intermittenti, a quei ricordi si sovrapponevano le immagini di quelli che avevano visto andar giù durante le notte, il pianto dei bambini. La corteccia cerebrale pulsava di emozioni così forti che mai avrebbero immaginato potessero essere loro ricordi, fatti di
vita loro, in carne e memorie. Erano ragazzi, nient’altro. Della vita non avevano visto molto e quello che avevano vissuto valeva già una vita intera. E un’altra, inattesa, ne avevano appena ricevuta in dono dalla sorte. Restarono in silenzio a guardare il mare, scossi. Poi sulla strada poco distante passò il frastuono assordante di un tir. Il rombo fu accompagnato da un tromba che pareva il giudizio universale. Era solo un saluto osceno. I sei infatti si voltarono verso la strada e appena passato il bestione metallico, videro una donna con dei pantaloncini troppo attillati e grosse tette sporgenti. Parlottarono un po’ e poi non trovarono alcun accordo. Decisero che si sarebbero separati. Mentre quattro di loro scelsero di non fidarsi se non della fortuna che avrebbero incontrato lungo la strada, Karim e un altro andarono incontro alla grossa negra. Proprio in quel momento un lamento provenire dalla camera dei bambini fece scuotere dal sonno Rosa. Per un attimo pensò al meraviglioso profumo della pelle di Totò, cercò il brivido che l’aveva accompagnata per una vita, il piacere di avere, inchiodato nel cervello, quel respiro che per lei era sempre stato il suo uomo. Cercò a tastoni nel suo cuore. E non lo trovò. In un attimo fu ben sveglia. Ogni mattina si stupiva di quel che aveva perso. Non aveva mai messo nel conto questa eventualità. O meglio: non ci aveva mai pensato seriamente. Le cose della vita vanno e vengono senza un preciso punto di partenza. Non sai mai bene dire quando cominciano e quando cominciano a finire. Te ne accorgi sempre troppo tardi, quando prendi i ricordi, i giorni, i baci e li impasti con tutte le tue frustrazioni e le disillusioni. Ne viene fuori un polpettone d’emozioni informe e poco appetitoso. Cosa resta? Se non gli sguardi ignorati per una vita? Se non le parole nuove? Che poi sono sempre le stesse ma anche l’orecchio, con il timbro straniero al proprio letto, vuole la sua parte. Sarebbe bello poter dire che una storia può fiinire bene. Invece no. Ogni pensiero, ogni dubbio pesa. Ogni liberazione per quanto effimera innalza a cieli bugiardi, da cui si può guardare il mondo e sentirlo piccino, a portata di mano, facile da tenere in pugno. Poi si rimpiomba giù con gli occhi infelici, distratti dalla gioia di non provare più l’angoscia di aver perso. Aver perso cosa? La spontaneità, verrebbe da dire. Ma qualcuno può sinceramente affermare che due occhi tristi non sono spontanei? Liberarsi non è facile. Essere liberi, vivere da liberi, liberare le proprie emozioni, farle vibrare come canne al vento perché emettano suoni in piena libertà, sentire la propria anima piena e partecipe alla libertà, non è facile. Di conseguenza non è facile posare il primo piede a terra, la mattina. Avrebbe voluto ritrovare l’amore per Totò? Rosa non lo sapeva. Non lo capiva. Ciò che provava era un affetto immenso. Non basta. Non bastava a Totò, questo lo capiva. Ma, ovvio, non poteva farci niente.
Era ancora molto presto, l’Anadro sarebbe dovuto entrare in porto da un momento all’altro. Rosa si avvicinò al balcone dove suo nonno un giorno fece salire quel ragazzo magro, scuro, con i capelli perennemente spettinati, quel bambino che lei guardava rotolare appresso alla sua banda di amici con quel sorriso così promettente, così prepotente. Ritrovarlo ora quel sorriso. Ecco il punto. Un’altra spina. Ma basta spine. La vita sono quattro giorni messi in fila e Rosa, nonostante il suo nome, non poteva soffrire le spine. Nella stanza accanto i lamenti dei sogni mattutini erano cessati. I bambini si erano riaddormentati. Rosa si trovò a spiare all’esterno del balcone, verso il porto, con addosso la sensazione di star perdendo tempo. Decise immediatamente di farsi un caffè e perdersi nel suo lavoro. E così fece. Per quel giorno, che non era neanche cominciato, c’aveva pensato abbastanza. Era tutto. Mancava ancora qualcosa, forse. Ma per oggi poteva essere abbastanza. Andò alla scrivania, aprì i compiti in classe dei suoi alunni e ci si tuffò a capofitto, senza neanche tenere a mente che era sabato e che poteva pure prendersela comoda. Totò sarebbe arrivato quando sarebbe arrivato. In fondo era sempre stato così. Mancava ancora qualcosa però. Il balcone. Ma a questo Rosa non pensò. D’altronde come poteva immaginare, anzi meglio, come poteva veramente sentire nel profondo che quel balcone per Totò fosse il centro del mondo? Già è difficile capire cosa ognuno di noi prova dentro di sé, figuriamoci quel che provano gli altri. È difficile liberarsi. Ma forse questo era un inizio. Karim e il suo compagno aspettarono questa benedetta auto con questo benedetto Turi come gli aveva raccontato la negra. Si stringeva nella cerata che gli aveva lasciato Totò, il freddo era ricominciato appena passata l’ultima adrenalina. Stavano seduti rannicchiati all’interno della torre gialla mangiata dai rifiuti. Gli occhi rossi cominciavano a bruciargli non poco. Prima s’assopì, poi s’addormentò, frullando nella sua testa una vecchia polka francese, spuntata da chissà dove, un mantra, una nenia, un calmante per il cervello strizzato dagli eventi e dalle visioni. Karim sognò di camminare nella piazzetta del suo paese. Al suo fianco si agitava suo cugino Kamel spingendo una vecchia yamaha, un XT500 con il serbatoio mezzo cromato e mezzo nero, con quella scritta in rosso, XT500, che rimbalzava direttamente dal sole. Sognò che dopo un po’ erano circondati dai cugini più piccoli, mentre lui tentava di riempire il serbatoio della moto con una latta di benzina. Ma era più quella che versava fuori. E mentre i vecchi all’ombra se la ridevano per il casino che stava combinando, Karim chiese a uno dei cugini più piccoli di prendergli un po’ d’acqua, cavandola su dal pozzo, sotto il fico, con quel secchio di metallo nero legato alla cordaccia, per lavarsi le mani. Il bimbo prese la rincorsa e si tuffò nel pozzo con un volo da olimpionico. All’inizio rimasero tutti zitti, poi scoppiarono in un tumulto di risate e grida
d’approvazione. Solo Karim se ne restava perplesso a cercare di capire se la situazione fosse grave, come pensava davvero, o se fosse solo un sogno, com’era in effetti. Kamel continuava a smanettare con la moto, cercando di raccapezzare un improbabile accensione a pedale: “Spingiamo Karim spingiamo”. E mentre Karim guardava il pozzo sperando di vedere la testa del bambino fare capolino, e mentre dava retta a Kamel cercando di spingere con poca convinzione la moto, Karim sognò di sentire il rumore di un auto. Già sapeva che era l’auto del padre, e in effetti era così. Arrivò alll’impazzata nel centro della piazzetta, e suonava e suonava il clacson, e il padre al volante rideva. E rideva di lui. Perché in piedi sul sedile al suo fianco c’era il cuginetto che s’era lanciato nel pozzo. E la XT500 era partita su una ruota e Kamel rideva di lui. E il padre dall’auto continuava a ridere e a suonare il claclson e a chiamarlo “Oh! Oh!”. Karim si svegliò di soprassalto. Era arrivato Turi. “Chi è che parla italiano?”. “Io”. “Come ti chiami?” “Karim”. “E quell’altro?”. “Sadok”. “Va bene, tu e quell’altro, Sandokan, salite in macchina. Mi racconterete tutto strada facendo”. “Dove andiamo?”. “Tu non ti preoccupare. Se vuoi venire con me sali in macchina. Se non ti va, arrivederci”. Salirono su una grossa macchina nera. Dentro Karim sentì per la prima volta in vita sua il profumo di un’auto nuova. Gli piacque molto e provò un certo senso di rilassatezza. Pensò anche che di questo Totò ci si potesse persino fidare. I sedili erano enormi e Karim ci sprofondò dentro, mentre dietro Sadok guardava la strada e il paesaggio immerso nei suoi pensieri. Probabilmente ripensava al suo paese e si chiedeva come poteva questa sua nuova patria essere tanto diversa da quella lasciata qualche mese fa, prima della Libia e della traversata. Le colline, i filari, i muretti a secco erano così simili alla sua Tunisia. Però le strade, i ponti, le automobili che vedeva incrociare erano ricche in confronto. “Come siete arrivati alla spiaggia?” fece Turi. Aveva una faccia aperta, rossa, con lentiggini che ispiravano fiducia, con gli occhi azzurri dei normanni così frequenti in Sicilia. Però a volte li stringeva e gli lampeggiavano di naturale cattiveria. Eppure aveva una macchina così bella e grossa. Poteva essere davvero il direttore di qualche fabbrica o il proprietario di tutti i terreni qua attorno.
Poteva essere utile a Karim, prima di partire per il nord e la Francia. Decise di rispondere a metà, come quasi sempre avviene fra gli uomini. “Siamo sbarcati stamattina di nascosto”. Era vero. Per istintiva prudenza non menzionò affatto la sua avventura per mare né il salvataggio da parte dell’Anadro. “Stamattina, eh?” sorrise Turi puntandogli addosso l’occhietto velenoso. “Ecco siamo arrivati”. La macchina si fermò dopo un cancello nero, tra macchie d’aranci che scendevano dalla collina e si allargavano verso una piana, dove si univano ad altri fiumi verdi di loro simili che immobili scivolavano dalle altre colline circostanti. In mezzo agli aranci partiva una salita. E alla fine si apriva uno spiazzo nascosto completamente alla strada con due case di pietra: una più grande e rifinita: un’abitazione. L’altra invece una stalla. “E quelle chi sono?” disse Karim appena messo piede a terra. Su una panca di pietra, davanti alla vecchia stalla trasformata in scannatoio c’erano sedute una mezza dozzine di bambine nere con lo sguardo sperso, guardate a vista da un negro enorme vestito come un cafone, con una costosa giacca grigia corta alla vita. “Tu fai troppe domande. Ora che sei arrivato qui apri gli occhi e statti muto e parla solo per rispondere a me. Qua arrivederci non te lo dico più. Al massimo addio. È chiaro?”. No. Non era chiaro per niente. Ma il tono e le vene che si erano accese di rosso sul collo di Turi non lasciavano spazio a nessuna risposta. Subito dopo si aprì la porta della vecchia stalla. Una mano lanciò fuori una bambina che piangeva in silenzio e si teneva fra le gambe. Il negro di guardia le indicò la pietra dove erano sedute le altre. Lei ubbidì e ci si sedette senza dire una parola. Un’altra bambina fu introdotta nella stalla. Dalla porta socchiusa, Karim riuscì a intravedere un grosso tavolo con dei bicchieri pieni di vino e sentì le voci di alcuni uomini che parlavano una lingua incomprensibile. Poi in fondo, tra due risate, gli parve di vedere un ragazzo scuro di capelli mentre si riabbottonava i pantaloni. “Vieni con me, – sbraitò Turi – e dì al tuo amico di restarsene qui”. Karim lo seguì in casa. “Siediti. Siete sbarcati stamattina? E dove sono gli altri?”. “Non lo so. Se ne sono andati per conto loro”. “E quanti eravate?”. “Non lo so. Una ventina” provò a mentire Karim. “Vabbè vabbè” taglio corto Turi tirando fuori dal cassetto del tavolo attorno a cui erano seduti un involucro trasparente. L’aprì. Dentro c’erano centinaia di piccole bustine a pallina, chiuse
in alto dalla plastica riscaldata con la fiamma, “tanto i tuoi amici li rivedremo presto se non sono già morti, vero?”. Karim rimase a bocca aperta su quelle bustine sparse sul tavolo. Poi un urlo dalla vecchia stalla lo fece saltare. “Ma che fate qui?”. “Di che ti preoccupi? Di quelle? Sono puttane. Ancora non rodate - rise Turi - ora ascoltami bene. Se vuoi restare qui e guadagnare qualche picciolo è semplice. Ti porto in città. Ti porto in una casa tranquilla. Non ti devi preoccupare di niente. Polizia, carabinieri, niente. Ascoltami bene. Ogni giorno qualcuno ti porterà un po’ di queste bustine. Tu devi solo stare fermo come un palo in una piazza che ti dico io, e vendere sta roba a quelli che la vogliono. Ottanta euro l’una. Quando viene quello che ti porta le bustine la mattina, tu gli dai i soldi. Se fai il bravo e lavori bene, ti prendi 500 euro al mese, un bello stipendio di questi tempi. Però al padrone di casa gli devi pagare l’affitto. E per il mangiare sono affari tuoi. Del resto non devi preoccuparti di niente. Se ci sono problemi, qualcuno verrà a dirvi di filare e tu fili via. Tranquillo. A casa nessuno verrà a mai a chiederti niente. Quando sei in giro per conto tuo però allora devi stare attento, non posso farci niente. Ma se ti prendono con la roba mia, me la devi restituire. In contanti. È chiaro?”. Karim lo guardava con gli occhi spalancati. In Libia gente senza scrupoli ne aveva incontrati ma così decisamente infame e diretta mai. Questo Turi non salvava neanche le apparenze. “È tutto chiaro?” ripetè arrabbiato Turi. “Ma che state facendo a quelle bambine?” Turi, che era piegato in avanti verso l’algerino, in attesa di una risposta, alzò il busto scocciato. Il collo taurino divenne una colonna rossa fosfoscerente. Si alzò dalla sedia lentamente. Fece il giro mormorando in un tono conciliante “Ascoltami Karim…”. Appena gli fu di fianco gli sferrò un pugno pesante sull’orecchio. Karim volò via come un fiammifero usato. Gli esplosero i fuochi d’artificio negli occhi. Il tempo di rendersi conto che era stato colpito e il dolore arrivò in un’unica ondata devastante. Pensò che un dolore così non lo aveva mai provato in vita sua, neanche quando era caduto dalla finestra della scuola dal secondo piano, sbattendo la faccia sulla sabbia. Turi lo prese per le ascelle e lo rialzò. Lo mise rimise seduto. “Hai capito ora?”. Karim restò in silenzio tenendosi l’orecchio. “Hai capito o no? Fai vedere? T’ho fatto male?”. Gli tolse via le mani per vedere l’orecchio colpito. Appena Karim abbassò le mani, l’animale rosso gli tirò un’altra folgore sulla tempia con tutta la sua forza e il suo peso. Dio se pesava! Karim volo via di nuovo, questa volta gridando. No. Stavolta non si sarebbe più alzato neanche per scherzo, neanche sul serio. Neanche se lo ammazzava. “Basta!”.
“Basta? Se lo dici tu. Allora hai capito cosa devi fare? Ripetimelo”. “Io devo andare in Francia. Devo andare via da qui. Delle tue bustine non me ne frega niente”. “La merda parla? Però quante cose s’imparano nella vita”. Turi prese la rincorsa e gli sferrò un calcio nel costato. Una fitta tolse il fiato a Karim che pensò non avrebbe mai più potuto respirare né parlare. Ma a volte le parole vengono fuori da sole, nonostante tutto il corpo e la mente siano bloccati in decisione opposta. “Vaffanculo” – disse, ma in arabo. Purtroppo però Turi pareva conoscere un po’ d’arabo. “A te e a tua sorella!” strillò prima di sferrargli un calcio in faccia. Stavolta il sangue uscì a fiotti. “Minchia così mi sporchi le scarpe”, disse Turi pulendosi la vacchetta delle belle scarpe sui capelli di Karim. “Però in fondo mi sei simpatico – continuò tenendolo per i capelli - ti voglio spiegare perché è inutile farsi ammazzare. Tu non sei un cazzo di nessuno. Non hai documenti, non hai nome, non hai soldi, non hai niente per me. Con te posso farci quello che mi pare. Posso buttarti davanti alla polizia e mi direbbero grazie. Posso seppellirti vivo sotto un arancio e fra un anno mangiarmi le arance più buone del mondo. Posso farti a pezzi e darti ai maiali. Posso persino darti a quelle bestie là dentro che stanno sverginando quelle negrette e farti fare lo stesso servizio. Quelli ci provano gusto normalmente, figurati per un paio di queste bustine qua”, Turi aprì una bustina e strofinò la coca sul naso insanguinato di Karim. “Arabo di merda. Straccione, schiuma di merda. Tu sei sbarcato solo perché l’ho voluto io, che ti credi? Sei mio. Tu fai quello che ti dico io”. Quindi si alzò per assestargli un dolorosissimo calcio nell’inguine. Karim pensò che avrebbe perso i sensi in pochi secondi. Ma l’immagine dei suoi amici migliori, di suo cugino Kamel, di suo padre, così alto e grosso, con quella sua faccia enorme che era il miglior lasciapassare per tutte le strade d’Algeria, anche in piena notte, con quella sua cicatrice sull’occhio buscata in una rissa giù ad Algeri quando aveva solo diciassette anni, il rispetto stesso che tutta la sua famiglia riscuoteva a mani nude, quando si trattava di alzare la voce, l’orgoglio o la dignità, vallo a sapere, fatto sta che prima di svenire gli uscì un’altra, ultima, definitiva sciocchezza: “Lasciami andare o t’ammazzo” mormorò sputando sangue. E nella sua testa ammaccata tutti i suoi parenti fino alla decima generazione, fino a quelli morti e sepolti da secoli, gli si avvicinarono per dargli una pacca sulla spalla. Turi non parve sorpreso. Solo deluso. Però anche divertito, in fondo. Andò a cercare qualcosa dietro alla porta e tornò con un grosso bastone, con un uncino da macellaio a un’estremità. A Karim gli venne da ridere. Sarebbe stato il primo della sua famiglia a essere sepolto lontano da casa. Questo non lo aveva mai preso in considerazione. Era completamente in balia del
suo destino. Prima il mare, ora la terra. Non riusciva a venirne fuori. Sarebbe stato meglio affogare? Disperso nei fondali mangiato dai pesci. Più o meno la stessa cosa. Sarebbe stato disperso nelle pieghe di questa terra così simile alla sua, così lontana. Nessuno avrebbe saputo nulla di lui. Era affogato in mare. E invece era affogato in Sicila. Questo Turi dalla macchina grossa e nera aveva ragione. Era il padrone delle sue carni. E anche dei suoi pensieri. Tant’è che si stava preparando a morire e non ci poteva fare niente. Turi si ergeva davanti a lui con il bastone in mano. Lo guardava considerando lo spreco di uno spacciatore da sfruttare. Peccato. Ma la merce guasta non serve a niente se non a procurare guai. Lo guardava dall’alto in basso. “È finita” pensò Karim. Turi all’improvviso si lasciò andare in avanti. Ma non arrivò a sollevare il braccio con il bastone. Cascò a terra con un lamento piccolo. Al suo posto, davanti a Karim, apparve Totò Cibali con un sasso in mano. Karim sputò un grumo di sangue per il ridere. Ma cos’era? Uno scherzo? Però che bello scherzo. Allah è grande per davvero. “Non c’è niente da ridere. Stai bene? Un’altra domanda stupida. Dobbiamo filarcela”. “Ma che ci fai qui?”. “Lascia stare ne parliamo dopo, ora dobbiamo andarcene e anche di volata. Hai visto che stanno facendo a quelle poverette? Prima ce la filiamo, prima possiamo chiamare la polizia. Qui io e te da soli non possiamo fare proprio niente. A meno che non vogliamo semplicemente morire”. “Infatti”, la voce di Turi alle sue spalle lo colpì come un maglio. Aveva la pelle dura il porco. Totò prese una sedia in testa. Si trovò con la bocca e la lingua per terra, con un acuto fischio in testa e il vuoto assoluto nei pensieri. Subito dopo fu investito da una macchina da guerra. Si sentì sbattere sul muro e poi colpito alla testa, alla bocca, sul naso, in pancia e sul fegato. Il colpo al fegato lo piegò in tre. In ginocchio con la testa bassa, ricevette, pensò Totò, l’intero soffitto sulla nuca e rimase sdraiato a morire tra il sangue e l’affanno. Infine un colpo tremendo gli fece esplodere il ginocchio destro. Era andata male. Chissà Rosa cosa avrebbe pensato. Le solite idee idiote di Totò. Meglio così. Il silenzio riempì la stanza. Poi una voce fievole gli disse all’orecchio: “Filiamo Totò filiamo”. Filiamo? E chi si alza adesso? Totò vide il volto storto di Karim, pieno di sangue con un occhio pietosamente rivolto verso il basso. “Io ti reggo Totò tu dimmi da che parte che non vedo niente”. Non vedeva niente? E come aveva fatto a centrare Turi con l’uncino da maiale in piena nuca? Il rosso stava lungo per terra. Indubbiamente e definitivamente morto. L’uncino era entrato tutto nella testa. “Di qua” fece Totò.
Ciò che s’intreccia in mare non si scioglie tanto facilmente a terra. I loro destini ne erano la prova. Totò e Karim si conoscevano da meno di dodici ore e avevano in comune ormai molto più di quella semplice vita morta abbandonata sul pavimento. Ma la cosa più importante adesso era scappare da lì.
Ancora.
Mi strappi la pancia, mi strappi la vita, chi sei? Come farò a dirtelo? “Come va signora?”. Quanto ancora mi farai morire? Il tuo volto mai visto è già tutto per me, tu che non sei ancora nessuno. Ma tutta l’esistenza e nient’altro. Te lo dirò. Tuo padre è il vento. Scusa il delirio. Una folata improvvisa che è apparsa con un sorriso intero in un pomeriggio da nulla. Ero scivolata su un marciapiede banale e la vita mi entrò nella pancia in sole tre settimane. È bastata una mano, una spalla, una bolla che esplode nell’anima e ti riempie di caldo. Vuoi davvero saperlo? Fu generoso con me. Mi stai schiantando piccolo mio. Anche tu sei una bolla incandescente di vita pura. Ed esplodi nelle mie carni. Fammi sopravvivere, se puoi.
5
Pesti come zampogne, con le ossa doloranti che mandavano fitte lancinanti al cervello, Totò e Karim si sorreggevano cercando una via d’uscita dal labirinto degli aranci. I piedi affondavano nella terra umida del giardino, rendendo ogni passo più pesante. In mezzo a tutti quei sempreverdi tutti uguali si orientavano osservando il paesaggio delle colline, in alto. “Da questa parte”. “Come sei arrivato fin qui?”. “Madonna quanto chiacchieri. Ce la fai a continuare?”. “Sbrighiamoci”. Alla fine trovarono la rete dove Totò aveva scavalcato, vicino a un muretto basso. Passarlo adesso era quasi un’impresa. Karim cercò di tuffarsi dall’altra parte. Le ferite e le botte gli impedivano qualsiasi sforzo oltre a mettere la testa al di là della rete. Totò lo spingeva dal culo per farlo passare dall’altra parte ma la pressione dei muscoli non arrivava ai polsi che gli si piegavano per il dolore. Appiccicati a quella rete avrebbero fatto la fine delle mosche che sbattono e risbattono sul vetro delle finestre. Poi nel silenzio della campagna risuonò un fischio da pecoraio e subito dopo un urlo feroce. “Via via via!”, sibilò Totò. Karim volò fuori e Totò non ebbe alcuna difficoltà a seguirlo come attratto da una forza misteriosa, quella che salva la pelle in tante circostanze. L’auto era ben nascosta, dietro la terra di risulta di qualche lavoro attorno al perimetro del giardino d’aranci. Misero in moto e partirono, molto lentamente.
La strada provinciale era poco distante. Appena l’infilarono, Totò mise le ali ai piedi, al carburatore e anche ai polsi, che controllavano sterzo e cambio solo grazie alle terapeutiche proprietà dell’adrenalina. “Allora? Che ci fai qui?”. Totò cercò le sigarette nella tasca della giacca ma non gli riuscì di prenderle per il dolore. “Prendimi le sigarette. Sono qui nella tasca”. “Posso fumarne una anch’io?”. “Certo. Basta che me l’accendi. Mi fa male tutto. Ma quant’era grosso quello lì”. Poi dopo un attimo di silenzio aggiunse: “Credi che sia morto?”. “Credo di sì”. “Cazzo, morto? Speriamo che nessuno ha visto la macchina sennò sono guai”. “Mi pare che ci sei già nei guai. Che ci fai qui? Come sei arrivato? Lo conoscevi?” “No. Non lo conoscevo. E non so neanche come ci sono arrivato qui. Vi sono venuto a cercare. Dov’è il tuo amico?”. “Non so. Meglio non pensarci più. Se la caverà”. “Hai visto quello che stavano facendo a quelle ragazze? Non è gente normale quella”. “Ti verranno a cercare?”. “Di sicuro cercheranno te. Ma non ci metteranno molto a capire che non eri solo”. “Dici?”. “Le tracce delle ruote, il bordello che abbiamo lasciato là dentro, sicuramente saranno restate delle impronte, e poi era troppo grosso e troppo forte solo per te. Potrebbero aver visto la macchina. Speriamo di no. Devo avvertire Rosa, mi aspetta”. “Chi è? Tua moglie?” Prima di rispondere un’auto incrociò la loro. Totò restò ammutolito. Gli era parso, ma forse si sbagliava, ma non poteva sbagliarsi, gli era parso di vedere quella cicatrice inconfondibile in quell’auto bianca che avevano appena incrociato, quella faccia sembrava proprio la faccia dello sbirro della mattina, sull’Anadro. Com’era possibile? E poi si erano guardati. Anche lo sbirro per un attimo lo aveva incrociato con lo sguardo, giusto il tempo che ci mettono due auto a forte velocità ad avvicinarsi e poi perdersi. “Hai visto chi abbiamo incrociato?”. “No. Chi?”. “Mi era parso il poliziotto di questa mattina”.
“Fermiamolo, facciamoci aiutare!”. “Ma che dici. Se era lui che ci faceva qui? E poi come ci auta? A finire in galera? Tu non hai neanche un documento”. “Ma quelle ragazze?”. Già, le bambine. Qualcosa si doveva fare. “Facciamo all’antica. Telefoniamo alla polizia da una cabina telefonica e li avvisiamo di quello che c’è là dentro. Dobbiamo pensare pensare pensare. Che ci faceva quel poliziotto su questa strada deserta? Possibile che sia solo una coincidenza? Non mi fido di quello. Non mi piace”. “Che facciamo Totò?”. “Che facciamo? Non lo so. Tu devi andare a Marsiglia, no?”. Dopo aver mollato i suoi pacchi al Cpt, l’ispettore Pepe se n’era tornato in Questura, a vedere se il capitano di quel peschereccio fosse passato a portargli i documenti. Era piuttosto fiducioso all’idea di trovarlo lì, seduto in corridoio tutto tremulante come una fichetta. Invece non c’era. Entrò nel suo ufficio e guardò dalla finestra. L’Anadro era rientrato. I marinai stavano sbarcando le cassette del pesce. Puntò lo sguardo e aspettò di vedere quel Totò Cibali salire in coperta. Ma non spuntava. Si ricordò allora che avrebbe dovuto richiamare il suo amico, come d’accordo. Fece il numero dal cellulare, dall’altra parte rispose una voce femminile. L’utente non era raggiungibile. Strano, pensò l’ispettore: e poi quegli extracomunitari che erano sbucati dal nulla. Valeva la pena andare a dare un’occhiata di persona. Lasciò l’ufficio e risalì in macchina. Questa volta con la sua auto. Fatti pochi metri si fermò, si levò il giubbotto da poliziotto e ne mise uno borghese. Poi ridiscese la costa a sud per imboccare la provinciale che porta al giardino d’aranci del suo vecchio compare Turi, compagno di scuola, d’avventure e d’affari. “Sì?”. “Sono Totò”. “Ciao - rispose Rosa senza molto entusiasmo – siete arrivati? Tutto bene?”. “Sì. Bé… sì tutto bene. Però…”. “Perché non sei a casa?”. “Perché… senti Rosa io non posso tornare… non torno. E anzi tu dovresti… perché non vai qualche giorno da tua madre?”. “Che vuol dire non torni? Non è possibile…”.
“Ascolta Rosa non sto parlando di noi due”. “Certo, sicuro”. “Non sto parlando di noi due, Rosa. Ascoltami. Ascolta bene il tono della mia voce”. “Cosa devo ascoltare? Le tue solite lune?”. “Quali lune, Rosa. Non può essere che non torno per altri motivi?”. “Ah sì? E quali sentiamo”. “È difficile per telefono…”. “E allora perché mi chiami? Vieni a casa e mi dici tutto. Ora fammi chiudere, dai”. “No! Rosa, ascolta: io non torno. Non posso. Prendi i bambini e vai da tua madre. Poi ti chiamo quando sei lì, anzi faccio un salto e facciamo due chiacchiere a quattr’occhi”. “A casa di mia madre? Ma smettila. Piantala! Non coinvolgere tutti in questioni che riguardano solo noi”. “Sto parlando d’altro, Rosa”. “Stai parlando della stessa cosa da sei mesi. Sei mesi”. “Ah sì? Perché è cambiato qualcosa in sei mesi? Tu sei cambiata? Non mi hai mentito negli ultimi sei mesi? Non mi hai preso per il culo? Piccole bugie, menzognette da quattro soldi. E sai perché? Perché non hai stima di me. Ecco perché”. “Ecco hai visto? Parliamo della stessa cosa da sei mesi. Ora salta fuori la vittima”. “Rosa, ma quale vittima?”. “Io sono a casa, con i bambini. Ciao”. “Rosa…”. Restò con il cellulare in mano, allibito. “Non sono riuscito a dirle niente”, mormorò Totò a Karim. “Com’è possibile?”. “Non lo so…”. Totò chiamò Ignazio. Stavolta nella sua voce squillava il timbro del comandante. “Ascolta Ignà. Vai a casa mia. Dì a Rosa che deve prendere i bambini e andare da sua madre. Che io non torno per problemi grossi… anzi no non dirgli così. Digli che devo risolvere una cosa… ecco, che devo aiutare un amico nei guai. Non posso tornare e lei deve andare da sua madre. Se ti dice di no, tu le dici ‘i bambini devono andare via’ e la guardi dritto negli occhi. Le dici ‘fidati di Totò’. Ignà! Li prendi tu, li metti in macchina e
li porti via. Cosa? La piccola deviazione? – Totò si voltò verso Karim – Sì, la piccola deviazione. Non dire altro a Rosa. Lo so… certo… va bene… ciao Ignà. Ah! Ignazio… grazie”. Rosa prese il cellulare. Aprì la cartella ‘scrivi messaggi’ e digitò “mi passi a prendere?”. Poi lo inviò a un numero che teneva a mente in un pacifico giardino segreto della sua mente, inaccessibile. Come poteva dire di non amare Totò? E come poteva dire di amarlo? Dopo essersi accertata che il messaggio era stato inviato entrò nella cartella ‘messaggi inviati’ e cancellò le tracce dei suoi desideri inconfessabili e si preparò a uscire con spirito leggero. Un’altra piccola bugia, detta però per assecondare una più grande verità. Ed è tutto qui. “Ma che cazzo è successo?”. “Non lo so, non lo so. Ora chi glielo dice a don Paolo…”. “Chi è stato?” “Stava qui con un arabo. Lo aveva raccattato giù in spiaggia. Erano in due. Uno aspettava fuori mentre Turi era entrato con l’altro”. “E dove sta adesso quello che aspettava fuori?” “Se lo stanno lavorando i ragazzi. Ma credo che manco lo conosceva quello che ha fatto questo schifo a Turi”. “Accertatevene. In ogni caso poi uccidetelo”. “Chiaro”. “A don Paolo ci parlo io. Dio Turi! Turi mio…”. “Era con un arabo che ha tirato su alla spiaggia”. “Sì lo so. Sta cosa non è chiara. Ma siete sicuri che era solo st’arabo?”. “Sì. Sicurissimi”. “Sicurissimi un cazzo”, strillò l’ispettore Pepe. “Un cazzo! Tu che stavi facendo? Dov’eri?” “Qua…”. “Qua dove? Non mi sparare minchiate ora. Non ora!”. “No Umbè, ho capito, non ti dico cazzate ora. Ero di là con i ragazzi per il solito lavoro alle puttane. Ma Turi è entrato da solo, lui e l’arabo, te lo giuro sull’anima mia”. “E non avete visto nessun’altro entrare?” “Se l’avessimo visto il morto non sarebbe Turi, Umbé”.
L’ispettore parve calmarsi. “Non era solo l’arabo. Ora vado da don Paolo e me la vedo io. Fate sparire tutto. Turi caricatelo in macchina e portatelo alla Sovarella. Anche le negre. Veloci”. Poi uscì dal casolare, attraversò lo spiazzo e si affacciò nell’auto del suo compare Turi. Sul sedile di dietro una cerata gialla da marinaio. Totò Cibali era un uomo morto e sepolto. Invece Totò era più vivo che mai. Il ginocchio gli faceva male da impazzire. E anche i polsi. Ma guidava senza lamentarsi. Aveva comprato una scheda telefonica al bar di una stazione di servizio però cabine non ne aveva trovate. Ormai erano preziose come il petrolio e si usavano solo per telefonate come quella che doveva fare lui, per non farsi rintracciare. Fu solo un’ora e mezza dopo, alle porte di Messina, che finalmente ne scovò una. Ma ormai era troppo tardi. Avrebbero avuto il tempo di cancellare ogni traccia. Quello sbirro che aveva incrociato vicino allo scannatoio poi gli dava i brividi. Dall’alto della strada vide lo stretto. I tetti marci di Messina, una lingua di mare azzurro e crespato e in fondo le montagne della Calabria. Era stanco, sporco, spaventato. E Karim dormiva accanto lui gemendo e voltandosi per le ferite. Aveva bisogno di lavarsi e dormire. Uscì dall’autostrada e cercò un posto dove fermarsi un po’ a riflettere. Che giorno era fra i tanti che aveva vissuto? Da dove era saltato fuori questo romanzo poliziesco? Solo prima dell’alba era davanti al suo Mediterraneo nero, platea mobile e familiare, a ragionare di Rosa, di nonno Totò, a chiacchierare con u caruseddu sulla frequenza delle onde. Tre lunghe, due corte. Solo stamattina aveva in testa il balcone di casa sua. Le piante di menta, il basilico, gli occhi di Rosa, sempre più distanti da lui. Poi i morti, Karim, la torre della spiaggia che gli parlava e gli diceva qualcosa a proposito del tempo vivo, del tempo morto. Turi, quel poliziotto, Rosa che l’aspettava. Rosa e i bambini. Ignazio aveva fatto ciò che gli aveva chiesto e ora erano al sicuro nella casa di campagna della madre, un posto introvabile nella provincia di Ragusa. Il sole cominciava a nascondersi dietro il profilo sicuro dell’Etna e Totò si lasciò andare sul sedile della sua auto, parcheggiata ai margini di una discarica abusiva, di fronte ad uno degli spettacoli più affascinanti del mondo: il tramonto sullo stretto: i bagliori rossi del sole scavavano nel viola del braccio di mare, raggiungendone le viscere più profonde, quelle dove riposava Cola Pesce, il bambino che per ordine del re nuotò fino alla fine del fondo del mare, solo per scoprire su che cosa poggiasse la città di Messina. Dicono che non non potendo più tornare indietro si trasformò in un pesce. Dicono che non sia tornato perché non ce la facesse a risalire, tanta era la strada che aveva fatto. Dicono che poi quando la
ritrovò, andò dal suo re a raccontare di quattro colonne fragili su cui era fondata la città. Non era una bella storia, tutto sommato. Totò sfinito s’addormentò. Non dormì bene ma sognò. Sognò di essere in una piazza gialla e assolata e sabbiosa, con un fico che gettava l’ombra vicino a un pozzo. Non era Sicilia, caso mai qualche parte dell’Africa. Se ne accorse perché vicino a lui c’era Karim, che gli diceva: “Non ci credo che anche tuo padre ha attraversato il deserto”. “Sì che è vero”. “Ma quando mai”, rideva Karim. “Eccolo lì”, rispose Totò. All’orizzonte, oltre la piazza, in pieno deserto, un uomo con la lunga barba gialla e una divisa coloro kaki, con i pantaloncini corti, avanzava verso di loro. Era abbronzato e veloce. Totò gli andò incontro pieno di felicità. Suo padre stava tornando, finalmente. Tornava dal deserto che aveva attraversato per riabbracciare proprio lui. Il padre si avvicinava nell’acquosità del riverbero dell’afa, non se ne distingueva il volto. Però era lui. Karim si era messo a correre per raggiungerlo e Totò gli aveva gridato: “E’ mio padre, mio padre capito?”. “Sì, sì”, rideva Karim. Allora Totò scattò in avanti e superò Karim proprio in tempo, primo davanti al suo papà. Invece non era suo padre. Era nonno Totò. “Ciao Totò”. “Ciao nonno”. “Vieni che dobbiamo fare una cosa”, gli disse il nonno. Totò si voltò e si ritrovò sulla banchina del suo porto. Solo che oltre il mare, all’orizzonte, non c’era l’infinito azzurro ma le montagne della Calabria. “Nonno che dobbiamo fare?”. Il nonno s’era allontanato verso un furgoncino bianco, l’aveva aperto e ne aveva tirato fuori due lunghissime cime bianche arrotolate. Senza dirgli nulla, aveva assicurato le cime alle bitte della banchina e poi era saltato su una barchetta in vetroresina, portando con sé le cime. Aveva montato i remi e legato i capi liberi delle grosse corde bianche alle bitte della barca. “Vieni Totò”. Appena saltato a bordo aveva cominciato a remare verso il largo. E più remava più le cime si srotolavano, logicamente. “Nonno dove andiamo?”. Ormai erano lontanissimi dalla banchina e le cime s’erano quasi del tutto srotolate. Nonno Totò continuava a remare e remare, finché le cime diventarono tese. Dritte e tese, dalla Sicilia alla piccola barca in vetroresina. Allora Totò vide il volto del nonno di Rosa tirato e sconvolto. Fra sé e la sua lunga barba gialla, il vecchio mormorava: “E muoviti… muoviti!”. E spingeva, spingeva su quei maledetti remi. Ma la barca ormai era ferma, nonostante lo sforzo del nonno. Le cime tesissime. Totò non capiva. Che senso aveva quel voler spostare una barca saldamente assicurata alla terra? Poi nonno Totò s’alzo in piedi. Era arrabbiatissimo. “Prendi il mio posto che sei giovane e rema! Forte. Più forte!” Totò ubbidiva spaventato. Il nonno allora si rivolse alla costa, alla terra ferma, alla Sicilia in persona e con le vene del collo gonfie le strillò: “E muoviti! Muoviti disgraziata! Muoviti!”.
Totò si svegliò di soprassalto. Era buio. Le luci della Calabria sembravano vicinissime. Ma era solo un’illusione. La Sicilia non s’era spostata di un millimetro. Né avanti né indietro. Testarda cavalla nera con le zampe legate, non c’era niente da fare. Svegliò Karim e partirono verso la prima rosticceria che la strada gli avrebbe messo tra i piedi. Presero un paio di schiacciate e di arancini. Non avevano voglia di farsi vedere troppo in quello stato. Mangiarono in macchina con le labbra che bruciavano a ogni morso. Tutto sommato ragù e sangue s’impastavano bene. Poi scesero lungo la strada che attraversa la città, verso il porto. Comprarono un biglietto di sola andata per Villa San Giovanni. Non c’era molto da aspettare e s’infilarono subito nel traghetto. Andarono in bagno a lavarsi un po’. Ora Totò aveva un aspetto piuttosto presentabile. Karim invece aveva un occhio che faceva schifo. Forse era il caso di restarsene in auto durante la traversata ma l’aria fresca del mare era per Totò un richiamo irresistibile. Lasciò solo Karim e se ne andò sul ponte della nave per schiarirsi le idee. Si sporse e istintivamente sputò in acqua. Molte volte aveva sputato dal traghetto. Da quando, piccolino, con suo padre, lasciando la Sicilia per andare in continente, suo papà gli disse proprio queste parole: “Quando si vuol bene a un posto e non lo si vuol lasciare tu sputa. È per lasciare qualcosa di tuo”. Chissà se suo padre aveva sputato anche l’ultima volta, quando era partito per l’Australia e non era più tornato. Qualche lettera, all’inizio. Poi qualche cartolina di pochissime parole, con una grafia sempre più sbiadita e debole. Alla fine, niente più. E infatti che cosa gli aveva lasciato di suo? Manco uno sputo addosso, ché almeno Totò avrebbe potuto pensare ‘forse mi vuole bene e vuole tornare in questo posto suo, che sono io’. Invece gli aveva lasciato una lettera con una foto. Un uomo che avrebbe potuto essere suo padre, in pantaloncini corti, con i capelli biondi lucidi tirati all’indietro, che Totò annusava la foto e si sentiva l’odore della brillantina, e nella lettera c’era scritto che quel mese, era febbraio, mentre attraversava il deserto con alcuni suoi colleghi a bordo di una jeep il motore s’era rotto ed erano rimasti a piedi in mezzo al deserto, e per attraversarlo tutto c’avevano messo tre giorni, però diceva che almeno l’acqua ce l’avevano e la sete non s’era fatta sentire più di tanto, ma il caldo e il freddo sì. Caldo il giorno, da morire, e freddo la notte. Scriveva che nel deserto è così, è normale, che le temperature sono altissime di giorno e bassissime di notte. Poi c’era scritto che a febbraio laggiù fa caldissimo perché l’Australia è dall’altra parte del mondo e le stagioni sono invertite. Quando Totò leggeva l’ultima lettera di suo padre aveva tredici anni. E queste cose le sapeva già dalla seconda elementare. Quello che non sapeva, quello che non
riusciva a sentire dalla sua voce scritta era semmai quando sarebbe tornato a reclamare il suo sputo, semmai l’avesse lasciato dalle parti del suo Totò. Appena li traghetto si scostò dalla banchina si ricordò della stretta forte della mano del padre, un sapore ormai stantio e anche un tanto crudele. Gli mancò il padre, eppure non ne fece mai parola a nessuno, chissà se la scelta del mare, della pesca, fu dovuta anche a quell’addio. Certamente sì, in qualche misura. Ogni scelta e ogni voglia sono dettate dal bisogno. Come il bisogno di Rosa e di fuggire da lei. Le cose più disparate
nella vita sono compatibili. I più le chiamano contraddizioni: ma c’è
contraddizione in due comportamenti uguali e contrapposti? Ad esempio, nutrirsi e defecare: non c’è dubbio che siano due comportamenti contraddittori, almeno in appparenza. Eppure. Pari in mano, dispari a terra, dispari in mano. Le ossa facevano ancora male, soprattutto il ginocchio, ed era piuttosto logico perdersi in considerazioni alla rinfusa, un passo sul padre e un altro su Rosa, sull’ingestione e la digestione. Ingestione e digestione, il segreto è tutto lì, anche nelle cose della vita, anche le più banali, come una storia d’amore grande che si stava consumando a poco a poco. Quello che però stava ingerendo dall’alba del giorno prima era francamente difficile capire come sarebbe stato digerito. Fra i se e i ma che gli rimbalzavano in testa, a Totò gli squillò purre il cellulare, facendolo trasalire. Il numero era sconosciuto. Ragione in più per rispondere. “Totò”, fece una voce maschile, gentile. “Sì”. “E come ‘sì’. Io sono ancora qui che t’aspetto. Che fai non ubbidisci a un ordine di un pubblico ufficiale?”. “Chi parla?”. “Hai capito benissimo. Dove sei?”. “Chi sei?”. “Davvero non hai capito chi sono?”. “Io? – a Totò gli venne come una rabbia cieca infinita, come al suo Mediterraneo nel peggiore delle sue giornate particolari, quelle quando ha il mal di pancia per lo schifo di tutti quei pidocchi e quelle zecche che gli camminano in testa e decide di fare pulizia, eliche scie rifiuti e tutto, e forse l’ispettore Pepe stava commettendo un errore imperdonabile a sfidare un marinaio d’anni, soprattutto quando è a galla sul suo mare – Io non ho capito? Forse ho capito chi eri già sulla mia barca. Le cose sono andate come sono andate. Come andranno saranno solo peggio per te”.
“Ma di che parli Totò? Vieni che sistemiamo tutto qui in Questura. Mi porti i documenti della barca e finisce la storia”. “Che barca? La mia barca? Venduta. Stamattina. Non esiste più la mia barca e manco l’equipaggio”. Ignazio aveva fatto il suo lavoro per bene, facendo sparire l’Anadro che non era stato mica venduto. “Chi ti ha dato il mio numero?”, continuò Totò. “Sono uno sbirro”. “No, sei un cornuto. Vai, vai a vedere se c’è la barca al molo”. “Tanto ti troviamo. E questo discorso lo finiamo a quattr’occhi”. Totò spense il cellulare e stette come un fesso a guardarlo per qualche minuto. Poi lo lanciò in acqua. L’infame in divisa aveva parlato al plurale e la polpetta avvelenata cominciava a farsi sentire. Alla faccia della digestione. “T’ho portato una birra”. Karim lo aveva colto alle spalle, mentre Totò fumava pensieroso l’ennesima sigaretta e l’ennesima fitta lo tormentava proprio sotto al cuore. Era perso nelle luci riflesse del traghetto che correvano sul mare in una gara impossibile da vincere o da perdere. Il colore e l’intensità cambiavano lasciando intuire il moto delle onde e, più spesso oggetti che galleggiavano, spersi in ordine sparso, come la sua mente: bottiglie di plastica, sacchetti, lattine. La bellezza raccolta tutta attorno allo stretto e in mezzo ad esso era segnata dal tempo morto. La differenza con il passato è che adesso il tempo morto arriva più in fretta, è veloce fulmineo istantaneo. Questa non è una novità. Lo chiamano consumismo. Tutti lo criticano ma nessuno che dica le cose come stanno, pensava Totò, e cioè che il consumismo, il rifuto, l’eccesso, l’inutile, è solo una morte più veloce. Come quella lattina galleggiante: ruggine a breve. O forse, anche, trappola per un delfino o chissà. Con un po’ di fortuna avrebbe potuto anche spiaggiarsi tra gli scogli laggiù e restarci per secoli finché non sarebbe tornata ferro. Oppure, magari, tetano per il piede di una creatura. Banalità. Totò di queste banalità ne pensava a bizzeffe. Poi le leggeva sui giornali. Oppure gliele raccontavano gli amici che erano stati ai funerali delle creature uccise dal tetano. Allora smettevano di essere banalità e diventavano tragedie. Comiche, sarebbe stato meglio dire, comiche. Banalità comiche. Come le chiacchiere degli uomini sui fatti seri. Rosa sarebbe stata in pensiero. I bambini lo staranno aspettando. E se non dovesse tornare più? Chissà quanto peserebbe loro perderlo per sempre. Come a lui, a Totò, pesò non sentire addosso l’odore dello sputo del padre. In Australia aveva incontrato un’altra donna, se n’era innamorato, aveva messo su famiglia, un’altra famiglia, e come spesso avviene si era semplicemente dimenticato della prima, con la routine e lo stress della
quotidianità, questo è logico: avviene sempre così. Il lavoro. La distanza. Pover’uomo, che poteva farci? Era così lontano. “Karim, tu sai quanto dista l’Italia dall’Australia?”, disse Totò senza aspettarsi una risposta. “Sedicimila e duecento chilometri”: Totò si voltò verso quel naso aquilino di un algerino sfrontato e saputo. “Ma che dici. Ma poi come fai saperlo?”. “Bé so quanto dista l’Algeria dall’Australia, quindi è facile”. “E sentiamo quanto dista l’Algeria dall’Australia?” “Sedicimila e duecento chilometri”. “La stessa dell’Italia? Lo vedi che dici fesserie“. “Tu non vedi la cosa dalla giusta prospettiva”, rise Karim. “Pensi di sapere tutto, eh? – disse Totò allargando un sorriso e prendendogli la birra dalle mani - Vediamo se sai anche questo. Dimmi quanto dista quella costa laggiù da Marsiglia, dottore?”. “Diciamo… bé devo calcolare un po’… direi circa mille e ottocento chilometri, sì. Più o meno”. “Tu non vedi le cose dalla giusta prospettiva, caro il mio clandestino”, gli rispose Totò tirando giù una bella sorsata. Non faceva una piega, in effetti. Karim restò in silenzio. Pareva si fosse appassionato anch’egli alla corsa delle luci, là sotto, a pelo d’acqua. Poi attaccò con una domanda. Una di quelle domande che valgono se non una vita intera almeno una bella fetta di angosce. “Perché stai qua Totò?”. “Uff. Rompi”. “Non è normale, sai?”. Totò non aveva molta voglia di parlare di sé ma per lui era sempre stato difficile resistere alle provocazioni. E quel ragazzo sembrava nato apposta per aizzarlo. Già dalla prima risposta a bordo dell’Anadro, quando Totò aveva ammesso di aver fatto una domanda stupida e Karim gli aveva risposto che sì effettivamente sì, era una domanda stupida, già allora, dal primo momento, l’aveva inchiodato. Totò adorava l’intelligenza e il coraggio. E sapeva anche che l’intelligenza esclude automaticamente la malvagità, anzi il male. Era una questione che apparteneva alla natura e allo stato delle cose e non se ne discuteva. Ciò che è veramente intelligente, e non importa che sia tanto o tantissimo intelligente, appartiene al bene. Tutto ciò che devia verso il male è irrimediabilmentte stupido, foss’anche il male brillante o stupefacente. Causa ed effetto, per Totò, erano la
stessa identica cosa. Fine e mezzo, idem. Poi certo era capacissimo di valutare, soppesare, considerare. Ma non nutriva alcun dubbio che, ad esempio - per farne uno - il Principe di Machiavelli fosse una delle opere più intrinsicamente stupide che la mente umana avesse mai partorito, con tutte le idee geniali che esso potesse contenere, per carità. Eppure le regole del nascondino o della mosca cieca erano assai più intelligenti del Principe di Machiavelli. Totò partiva comunque dal presupposto che il potere fosse una malattia mentale. Questa certezza l’aveva raggiunta da tempo, grazie al mare. E non aveva avuto neanche bisogno dell’aiuto di Dio. Fra di loro c’era rispetto ma ognuno continuava a farsi i fatti suoi. Totò credeva nel mare. E se il mare era Dio, allora credeva in Dio. Il mare era il suo testo sacro, la sua profezia, e tutto quanto era scritto e spiegato lì. Non c’era molto da dire. Karim aveva il potere di provocarlo e costringerlo a una risposta. “Certo che non è normale. Lo so che non è normale. Ma questo posso dirlo io. Riguarda me. Che ne sai tu se per me è normale oppure no?”. “Non t’arrabbiare. Lo dici tu stesso che non è normale”. “Che poi, perché non dovrebbe essere normale? Sentiamo. Dimmelo tu. Invece è normale, normalissimo. Eri a mollo in mezzo al Canale di Sicilia, non avrei dovuto tirarti su? E quel pazzo ti stava massacrando, cosa avrei dovuto fare?”. “Giusto. Passavi di lì per caso…”. Totò ebbe l’impulso di lanciare la bottiglia di birra, ormai vuota, in acqua. Ma si trattenne. “Cosa vuoi da me? Una confessione piena? Ti ho cercato perché sono innamorato di te, – disse a Karim guardandolo languidamente negli occhi – perdutamente. Poi con quell’occhio che ti penzola all’ingiù hai un aspetto da cucciolo in cerca d’affetto. Dai, adesso basta parlare. Dammi un bacio qui sul traghetto, è così romantico”. “Ma piantala”, rise Karim. “Che vuoi che ne sappia, arabo. Non hai mai fatto qualcosa senza sapere perché?”. “Sul momento, – rispose piano Karim – poi una spiegazione viene”. “Allora verrà anche questa. Caso mai – continuò Totò dopo qualche attimo di smarrimento – varrebbe la pena di capire perché non siamo in tre, qui. Manca qualcuno. Già”. Totò sputò in acqua senza pensarci. “Hai figli?”.
“Due. Le creature più meravigliose della terra. Ma non ho molta voglia di parlarne”. “Perché?”. “Forse perché sono in procinto di fargli del male. E non mi sento bene”. “Dov’è la tua donna?”. “Se vuoi saperlo con una certa precisione è da sua madre. Se vuoi saperlo con esattezza, non lo so”. “Un uomo dovrebbe sapere sempre dove si trova la sua donna. Sempre”. “Ma quanti anni hai?”. “Venticinque”. “Però. Sembri saperla lunga sulle donne”. “Dalle parti nostre cominciamo presto. Cominciamo presto e non ci pensiamo molto. Non sono cose su cui si deve pensare. Le donne, come la vita, come gli amici, come i figli, come tutte le cose più importanti, vanno vissute e basta. Vissute con attenzione”. “Io sono attento con i miei figli”. “Non mi sono spiegato. Con attenzione nei confronti di se stessi. Tutto ciò che fai per chi hai accanto non ha peso se non ci sei. Non vale la pena essere gentile e premuroso se non ti va, perché si nota. L’amore, per essere avvertito dagli altri, ha bisogno di partecipazione. Ci devi credere, Totò. Sempre. Anche quando fai un panino a tuo figlio o ascolti una storia che ti racconta. Devi essere lì. Se non sei lì, chi ti ama lo capisce, lo avverte, si spaventa”. “Sai una cosa? Lo penso anch’io. Anzi ne vuoi sapere un’altra? Forse ti sono venuto a cercare alla spiaggia perché ero un po’ spaventato”. “Tu? E di che?”. “Di perdere tutto. No. Di perdere la mia donna. Anzi, di perdere tutto”. “Ma questo non è possibile”. “Che ne sai? Ora sai tutto anche di mia moglie?”. “No. Dicevo non è possibile che tu abbia paura…”. “Smettila adesso! Forse al tuo paese le cose stanno diversamente. Forse in Algeria non è possibile perdere la propria donna perché le tenete con il velo in faccia e la pistola sul cuore. Qui non è così. Qui ci amiamo perché ci scegliamo tutti i giorni da esseri liberi. Che ne sai tu? Non c’è giorno che non mi sia svegliato con l’estate nel cuore di aver scelto Rosa. E l’orgoglio, la forza che m’ha dato il pensiero che lei abbia scelto me, ogni giorno, m’ha fatto scorrere il sangue caldo, per vent’anni”.
“Però?” “Però non è detto che Rosa stamattina abbia scelto me”. “E tu scappi?”. “No. È solo che…” “Solo che?”. “Solo che, potrebbe essere che, bé insomma, potrebbe essere che stamattina io non abbia scelto Rosa. Ecco. Ecco di cosa ho paura. Ho sempre avuto un amico dentro le costole. Un amico che si faceva sentire ogni volta che la guardavo svegliarsi, imbronciata, appena nata ogni giorno. Si faceva sentire con una voce così familiare, così potente. Mi parlava lui per primo. E tutto ciò che diceva era tutto ciò che bastava, perché m’ha sempre detto la verità. Da qualche tempo invece non sono più sicuro di quell’amico, non lo sento più, sembra anche lui arrabbiato con me. Come se fosse colpa mia, come se fossi io a scacciarlo con la forza. Forse è così. Forse no. Ma mi manca”. “Capisco. Non sei fatto male, Totò Cibali. Però non puoi avere paura lo stesso”. “Perché?”. “Perché sei un uomo”. “Come te”. “Come me”. “Ci vuole coraggio ad attraversare il mare su quella zattera”. “Ci vuole più coraggio a fare quello che hai fatto tu oggi”. “Dici?”. “Io non avevo molto da perdere. Tu molto. Eppure eccoti qua”. “Mi vuoi ringraziare?”, sbottò a ridere Totò. “Nemmeno per idea. Tu non sei qui per me. Ci troviamo qui insieme per sorte. Il mare c’ha sbattuto di fronte, uno all’altro. E cos’è il mare? Acqua salata? No. Non ci credo. In tutto quel mare nero, enorme, mobile… bastava un’onda, una corrente leggeremente più forte…”. “O più debole”, precisò Totò parlando la stessa lingua di Karim. “O più debole e i nostri destini sarebbero stati diversi. E quel che è sicuro, già segnati. Io a fondo. E tu pure, no? Chissà che tutto questo non abbia smosso le acque anche nella direzione dell’amico che ti manca, proprio qua”, disse Karim toccandogli il cuore. “Forse aveva ragione Ignazio. Forse non è stata una piccola deviazione”. Uno strillo d’albero ruppe il silenzio e un forte odore di legna bruciata mista a grasso riempì le narici dei due uomini che al mare dovevano tutto. Il traghetto aveva
picchiato contro le grosse assi degli imbarchi, come sempre. Karim aveva finalmente toccato l’Europa continentale. Le voci provenienti da terra avevano sempre il potere di rompere un incantesimo, anche se si trattava di una piccola traversata come la loro.
6
Aperta la finestra, Rea si sporse a guardare il cuore dell'Esquilino. Batteva di tutti i colori. Cappelli bengalesi e tuniche arabe si rincorrevano tra le botteghe di Piazza Vittorio parlando nel nuovo dialetto indioafro-romano. Decine di asiatici facevano la fila davanti agli uffici telefonici internazionali. Nei giardini della piazza, un pallone di tela rossa rimbalzava imbecille sulla Porta Magica. C'erano anche alcuni vecchi inebetiti in cerca di carne fresca da guardare o di memorie da brutalizzare. Affari di poco conto, urla per schiantare il sole di febbraio, silenzi attoniti, sguardi narcotizzati. Naturalmente tutto racchiuso in un fiume di auto che circolava in senso orario, attorno alla piazza. Il puzzo di pesce ormai atavico di Via Napoleone III rendeva, a tratti, il senso della vita. Noi piccole molecole di passaggio perse nello spazio, prese a calci nello stomaco da uno dei tanti, infiniti, disgustosi olazzi che quest'angolo di cosmo crea attraverso meravigliose reazioni chimiche. Un vero schifo. Una poesia. C'erano negozi che esponevano una quantitĂ di spezie e frutta mai vista. C'erano farine gialle, rosse e verdi. Tuberi blu che sembravano pezzi di legno con corteccia e tutto. Semi e frutta che gli italiani guardavano con sospetto. E gruppi di persone che si superavano ciarlando, contrattando, stipando borse, spingendo carrelli carichi di sacchi, sudando nei giacconi invernali chissĂ quali strane bevande. Arabi, africani, bengalesi, italiani. E cinesi dappertutto.
Rea non era affatto attratta da tutto quel colore. Quel colore c’era. E lei lo osservava. Forse a quel tempo non c’era lei. Dopo aver riordinato la sua memoria, Rea trovò finalmente la concentrazione. Le capitava ogni mattina. Dal momento in cui apriva gli occhi passava la prima mezz’ora a tentare di ricordare chi fosse e che ci faceva lì. Non poteva farci nulla. Era il suo organismo che ricominciava la corsa piegato su se stesso. Rea passava quei momenti di cauto rinvenimento da sola e non tollerava intrusi. Non le si poteva rivolgere parola, né tentare di starle vicino. In quei suoi rarissimi momenti di debolezza desiderava solo ficcare naso e occhi in una tazza di caffelatte e assorta nei profumi della mattina rispediva al mittente il mondo esterno. Eccezion fatta per una mezza dozzina di biscotti al burro. Quella mattina però i biscotti al burro non c’erano e ciò le costò un faticoso grugnito. Per di più la sua manina frugò nella biscottiera vuota quando era appena montata a cavallo della sua coscienza in precario equilibrio. “L’ammazzo! Aregetelo! Te sventro viè qua sto grandissimo ladro fijo de na mignotta!”. Bé, biscotti non ce ne sono ma questa è da vedere, sospirò Rea. Allora s’affacciò e giù vide un ragazzo dalla pelle scura correre veloce. Lo straniero si voltò un attimo per controllare gli inseguitori e poi sparì tra la folla. Rea però lo seguiva con lo sguardo e lo avrebbe seguito fino a via dello Statuto se non avesse squillato il telefono. Restò indecisa se rispondere o meno, poi pensò che se qualcuno la stava cercando al telefono, ben sapendo che a lei nun j’annava da fa niente men che meno stammatina, allora pensò che forse valeva la pena rispondere. Quando la voce dall’altra parte disse sono Totò, Totò Cibali, fu contenta di aver risposto. E fece bene a esserlo. Perché fu così che Rea incrociò Karim: lei nel cuore dell’Esquilino, lui nel pieno di una vita nuova rubata prima al mare e poi alla Sicilia. Era una mattina di febbraio piena di sole non so se c’avete presente. “Totò come stai?”. “Come sto? Pensandoci bene, sto bene. Dovrei stare male, invece sto bene”.
“Mi sembri matto”. “Sì, anch’io. Sono gonfio di botte, Rosa se n’è andata, mi cercano per uccidermi eppure non mi sono mai sentito meglio”. “Cosa dici? Ti cercano per ucciderti? Rosa t’ha lasciato?”. “Lascia stare. Minchiate. Ascolta ho bisogno del tuo aiuto”. Erano almeno cinque anni che non sentiva quella frase. Ho bisogno del tuo aiuto. Basta poco a volte per rimettere in moto un cuore. Senza neanche sapere perché, Rea aveva risposto che sì, che avrebbe fatto qualunque cosa. Forse perché quando aveva conosciuto Totò, giù in Sicilia, era stato l’unico che non l’aveva guardata con quegli occhi presuntuosi e saccenti dei deboli di mente. Era partita per la Sicilia, con i suoi soldi e il suo tempo, per raccogliere interviste, anzi per raccogliere la voce di chi voce non ha, per sentire le ragioni, le paure e le speranze di un popolo in migrazione, un popolo dalla pelle di tutti i colori e dai nomi esotici, dagli occhi neri e profondi. Era andata ad ascoltarli senza nessuna pretesa se non quella di capire e riferire ai suoi simili. E Totò era stato l’unico a prenderla sulla sua barca per passare un fine settimana nel Canale di Sicilia senza chiederle niente né farle domande stupide. Lui a caccia di pesci, lei di storie, magari di poveracci che attraversano il mare per trovare una terra. Rea si rendeva conto perfettamente che il suo mestiere, o la sua vocazione, aveva qualcosa di cinico. Questo le faceva paura ma pensava anche che, come per i medici, o persino i becchini, qualcuno doveva pur farlo. Allora che lo facesse chi ci credeva per davvero. E lei ci credeva veramente. Poi aveva visto il suo mondo deteriorarsi. Aveva visto fior di inviati speciali, orchidee all’occhiello dei propri giornali, pagati profumatamente, riveriti e inchinati, mettersi d’accordo con i proprietari di un albergo per gonfiare la nota spese. Li aveva sentiti parlare a pranzo di colleghe troie e poi aveva visto le loro facce allargarsi in sorrisi deretanei nei confronti delle stesse. Li aveva visti ridere sguaiati seduti al tavolo di ristoranti di città in macerie mentre fuori i bambini venivano schiacciati come mosche dalla follia dell’uomo. E poi aveva letto i loro pezzi pieni di perbenismo, aveva visto i loro occhi bagnarsi di commozione a cinque secondi dalla messa in onda. Aveva visto il nepotismo, la corruzione, l’ipocrisia, l’infedeltà nei confronti di un mestiere che aveva alla base la verità. Una verità soggettiva, non lo negava. La verità che ognuno di noi percepisce. Ma, cristiddio, è proprio quella la verità che non va tradita mai. Così s’era dapprima disgustata dei quattro soldi che racimolava per il suo giornale, poi dei rischi che correva di qua e di là in un mondo in fiamme, quindi dei
suoi colleghi, poi del suo ultimo compagno, e infine anche di se stessa. Le rimaneva un bel corpo, nonostante i suoi 36 anni, e una speranza inchiodata nell’anima. Rifarsi della vita perduta. Adesso lavorava nell’ufficio stampa di un ministero. I soldi erano soldi. Le mattine mattine, e le sere solitarie e lunghe. Non si poteva lamentare. Invece sì. Era finita a un tratto nel pieno della Storia di un impiegato, il disco di Faber. Quando disse a Totò ‘non c’è problema’ sentiva i suoi venticinque anni prenderla per le unghie e strillarle ‘noi esistiamo ancora’. E lei seguì se stessa, la Rea più bella che aveva conosciuto, la cara vecchia venticinquenne disposta a tutto per amor di sé. Telefonò al ministero e con una certa preoccupazione disse che stava male e non sarebbe venuta per tre giorni. Le risposero fottendosene, com’era prevedibile. Pensò a chi altri avrebbe dovuto avvisare della sua partenza. Non le venne in mente nessuno in particolare. Allora si mise in macchina e partì alla volta di Salerno, dove avrebbe dovuto incontrare il suo vecchio amico Totò Cibali e un algerino ancora non meglio identificato. “Mamma quando torna papà?”. Bella domanda. Soprattutto quando te la fa un bambino di sette anni che guarda solo quel che vede con gli occhi suoi, come tutti i bambini. E cioè l’assenza fisica di una persona. Che ne sanno quei meravigliosi esseri umani che sono i bambini che l’assenza è qualcosa che appartiene all’anima? Se lo avessero saputo, allora avrebbero dovuto chiedere a Rosa ‘mamma dove sei?’. Rosa non c’era più. Aveva abbandonato la sua famiglia già negli occhi prima ancora che in casa. Dentro di sé aveva sciolto il legame. Proprio nello stesso momento in cui la piccola spigola di Totò chiedeva a Rosa dove fosse il suo papà, questi respirò l’ultimo mare della sua Sicilia con gli occhi chiusi, e prima di scendere dal traghetto sputò un’altra volta in acqua. Ma questa volta non pensava che ai suoi figli. Pensava che non sarebbe finita come con suo padre. Sarebbe tornato a dargli quel che lui era, un uomo innamorato dell’amore. E l’amore, quella sera, per Totò erano i suoi figli. Non li avrebbe abbandonati mai. E anzi, gli avrebbe fatto dono del mare. Scendendo a Villa, Totò sentì per la prima volta dopo tanti anni una forza straordinaria circolargli nel sangue. S’era quagliato il tempo fermo e il tempo vivo reclamava la sua parte.
Totò e Karim sbarcarono in Calabria poco dopo la mezzanotte. Erano stanchi ma avevano deciso che non si sarebbero fermati. Qualche ora per dormire, al massimo. L’indomani mattina avrebbero chiamato una vecchia e fidata amica di Totò, una giornalista romana. Sulla strada per Reggio Calabria si fermarono al primo albergo che trovarono. Il proprietario dormiva davanti alla tv quando bussarono alla porta. Gli bastarono i documenti di Totò. “Non ho mai pensato che un giorno avrei visto Roma. Deve essere bella”. “Hai visto? Cominci a fare il turista come tuo cugino, Kamel”. “E’ vero. Neanche il tempo di arrivare in Europa e già sono un turista. Che si prova?” “A fare che?”. “A guardare il mondo come uno zoo. Si prova gratitudine per la fortuna che si ha?”. “Fortuna? Non saprei. Ogni volta che ho fatto il turista, come dici tu, sono tornato a casa con la sensazione che la bestia in gabbia fossi io. E che il resto del mondo mi osservasse pieno di stupore come una scimmia stupida”. “A te è mai capitato di viaggiare senza essere un turista?”. Dalla finestra della camera d’albergo brillavano in lontananza le luci della Sicilia, sempre più deboli, sempre più lontane da Totò. Non ne sentiva la mancanza. Sarà stata la stanchezza ma si sentiva liberato da un peso. E come quando la leggerezza torna a soffiare, sollevando delicatamente i pensieri, così nella testa di Totò cominciavano a tornare i suoi ricordi migliori. Era stato proprio con Rea che aveva scoperto di essere un viaggiatore. L’aveva presa a bordo sul peschereccio senza un perché. Le ispirava simpatia, come Karim, come u caruseddu. Era lì sulla banchina con uno zaino e l’aspetto di una persona a cui valeva la pena chiedere se le servisse qualcosa, per istinto. L’istinto di Totò era proverbiale e non solo per quanto riguardava la pesca. Totò le diede una voce dalla barca e poco dopo Rea le stava raccontando chi fosse, che ci facesse lì, dove le sarebbe piaciuto andare, perché impiegava così il suo tempo. Totò non ci trovò nulla di strano al contrario di molti suoi colleghi e conterranei. Ognuno ha il suo mare e lo attraversa come meglio crede. Però c’è chi lo attraversa alzando onde maleducate che investono le rotte degli altri e chi lo attraversa per sentirne la voce, quando la risacca sbatte sullo scafo come uno scappellotto paterno, quando l’onda scivola sull’onda e allora pensi che il mare è padre vivo, che si carezza e si gratta la testa, e il suo fiato è il vento che sbatte sul cordame e ti costringe ad
ascoltare una storia con il cuore sgombro, pieno di fiduciosa attesa, come un figlio che ascolta la storia dalla bocca del padre. Quel vento che può volare senza ostacoli fino in Australia. E tornare indietro. Era estate, di notte. Rea aveva legato la sua amaca sul ponte e scriveva sotto la luce gialla dell’Anadro. “Che stai scrivendo?”. “Conosci La Realidad?”. “No. Dov’è?” “In Messico. Nel folto della Selva Lacandona. Sono tornata il mese scorso e ho ancora gli occhi pieni di quella gente”. “Perché cos’hanno laggiù le persone?”. “Hanno cose da vedere. Hanno la bellezza da vedere”. “Tutto il mondo ha bellezza da vedere”. “Ma non tutto il mondo ama vedere la bellezza e contentarsi di questo, che è il massimo”. “E cosa aveva di speciale questo posto?”. “Sto cercando di capirlo. Per questo scrivo”. “Me lo leggeresti?”. “Certo: Il villaggio è formato da rade casupole dal tetto in latta. Le capanne sono semplici e dignitose. La più grande è una cucina comune che va avanti a legna. La prima cosa da fare la mattina è andare a far legna, lavoro riservato alle donne e ai volontari stranieri. Ma poco male, vista l’alta considerazione di cui godono le donne a La Realidad. Nel centro del villaggio non c’è una piazza come noi l’intendiamo. C’è una grande prateria tenera, circondata da un lungo perimetro di capanne. Al centro, una ceiba immensa. I suoi rami al sole danno un’ombra che vale una piazza. Sotto la ceiba c’è un lungo tronco disteso, per sedersi. La vita del villaggio passa tutta dalla sua piazza silenziosa. Non un clacson, non uno sferragliare di tram, neanche il rumore di un tacchettio di scarpe in lontananza. L’erba non ritorna di questi rumori. Eppure tutto il villaggio passa da lì e lì s’incontra. Per discutere e organizzarsi. Dentro la capannacucina, accendevamo il fuoco già prima dell’alba. Bollivamo l’acqua del fiume e vi aggiungevamo sale d’argento, ma non bastava a renderla potabile. Poi quando il sole scompariva dietro alla collina, pioveva il buio vero. Non un neon pubblicitario, non un solo interruttore. La luce elettrica non esiste laggiù. Allora smettevamo di occuparci della cena per ammirare, immalinconiti rapiti beati felici aggraziati, il solito miracolo
delle diciannove in Selva Lacandona. Il prato cominciava ad accendersi di minuscole luci gialle intermittenti. Prima qualcuna, che si lasciava distinguere nel crepuscolo crescente, poi a centinaia e ancora a migliaia, mano a mano che la notte saliva. La ceiba oscurava un terzo dell’universo con le sue fronde e la sua forma spiccava maestosa su tutto. Come un re, la ceiba era l’unico essere vivente ad aver illuminazione pubblica - e per giunta gratuita - lì nel cuore della rivolta zapatista.
Ogni sera, d’un tratto
indovinavamo le ragioni logiche e profonde del sognare di quella gente. Per questo ne fummo conquistati”. “Bello. E poi?”. “Poi sei arrivato tu a fumare una sigaretta, – sorrise Rea – davvero ti piace?”. “Sì. Ma quelle luci nel prato erano lucciole, vero?”. “Ci sarei arrivata”. “Ci sono notti che anche questo mare diventa una piazza come quella. Quando siamo fermi, a motori spenti, capita di vedere delle luci gialle e intermittenti come le tue, tutte attorno allo scafo. Ma sott’acqua. Allora smettiamo di chiacchierare e guardiamo in silenzio. Qualcuno ride. Il Mediterraneo è una gran bella piazza. Ci passa un sacco di gente e ci si incontra di tutto”. “E che si dice questa gente?”. “Ultimamente poco di buono. Ma non sempre è così. Non sempre”. “Ad esempio?”. La mente di Totò ritornò a Karim: ‘ecco un esempio, Rea’, mormorò in silenzio. “Cosa?”, disse Karim. “Niente. Comunque sì, ho viaggiato senza essere un turista”, ci pensò un po’ su e poi aggiunse “e anche mio padre se è per questo”. Totò si voltò e vide Karim gurdare il mare attonito. “Che c’è adesso?”. Karim parlò piano: “Vedere quelle persone annegare, sentire quei bambini piangere e le loro mamme che imploravano di calmarsi, quegli shhhhh silenzio amore ho freddo mamma ho paura shhhh silenzio amore mio, luce, fiato, calore, vita… e poi non sentirli più, né loro né le loro mamme… è successo neanche ieri Totò, neanche ieri. E mi sembra di risentirli da una vita. Sai deve essere come quando ti nasce un figlio. L’amore è il dolore arrivano in un attimo, prima non li riconosci neanche, non sai che forma né che sostanza hanno, e quando arrivano, all’improvviso, ti entrano dentro in un
momento e sai che non ne usciranno più, per sempre. Sai che ti resteranno dentro per sempre, qualsiasi cosa accada. Che dici Totò? Avrei potuto evitarmelo?”. “Avresti potuto non metterti mai in viaggio”. La mattina dopo decisero di abbandonare l’auto. Troppo pericoloso andarci in giro. Tra gli uomini che li cercavano c’era un delinquente in divisa e purtroppo ne capitano. Da una strada periferica di Reggio andarono alla stazione, fecero colazione e si comprarono un po’ di indumenti nuovi nel primo negozio che trovarono. Mezz’ora dopo presero il primo treno diretto a nord. Un convoglio scalcagnato, sporco e puzzolente, come tutti quelli che vengono impiegati dalla ferrovie dello stato padano per il sud Italia, soprattutto per la Calabria. Totò sprofondò nel sedile anche se sapeva che avrebbe dovuto stare con gli occhi ben aperti: Karim era senza documenti e non aveva un bell’aspetto nonostante i suoi mocassini lucenti e un giaccone pulito. Totò s’era svegliato nella camera d’albergo che ancora il sole non era spuntato. Negli occhi aveva un sogno appena fatto, era seduto in un ristorante affollato con molte persone, fra queste Rosa. Andando indietro con la sedia Totò aveva urtato un uomo grande e grosso, seduto al tavolo dietro il suo, con odiosi baffi neri e un anello al mignolo con una pietra blu. Si sporcarono tutti e due, Totò e l’uomo con i baffi. Solo che il baffuto prese d’aceto e cominciava a pretendere delle scuse. Totò non ne aveva voglia e glielo disse. Allora, mentre il grosso era in bagno per ripulirsi, il padrone del ristorante fece spostare il tavolo degli amici di Totò. Totò era scocciato e Rosa non se ne curava, anzi era totalmente indifferente. L’uomo tornò e si avvicinò a Totò con strafottenza, ma lui stavolta s’alzò per risolvere la questione. “Te ne devi andare, andare!”, diceva deciso Totò al ciccione macho. Quindi nel sogno arrivò la sorella di Totò e il capitano dell’Anadro si sentì forte, fortissimo. Tanto da abbandonare il ristorante incolume e ritrovarsi in una stanza alle prese con un termosifone scassato. Funzionava, emetteva calore, però si apriva in alto lasciando che l’acqua bollente venisse pericolosamente a contatto con una spina elettrica scassata pure quella, aperta, svitata, con i fili allo scoperto. Mentre Totò si giocava la vita tentando di sistemare il termosifone gli venne in mente che Rosa era rimasta seduta al ristorante. Fu allora che si svegliò. Fissò il buio della stanza, sentì il respiro di Karim e capì d’un tratto che la verità, la verità di quel giorno, era tutta lì. Se ne andò alla finestra e si accese una sigaretta. Quella mattina avrebbe dovuto trascinare uno sconosciuto algerino verso Salerno, poi magari con un po’ di fortuna fino
a Marsiglia. Non ci mise molto per lasciarsi invadere totalmente dal pensiero di come fare, dalla profondità stessa di quel pensiero, dalla sua importanza. Era l’unica cosa per cui davvero valesse vivere, oggi. E forse anche domani. Tante persone erano già morte. Alcune innocenti, in mare. Un altro a terra, non molto innocente, ma pur sempre un uomo. La luce prendeva alle spalle quella mattina, come spesso avviene, e Totò fu sorpreso da questi nuovi pensieri. Non era uno scherzo, non era una storia letta su un giornale. Ci stava dentro, ci s’era messo lui in questa storia e non a caso. Certo. Era proprio come diceva Karim. Non lo faceva per nessuno, se non per se stesso. E tutto quello che gli stava capitando glielo aveva portato il mare. Una corrente che aveva iniziato a trascinarlo a poco a poco, forse già alcuni anni fa, forse addirittura da quando Rea era salita in barca con il suo zaino, i suoi taccuini e le sue storie. E magari questa corrente aveva continuato in sordina, lenta ma costante per tutto questo tempo, spostando Totò in una deriva calcolata fino a quando, arrivato senza darsene conto a un incrocio di vite sistemate dal mare secondo i suoi disegni, Totò fu trascinato da un vortice potente prima giù in fondo e poi, poi verso dove? I nodi più intricati si lasciano sciogliere dal mare. Ci sarà un senso in questo? Ci sono certe lenze che s’annodano fra di loro in modo così inestricabile che i pescatori non hanno altro da fare che lanciarle in acqua e aspettare che il mare faccia il suo lavoro, con pazienza. Totò trovò un senso. Si sarebbe lasciato trascinare dalla corrente e c’avrebbe pensato il mare. Decise di affidarsi a una legge di natura. Come portati da una corrente, dal finestrino del treno passavano veloci montagne scure, piane desolate, tratti di costa deserti, melanconici, vivi. Tratti di geografia meridionale che risalivano le pendici dell’Aspromonte per ficcarsi nella strozzatura del golfo di Sant’Eufemia. Poco prima di Tropea, nel cielo terso di quella mattina
apparve
in
lontananza
il
profilo
di
Stromboli.
Passata
Lamezia,
accompagnarono lunghe spiagge di ciotoli grigi. Poi bucarono un’infinità di dure colline e infine furono di nuovo sul mare, tra gli scogli e gli alberi del Cilento. Salerno era a un passo. “Allora raccontatemi tutto, fino all’ultimo particolare”. Rea si sentiva bene. Dopo tanti anni avvertiva uno strano formicolio in testa come se quella storia la riguardasse già personalmente. Sarà stato, forse, anche, per
quel ragazzo algerino seduto dietro Totò, i cui occhi non smettevano mai di osservare all’esterno del finestrino. Guardava tutto con rapacità, sembrava che ogni auto, ogni chilometro, ogni singolo movimento gli fosse sfuggito ingiustamente da una vita. Gli piaceva quel ragazzo. Era bello, persino con quell’occhio pesto. Totò prese a raccontare a cominciare dalla notte del salvataggio e Rea osservò Karim irrigidirsi nel sedile, vide il suo sguardo impazzire da un paesaggio all’altro per non fissarlo su niente, per cancellare gli orrori vissuti. Rea ascoltò di Turi e delle bambine schiave trattenendo a stento le lacrime. Era assurdo come ogni parola gli entrasse nel cuore come pietra viva, le pareva di star vivendo con loro ogni istante di quell’incubo reale. Ma lei era fatta proprio di questa natura. Sogno, incubo, racconto o esperienza altrui le si ficcavano dentro. Per questo molti anni prima aveva deciso che avrebbe dovuto impiegare il tempo che le era stato concesso per raccontare. Le pareva impossibile che attraverso le parole e i racconti non si potessero vivere mille altre vite diverse, quelle degli altri, quelle che esistono così come la propria. La chiave era lì, a portata di mano, credeva. Ma le illusioni sono fatte apposta per essere disilluse. Tuttavia non poteva lottare contro la sua natura e che questa storia la trascinasse via le appariva la cosa più normale del mondo. Alle porte di Roma si fermarono in un autogrill, Totò doveva andare in bagno. Karim invece restò in auto. “Così studiavi medicina?”. “La studio ancora”. Rea accusò il colpo ma trovò subito una replica: “E che genere di dottore sarai?”. “Mi piacerebbe fare il pediatra. Mi piacciono i bambini e non mi piace vederli soffrire”. “Ma facendo il pediatra ne vedrai soffrire tanti”. “Spero di vederli guarire, veramente”. “Sacrosanto. Sei mai stato a Roma?”. “No. Com’è?” “È grande. È bella. Troppo a volte. Forse per questo molti non hanno il coraggio di lasciarla e invece dovrebbero. È una città che divora se stessa. Però è anche l’unico posto dove potrei vivere in Italia”. “E perché?”. “Perché ha una bella luce. Davvero”. “La luce è importante. Pensi che a Marsiglia ci sia una bella luce?”. “Sì. Penso proprio di sì. E poi a Marsiglia c’è il mare”.
“Anche il mare è importante. Ma non so se sia meraviglioso”. “Il mare non è né meraviglioso né terribile. Ha qualcosa di grottesco, qualcosa di autentico, qualcosa di crudele, qualcosa di bello e qualcosa di ingiusto. È un po’ come la vita”. “Ha anche qualcosa di inaspettato, il mare. E peloso”. “Peloso? Cosa?”. “Totò Cibali”, disse sorridendo Karim. E quel sorriso toccò le viscere di Rea. Era così caldo che si ritrovò ad avvampare in un attimo e l’attimo dopo quel ragazzo algerino non era più un immigrato, un clandestino, un ragazzo straniero conosciuto per caso solo qualche ora prima. E i suoi occhi parlarono come solo gli occhi sanno fare, mettendosi completamente a nudo di fronte a quel sorriso. S’imbarazzò per quella debolezza e finse di cercare nella borsa le sigarette. Eppure subito dopo le venne in mente una figura oscena e la carne le si strinse addosso. Ecco una nuova sensazione che da tanto tempo non si faceva sentire. Cominciavano a essere una serie e Rea rise. “Perché ridi?”, disse Totò rientrando in auto. “Pensavo”. “E a che pensavi?”. “A niente”, e gli guardò le foltissime sopracciglia. “Come a niente? A che pensavi?”. “A niente t’ho detto”. Totò si voltò verso Karim che intanto era scoppiato a ridere anche lui. “Ma che avete da ridere tutti e due?’”. “Avete fame?”, propose Rea. “Sì”, disse con entusiasmo Karim. Li portò in un posto tutto suo, un ristorante affacciato sul mare nel pressi di Lavinio, dove si rifugiava quando nella sua lunga solitudine si sentiva bene. Non accadeva spesso ma quando le capitava le veniva voglia di godersi un po’ di quella breve felicità. Così quel luogo non s’era mai sporcato, lì poteva respirare l’aria senza i veleni chimici che s’agitavano nella sua mente. Niente odio, niente rabbia, niente disperazione. E guarda caso sempre in giornate di sole, come quel sabato appena passato. Mangiarono presto, affacciati su una piccola terrazza che dava sulla spiaggia. Alle otto s’erano già alzati da tavola e fecero una passeggiata prima di riprendere la strada per Roma.
“Allora? – chiese Totò – qual è l’ultima storia che hai scritto? Sei andata molto lontano per trovarla?”. “Lontano? No. Uno gira il mondo poi lo trova dietro l’angolo”. “Oppure in mezzo alle eliche”, la interruppe Totò. “Sai che neanche sei mesi fa la metropolitana s’è scontrata sotto casa mia, a piazza Vittorio. Quella mattina non hai idea del casino che c’era. Ambulanze, polizia, gente che scappava in tutte le direzioni. E una donna è morta. Così dopo quella mattina la finestra di casa era diventata una specie di taccuino sul quartiere. M’aggiornavo sullo stato di salute dei miei vicini. Oggi tutto bene. Oggi niente da segnalare. A poco a poco ho cominciato a osservare con attenzione alcune persone. Uomini che rientravano a casa sempre a orari diversi, donne che accompagnavano i bambini, auto che si fermavano nello stesso posto, e cercavo di immaginare la loro vita, me la costruivo nella mente capisci?” “Vuoi una sigaretta?”. “Sì. Bè, c’è un ragazzo, ad esempio, che lascia la bicicletta legata a un palo proprio sotto ai portici e s’avvia con uno zaino nero pieno di libri verso l’angolo, svolta e sparisce. Poi ricompare quando è già notte fonda, sempre con il suo zaino pieno di libri. È uno straniero, giovane. Più giovane di Karim. Sempre in bicicletta cascasse il mondo. Freddo, acqua, grandine, vento, non c’è niente da fare, lui si mette lì a pedalare e via. Magari va dalla sua ragazza o torna dai suoi per cena. O magari mi sbaglio, che ne so, e va a lavorare in qualche fast food indiano. Io spero che vada a fare l’amore dalla sua ragazza. Ma difficile. Comunque non ho molta voglia di accertarmene”. “Vuoi accendere?”. “Sì. Ma non mi interrompere più e ascolta perché questa è una storia seria”. “Scusa”. “Una sera, mentre facevo questo gioco con i miei soldatini-cittadini a un certo punto li ho visti tutti correre come pazzi verso la parte opposta della piazza, verso via Buonarroti. Dai palazzi saliva un filo di fumo nero e le sirene hanno cominciato ad avvicinarsi. Eccolo lì, ci risiamo, ho pensato. Sono scesa a vedere che cosa stesse accadendo. Una donna bengalese s’era lanciata dal quarto piano con il figlio di dieci anni in braccio. Ed erano morti sul colpo entrambi. Si vedevano i piedi spuntare da sotto il lenzuolo bianco. Erano scalzi, vicini, ancora abbracciati. La loro casa era andata a fuoco e nessuno sapeva come era accaduto. I pompieri dicevano per cause accidentali, l’altro figlio della donna diceva invece che era stata la proprietaria dell’appartamento ad appiccare le fiamme, una vecchia che pare non si facesse scrupoli di ammucchiare
decine di persone in pochi metri quadrati e che avesse già minacciato molte persone addirittura con il coltello. Per qualche giorno nel quartiere s’è respirata una grande tensione. Ci sono state manifestazioni e scontri con la polizia, poi tutto è tornato calmo e di questa donna e di suo figlio non se ne parla più. Così mentre i miei colleghi giornalisti sbaraccavano da piazza Vittorio con le loro statistiche su immigrati, affitti e convivenza io me ne sono andata in giro cercando di mettere i piedi dove li aveva messi quella donna, per sapere cosa facesse, cosa respirasse, chi fosse davvero. Prima che morisse, chissà quante volte l’ho seguita con lo sguardo fino all’angolo con via Buonarroti lei e il suo figlioletto. E allora ho pensato che la sua vita valeva la pena d’essere raccontata. Ecco, l’ultima storia che sto scrivendo è questa”. “Queste sono storie che vale la pena scrivere”, mormorò Totò. “Ma sai, la gente vuol leggere di poliziotti intelligentissimi, giudici inflessibili, grandi uomini con grande storie. Vogliono solo queste storie, per sentirsi alla loro altezza. Poi magari, nel privato, questi grandi uomini sono minuscoli come una capocchia di spillo oppure vuoti come una lattina buttata in mare. Certo galleggiano! Non vanno mica a fondo. Solo ciò che ha peso e sostanza va a fondo. Te lo dice un pescatore”. “Cos’è Totò? Sei arrabbiato”. “No. Macché. Macché arrabbiato, macché. L’ultima volta prima di salpare con l’Anadro, Rosa doveva uscire. Doveva andare a mangiare un pizza con i suoi colleghi. Non ha insistito molto perché l’accompagnassi. Mi sono fatto l’idea che si vergogni di me. Che mi consideri appunto solo un pescatore che non ha voluto realizzarsi in altro, in qualcosa di grande, qualcosa da portare all’occhiello”. “Tu sei molto più di un pescatore. Lo sei sempre stato. Sei un viaggiatore con occhi buoni. Non dovresti abbatterti per questo, sono cavolate”. “Lo so. Infatti. Ne sono certo. Quello che ti insegna il mare sulla vita e sul mondo non te lo insegna nessuno, non c’è scuola. Ma è triste scoprirsi incompresi dalla persona su cui avevi puntato. Il fatto che lei non ami andare per mare a me non ha mai pesato. E ho anche amato il suo lavoro. Ma in fondo è un po’ colpa mia. Mi sono sempre lamentato a casa, del freddo, della pesca, delle notti solo. Il fatto è che Rosa ha sempre confuso il mio mestiere con il mare. Il mare mi porta a pescare. Il mare mi porta in mare. La pesca è solo un espediente per vivere il mare. Però forse, che ne so, puzzo un po’ di pesce, vallo a sapere”. “Per chi ha la puzza sotto il naso, forse sì. Dovresti dimenticartene, sai”. “Lo so. Ne uscirò. Ho affrontato il mare migliaia di volte. Figurati”. “Oppure dovresti lavarti molto di più”, sdrammatizzò Karim.
“Ma stai zitto terrone!”. “Che vuol dire terrone?”. “Vuol dire meridionale, qualcuno che viene dal sud”. “Ed è un’offesa?”. “Da queste parti, sì”. “Bè anche Enea era un terrone, allora”, disse Karim fermandosi davanti a una lapide che ricordava lo sbarco del leggendario fondatore della gens Iulia. “Conosci la storia di Enea?”, chiese Totò. “Quanto sei terrone! – rispose strafottente Karim – La conosco meglio di te”. “Addirittura!”. “Addirittura. Dai, chi era Enea?”. “Un principe scampato all’incendio di Troia”. “Tutto qui?”. “Fai il saputello? Enea era un principe troiano scampato all’incendio della sua città. Riuscì a salvare se stesso, suo figlio e suo padre. Dopo aver peregrinato per mezzo Mediterraneo approdò su questa spiaggia, a Lavinio, dove gli dei gli avevano predestinato un gran successo. E così fu. Perché dal suo sangue nacque la stirpe di Romolo e Remo e il resto è storia”. “Certo. È proprio così. Roma, l’Italia, la civiltà italiana, le leggi, il diritto, la vostra stessa bandiera non ci sarebbero senza Enea. Non è così?”. “Secondo Virgilio e Augusto, pare che sia così”. “Per essere un pescatore ne sai di cose”. “Anche tu per essere un clandestino”. “Come Enea”. “Come Enea?”. “Clandestino come Enea. Un profugo di guerra, un perseguitato, un clandestino. Uno che è stato cacciato da tutte le spiagge del Mediterraneo, uno che è partito dalla Libia per arrivare qui e quando è arrivato hanno tentato in tutti i modi di ributtarlo in mare, facendogli la guerra. Non male per un turco senza futuro fondare la grande civiltà romana. Che dici Totò, ho speranze anch’io?”. “Se continui così, no”. “E perché?”. “Perché a mare ti ci ributto io. Altro che Enea”. “Però – intervenne Rea allegra – il tuo giovane amico venuto dalla sponda sud non ha affatto torto. Tutto il mito dell’italianità, della frontiera, della costa, del paese, a
cominciare dal Quirinale, ma su che si fonda? Su un turco profugo di guerra ricercato dai greci di mezzo Mediterraneo. Non è paradossale che oggi si ricaccino indietro dei potenziali eroi mitologici?”. “Io non ricaccio nessuno. Semmai ne raccato qualcuno fra le onde”. “Scherzi a parte – continuò Rea stringendosi a Karim per la prima volta – deve essere stato terribile”. “Ho sonno”, sospirò Karim. “Certo. Andiamo a Roma. Andiamo a casa”. Quella notte Rea non riuscì a dormire molto. Aveva sistemato i due uomini nel suo letto e lei s’era rannicchiata sul divano davanti alla finestra. Totò e Karim erano piombati in un sonno profondo. Erano passate solo due notti dall’affondamento della piccola barca in vetroresina e l’adrenalina doveva aver cessato il suo effetto perché dormivano senza fatica. Rea realizzò che per la prima volta in vita sua stava dando ospitalità a due assassini. Bé, due nobili assassini in fondo. E poi Karim non aveva la faccia di assassino, non di uomini comunque, magari di cuori. ‘Che pensieri assurdi che vado fare’, pensò Rea avvicinandosi in silenzio verso il volto di Karim. Lo sentì respirare e le piacque il suono che emetteva. Il naso curvo era virile e allo stesso tempo gentile. Quel ragazzo le piaceva, lo affascinava senza un preciso perché. Non che fosse una mangiatrice di uomini, anzi. Da quanto tempo non faceva l’amore? Una vita. Ma fosse quello. Era una vita che non si innamorava. Rea si accasciò sul divano sospirando. Ci vorrebbe una storia d’amore di quelle che ti fanno perdere il sonno, le attese davanti al telefono, il cuore che balza ad ogni squillo, la voglia di restare in silenzio stringendosi senza pensare a che tempo fa, che ora è. Banalità. Una banale, intensa, meravigliosa, straordinaria storia d’amore. È così banale? Sì, a raccontarla qui. Poi però quando la vita si dimentica di offrirtene una da un po’ di tempo non è più così banale. Non più banale sicuramente delle grandi storie dei grandi personaggi, dei poliziotti intelligentissimi e dei giudici inflessibili. Chi farebbe mai a cambio tra una banale fantastica storia d’amore e un delitto risolto? ‘Vaffanculo al delitto – pensò Rea – mi tengo l’amore’. Banale. Come la verità. Come la felicità, di cui non ci accorgiamo se non quando è persa. Una considerazione questa accertata da millenni: neanche si ricorda più chi l’ha intuita per la prima volta. Eppure sembra destino che le verità più banali abbiano poco credito fra gli uomini. Quel ragazzo algerino le piaceva. Le faceva nascere pensieri più agili che mai. Tutto ciò che le sembrava impossibile fare, per pigrizia o per noia, adesso le sembrava facilissimo. Così fece mente locale nella sua
mappa mentale di Roma. Era presto per organizzare il viaggio in Francia. Occorreva pensarsela bene, qualche giorno, magari qualche settimana perché no? Karim prima di andarsene avrebbe dovuto vedere Roma, fermarsi un po’, a casa sua, perché no? Le cose nascono così, ci si lascia coinvolgere sapendolo bene, perché qualcosa dentro lo sa bene cosa vuoi veramente. Rea aveva tutta Roma da regalare a Karim. E con un po’ di fortuna, gliela avrebbe messa tutta ai suoi piedi. Perché no?
7
Roma ci sa fare quando vuole. Quando ci si mette per davvero riesce a incantarti fino a trasformarti il sangue in burro e tutto diventa improvvisamente chiaro: persino il perché di questa città al centro della valle più dolce e illuminata che esista. Quelle cupole che sanno di mammelle materne, i vicoli che lasciano illuminare i loro muri rossi da un riverbero così intenso e allo stesso tempo mai invadente. È una luce che non abbaglia mai, neanche quando è fortissima, ma apre gli occhi, li aiuta a spalancarsi senza sofferenza. Roma è un luogo che entra nel cuore a poco a poco, poi si fa breccia e si lascia amare perché accoglie. Quando vuole. Quando Roma fa Roma. E Rea quella mattina si sentiva tanto Roma. Erano scesi dal Colle Oppio verso il Colosseo, lei e Karim, soli. Totò lo avevano lasciato a casa a dormire. Si fermarono a fare colazione ai tavolini del parco, si sedettero di fronte alla statua di un console alle cui spalle il Colosseo s’alzava fino al cielo. Attorno a loro decine di pini mediterranei. “Dunque questa è Roma?”. “Questo è solo l’inizio”. “Però questa parte l’ho già vista nei libri di scuola. È più bella dal vivo che in fotografia. Sai, solitamente nelle foto si tende a tagliare ciò che non è bello. Qua invece mi sembra il contrario. Tutto quello che c’è attorno mi sembra meglio”. “Infatti uno dei segreti di questa città è proprio questo: smettere di guardare ciò che si deve per forza e osservare il resto. Dappertutto funziona così, se vuoi conoscere sul serio i posti che visiti. Ma a Roma è ancora più vero”. “Vuoi un altro cornetto?”. “No. Voglio andare. Ti va?”.
Scesero verso il foro romano, lo attraversarono tra gladiatori in scarpe da ginnastica e americani a bocca aperta, poi entrarono nel Senato e Karim si stupì delle sue piccole dimensioni. Gli parve strano che per quasi due millenni i destini del mondo allora conosciuto, compreso il suo, venissero decisi in quell’ambiente austero e angusto. Risalirono verso il Campidoglio e Karim rimase estasiato dall’eleganza e dall’armonia di quella piazza. E mentre ridiscendevano dalla scalinata che porta al Ghetto, il mare faceva e disfaceva. Disfaceva gli incubi di Karim, che piano piano s’avvicinava alla spalla di quella ragazza più grande di lei ma bella e attraente. E faceva invece cristallizzare le delusioni di Rea, che smettevano di essere liquidi tormenti ma memorie di un passato che forse poteva anche essere dimenticato, una volta per tutte, e osservato da lontano, finalmente. Il mare li conduceva secondo la sua corrente e non erano strade o svolte obbligate nel loro itinerario ma l’avvicinarsi l’uno all’altro per lasciare spazio a un motorino o a una coppia di passaggio: una moneta che cade per terra e Karim che si china per raccoglierla insieme a Rea, uno scalino dove lei ha messo male il piede e s’aggrappa a lui e sente la sua spalla piena, sconosciuta eppure familiare. Il dolore come la felicità arriva all’improvviso e non sai che volto ha eppure ti sembra di averlo dentro da sempre, come un pensiero che hai sempre intuito ma a cui non hai mai dato le parole giuste ed ora eccole qui, tutte in fila, logiche e precise. Come quando immagini per nove mesi il volto di tuo figlio e appena lo vedi ti dici che è lui e non poteva essere nessun altro. Questo fa il mare: piccole deviazioni che cambiano il senso intimo dell’andare. Totò invece era nel bel mezzo di una tempesta. Stava male. S’era svegliato senza pensieri, almeno così s’era illuso. Perché dopo cinque minuti la mancanza di Rosa era entrata prepotente nel suo sterno e lo stava piegando. Non era qualcosa che aveva a che fare con la mente ma con il corpo. Un dolore lacerante, una mano che gli afferrava la spina dorsale e gli impediva il respiro. Allo stesso tempo la schiena gli procurava delle fitte deboli ma costanti. Aveva voglia di vomitare ma non poteva, aveva voglia di farsi del male ma non ci riusciva. Navigava a vista. E ciò che vedeva al di là del vetro appannato della sua anima erano scene di Rosa con un altro, Rosa che moriva per un altro, che aspettava la telefonata di un altro, che sbandava paurosamente sotto un’emozione che non era per lui ma per un altro. Gelosia. Paura. Lui che non aveva paura neanche di ripescare i morti dal mare. S’aggirava per la stanza non riconoscendo neanche i suoi stessi passi, fumava una sigaretta e poi un’altra senza
motivo. Aspettava la fine della mareggiata nel fondo della sigaretta che però non arrivava e anzi aumentavano le ondate contro lo scafo che rollava furiosamente e non c’era niente da fare, non ce l’avrebbe fatta, quella volta sarebbe stata l’ultima. Ma per cosa poi stava così male? Cosa aveva avvertito? Il suo rapporto con Rosa aveva sempre avuto qualcosa di miracoloso. Riusciva a percepire le vibrazioni di quella donna, ne aveva avuto le prove più volte. Come quando aveva scoperto che nel cuore di Rosa c’era un altro. Lo aveva avvertito fin dal primo momento, quasi stesse vivendo le stesse emozioni che stava provando lei, negli stessi istanti. All’inizio solo un dubbio, poi la certezza. Era stato sufficiente controllare Rosa per un po’, a cominciare dagli occhi. Poi i gesti, la voce, la distanza. Alla fine ne ebbe la prova nel modo più banale che si possa immaginare. Quando lei gli confessò la cosa, lui sapeva già tutto ma non poteva crederci lo stesso. Da allora Totò ogni volta che avvertiva la forte sensazione di una rasoiata nell’anima era certo che Rosa, la sua Rosa, non era sua in quel momento. E forse non lo sarebbe stata più. E scoppiava la tempesta. E ogni tempesta lo allontanava sempre più dalla moglie, lentamente. Eppure allo stesso tempo sapeva che la rotta inevitabilmente era quella giusta. Ma dove portasse ancora non lo sapeva e questo lo spaventava. E lo affascinava contemporaneamente. Un’altra cosa: quando iniziava la tempesta era difficile dire quando passava. Molto difficile. Occorreva non lasciarsi tentare dall’abbandonare la barca e gettarsi in acqua per paura di affrontarla. Il vento doveva calare da solo. Doveva aver fiducia nel mare. Solo questo lo poteva salvare. Mentre l’arancio colorava il popolo d’antenne sui tetti di piazza Vittorio, a qualche chilometro di distanza dalla finestra di Rea, dove Totò respirava forte assaporando il vento che calava, Rea mostrava a Karim uno dei posti più belli e autentici di Roma: un dedalo di strade e gente che non lascia indifferente. Lei lo sentiva perfettamente suo, come ci fosse nata alla Garbatella. Un quartiere sorto durante il fascismo per gli sfollati di via della Conciliazione e via dei Fori Imperiali. Un insieme di piccoli lotti popolari ognuno diverso dall’altro. Aggraziati, armoniosi. Piccole palazzine e villette rosse circondate dai pini che salgono e scendono su due colline, tra l’ostiense e San Paolo. Un mucchio di piccoli capolavori architettonici che hanno il loro senso compiuto nell’essere un borgo a sé. La Garbatella era l’anima stessa di Roma e chi non la conosceva, o la conosceva e non l’amava, non aveva capito niente di Roma.
“Rea sono Totò. È la terza volta che ti chiamo ma non sei mai raggiungibile. Volevo dirti che mi sono scocciato di aspettarvi. Dove cavolo siete? Ho aggiustato lo sportelletto sotto la cucina, quello della spazzatura, spero non ti dispiaccia. E anche il rubinetto della doccia. Bastava metterlo a mollo con l’aceto. Poi ho cucinato, ho fatto una caponata. Magari la mangiamo assieme quando tornate. Oppure ve la mangiate voi perché io fra un po’ esco. Ma si può sapere che fine avete fatto?”. Seduti sui marmi quadrati di piazza Sauli, protetti dai ragazzi della Garbatella che giocavano a pallone e fumavano canne e presidiavano il quartiere salvandolo dall’abbandono del perbenismo e dalla solitudine con le loro ciarle scoppiettanti, sfiorati dai giovani attivisti del centro sociale della Strada che si organizzavano per dare colore ai pochi muri grigi del quartiere, dolcemente ignorati dai quarantenni che uscivano per strada dopo la partita della Roma commentando le azioni del Capitano e respirando il cielo scuro e dolce della città, Rea e Karim si raccontavano tutta una vita come non avessero il tempo di viverne un’altra. Era una sbornia di racconti che scivolava da una bocca all’altra: neanche il tempo di essere sentita ed ecco che già una storia accendeva i ricordi pallidi dell’altro e ridava smalto e lucentezza a tutto ciò che era serbato nel velluto della memoria. Una partita di tennis senza vincitori fra due vite che morivano dalla voglia di sentirsi saldate. Tutti i poeti hanno provato a descrivere l’amore, qualcuno c’è anche riuscito. Ma sempre a tratti, quasi si provasse un imbarazzo naturale di fronte a una voce tanto potente e allora si mette la sordina, per paura di apparire ridicoli. O esagerati. Intanto la piazza si riempiva della domenica sera. E quei due non se ne davano conto. Non c’erano altro che loro, nel cuore di un quartiere che ha espulso i rumori della metropoli ma non la sua generosità nel distribuire più equamente il tempo, con una certa grazia, garbatamente appunto. Karim parlava della sua famiglia, della sua casa, dei suoi amici, del suo paese, del campo di pallone dietro la piazza, uno straccio di campo sabbioso e polveroso pieno di sassi e di bucce di ginocchia lasciate lì per anni, del cortile appena dietro al campo dove il pallone finiva la sua vita terrena squarciato dal vecchietto in difesa del suo orto e della pace delle sue galline, e le corse per scappare ai cani randagi che si radunavano in branchi feroci finché non si decideva di affrontarli questi vigliacchi di cani e si ingaggiavano battaglie a sassate e, a proposito di sassi, anche fra bande di ragazzini ci si organizzava per spaccarsi la testa per bene e fatta la pace si passavano giornate intere a ridursi come degli assassini, sporchi di sugo di gelso, perché nel suo paese ancora
crescevano gli alberi di gelsi neri e chi li raccoglieva li portava a casa di Aziz. E la mamma di Aziz che possedeva un frigorifero bello grande e freddo faceva il gelato. E nel frattempo che si faceva? Si tornava a giocare a pallone, a finire di ridursi uno schifo, mischiando polvere a succo di gelsi, sapendo le botte che si sarebbero prese la sera a casa, ma intanto il gelato era pronto e allora prima di prendere la punizione tanto valeva rifarsi la bocca, no? Era una cosa straordinaria, il gelato di gelsi neri. Anche Rea aveva una passione per i gelsi neri, ma giurava e spergiurava che fosse impossibile, assolutamente impossibile che il gelato della mamma di Aziz fosse più buono della granita di gelsi neri che mangiava ad Acitrezza, giù in Sicilia. Anche a Roma una volta c’erano gli alberi di gelsi neri, vivevano nei campi aperti fra i quartieri al confine del centro e la periferia. Una volta Roma era così, separata fra città e periferia e nel mezzo enormi praterie dove ci si tuffava per giocare e spesso si incontravano i ragazzi dei quartieri per bene e volavano schiaffoni anche perché gli alberi di gelsi neri erano roba dei mocciosi della periferia. Almeno quelli, visto che poi i loro genitori tornavano ogni sera sconfitti dal centro e sapevano che anche loro da grandi sarebbero tornati così, allora tanto valeva battere il ferro finché era caldo, giacché si sarebbe raffreddato un giorno. Un po’ come la storia del gelato di Aziz e le botte che ti aspettavano a casa, no? Poi però Rea smise di pensare a queste cose. Successe quando cominciò a leggere veramente. Non le importava più niente di nulla, successe quando lesse per la prima volta i Fiori blu di Raymond Quenau. “L’hai letto? Davvero? Allora sai di che parlo. Mi cambiò la vita”. Erano gli anni che si smetteva di inseguirsi per strada per un paio di scarpe sbagliate, per una tolfa con una stella o un paio di occhiali rayban. Non si aveva più voglia di pestarsi a sangue per un paio di stivali o di polacchine. Roma smetteva di essere una città a macchia di leopardo, dove entrare in un quartiere non significava automaticamente uscirne sani. Però questa sensazione sollevante venne sostituita a poco a poco da una noia crescente, una fastidiosa raucedine che si ficcava sotto la gola con il sapore aspro della cocaina. L’università poteva poco, in questo senso. Rea s’era iscritta alla facoltà di lettere contro tutto e tutti, tempo perso secondo i suoi. Ma a lei la storia piaceva, era l’unica della sua classe al liceo che riusciva ad affermare con orgoglio la sua passione per la storia. A Karim la storia non interessava tanto. Certo, provava gusto a riconoscere il suo paese, soprattutto la parte riguardante il colonialismo, ma era più attratto dal corpo, fin da piccolo studiava le sue febbri, i suoi malanni e quelli delle persone a lui vicine. Era incuriosito dall’effetto delle medicine, dei rimedi antichi, finché arrivò a sviluppare il solito concetto del corpo umano come
uno strumento, una macchina di cui aver cura. Così anche il cibo a poco a poco divenne oggetto dei suoi studi. Piacere e beneficio. Se non avesse avvertito la passione per la medicina gli sarebbe piaciuto fare il cuoco di professione. Però non era poi così importante, perché comunque cucinare gli piaceva e lo faceva, appena poteva. Rea amava mangiare, un po’ meno cucinare. Ma le piaceva stare lì a guardare gli altri cucinare, soprattutto gli uomini. Lo trovava così sensuale. Sensuale? Il sorriso di Karim si aprì pieno di malizia. Cosa c’è di sensuale? Bé, la manipolazione è sensuale, lo sporcarsi le mani è sensuale, la preparazione lenta, il portarsi poi tutto alla bocca, è sensuale e poi quei culetti maschili che si muovono davanti ai fornelli. Non so, forse la fiamma così vicina al, bé, vicina a lì. Le donne del mio paese non parlano così liberamente di queste cose, sai? Ma stiamo parlando di cucina, no? Certo. La cucina. Mi stai facendo venir fame. E di cosa parlano le donne del tuo paese? Di sguardi. Sguardi? Sì, ora che mi ci fai pensare parlano eccome di sesso ma solo con gli occhi. Forse le parole guastano un po’ tutto. Però poi a letto sono come tutte le donne del mondo. Credi? Forse meglio. Credi? Certe cose si fanno meglio in silenzio che chiacchierando. Anche a me hanno sempre dato fastidio gli uomini che debbono farti ridere per forza, non so, tante amiche invece vogliono ridere ridere ridere ma certe cose sono cose serie. Tipo? “Tipo mangiare e cucinare”, rispose ridendo. Ma insomma hai fame o no? Sto morendo di fame. Torniamo a casa e ti cucino qualcosa io? Mangiamo fuori. Ti offro qualcosa io, t’offendi? E di che? No che non mi offendo. Bravo! Brava! Hai mai mangiato la carbonara? No. Vieni. Che vuol dire Karim in arabo? Ha un significato? Vuol dire generoso. E Rea che vuol dire? E’ un nome che viene da lontano… Queste cose vanno così. Parole che si liberano leggere nell’aria, restano sospese fra i capelli, sfiorano la gola, risalgono verso le orecchie, entrano nell’anima senza prepotenza e poi ne riescono gasate, frizzanti, e si mettono alla ricerca degli altri verbi, sostantivi, congiunzioni e silenzi. Si intrecciano e s’allacciano, formano un discorso tutto loro, indipendente da ogni volontà e persino da ogni desiderio. La barca in vetroresina capovolta, con il pianto straziante delle madri e il respiro affannato dei bambini erano già alto sulla loro verticale, sopra tutto e tutti, in un cielo superiore e irraggiungibile. Restava solo una vaga sensazione di dolore perfetto, incancellabile. Ma superato. Non è facile capire qual fu il momento esatto in cui le loro mani si ritrovarono dopo tutti quegli anni di separazione. Ma andò così. Uscendo dalla trattoria Rea infilò il
braccio nel braccio di Karim. E poi la mano nella mano. E un attimo dopo erano a casa. Totò dormiva, sconquassato dalla tempesta che si allontanava velocemente. Rea nel silenzio del corridoio finse di voltarsi verso Karim e si ritrovò davanti al suo profilo. Karim avvicinò le sue labbra a quelle di lei. E Rea lo lasciò entrare nella sua vita. Lo aveva capito fin dal momento in cui scivolò da quel marciapiede e si aggrappò alla spalla di lui. Karim era innamorato? Che importava. Ci sono notti che valgono una vita di attesa e di separazione. La felicità è come il dolore. Non sai mai che volto ha quando arriva. Ma quando arriva sai che non poteva avere il volto di nessun altro. La separazione di Rea dalla sua felicità era finita. Intanto però bisognava darsi una mossa. Marsiglia era ancora in Francia, fino a prova contraria, e dopo due settimane dal loro arrivo a Roma non s’erano ancora decisi a parlare della partenza. Sarà stata la stanchezza, per Totò, o quegli strani sguardi fra quei due. E poi i baci, naturali. Quell’amore pieno di tempo pieno che non voleva e chiedeva niente. Totò sommerso dalla sua tempesta osservava un po’ sorpreso l’occhio del ciclone, Rea e Karim. Istintivamente faceva il tifo per loro. Erano presi, saldati. Da due settimane li osservava sempre meno individui e sempre più una cosa sola. Era incredibile. Per lui il problema non esisteva più. Bisognava raggiungere Marsiglia in tre. Ma sempre a Marsiglia si doveva andare. E occorreva farlo in fretta. Totò perciò li prese una sera a cena e glielo chiese a bruciapelo: “Quando partiamo”? “Marsiglia? Che fretta c’è?”, disse Rea. “E’ la solita fretta che hanno gli assassini, specie quelli che hanno fatto fuori un assassino. Che vogliamo fare?”. “Sì, certo, partire”, disse ancora Rea. “E tu vieni con noi?”. “Sì. Sì, vengo con voi. Certo… certo che vengo con voi”. “Bene. Allora siamo d’accordo. E non abbiamo più il problema del mezzo. Usiamo la tua auto, Rea. Oltretutto credo sia il sistema più sicuro per Karim. Scegliamoci una strada poco trafficata alla frontiera. Vediamo se ha nevicato. Ci organizziamo o no?”. “Io non potrò partire prima di una settimana, – lo interruppe Rea – me la date una settimana?”. “Oggi è lunedì. Partiamo domenica, va bene? Forse arrivare alla dogana di domenica sera è meglio”.
“Totò. Ma il peschereccio? Il lavoro? I bambini?”. “Vuoi sapere la verità? E’ strana. Non è come la pensi tutti i giorni. Quando sei in porto, vai al peschereccio per vedere cosa c’è da fare. La notte fai i tuoi turni per non affondare. Azioni l’argano, sistemi le cassette. Ma non è questo che non va bene, questo va bene. Va bene. Così come quando fai la spesa per casa. Svegli i bambini, li vesti, li accompagni a scuola, li ami perdutamente. E perciò gli stai accanto. Uno le cose a cui tiene le deve curare da vicino. Però questa volta, ti sembrerà strano, ho come l’impressione che il mio peschereccio, il mio lavoro, dai non raccontiamoci frottole, la mia vita intera sia tutta in questo viaggio. Ti pare una fuga? A me non pare una fuga. E sai perché? Perché se nei miei bambini, nel peschereccio e nelle reti non mi ci ficco io con me stesso e ciò che sono, io non ci sono là. E il peschereccio lo sa, lo sanno i bambini e anche le reti. Dentro, lo sanno”. “Non fa una piega”. “Ora il problema è questo. Io ci sono in questo viaggio. Ci sono. Non sono laggiù e non potrei mai esserlo perché sono qui. E se sono qui, non sono qui a caso. Non c’è strada, non c’è scorciatoia. L’unico modo per ritornare laggiù, dove c’è tutta la mia vita, è fare questo viaggio. Ha i suoi rischi. Ma ha una possibilità. Non farlo non ha possibilità alcuna”. “Ma tu sei un pescatore, - disse Karim – noi potremo andare da soli”. “No. Non sono un pescatore. Sono un viaggiatore. Giusto Rea?”. Totò aveva bisogno di sentire un amico. Aveva bisogno di sentire Fabio. Più di ogni altra cosa quella sera desiderava una voce calda, un amico dai toni caldi, l’amico di cui ricordava lo strillo che gli salvò la vita come fosse oggi. Anzi era oggi. “Uomo a mare!”. Sì, proprio come allora, come quando venticinque anni fa era volato via dal San Michele. Uscì con questo pensiero fisso. Fabio. Non voleva parlare davanti a Karim e Rea. E poi dalle cabine non si vede il numero telefonico e Totò non voleva che Fabio sapesse dove si trovasse. Per questo uscì. Comprò una tessera telefonica. “Totò!”. “Avevo voglia di sentirti. Mi sento un po’ giù”. “Per fortuna che hai chiamato Totò”. “Che è successo? I bambini? Rosa?”. “Fabrizio”. “Cosa?”.
“L’hanno preso. Vogliono parlare con te. Dice che lo lasciano solo se gli consegni Karim”. “Ma chi?”. “E se non lo sai tu? Ma Karim è con te? Che c’entra lui in questa storia?”. “E’ lunga compà. Sono con Karim. Meglio che non ti dico dove. Come faccio a parlare con questi?”. “Come fai? Mi hanno lasciato un numero di cellulare questi pezzi di merda”. “Un telefono?”. “Sì”. Totò si sentì friggere il sangue per l’arroganza dell’ispettore Pepe. Solo uno così pieno di sé come uno stronzo poteva arrivare a tanto. Impunito. “Ascolta. Devi parlare con Ignazio. Ma prima io devo parlare con te. Ti ricordi il bar dei ‘mercoledì letterari’?” “Certo”. I mercoledì letterari erano piccole fughe dalle responsabilità che i due amici organizzavano in primavera, e solo di mercoledì. Se ne andavano, persi per conto loro, lontani da tutto, pigri come bonacce. E nel pomeriggio finivano sempre in un bar di un piccolo borgo poco distante dal paese. Un posto che frequentavano da soli, in santa pace. “Ti chiamo lì domani. L’ora la sai. Ora dammi sto numero”. Rea era affacciata alla finestra e indicava a Karim i suoi concittadini, nel suo gioco preferito: osservarli. Aspettava il ragazzo con la bicicletta sperando che Karim le confermasse la sua impressione, che il ragazzo andasse a fare l’amore con la sua fidanzata. Da qualche giorno le sembrava ancora più logico. Più giusto. Doveva essere certamente così. E si accoccolava addosso a Karim, e Karim l’abbracciava fino a sfiorarle un seno. Guardavano fuori dal parapetto della loro felicità e seguivano le correnti di ognuno. Ed erano così felici, così intrecciati in quella schiuma di mare che entrava direttamente nelle narici con quelle sue particelle ebbre. Finché dalla luce di un lampione videro apparire Totò. Sembrava piegato, scosso da fremiti, sbuffava una sigaretta e seguiva una corrente impetuosa. Una corrente che portava a loro, evidentemente. Totò attraversava la piazza alzando di tanto in tanto il mento. Aveva il giaccone aperto e lo stringeva alla vita serrando i pugni. Per un attimo Rea si staccò da Totò. Lo inchiodò alla mente come fosse un estraneo. E vide
un uomo in mezzo a una tempesta. Un marinaio che s’affida al cieco istinto per attraversare un’ondata dritta di prua, enorme. E mentre s’infila nel muro d’acqua, lancia uno sguardo a dritta, si ferma con un ragazzo un po’ in disarmo che gli chiede una sigaretta e lui svuota mezzo pacchetto e glielo dà e gli sorride sinceramente. E tornato alla sua rotta, dritto di prua l’ondata è superata. Pronti alla prossima. C’è poco da fare, pensò Rea, quell’uomo ce la farà. Appena a casa, Totò si buttò sul divano senza dire una parola e piombò in un sonno profondo e agitato. Sognò di essere davanti alla lapide di Lavinio, quella dedicata a Enea. Era notte e Karim lo tratteneva per un braccio. Attorno a loro la città bruciava, le ombre dei greci apparivano giganti sui muri delle case e tremavano per il riverbero delle fiamme. Karim lo trascinava via, verso la salvezza. Adesso loro erano travestiti da greci e nessuno li notava, però Totò non ce la faceva a camminare e stringeva il braccio di Karim per non perderlo. Oltrepassavano ghigni osceni, madri sui corpi dei figlioletti senza vita, uomini in pozze di sangue. L’orrore della guerra e della morte. Della distruzione senza senso. Tra le fiamme il profilo di Karim gli appariva duro, antico, il volto di un predestinato alla sopravvivenza. Fuggivano senza pensare, per salvare la vita che il tempo gli aveva dato e perdere stanotte era bestemmia. Fuggivano verso le colline buie dove pascolavano le greggi mute di fronte a tanta follia, follia che il cielo rimandava con bagliori viola. Corsero lontano. Poi Totò inciampò e crollò a terra. E pensò che lì poteva bastare, lì poteva fermarsi. Non aveva più orecchie né polmoni. Sentiva solo il tam tam irrefrenabile del cuore battere sulle tempie. C’era una formica davanti ai suoi occhi. Con gran fatica trasportava una pagliuzza chissà dove. Solo per caso non l’aveva schiacciata e quella piccola creatura non se ne dava conto, e Totò la capiva perché dietro di lei comparve una fila interminabile di colleghe tutte impegnate, tutte affaccendate. Totò alzò gli occhi e vide i suoi figli che lo guardavano sorridendo. Erano i volti immensi della vita che lui aveva creato, i suoi figli, la sua carne, se stesso nel futuro. Era così contento di rivederli. Nel sogno Totò disse: sapevate che le formiche allevano acari? Che le recintano e le tengono prigioniere per ricavarne un liquido di cui son ghiotte? Che costruiscono città e strade immense, infinitamente più grandiose delle nostre? Papà - rispose il grande - hanno scuole come noi? E chi lo sa, magari una formichina sola sperduta è stupidina, ma guardale tutte insieme… considera l’intero formicaio… non è intelligente? Non provvede perfettamente alla giusta sopravvivenza di ognuna? Eppure a noi sembra che le formiche non si interroghino sul tempo e le stagioni, la vita e l’amore… tu che dici? Non hanno scuole – disse la piccola - ma palestre, pà! Ora dormite, dolci amori miei.
Totò si risvegliò alle quattro del mattino con l’amarezza nel cuore. I suoi figli gli mancavano più di tutto. Ma da questa storia dovevano starne fuori. Si sarebbe accontentato di baciarli e accarezzarli in sogno. Da questa storia dovevano starne fuori. Ficcò gli occhi in una tazza di caffè e tentò di ricordare le parole velenose sentite al telefono qualche ora prima. Era proprio l’ispettore Pepe. “Ciao Totò. E sì, proprio io. Dove sei finito Totò? Sono due giorni che aspetto la tua telefonata. Ce l’hai fatta a chiamarmi, bravo. E da dove telefoni? Ah, sono cazzi tuoi, bravo. Fabrizio? Il ragazzo sta bene. Ora però zitto e ascolta. A me non me ne frega niente del tuo piccolo amico. Basta che dico una parola e gli faccio tagliare la gola. Mi devi dare Karim. Hai fatto male i tuoi conti, Totò. Il più forte sono sempre io. Ascolta. Ho trovato la tua auto. Lo sai, sono uno sbirro e anche bravo. Sei in continente. Spero non troppo lontano dalla tua auto, ma non me ne frega un cazzo. Ti do 48 ore. Uscita Lagonegro nord della Salerno-Reggio Calabria. Scendi fino al mare. C’è un ristorante. Trattoria Alberto. Devi stare là alle nove di sera di dopodomani, d’inverno è chiuso, ma tu vieni nel piazzale di fronte, che dà sul mare. Se parli con qualcuno, Fabrizio muore. Se non vieni, muore. Se oltre a te e Karim c’è qualcun altro, muore. Hai capito bene? Bravo. Ci vediamo lì. Ah, Totò un’ultima cosa. Finora ho lasciato perdere i tuoi figli e tua moglie. E anche i tuoi amici. Non mi fare incazzare, hai capito? Fai il bravo. Ci vediamo dopodomani”. Dalla porta socchiusa della camera da letto, Totò prese a sbirciare Rea e Karim mentre dormivano. I loro respiri si cercavano anche nel sonno. Potevano sembrare lui e Rosa quando ancora l’amore faceva girare le loro eliche allo stesso ritmo. Il mare faceva e disfaceva, anche nel sonno di quei due. E nei sogni di Totò. E quel che era restato a fondo per due settimane, ora ritornava a galla, appena l’ultima particella di gas gonfio trovava la forza di sollevare il mostro e farlo riemergere. La rotta s’era maledettamente complicata e un’altra tempesta arrivava per Totò. Però di un altro genere questa volta. Fabrizio che c’entrava? Niente. Fabrizio contava la lunghezza delle onde. Tre lunghe, due corte, tre lunghe e una cortissima. “Ieri il mare sembrava trattenere il fiato”. Ricordò le parole du caruseddu in quella maledetta alba. Salvare Karim. Salvare Fabrizio. Il mare pretendeva un’altra vita al posto di quella che non aveva inghiottito quella mattina. No, il mare non c’entrava. Non voleva questo, il mare. Ma forse occorreva davvero una vita in cambio. Come avrebbe fatto? Non ne aveva
idea. Ma non poteva consegnare Karim per Fabrizio. Era escluso. Per il semplice motivo che non ne aveva alcun diritto. Non spettava a lui scegliere chi far vivere e chi far morire in questo schifo di mondo. E poi chi gli avrebbe dato la certezza che non li avrebbero uccisi tutti comunque? Quello sbirro rispondeva al telefono, parlava come se fosse il Padreterno. No. Era ovvio che li avrebbero uccisi tutti. E poi, forse, sarebbe toccato anche ai suoi amici. E i suoi figli? Niente. Non c’era più nulla a cui pensare. Rea si voltò nel sonno, accoccolandosi sotto le braccia di Karim. Respirò il suo odore a fondo e avvicinò il suo grembo al grembo di Karim. Karim si mosse leggermente verso di lei. Stavano svegliandosi per tuffarsi nel loro sogno reale. Totò si ritrasse e in silenzio tornò in cucina. “Allora?”. “E’ una storia lunga, Ignazio”. “Non era una piccola deviazione?”, ironizzò il tarantino. “Pare di no”, rispose Fabio scuro in volto. Seduti sul muretto a secco del piccolo villaggio dei ‘mercoledì letterari’, Fabio aveva cacciato sulla faccia tutte le rughe di trent’anni di mare. Ignazio lo guardava attento, cercando di spremere succo d’azione dal racconto che Fabio si accingeva a fare. La concentrazione era totale e totalmente fissa su Fabio. Deformazione professionale. Vecchia deformazione professionale che con la pesca e l’Anadro non aveva niente a che fare. Era una storia antica, quella d’Ignazio. “Da dove devo partire?”, chiese Fabio. “Cosa c’era dietro la piccola deviazione?”. “Un ispettore di polizia”. “Perfetto, - rise amaramente Ignazio – perfetto…ora raccontami tutto quello che t’ha detto Totò. Non scordarti una virgola. E poi mi dici quello che pensi tu”. L’ispettore Pepe chiamò la sala operativa. Era tardi e c’era solo Creta in quel momento. Non a caso. “Da dove chiamava?”. “Da una cabina telefonica, da Roma”. “Roma?”. “Sì, Roma centro. Dalla stazione Termini per l’esattezza”. “Si crede furbo. Hai registrato?” “No Umbè, tranquillo”.
“Hai ascoltato?”. “Umbè conosco le regole, che minchia mi stai raccontando”. “Bene. Se conosci le regole sai che devo chiedertelo. Non ti offendere”. “Salutami don Paolo”. “Certo. Buonanotte”. L’ispettore aprì il solito cassetto, quello dove teneva l’accendino del Tuscania e la pistola d’ordinanza. Tirò fuori un fascicolo di carta verde. Sopra c’era scritto a pennarello ‘Totò Cibali’. “Roma, eh?”. Cominciò a sfogliare nella vita di Totò, raccattata per strada dalle bocche dei suoi informatori, per lo più colleghi di mare, gente che pensava ovviamente di fare il proprio dovere. Finché non arrivò a tre righe appena mormorate. Una giornalista romana che Cibali aveva ospitato a bordo del suo peschereccio cinque anni prima. Era l’unica pista che poteva portarlo a Roma. “Una giornalista romana…”. Rintracciarla, con un po’ di fortuna, sarebbe stato facile. Sarebbe bastato verificare sui registri della Capitaneria di Porto. Tutti quelli che partono a bordo dei pescherecci, anche solo per tre giorni o una settimana, dovevano farsi registrare. “E bravo Totò…”, mormorò l’ispettore Pepe accendendosi una sigaretta con l’accendino d’oro massiccio del Tuscania. Poi alzò il telefono. E disse alla moglie che l’indomani sarebbe dovuto partire per lavoro. E quella, come sempre, se la bevve.
8
Rea aprì la finestra e un mare di luce la investì nel primo risveglio. Non desiderava biscotti al burro, non desiderava essere lasciata nel suo broncio, non desiderava nulla. Ed era una sensazione fantastica. Si affacciò a guardare i suoi concittadini e all’improvviso non desiderò neanche sapere dove andassero e quali fossero le loro storie. Sentiva caso mai l’impulso di scendere in pigiama e pantofole e mischiarsi a loro, anche solo per cinque minuti, entrare in un bar e ordinare un caffé, ringraziare, salutare tutti uno per uno e andare via, con la felicità negli occhi. Era felicità quella che provava? Finalmente dopo anni? Quella mattina avvertiva una strana sensazione in tutto il corpo, si sentiva intorpidita però reattiva, avvertiva ogni singola particella di polvere volante che si posava sulla sua pelle, sentiva i raggi del sole scaldarle i pori, si sfiorò il braccio e anche quella sensazione le parve intensa, forte, come una lama bollente che le lasciasse un segno indelebile. I capelli le pesavano sul cuoio capelluto e le labbra erano tumefatte dalla notte di baci. Sentiva dentro qualcosa. Nel profondo del suo corpo. Qualcosa di nuovo e d’inaudito. Una sensazione d’ebbrezza che le saliva dalle viscere fino al centro del cuore e là restava a farsi cullare. Mise su il caffé, poi danzò leggermente da una stanza all’altra della sua casa, dando il buongiorno a ogni oggetto, ogni fotografia che le si parava davanti come per riconciliarla con un inverno ormai lontano.
Totò dormiva, gli occhi gli tremavano sotto le palpebre. Probabilmente sognava. Rea gli si avvicinò e gli augurò solo bei sogni, almeno quelli. Lo guardò. Era un bell’uomo alle soglie dei quarant’anni. Aveva ancora tutto. Aveva se stesso, che era molto. Un bel volto greco. Tanti capelli folti e neri. Delle labbra carnose e sexy. E una sensibilità fuori dal comune. Sul comodino, il portafogli di Totò era aperto. Le facce di due bambini bellissimi sorridevano all’obiettivo. Rea avvertì una tachicardia che le pompò forte il sangue nelle vene e le fece girare la testa. Dovette sedersi. Karim le strinse le spalle e lei si sentì protetta. “Da quanto sei sveglia?”, le sussurrò all’orecchio. “Da due settimane, più o meno”. “Sei sicura di voler venire a Marsiglia con me?”. “Io sono sicura di me. Non sono sicura di te. Ma cose vuoi che me ne importi”. Totò si svegliò nel tardo pomeriggio. Aveva dormito molto e non gli pareva vero, nonostante i pensieri che attraversavano la sua mente come uno sciame di meteore. Andò in cucina e si versò il solito caffé amaro evitando lo sguardo di Karim e Rea. “Bella dormita ti sei fatto. Tutto a posto ieri notte?”. “Tutto a posto”. “Hai bevuto?”. “No. Ho telefonato”. “Notizie di Rosa?”, s’informò Rea con una certa malinconia. “Nessuna”, mentì Totò. Rimasero in silenzio aspettando che Totò prendesse il discorso. Ma la radio a basso volume continuava a suonare e Totò non apriva bocca. “Allora siamo pronti per partire?”, disse finalmente Karim. “Sì – rispose Totò – ma dopo il mio ritorno”. “Ritorno da dove?”. “Devo andare a trovare un amico. Rea mi presti la macchina?”. “Certo, Totò. Ma dove devi andare? Cioè: mica me lo devi dire per forza, ci mancherebbe. Però mi sembra strano”. “Strano? Perché? Devo andare da un amico”. “E stai via tre giorni? Dov’è questo tuo amico?”.
“Avevi detto che non volevi sapere niente”, alzò la voce Totò, ma poi calmandosi continuò: “Scusa. Ho voglia di andare a Perugia, ho un amico che volevo vedere da tanto, mi fermo là. E poi così vi lascio un po’ da soli, contenti?”. “Non mi dire che ti diamo fastidio?”. “Chi?” “Noi due”. “Non dire sciocchezze - disse Totò accarezzando la guancia di Rea – non pensarle neanche”. “T’accompagno?”, disse Karim. “No. Vado da solo”. “Finora abbiamo fatto tutta la strada assieme”. “Finora”. “Ti accompagno alla macchina”, aggiunse Karim. Appena fuori dal portone di casa di Rea, Totò fu investito da uno strano silenzio. Non un’auto, non un bambino strillare. L’edicola di fronte era deserta. All’interno del bar si intravedeva il ragazzo del bancone appoggiato di schiena alla parete, annoiato. Il cinese del negozio di cianfrusaglie leggeva il giornale, non aveva nessuno con cui litigare. Neanche dalla stazione Termini, poco distante, sembravano provenire suoni. Nessun treno in arrivo, nessuno in partenza. Il vento era immobile e le fronde degli alberi mute. Totò si fermò e si voltò. Karim gli camminava a fianco. Il suo passo era morbido. Il silenzio aveva avvolto anche lui nell’effetto di un film amatoriale in Super8 senza audio, mute immagini che la luce sgranata del tempo rimandava alla mente di Totò. L’ultima volta che aveva avuto quella sensazione fu l’attimo esatto in cui vide spuntare la testolina di suo figlio dalla vagina di Rosa. Totò colse l’attimo. ‘Dunque è così’, pensò. Chiuse gli occhi sentendo la forza di un momento speciale. Quello in cui si nasce. O si rinasce. Vita di tempo vivo. Un istante che si stava inchiodando nella mente di Totò con il dolore della farfalla catturata. Un dolore che tuttavia sembra procurare un piacere infinito. Quello della trasformazione. La farfalla che si cristallizza. Per diventare pensiero nuovo e volare via. Così Totò non s’accorse che proprio mentre stava per piegarsi ad aprire la portiera della macchina, un tizio gli fu dietro appoggiandogli una pistola alla schiena. Subito dopo sentì lo stridore di freni di un’auto e tutto l’istante che s’era fatto eterno scomparì. Ed arrivò la vita nuova.
“Muto e sali, cornuto”. Totò non capì molto di quel che stava succedendo, non immediatamente. Vide Karim spinto anche lui a bordo dell’auto di grossa cilindrata. Si voltò lentamente verso l’uomo che l’aveva apostrofato e gli vide spuntare dalla mano una pistola che aveva l’apparenza di essere stata già usata, e usata bene. Fece come gli aveva ordinato l’uomo. Senza dire una parola montò in macchina. Era stranamente calmo. “Totò, t’è piaciuta Roma?”, disse l’uomo alla guida. Parlava con un accento siciliano. Ciò spiegava tutto. “Ma che volete?”, fece Karim. “Con te ci vediamo dopo”, rispose un altro dei siciliani. Quindi sferrò un tremendo pugno sul mento a Karim, che svenne immediatamente. A Totò gli porsero un cappuccio di tela nera: “Infilatelo e sdraiati sul sedile”. Un’ora. Poi due. Alla fine della terza, piomba l’oscurità. Non solo in città. Ma nell’anima di Rea. Il pianto scende lentamente, come la notte. E più diventa buio, più cresce la disperazione, l’incredulità per l’abbandono. Mille pensieri. Fra tutti però, certamente non quello che Karim sia sparito per sua volontà. Ma Rea sa che Karim non c’è più. Lo sa così come si sentono le cose che si sentono, che non sbagliano mai. Rea restò affacciata tutta la notte alla sua finestra, disperatamente attaccata alle sue storie. Storie di uomini e donne che attraversano la strada per raggiungere chissà quali emozioni o malinconie o peggio: delusioni. Cercava Karim sperando. Ma sapendo che non l’avrebbe trovato più. Non chiedete all’amore perché sa queste cose. Le sa e basta. L’auto dei siciliani attraversò la città, semaforo dopo semaforo, ingorgo dopo ingorgo. Con calma, senza spingere sull’acceleratore, svoltava a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, dopo un lungo tratto dritto. Con la testa ficcata nel suo cappuccio la strada sembrava infinita per Totò. Aveva perso l’esatta cognizione del tempo, ma quasi sicuramente erano passate più di due ore quando sentì le ruote imboccare un viottolo sterrato, con tutte le sue buche e lo scricchiolare della ghiaia sotto i copertoni. Totò pensò che fosse finita. “Ciao Totò”. Finalmente gli levarono il cappuccio. Ma la luce non lo investì. Era notte. Lo buttarono per terra. Totò si guardò attorno. Erano in uno spiazzo deserto, una collina
brulla e spoglia, con cespugli di ortica qua e là, piccoli cumuli di immondizia e i fari di auto che incrociavano su una strada poco lontano, però invisibile. “Ciao Totò, – ripetè l’ispettore Pepe – allora non dovevi passare in Questura? Ti aspettavo. Invece mi fai venire fino a Roma. Bella, Roma. T’è piaciuta? Come ti sei trovato a fare il turista con il tuo nuovo amico? È piena di belle statue, vero? La cosa che mi fa impazzire è che moltissime statue qua non hanno la testa. Dicono che le case degli americani sono piene di queste teste romane. E si vede che valgono molto, ti pare? Sai, Totò? Devo fare un bel regalo a un caro amico mio, una persona importante. Non posso tornare a mani vuote. Tu che mi consigli? Il mio amico è una persona che merita molto. E vale più del presidente americano. Hai qualche idea?”. Mentre il crotalo dalla cicatrice sul volto parlava con la solita aria da padreterno, Totò pensava ai suoi figli, le sue creature che probabilmente non avrebbe più rivisto. Rosa era una meteora lontana. Le ultime parole che aveva sentito al telefono da Fabio il giorno prima erano quelle che, in fondo, conosceva da tempo. Rosa aveva preso la sua decisione da sola e non aveva il coraggio di condividerla con il padre dei suoi figli. Aveva reciso ogni legame, ogni residua fiducia, ogni ponte possibile. Ma non aveva più importanza. Rosa non c’era più, per Totò. C’erano solo i suoi figli, che adesso sorgevano nella sua anima come l’unico e più importante punto fisso d’orizzonte. Come avrebbero fatto senza di lui? Cosa avrebbero pensato di questo suo viaggio? E della sua scomparsa? Sarebbe scomparso come un uomo in mare? No, peggio. Le ossa perse nel mare diventano corallo. Delle sue invece non si sarebbe saputo più nulla. Di che ciarlava quel poliziotto assassino? Di teste? Cosa ne voleva sapere di teste, quello. Uno abituato solo a contarle per ricavarne quattro piccioli. Totò voltò lo sguardo disgustato, cercava il mare, ne sentiva l’odore. Dovevano essere molto vicini al mare. A poche decine di metri vide un albero bianco, tozzo. Non era un albero, forse un ceppo di marmo, digerito lentamente dalla salsedine e dal mare che d’inverno sputava sabbia a trecento all’ora, fin qua. Un monumento. Un monumento rozzo e pesante, eppure immenso nella sua piccola e testarda mole. Una radice di dente bianca piantata all’incontrario, con attorno due panchine malridotte e una pozzanghera enorme, bollente di zanzare che risalivano alla superficie, appena nate. Un monumento pesante, due colombe, un timone forse, oppure due spesse lenti da vista, calpestate in questo luogo proprio in una notte come questa, e mai rimpiante abbastanza. Totò risentì la voce della Torre Silusa, la voce del tempo morto, delle pietre gialle che tremavano sotto i colpi dei corsari. Quel posto puzzava di sangue rappreso,
di sangue corsaro, mai lavato via neanche da trent’anni di uragani violenti, nubifragi, piogge scarnificanti, inutili, buone solo a riempire le fogne di un paese puzzolente che poi si vomitano in mare, nel mare che è fonte di tutto. Era un luogo infame, eppure degno per morirci. Totò sentì l’intelligenza circolare in quel luogo desolato, sentì un’anima mormorare piano parole di sostanza, sostantivi nutrienti, carboidrati per la mente e il cuore, parole inascoltate di una saggezza antica, diversa, odiata, derisa. Immagini verbali che schiudevano la loro bellezza e la loro intelligenza – e queste sempre coincidono – petalo su petalo, idea su idea, scoperta su scoperta, una poesia in forma di rosa. Allora era così che doveva andare. Totò osservò meglio la realtà. Karim era ai suoi piedi, per terra. Di nuovo malconcio, con il naso pieno di sangue secco. Di fronte a loro c’erano due auto con i fari accesi. C’era l’ispettore Pepe che continuava a ciarlare, ridere e fumare, ma le parole che mandibolava erano sorde. Poi c’erano i suoi compari. Tre assassini con certe facce perse e irragionevoli. Appoggiato allo sportello di un’auto c’era Fabrizio, ‘u caruseddu’. Era legato e imbavagliato. Ma calmo, deciso. Finalmente i suoi occhi incrociarono quelli di Totò. Non aveva paura. Guardava Totò con sicurezza, con la forza di chi ha ragione. Qualunque cosa accada non si può, non si deve aver paura quando si ha la ragione dalla propria parte. Fabrizio sarebbe stato un marinaio straordinario. Sarebbe stato un uomo vero. Era già un uomo vero, se solo fosse riuscito a venire fuori da quella storia, ma le possibilità sembravano davvero poche. ‘Cosa importa, Totò?’, pensò Fabrizio ‘Niente’, rispose il pensiero di Totò. ‘Non importa niente. Vedi com’è il mare? Riusciamo a parlarci in silenzio, bastano gli occhi’. ‘Basta aver guardato lo stesso mare per tanto tempo. Mi dispiace Fabrì’. ‘Non è colpa tua. La colpa è di questi assassini’. ‘Mi dispiace lo stesso’. ‘E se provassimo a uscirne?’. ‘Non so come, Fabrì. Non ne ho idea’. ‘Allora è finita?’. ‘Mi dispiace’. ‘Peccato. Senti, ti ricordi l’ultima serie di onde com’era? Tre corte, due lunghe, tre corte e una lunghissima. Era così?’.
‘Mi dispiace, Fabrì’. Il mare s’era fatto nero catrame. Un nero torbido agitato ringhioso, buio che acceca, che cerca l’aria e non la trova. L’ispettore Pepe prese Fabrizio per i capelli e lo trascinò fino al centro della luce dei fari, dove Totò e Karim aspettavano la sorte. Lo buttò come un sacco di immondizia, senza sapere che stava mettendo le mani addosso a uno dei marinai più bravi del mondo. Ma gli uomini di legge - qualunque sia la legge alla quale si piegano – non sanno nulla del mare. Credono di saper ben navigare, di aver in pugno la rotta, che la vita sia solo un insieme di volgari regole da rispettare, e poi leggi naturali e valori da violare, a piacimento. E parlano, parlano, parlano. Anche quando stanno zitti. Dall’alto delle loro cattedre, delle loro scrivanie, dei loro giorni sfavillanti destinati a marcire, come i loro distintivi. Che siano servi di un codice o di un codice d’onore. O di entrambi. O di uno dei due a seconda del proprio codice immorale e lascivo. Per Totò la faccenda si andava chiarendo, si specchiava di fronte alla lavagna del mare nero pece. La vita gli stava tornando addosso in tutta la sua semplicità. La propria natura. L’aveva seguita, finalmente, dopo anni di assenza, e lo aveva trascinato fin lì. Ma ne era valsa la pena, tutto sommato. I suoi giorni di pesca ottusa per pagare un mutuo e mantenere un’esistenza che non aveva scelto, ma seguito per seguire Rosa, Rosa… una creatura estranea, non fosse per quei vent’anni di illusione e disillusione, di un sogno solo suo, di uno stupido sogno che non gli apparteneva più e che non apparteneva neanche a lei, i suoi giorni di stupida pesca di pesce erano finiti. Non finivano bene. Può darsi. Ma Totò aveva seguito la sua natura, per una volta. E non sarebbe finito in fondo al Canale di Sicilia a causa di una stupida perturbazione. Sarebbe finito in qualche discarica, dentro a un sacco, a causa di una piccola deviazione, una grande svolta. Rosa lo tradiva da più di un anno. Consapevolmente, lucidamente. Lo metteva di fronte a quest’omicidio reiterato della sua follia da illusionista. L’amore, l’amore eterno. Fabio gli aveva rivelato la verità. La stessa che Rosa non aveva avuto il coraggio di dirgli ma solo di ficcargliela in pancia a furia di rasoiate. Pazienza, pensava Totò. La natura non va tradita mai. E in fondo Rosa, questa cosa l’aveva capita prima di lui. E s’era ripresa la sua natura, che era fatta d’altre cose. Troppo brutto sarebbe, in punto di morte, adesso, vomitare addosso all’egoismo di una natura, quella di Rosa. Ma la verità è che la natura è per definizione egoista. Ogni essere vivente, in qualsiasi fase della sua vita, è egoista per natura. L’egosimo è assecondare l’esistenza. Rosa questo aveva fatto. Totò invece no, e aveva fatto male, o
per lo meno agito contro natura. Almeno fino a quella notte in cui il mare gli mandò un avviso di riscossione grosso quanto una barchetta in vetroresina rovesciata. Uno schiaffo lo riportò ancora una volta alla realtà. “Totò! Sto parlando con te”, disse l’’ispettore Pepe. “Non mi frega niente”. “E perché? Non t’interessa sapere come va a finire la festa?”. “No”. “Peccato. Vedi, tu sei troppo presuntuoso. Pensavi di poter fare tutto quello che volevi. Che faccia tosta. Questi signori – disse Pepe colpendo con un calcio Karim – sono nostri. È roba nostra. Sono anni che li facciamo venire come vogliamo noi, al prezzo che diciamo noi, e poi ce li prendiamo, se ce la fanno ad arrivare. Uno più, uno meno. Ma che ti importa Totò? Che aveva questo Karim di speciale? Perché gli sei andato appresso? Che eri stupido l’ho capito subito, appena ho messo piede sulla tua barchetta. Ma così stupido non credevo proprio. Povero Totò!”. “Ma che parli a fare, sbirro?”. “Per passare un po’ di tempo. Certo ti capisco. Che ti importa a te. Non devi neanche preoccuparti più della tua famiglia. C’è chi ci penserà. Qualcuno che si fa i cazzi propri nella vita, oltre a farsi tua moglie. Un bel tipo insignificante e in ordine. Vedrai che li saprà crescere bene i tuoi figli. Magari non verranno su come te, ed è già una bella fortuna”. Un lampo omicida partì dagli occhi di Totò. “Eh sì, che ti credi. Sappiamo tutto anche di tua moglie. È questo che ti fa rabbia? Non credo. Se ci tenevi veramente a tua moglie non saresti arrivato a questo punto. Ma i tuoi figli che penseranno di te? Te lo sei già chiesto, eh? Sparito”. “Sei una merda”. “Può darsi. E quindi?” “Quindi finisci sto schifo di lavoro che ti sei trovato e vaffanculo”. “Niente. Non ti piace la festa. Mi dispiace, sai? – l’ispettore Pepe s’avvicinò alla faccia di Totò e gli sibilò come un crotalo – Non sei più niente, neanche un padre”. Totò trovò la forza di sputargli in faccia, come in un film. Ma era comunque una soddisfazione. E poi non si sa mai, magari quello sputo gli avrebbe fatto rivedere quella faccia odiosa da un’altra prospettiva, come la storia dello sputo quando si parte. Questioni scaramantiche. “Ammazzateli”, ordinò Pepe.
I tre assassini lasciarono perdere le loro sigarette e si armarono di grossi tubi di ferro. Il primo colpo lo diedero a Totò, sulla schiena. Una fitta dolorosissima gli si ficcò sulla coscienza. Faceva male, ma faceva molto più male il sapore della fine per una vita appena ricominciata. Un dolore che rischiava di diventare retorico, non fosse che presto sarebbe finito nel buio totale. E così non avrebbe rivisto più i suoi figli e neanche suo padre, perso in qualche deserto dell’Australia con una donna dai colori vivaci e una parlata strana. Mentre aspettava il secondo colpo, piegato su se stesso, a terra, con le braccia che cercavano istintivamente di proteggersi la testa, ripensò a quel suo assurdo sogno con nonno Totò, quello della barca con le cime attaccate al molo, ai remi che spingevano per cercare di smuovere la Sicilia, di spostarla da quella latitudine moribonda, e gli venne in mente che invece la Sicilia si muove eccome, ed eccola lì con i suoi uomini migliori, i suoi frutti avvelenati, sempre identici, sempre gli stessi, e invece qualcuno avrebbe fatto meglio ad affondarla la Sicilia, ma anche se qualcuno, qualcuno armato di buona volontà, avesse tolto il tappo a quell’isola malata, come dalle navi i sorci, così gli uomini migliori, questi frutti marci, si sarebbero messi in salvo comunque, magari a nuoto, magari sulle spalle delle persone oneste. Scorpioni addosso alle rane, come nella favola. Totò si scoprì senza ideali. Rispetto, amore, coerenza, speranza. Niente in confronto a una piccola foresta di tubi di ferro agitati per bene. Che si credeva questo Totò, questo pescatore di clandestini? Un conto è ripescare Karim, un altro farsi pescare da un tipo giusto come Gesù Cristo. Il figlio di un padreterno lo puoi seguire anche al supplizio, se il premio è la propria anima. Ma una discarica abusiva in cui far verminare le proprie ossa in compagnia di un algerino che la vita proprio non ne vuole sapere di abbracciare e di un ragazzino che neanche ha messo tutta la barba, non dà in premio proprio niente. Né anima, né niente. Immondizia. Una latta di pelati, una buccia di banana, una scorza d’aglio, un tozzo di pane secco, la lisca di un pesce. Ecco l’amore e il rispetto. Più o meno. Valeva la pena affrontare quell’esperienza senza farsi troppe illusioni. Per Totò non era facile essere ottimisti in quella circostanza, questo occorreva capirlo. Quanto appariva distante quella ragazza che si affacciava al balcone. Quella Rosa adesso così estranea, quel volto che aveva incarnato un un sogno, un sogno come quello con nonno Totò che cercava di smuovere la Sicilia. Restava solo il balcone. E la tavolozza di legno su cui si calavano le carte più importanti della scopa. E le parole e gli occhi di nonno Totò. Forse lui già lo sapeva che finiva così. I tre assassini adesso si erano caricati per bene. Cominciavano a picchiare con scientificità. Il loro mestiere era cosa seria, un’arte non trascurabile.
Un colpo arrivò dritto sulla tempia di Totò, una bomba gli esplose nell’orecchio e partì il fischio di un treno impazzito che stava per passargli sopra. Si mise ad aspettare il colpo che l’avrebbe finito. Invece dopo quel colpo che avrebbe messo a terra anche nonno Totò, più niente. Totò non aveva sentito l’ordine di Pepe: “Fermi, basta così!”. Però, alzati gli occhi, non poteva credere a quel che vedeva. Dietro l’ispettore Pepe c’era Ignazio, con una pistola piantata nella testa dello sbirro, giusto dietro la nuca, e con una faccia feroce che faceva paura anche a Dio. Non scherzava, non scherzava affatto, era un assassino rimandato indietro dalle circostanze, un angelo nero che stavolta era bello per davvero. Come ombre di demoni, alle spalle di Ignazio spuntarono, silenziosi, altri individui che Totò non riconobbe. Si lanciarono sugli assassini e li disarmarono in un momento. “Alzati”, riuscì a leggere Totò dalle labbra di Ignazio. Alzarsi. Una parola. Troppe botte in pochi giorni. Totò era stanco. Girò la testa a destra. Trovò gli occhi di Karim. Si guardarono per l’ennesima volta. Anche l’algerino sembrava esausto. Eppure, eccolo ancora lì. Tre volte morto, tre volte vivo. Allora forse valeva la pena tentare di rialzarsi. Sentì una mano sul braccio. Si voltò ancora e vide Fabrizio. Nei suoi occhi c’era la sicurezza di chi aveva contato le onde giuste e adesso, da marinaio adulto, recuperava il corpo del suo comandante, scivolato in acqua. “Sei un uomo morto”, disse Pepe a Ignazio. Senza neanche pensare di perder fiato, Ignazio abbassò la pistola all’altezza del ginocchio dell’ispettore e fece fuoco. Il colpo risuonò nel silenzio dell’Idroscalo e fece sobbalzare Totò. Non s’aspettava una risposta del genere. Eppure amava Ignazio per le sue risposte sempre così precise e puntuali. L’ispettore Pepe s’accasciò gemendo. Capì che non aveva a che fare con un semplice pescatore, quella volta. Ma con un collega. Uno specialista del suo genere. Cambiò strategia. “Aspetta – disse – possiamo metterci d’accordo”. “Non credo”, rispose Ignazio, mentre i tre assassini siciliani erano con la faccia a terra tenuti di mira dagli uomini di Ignazio. “Chi diavolo sei?”.
“Un amico di Totò”. “E poi?”. “E poi quello che ti ammazzerà”. “Non credo, sai? Mica sono qui per conto mio. C’è chi mi ci ha mandato qui. E ti troverà. Troverà tutti. Sei ancora in tempo per non fare cazzate”. “Smettila. Le regole le conosciamo tutti. E chi ti manda lo so. Eppure sono qui lo stesso. Non sono affari. Sono questioni personali”. “Allora sono nei guai”, ridacchiò l’ispettore Pepe. “Credo proprio di sì”. Totò riacquistava l’udito poco a poco. Ma quel poco bastava a seguire quel dialogo surreale fra due individui della stessa pasta. Quasi della stessa pasta. Ignazio di mare ne aveva fatto un bel po’ per lasciarsi alle spalle chissà quale tempesta. E doveva essere stata terribile, a giudicare l’uomo che adesso stava schiacciando quel serpente a sonagli con una truce cicatrice sul volto. “Ignazio ma che ci fai qui?”, disse Totò. “Sempre queste domande stupide”, rise Karim sputando sangue. Questa volta la battuta dell’algerino fece ridere anche Ignazio. “Totò, ma non ti sei stancato di farti sfottere da un algerino di dieci anni più piccolo di te?”. “No. Come sei arrivato qui?”. “Eri nei guai, bisognava trovarti al più presto. E il modo più facile per farlo è stato seguire lui – rispose Ignazio indicando l’ispettore Pepe – è semplice”. “È semplice… Ma Fabio non ti aveva detto dell’appuntamento di Lagonegro? Non dovevi essere lì?”. “Sei un pescatore, Totò. Non prendertela”. “Sono il tuo comandante. Spiegami”. “Per guardarti le spalle il modo migliore era guardare le spalle di questo cornuto con un ginocchio di meno”. “L’hai seguito fin qui dalla Sicilia?”. “Sì. È uno sbirro venduto. Anzi, è un delinquente che s’è messo a fare lo sbirro per convenienza. Facile capire che sarebbe stato troppo sicuro di sé. Così sicuro da non guardare mai nel suo specchietto retrovisore. E poi all’appuntamento di Lagonegro, solo tu potevi crederci. È certo come la morte che t’ha fatto telefonare a quel numero solo per capire da dove chiamavi e sorprenderti qui. Come infatti è stato”. “E questa gente che ti sei portato appresso chi è?”.
“Non ti offendere, Totò. Ma questo non deve interessarti. Sono amici miei. Lascia perdere. Ché ancora non siamo mica fuori dai guai, sai?”. “Che succede adesso?”. “Succede che ve la filate a Marsiglia, ma per l’unica strada sicura, quella che conosci meglio e quella dove è più difficile trovarti”. “Cioè?”. “Fabio è a Fiumicino con l’Anadro. Andate a Marsiglia via mare”. “Fabio? Fiumicino? È lontano da qui?”. “No, per fortuna no”. “È come cavolo hai fatto a far arrivare qua l’Anadro?”. “Te l’ho già detto. Quando Fabio m’ha detto che eri a Roma, ero certo che t’avrebbero trovato e raggiunto. Quarantott’ore per arrivare a Lagonegro non ti sembrano troppe? Per loro invece era il tempo sufficiente per farti sentire tranquillo, venire su e sorprenderti. Io sapevo che tu eri a Roma. Ma non sapevo dove. Ecco perché ho seguito Pepe. Mi ci ha portato lui da te. In tempo. Mentre Fabio due ore dopo la tua telefonata era già per mare con l’Anadro. Ma non sei contento di vedermi?”, finì di dire ridendo. “Cristo, Ignazio. Ma chi sei?”. “Uno che hai raccolto dal mare. Come Karim. Non lo sapevi?”. “Già”. “Bé, ora tirati su. Facciamola finita”. “Che vuoi fare?”, chiese l’ispettore Pepe. Ignazio si avvicinò ai tre assassini. “Uno in più, uno in meno… meglio tre in meno, per cominciare”. Appoggiò la pistola alla nuca del primo e sparò, uccidendolo all’istante. “Cazzo Ignazio, no!”, strillò Totò. “E invece sì. Totò questo non è per te. Ma credimi. È l’unica cosa sicura che si può fare in certe circostanze. E poi il mondo non ci perde niente. Anzi ci guadagna”. “Ma noi non siamo così”. “Io sono così”, disse Ignazio definitivamente. S’avvicinò agli altri due assassini stesi per terra e li giustiziò, senza fare una piega. Poi si avvicinò all’ispettore Pepe che tremava come una foglia. “Tu lo sai, vero ispettore? Si fa così. Se non muori oggi, domani moriremo tutti, no? Pure i figli di Totò”. “No i bambini no non li toccherei mai neanche per sba…”.
Un colpo sulla fronte dell’ispettore chiuse la faccenda. Pepe sbarrò gli occhi, sorpreso, scandalizzato. Con un foro sulla fronte e il sangue che gli riempiva la cicatrice come un fiume in un canyon. “Cristo Ignazio”. “Lo avrebbe fatto. Forse i suoi amici lo faranno lo stesso. Non è finita Totò. Ora andate. Ah Totò! Stai tranquillo per i ragazzi. Nessuno mi conosce e nessuno sospetta di me. Sarò il loro angelo custode”. “Tutto questo è assurdo”, mormorò Totò. “Una piccola deviazione”, rispose Ignazio guardandolo negli occhi. Totò non poteva che restare sgomento di fronte alla solita risposta di Ignazio, precisa e puntuale, come una rasoiata in faccia. Gli uomini di Ignazio presero a spostare i corpi. Li infilarono in grossi teli di plastica e li caricarono sulle loro auto. Decisero che li avrebbero bruciati lì, dentro le macchine. Il posto era desolato. Le fiamme sarebbero state notate solo molto tempo dopo la loro fuga. “Totò, Karim. Per voi è inutile restare qui. Andiamo”. “E Fabrizio?” “Fabrizio verrà con me. Non ti preoccupare per lui. Fra dieci minuti sarà come se a Roma non ci fossimo mai stati”. Ignazio accompagnò Totò e Karim dietro la collina, dove un suo amico li stava aspettando sul ciglio della strada con il motore acceso e i fari spenti. L’uomo scese e spiegò a Totò la direzione che avrebbe dovuto seguire. Non poteva sbagliare. Doveva solo raggiungere Fiumicino, poi sarebbe andato a sbattere direttamente contro il canale dove ormeggiano i pescherecci. Lì avrebbe trovato l’Anadro con Fabio e Yoosuf. “Ignazio, io non sarei mai riuscito a fare lo stesso per te”. “Non te l’avrei mai chiesto, Totò. Né me lo sarei mai aspettato”. “Non ucciderei per niente e nessuno. Neanche per me, probabilmente”. “Però per Karim sei stato disposto a morire. Questo vale molto di più”. “Grazie Ignazio”. “Piantala. Piuttosto, hai visto chi c’è morto lassù?”. “Pepe e quegli altri, no?”. “Ma che Pepe, chi se ne frega!”. “E allora?”. “Quel poeta che ti piace tanto, Pasolini. C’era scritto sulla lapide”. Karim si avvicinò a Totò e cominciò ad andare a memoria: “La viltà avvezza
a vedere morire nel modo più atroce gli altri, nella più strana indifferenza. Io muoio, ed anche questo mi nuoce”. Totò lo guardò sbalordito. “Non è possibile”, mormorò. Si infilarono in macchina e filarono via, verso il mare. Verso la salvezza. Il ginocchio gli faceva girare la testa. Ma l’ispettore Pepe era addestrato a controllare il dolore. Ed era caduto proprio sulla gamba destra. E nella tasca destra aveva il cellulare a portata di mano. Il suo cervello andava a mille. Sapeva di avere poco tempo e doveva usarlo bene. L’ultima telefonata che aveva fatto era diretta al cellulare di Creta, il suo uomo della centrale operativa. Mentre Ignazio e Totò parlavano, senza farsi notare, fingendo di premersi la ferita, Pepe premeva sulla tasca del pantalone, cercando il tasto delle chiamate. Quando Creta rispose riuscì a sentire poco. Ma udì abbastanza chiaramente Fiumicino, Anadro, peschereccio e poi gli spari. Capì al volo che per Pepe era finita. Saltò in macchina, tornò di volata in ufficio, distante comunque un buon quarto d’ora, e dalla centrale operativa chiamò la Polizia di Fiumicino. Lì in Sicilia avevano il più che fondato sospetto che il peschereccio Anadro stesse salpando con a bordo dei pericolosi assassini.
9
Una pioggia magra come infinite punture d’ago, come un sottile assalto di zanzare, precipitava sul vetro della macchina. Totò e Karim cercavano la strada per Fiumicino. Sempre dritto, più o meno, così gli era stato detto. Totò aveva aperto il finestrino per respirare una boccata d’aria. Il mare non era lontano. Lo sentiva. Lo aveva annusato anche prima, ma adesso il profumo che lo guidava s’era fatto più forte. All’improvviso un rombo immenso fu sulle loro teste. Furono investiti da un fascio di luce che pareva il giudizio universale. Però fu un attimo. Sopra di loro atterrava un aereo. Erano finiti su una strada che costeggiava la pista dell’aeroporto. Una fila di luci gialle e parallele indicava al bestione di ferro il suo approdo. Totò fermò l’auto. Restarono a vedere le ali piegarsi in cerca dell’assetto migliore e poi le ruote toccare terra, alzando una nuvoletta d’acqua. “Quanto daresti per prendere un aereo, volare via, senza dogane, senza paura, e lasciare tutto alle spalle, senza pensieri?”. “Tutto quello che ho. Cioè niente”, rise Karim. Non perdeva mai l’allegria, l’algerino. D’altra parte nelle ultime tre settimane era morto e resuscitato tre volte.
“Dì un po’. Ci credi nell’immortalità?”, gli chiese Totò. “Vorrei chiamare Rea. Vorrei sentirla prima di partire”. “La chiamerai da Marsiglia”. “Sarà preoccupata. Si starà chiedendo che fine abbiamo fatto. Ero sceso solo per accompagnarti alla macchina”. “Sei vivo. La chiamerai. Devi pensare a una cosa alla volta. Adesso la cosa più importante e raggiungere l’Anadro. Una volta in mare, Marsiglia è a un’onda. Ho voglia di accendermi una sigaretta sul ponte, sai? Di fumarmi una bella sigaretta nel buio del mare. Come quella notte che ci siamo incontrati”. “Chi eri prima di incontrarmi?”. “Te l’ha detto Ignazio. Un uomo a mare”. Trovare il canale dei pescherecci fu più facile di quanto potessero immaginare. Ci andarono a sbattere contro. Totò riconobbe subito il profilo dell’Anadro, ormeggiato davanti a un bar deserto. “Non pensavo che sarei mai stato qui, in questo canale, ad aspettare che arrivasse una specie di latitante”, disse Fabio a Totò. “Dillo a me. Novità?”. “Sì, qualcuna. Le vuoi davvero sapere?”. “E perché no?”. “Magari non ti piacciono”. “Magari il peggio già m’è cascato addosso. Cos’altro puoi dirmi che già non mi abbia fatto male?”. “Niente, hai ragione”. “Niente che non riguardi i bimbi. Stanno bene i bimbi?”. “Loro stanno bene. Chiedono di te. Hanno capito che non è il solito viaggio di lavoro. Ai bambini, più gli dici fesserie e più comprendono la verità. Sono molto più perspicaci e intelligenti di noi adulti”. “E che hanno capito, secondo te?”. “Tutto. Tutto quel che li riguarda. Ho parlato con Rosa prima di partire. Le ho chiesto se volesse venire con noi, per incontrarti. Per parlare con te. Mi ha detto che non c’era niente da dire. Lei ha fatto la sua scelta, Totò”. “Ha fatto bene. Non sono mai stato un uomo facile, lo sai. E comunque sono sempre stato molto diverso da lei. Alla fine, quando una persona non crede più in se stessa, credo che scelga di guardarsi allo specchio anziché accettare la sfida. E si
innamora di una persona uguale, per illudersi di essere completa. Sceglie di innamorarsi di se stessa”. “È solo una questione di pigrizia”, disse Fabio. “È solo una questione di pigrizia. – continuò Totò - Ma va bene. Sono chiacchiere a vuoto”. “E quindi che pensi di fare?”. “Con Rosa? Nulla. Spero soltanto che i ragazzi abbiano un po’ di salsedine nelle vene”. “Ce l’hanno. Più passa il tempo e più ti assomigliano”. “Dici?’. “Non aver paura di questo, Totò. E non ci pensare. Piuttosto, è tutto pronto. Possiamo continuare a chiacchierare dopo salpati, ti pare?”. “No. Tu resti qui, Fabio”. “Non esiste”. “Ascolta – disse con calma Totò indicando Karim – devi andare da una donna, a Roma, si chiama Rea. Ti ricordi di Rea?”. “Certo”. “Devi dirle che stiamo bene. Non spiegarle troppo. Dille che ci faremo sentire appena al sicuro. Poi convincila a seguirti e portala in un posto tranquillo. È importante, Fabio”. “E se non mi volesse seguire? Se non si fidasse?”. “Chiedile se ha ancora voglia di una granita di gelsi neri”, mormorò Karim. La faccia di Karim era scura come un pozzo senza fondo. Forse gli mancava Rea, forse era stanco. L’anima l’aveva svuotata come un bicchiere di thè. A sorsi piccoli e caldi s’era sorseggiato il passato, il presente e il futuro. Chissà se ci sarebbe stato futuro. La Francia, Marsiglia, sembrava sempre più lontana mano a mano che s’avvicinava. Le ultime ore erano state l’ennesima fiala di veleno distillato. Non conta molto sopravvivere con certi ricordi. Karim aveva persino studiato Levi all’università. Qui in Italia tutto gli era tornato alla memoria. Levi, Pirandello, Dante. Pasolini. Le cose importanti. Quelle che studi a scuola e quelle che ti passano gli amici. Di Levi l’aveva colpito molto il suicidio. Pensava che in fondo aver vissuto certe esperienze fosse sufficiente a viver meglio. Ci sono cose che non si superano mai. Ci si convive, al massimo, se ci si riesce. E non è detto. La vita non è una bella cosa. Non per tutti, per lo meno. Occorre fortuna e un discreto livello di incoscienza. O leggerezza. Ma non è
mica detto. La leggerezza non basta. Spesso il peso delle brutture ti piomba addosso senza scampo. È come per quei gabbiani leggeri ed eleganti che si riempiono le ali di petrolio. Quale leggerezza o istinto può salvarli? Certi ricordi sono così. Petrolio nella mente. E non c’è verso di curarsi o di sforzarsi per dimenticare. Si dimentica di giorno. Qualche volte non si sogna la notte. Ma è il risveglio quello che ti frega. Il passaggio dall’incoscienza al mattino porta sempre con sé i calcoli renali dei ricordi che affiorano. E si soffre maledettamente. Ed è duro obbligare la propria mente a percorsi obbligati per deviare dal mal di vivere. Karim aveva vissuto e visto molto in quei pochi giorni. Più di mille vite nere in poche ore. Avrebbe mai potuto dimenticare? Ne avrebbe parlato con Kamel. Chissà se lui era stato capace di cancellare quella barca rovesciata il giorno prima della sua partenza e i corpi dei bambini annegati. Comunque con lui ne avrebbe parlato. E non avrebbe dovuto spendere troppe parole per farsi capire. Le luci dell’Anadro riportarono Karim al ghiaccio di quella notte impestata di morte. Alle sue compagne di viaggio che alitavano sul naso freddo dei loro figli, incredule e disperate. Eppure dovevano metterlo nel conto che sarebbe potuto finire così. Era un rischio che costava la vita e l’avevano corso. Quali discariche esistenziali avevano abbandonato per correrlo? Karim non si capacitava. I suoi figli avrebbero avuto un altro destino, se mai fosse riuscito ad averne, se mai fosse arrivato a Marsiglia. E se avesse rincontrato Rea. Una voglia matta di sentire la sua voce gli corse fin dentro le orecchie, facendole fischiare. Era innamorato, adesso lo sapeva. Quella donna aveva il calore del ventre familiare, quello che ti appartiene senza soluzione di tempo. Era sua da sempre. E lui apparteneva a lei. Era questo l’amore. Poi guardò Totò e si convinse che l’eternità è solo un momento. Ma valeva la pena crederci, in quel momento. Totò invece s’era perso nel suo passato. E adesso finalmente avvertiva la superficie appena sopra la testa. Sentiva già l’aria riempirgli i polmoni. Quell’inebriante sensazione del gas che ci tiene in vita, l’ossigeno, che presto avrebbe ripreso a circolare con il sangue. Era finita. Finita per davvero. Un altro tempo lo attendeva. Cosa avrebbe fatto al suo ritorno? Niente. Avrebbe respirato seguendo i suoi ritmi. E costasse quel che doveva costare. Rosa lo avrebbe lasciato andare? Rosa non poteva chiedergli più nulla. E non per le menzogne, le meschinità, persino le volgarità. Ma solo perché l’estraneità s’era condensata sulla sua anima come una patina ghiacciata. Niente avrebbe potuto rimuoverla. Rosa non esisteva più. Rimaneva la mamma dei suoi figli. Diciamocela tutta: troppo poco.
Quanto era distante da ciò che provava Karim. Neanche un mese. Non era bastato un mese per conficcare Rea nel profondo del suo stomaco come una pianta robusta. E già sentiva le radici di una vita. Quasi come se avesse sempre vissuto per incontrarla. Banalità. La bellezza feroce delle banalità, quella che ci inchioda tutti, che ci mette di fronte all’annientamento di tanta parte di noi, che ci fa mettere al mondo i figli. La natura non accetta che si sottovalutino le banalità. Cosa c’è di più banale del nascere e morire? E, nel mezzo, procreare? Eppure sono momenti che tutti vivono come i più speciali. E come la nascita e la morte, l’amore non è forse il principio e la fine delle banalità? Tutto qui. Ovunque si possa posare lo sguardo, ciò che è banale colpisce più di tutto. E ciò che reputiamo diverso, originale, ciò che ci colpisce maggiormente, ciò che cerchiamo disperatamente ogni giorno - quasi ne andasse della nostra stessa vita per sconfiggere la ferocia della banalità, non è che voltare lo sguardo. Chiudere gli occhi di fronte a qualcosa che ci fa molta più paura: la verità delle leggi che ci regolano tutti: la banalità di quelle leggi immutabili e sovrastanti. Il sole che tramonta, il latrare di un cane, la morte di un bambino, le mosche sul suo cadavere, la pioggia, il riso di una donna che ha appena fatto l’amore, la crescita dei capelli, il colore di una roccia, il sapore di una caramella, le bugie raccontate a se stessi, la morbidezza di un gatto, il cancro ai polmoni, una radura di rovi, un rifiuto, un abbandono, un addio, una discarica abusiva, una vacanza al mare. Tutto ciò che è vero è vita. Tutto. E la verità non dipende da noi, ma da se stessa. Rea è vera. Bionda, calda, dolce, bella. Il suo odore speziato. Il suo fiato è tutto da respirare. Il suo collo morbido, che si offre pieno di fiducia alla bocca avida di Karim. La sua saliva che si mischia alla pelle dell’amante. Una miscela inebriante. Un profumo comune. Una strada da seguire. I suoi piedi, così forti e piccoli. Le sue caviglie solide. Le sue gambe lisce che accolgono e serrano. I suoi sospiri nell’amore, dritti nell’orecchio di Karim come promessa definitiva. Rea è vera e non è banale. Perché se due cuori impazziti che attraversano lo stesso temporale sono banali, allora tutto è finito e nulla ha più senso. Ma questa storia della banalità sta andando oltre. Sta andando verso quel precipizio dell’anima dove l’amore sprofonda in un mondo parallelo fatto di bisogno e dipendenza. La vita non chiede questo. Vuole incoscienza e semplicità, vuole la vera natura che ognuno porta dentro, senza compromessi.
L’Anadro perso nel buio del molo, con le luci accese sul ponte, sembrava un grazioso cucciolo alla catena. Rollava per invitare i suoi compagni di mare a tornare nel suo prato nero mar Mediterraneo. E beccheggiava strattonando le cime che lo tenevano al guinzaglio, prigioniero delle sue voglie indiscutibili: la sua natura. Salpare, navigare, affrontare le onde una dopo l’altra solo per il gusto di mettere un piede davanti all’altro. Ai marinai capita persino a terra. Un passo dopo l’altro e via, a vedere dove sbuca l’ultima curva, su quale paesaggio si poserà l’occhio. A mare non è diverso. A mare ogni orizzonte è unico. Cos’è quella sfumatura che annacqua la linea del pianeta? È caldo? È terra? È un temporale che si forma fra mille rivoli d’aria improvvisi e inaspettati? Non ci sono strumenti, non c’è tecnologia che abbia smorzato questa sensazione a metà fra l’ignoto e l’angoscia, la curiosità e l’orgoglio. Vedere oltre, spingersi avanti. Non è attitudine, è natura. La natura dell’Anadro era esattamente questa. Ma si sa, i più fedeli compagni del mondo animale assomigliano ai loro padroni. L’Anadro era nato con Totò. Di Totò portava addosso il sudore, la voce e in un certo modo le angosce. Con Totò aveva superato montagne d’acqua. Lo aveva preso sulle sue spalle per ridargli la rotta e portarlo a casa. Aveva condiviso il freddo infinito della notte e l’ultimo brivido dell’alba. Ma Totò aveva fatto altrettanto per l’Anadro. Ne curava le ferite, lo accarezzava nella calma piatta dell’estate e lo rinfrescava nell’afa. Quando la prua si lanciava verso il sole senza motivo ne assecondava il gioco per dargli soddisfazione, per mischiare gioia a lavoro e non fargli pesare troppo il carico di pesce e di responsabilità che si portava addosso. Poi con un piccolo colpo di mano sul timone, lo riconduceva verso la sua tana, quei due fari che apparivano a nord al termine della loro stanchezza comune. Una luce verde e una rossa. Partenza e arrivo. Arrivo e partenza. Dipende solo dai punti di vista. Adesso le luci erano schierate per una partenza importante. E l’Anadro, che fino ad allora sembrava scodinzolare per aver ritrovato il suo Totò, sentendo il peso dei suoi passi che si posavano sulle tavole, ebbe come un fremito. Come un lungo interminabile attimo di comprensione. Come l’inizio di una notte che si promette speciale, una di quelle notti da ricordare, che ti legano per sempre e che marcano un’epoca. Una vita, forse, non vale una notte. Ma una notte spesso può valere una vita intera.
Così Totò, Karim e l’Anadro, ognuno con il suo bagaglio di pensieri, si incrociavano di nuovo in un mare di nero mobile, neanche un mese dopo essersi incontrati per la prima volta. Marsiglia non era lontana. Era a solo a un’onda di distanza. Marsiglia era l’unico motivo adesso per cui valesse la pena affrontare le tempeste che ognuno di loro si portava appresso come un’infinita cima a mare. - Totò, sei sicuro che vuoi che non venga? - Abbiamo passato una vita fianco a fianco, Fabio. Te lo chiedo ancora una volta. Ho bisogno di te a terra. Fidati di me. La cima volò in acqua e l’Anadro fu libero. Con i motori avanti piano, le luci riflesse sul canale di Fiumicino esplodevano in mille scie saettanti che la prua lanciava lontano da sé. Oltre i fanali, il nulla. Oppure tutto, Marsiglia. “Accendi la radio, Karim. Abbassa il volume, solo un filo di voce”. “Che vuoi sentire?”. “Polka! Che devo sentire, Karim? Metti il secondo canale. Sono le previsioni del mare. Sulla sinistra c’è il pannello delle luci. Accendi la navigazione notturna. Sul ponte spegni tutto. Poi tira dentro i parabordi e torna qui. Ah, un’altra cosa. Sai fare il caffè?”. “Turco”. “Buono. Però mi sa che giù trovi solo una moca. Fallo italiano”. “Lo faccio come lo fa Rea”. “Sei innamorato, eh? Ma cosa pensi di fare? Ti raggiungerà?”. “Sì. Mi raggiungerà”. “E come lo sai?”. “Le ho sentito la pancia. Batteva come se avesse il cuore dentro”. “Riesci pure a essere romantico. Quanti uomini sono morti, Karim?”. “Contando la madre e il padre di Kamel?”. “Ci metti anche loro nel conto?”. “Per quel che mi riguarda, tutto è cominciato lì. Nulla succede per caso”. “E chi te l’ha detto che nulla succede per caso?”. “Rea”. “Siete davvero innamorati – diceva Totò correggendo appena il timone per centrare i fanali del porto – pensi che durerà?”.
“Quanto dura, Totò? Hai risposte per questo genere di domande?”. “Dura per sempre, a modo suo”. “Dura per sempre a modo suo, se questo per sempre è fatto di momenti che durano per sempre”. “E non è sempre così?”. “No. Non è sempre così. Rea non è stata l’unica donna della mia vita”. “E allora?”. “E allora non so. Non ricordo le altre donne della mia vita, se non come Karim alle prese con volti e corpi di donne”. “Tipico arabo”. “Ma che dici. Tipico solo di chi non s’è mai innamorato veramente”. “Allora qual è un momento che dura per sempre?”. “Ad esempio quando guardi gli occhi di Rea mentre fai l’amore e li scopri a un tratto come piccole fessure verdi e acquose che ti attraversano. Uno sguardo come se tu non fossi di questo mondo. Come se avvertissi la netta sensazione che il tuo volto negli occhi di Rea fosse circondato di colori e ombre che non appartengono alla realtà, ma a un luogo segreto a tutti, se non a lei”. “Minchia. E anche a te capita di vederla così quando fai l’amore?”. “Minchia! Soprattutto a me. Per questo so di che parla Rea quando i suoi occhi fanno l’amore con i miei”. “Sei sicuro di essere un naufrago, tu?”. “Perché?”. “Mah. Forse il mare non ti voleva proprio, con tutte le fesserie che spari”. “Quanto ti mancano ste fesserie, eh Totò?”. “Per niente”. “Vedrai”. Totò si voltò verso l’algerino, ficcandogli lo sguardo addosso. “Non esiste solo questo, Karim”. “E di cos’altro parliamo?”. “Ad esempio parliamo di questa barca. Degli uomini che ci lavorano sopra. Per loro la fatica non è amore. Ma hanno gli stessi occhi di Rea quando aspettano una tua parola, mentre il mare ci sputa in faccia l’inverno e le reti non ne vogliono sapere di venire a bordo. Ci sono state delle volte che ho dovuto decidere in fretta se tagliare le reti con il mese di tutti dentro. O la borsa o la vita. Poi per fortuna siamo sempre riusciti a salvare entrambe. Ma sai quante notti d’amore ci sono dentro quelle reti? Non ne hai
idea. E i loro occhi ti passano attraverso nella stessa identica maniera di Rea. E quando ti passano dentro, qualcosa ti cambia per forza”. “E perché?”. “Perché è come la gente ti guarda che ti fa vedere come sei”. “Non sembri molto sicuro di te stesso”. “Al contrario. Sono sicurissimo di come sono. Caso mai non sono sicuro se Totò va bene per tutti, se è sufficiente per tutti”. “Quanta responsabilità ti senti addosso”. “Responsabilità? Assomiglia un po’ a quello che dicevi per Rea”. “L’amore non è responsabilità”. “Sì che lo è. Sei certo che Rea sia al sicuro?”. “No”. “E se le accadesse qualcosa non ti sentiresti responsabile?”. “No. Però mi sentirei morire”. “Chissà. Forse hai ragione tu”. “Forse abbiamo ragione entrambi”. Proprio mentre la prua dell’Anadro si infilava in mezzo ai fanali del porto, puntando verso il mare aperto, un’auto della polizia arrivò sgommando sul molo deserto. Non c’era più Fabio, che era partito per recuperare Fabrizio e Rea, non c’era più l’Anadro, che ormai puntava dritto a nord-ovest, verso le Bocche di Bonifacio. Ma restava la schiuma delle eliche e la poppa del peschereccio, ben visibile dall’equipaggio della volante allertata da una strana chiamata proveniente da un commissariato di un paesetto siciliano. Però poteva essere un’occasione ghiotta per fare bella figura. E se la stavano facendo sfuggire come cretini. Ma gli sbirri, se hanno un minimo di talento, non ci stanno a pensare troppo su. Così chiamarono la Finanza. Avrebbero, caso mai, diviso il merito. Il funzionario di polizia che aspettava la promozione da un po’, salì a bordo della motovedetta soltanto venti minuti dopo che l’Anadro aveva doppiato l’imboccatura del porto. Non avevano scampo. Partirono a tutta velocità. Nel radar avevano quel peschereccio anomalo mai stato prima a Fiumicino, un peschereccio che solitamente batteva il Canale di Sicilia, la barca di un certo Totò Cibali, che già il nome era tutto un programma. Chissà, magari la promozione finalmente ci scappava. Si sa, a volte è dalle piccole cose, quelle inaspettate, che ne nascono di grandi. Non avevano scampo due volte.
Per il mondo che conta, l’Anadro non era altro che un piccolo puntino bianco, lampeggiante su uno schermo nero. Visto dall’alto sarebbe stato mica tanto diverso. Precipitando dal cielo, la vista si sarebbe concentrata su quel puntino bianco, e in mezzo a quel puntino le vite di due uomini alle prese con la vita. Poca roba, vista dall’alto. Ma ogni storia racchiude in sé la storia di tutti. Quando Karim tornò con il caffè le notizie non erano incoraggianti. “Ce li abbiamo dietro Karim”. “Chi?”. “La Finanza. Ha appena chiamato per radio”. “Sei sicuro che ce l’hanno con noi?”. “Sì. Hanno chiamato l’Anadro. Ci hanno ordinato di fermarci”. “E noi ci fermiamo?”. “Ci saranno sopra in venti minuti, Karim”. “Ma come sanno di noi?”. La radio gracchiava alt a ripetizione. “Non lo so. Forse puoi provare a nasconderti. Sottocoperta. Ci sono delle tavole che si alzano. Ma non so. È strano”. “Cosa è strano?”. “Che cerchino proprio l’Anadro. Qualcosa deve essere andato storto. Forse Pepe. Forse, non lo so”. La radio proprio non la voleva piantare di spernacchiare ordini troppo difficili da eseguire, a quel punto. “Non ti vedo molto convinto, Totò”. “Non sono abituato a pensare al mare come a una trappola”. “Io sì”. “Qualcuno però ti ci ha tirato fuori. Qualcuno che va per mare. Viriamo verso la prima spiaggia. Proverò a sbarcarti là”. “E quanto ci vuole?”. “Almeno mezz’ora”. Karim si precipitò fuori. “Dove diavolo vai?”. “A vedere dove stanno i soldati”. Karim si affacciò da poppa e li vide. Con le luci piantate verso di loro, anche se fuori portata per il momento. Gli erano addosso. Altro che venti minuti, o dieci. A
giudicare dalla velocità con la quale li rimontavano, gli sarebbero stati addosso in pochi minuti. Marsiglia era perduta. Almeno per il momento. Nel castello di prua, Totò aspettava che Karim gli facesse un segno o gli desse una voce. Quanto durano due minuti? O tre o qualche istante? In certe circostanze troppe. Nella mente di Totò si stampò una visione chiara e nitida. Per questo lasciò il timone per sporgersi e vedere il suo uomo a mare. Un rumore sordo e uno sbuffo bianco. Karim s’era lanciato in acqua a bordo di una piccola scialuppa con il fuoribordo, quello che l’equipaggio usava per governare le reti in alto mare. “Karim! Karim!!!”. Il peschereccio da una parte, la scialuppa dall’altra. La distanza in un baleno fu abbastanza per impedire alla voce di arrivare alle orecchie. E anche se ci fosse arrivata, cos’altro c’era da dire? Da una parte Karim, troppe volte raggiunto dai lacci nel suo viaggio verso Marsiglia, dopo tutti quei morti e dopo Rea. Dall’altra Totò, che sarebbe finito nei guai se lo avessero pescato con lui a bordo. Per Karim la scelta fu facile. Le rotte si dividevano lì. Era meglio per tutti. Era meglio così. Totò non sapeva cosa fare. La scialuppa ormai era lontana. Virare verso Karim e tentare di raccoglierlo? La motovedetta lo avrebbe raggiunto prima ancora che fosse riuscito ad avvicinarsi a quel maledetto algerino pazzo. Allora lasciarlo al suo destino? Con un mare che chissà dove diavolo se lo sarebbe portato? Rischiava la vita, Karim. Ma la rischiava già da un pezzo. E sempre con una volontà feroce. Totò ebbe voglia di una sigaretta per pensarci su. Ma non gli parve il momento. Così tornò al timone e fece l’unica cosa che gli sembrava, a questo punto, l’unica intelligente. Dirigersi dalla parte opposta di Karim e anche alla massima velocità. Magari con un po’ di fortuna avrebbe concesso a Karim quei minuti preziosi come il pane per raggiungere terra. Ma era lontana, troppo lontana, la terra che cercava Karim. Doveva tentare comunque. Virò. E aspettò. Gli istanti passavano come lunghi vuoti d’aria compressa nell’attesa. Eppure qualcosa era cambiato sul ponte di comando. Totò non capì subito. Poi s’accorse che la radio aveva smesso di piagnucolare. Si sporse di nuovo per guardare cosa stesse accadendo. La motovedetta aveva cambiato rotta, non lo seguiva più. Puntava dritto verso Karim. Le guardie non avevano mangiato la foglia e s’erano messe alla caccia della scialuppa. Probabilmente avevano pensato che il pesce più piccolo sarebbe stato più
difficile da catturare se fosse stato lasciato passare dalla rete. Non erano stupidi quei poliziotti. Non sono stupidi i poliziotti quando ce l’hanno con te. È quando ce l’hanno con chi non hanno molta voglia di pescare che sembrano totalmente, irrimediabilmente stupidi. Per una volta, però avrebbero potuto fare uno strappo alla regola. Totò fermò i motori, prese il binocolo e corse a poppa a guardare. La motovedetta risaliva velocissima sulla scia della scialuppa. Ancora pochi secondi e la avrebbero ripresa. Ancora pochi secondi e l’avrebbero doppiata verso prua tagliandogli la strada. Ma quei secondi non arrivavano mai e la motovedetta non accennava a correggere la rotta per bloccargli la fuga. La testa di Karim era appena un’ombra sopra il motore fuoribordo. Ancora pochi secondi e sarebbe stato troppo tardi. Totò trattenne il fiato e mormorò solo un piccolo incredibile, stupefatto “no”. No no no. La motovedetta aveva investito la scialuppa, sfiorandola appena diranno vedrai - sfiorandola appena a una velocità folle. Un attimo. La scialuppa inghiottita. La testa di Karim sparita, non c’era più. Solo un piccolo vortice di schiuma bianca. Totò restò con gli occhi puntati nel nero, mentre le lenti del binocolo lentamente si annebbiavano. Scrutava il mare alla ricerca di un segno, un movimento, foss’anche impercettibile, un braccio, una tavola con una sagoma aggrappata, appena un’anomalia nel disegno agitato delle onde prodotte dalla motovedetta, che intanto moderava la velocità e si apprestava a virare per tornare sul luogo del delitto. Una boa, la testa sarebbe apparsa come una boa. Totò cercava un segno, per lo meno la scialuppa, una schifosa macchia che gli indicasse dove puntare gli occhi. “No. No!”. Totò tornò di corsa al timone, mise motori avanti tutta e si diresse verso il faro che la motovedetta nel frattempo aveva puntato tra le onde del Tirreno centrale, mar Mediterraneo. Mare da sempre affamato di buoni uomini e da qualche anno ben nutrito da un forte pensiero debole. L’alba spuntò con due uomini al fianco di Totò. Era appena passata una notte di mille domande senza uno straccio di risposta: ché Totò non aveva voglia di parlare, solo di fumare una sigaretta dopo l’altra. E c’erano quegli uomini che lo guardavano accendere le sue cicche con un profondo disprezzo negli occhi. E c’erano quei marinai falsi, quei soldati a guardia di coste, ma non di memorie, che si avvicinavano alle sue cose, al parapetto, a dei fogli da compilare, alla vita di Totò, che per buon parte era
rimasta sotto milioni di tonnellate d’acqua. Dove sarà Karim? In quale bolla d’acqua avrà spento il suo ultimo fiato? Era tutto così buffo. E se non avesse fatto quella piccola deviazione? Oggi Karim sarebbe vivo. Forse. E Rea? Rea sarebbe infelice. E domani, sarà felice Rea? Quando saprà che Karim non l’aspetterà a Marsiglia? Che mare è questo? Totò gli aveva sottratto Karim salvandolo quella notte senza pubblico nel Mediterraneo nero. E però non c’era riuscito, la verità era questa. Una parentesi, una piccola parentesi era stata la sua deviazione. Un mese di vita a un giovane algerino, un mese durante il quale era morto non si sa quante volte, e altrettante vite aveva trovato. Forse un senso ce l’aveva tutto questo. Forse. Ma non bastava a Totò. Non era morto Karim. Era morta un’esistenza portandosi a fondo anche un poco la sua. Pensare che tutto sarebbe tornato come prima era impossibile. E non certo per i guai a cui sarebbe andato incontro. Era già accaduto tutto e nulla di peggio sarebbe potuto accadere. Adesso era il tempo della ricostruzione, per Totò. Ma la testa e i pensieri gli ballavano in testa in saliscendi vertiginosi.
10
Ogni risacca ha una storia da raccontare. Ogni tempesta alla fine si placa. Lascia qualche rottame qua e là. Anche i relitti più malconci restano levigati, scavati, puliti dalla furia del mare. Relitti nuovi fiammanti. Così nella vita di Totò. Così nella vita di tutti. Resta quel che si è fatto. E quel che si è fatto parla per sé, con parole trasparenti, come il fondo del mare delle calette di Itaca, dove è più facile che nasca la vita, soprattutto d’estate. Sono fatti banali, visti da lontano. Quelle banalità che sono il tema ricorrente della vita. Sia che si sprema il proprio tempo o che ci si lasci spremere. La forza della banalità è dirompente, è l’origine di tutto, il ricorrere mai stanco, il drammatico mai nuovo. Basta osservare un fortunale da lontano, magari seduti su un comodo divano o su una sedia di paglia accoccolata su un balcone, il balcone di nonno Totò ad esempio.
Lampi, bagliori da lontano, una brezza che viene dal mare, una leggera inquietudine che lascia immaginare le onde immense, una vaga sensazione romantica, lo scatenarsi della natura: banalità. Ma se sei Totò e ti ritrovi nel cuore della tempesta, tutto ciò che è normale scuotimento di mare e terra diventa vita di tempo vivo. Mutevole, dirompente, sconvolgente. Anche una voce, uno sguardo, un piccolo accadimento come un ragazzo che va a prendere un caffé durante la navigazione diventa un cambio traumatico di stagione, se torna con un pugno di essere umani sputati dal mare. La tempesta è così. È tempo vivo. Poi arriva la bonaccia, che non porta nulla di buono, se non lo scorrere delle giornate che ti separano dalla nuova brezza che riempirà le vele, ancora una volta. Tre anni Totò li passò così. Da una cella all’altra. Trasferito un po’ qua e un po’ là perché non rischiasse la vita, in attesa che la situazione per i tribunali d’Italia si chiarisse. Non c’erano prove contro di lui. Neanche uno straccio di prova certa che avesse partecipato all’omicidio di un ispettore di Polizia, un suo compaesano, trovato carbonizzato la stessa notte che era stato arrestato per complicità nell’immigrazione clandestina. Immigrazione clandestina che non esisteva, perché dell’immigrato non c’era alcuna traccia. Questo fatto dell’immigrazione lo aveva sostenuto Totò. Ma il cadavere di Karim non era mai stato ripescato. Karim era stato bravo nella morte. In più, quell’ispettore, Pepe, già puzzava al suo capo. Il fatto che fosse stato ritrovato insieme ai cadaveri di pericolosi assassini, che avesse fatto la loro stessa fine, che il maresciallo Creta che aveva telefonato alla Polizia di Fiumicino non avesse mai fornito spiegazioni esaurienti sull’argomento e dopo qualche mese fosse scomparso senza lasciare traccia, tutto ciò stuzzicava enormemente l’appetito dei pubblici ministeri che si occuparono del caso. Provarono a fare collegamenti, a immaginare congetture. Qualcuno imbroccò anche la direzione giusta. Ma prove non ce n’erano. E in ogni caso, questo Totò Cibali sembrava tutt’altro che uno spietato killer capace di liquidare un ex tagliatore di teste legato al Tuscania in odor di mafia e tre manovali dell’omicidio trovati morti assieme a lui. Così alla fine, Totò si ritrovò fuori. Le inchieste - giurarono e spergiurano sarebbero continuate. Nel frattempo la vita sarebbe andata avanti grazie alle sue verità. Banali. Ma vere. Non fantasie processuali. I suoi figli gli scrivevano e lo chiamavano, spesso. Ignazio vegliava su di loro, con discrezione. Comunque, quella storia aveva fatto troppo clamore e non c’era alcun interesse a sollevare nuovi vespai attorno a don Paolo, che morto un ispettore pensava a
farne un altro. E poi chi era morto? Un poliziotto. Uno sbirro venduto. Nessuno da vendicare. Nessuno per cui dannarsi. Rosa era sparita. Lentamente. Non dalla vita di Totò, ma dai suoi pensieri. E quando la mattina preparava il caffé per i suoi compagni di cella, non ci pensava più. Per lei non desiderava nulla. Né che fosse felice, né che fosse infelice. Rosa nella tempesta non c’era, era rimasta a riva, a guardare da lontano, ancorata a una vecchia bitta, al sicuro, al riparo, immobile. Era rimasta indietro. E il capitolo s’era chiuso. La vita invece s’era aperta, per Totò. Nel silenzio di quei mille giorni una voce gli ripeteva sempre lo stesso ritornello. Così quando gli dissero di preparare la sacca, che sarebbe uscito l’indomani, non aveva più dubbi. Mille giorni sono abbastanza per mettere a punto ogni cosa. La luce della città che si offriva alla sua nuova vita lo abbagliò, come avviene sempre quando si esce di galera in una giornata di sole. Nella sacca aveva tutti i ritagli di giornali che aveva collezionato in questi tre anni. Insieme ai commenti più disgustosi, c’erano anche articoli così pietosi che facevano una tale rabbia a Totò da accartocciarli ogni giorno e ogni giorno ristirarli per conservarne la memoria. I giornali ne fanno una questione politica. Per lui era diverso. Tre cadaveri sulla spiaggia di Lampedusa, un barcone alla deriva al largo di Pachino, un bollettino di guerra dal Canale di Sicilia. E lui che era stato cartaginese, romano, normanno, arabo e spagnolo, e neanche lo sapeva o lo immaginava, o se lo sapeva non gli dava così conto, ragionava solo di uomini persi in mare, inghiottiti dal suo mondo d’acqua salata che gli aveva dato da mangiare fino ad allora. Un mondo buono che ogni tanto richiedeva i suoi tributi. Ma non questa stupida rincorsa a negare una Nazione, annegandola sapendo di annegarla. La Nazione del Mediterraneo. La più antica, la più nobile: fertile un tempo come civiltà galleggiante, che si offriva a sponde e rimbalzava conoscenze, esperienze e linguaggi. Con i suoi conflitti, certamente. Ma a guardar bene, le corse delle navi che hanno incrociato il Mediterraneo, ci hanno dato molto di più di quanto ci abbiano privato. Nella sua lunga latitanza dalla vita, tre anni di prigione, Totò aveva letto molto: non solo libri, come detto. Ma anche le vite di quegli uomini che come lui erano chiusi in una parentesi ingiusta: immigrati, ma anche spacciatori, ladri, drogati, schiuma di mare che qualche tempesta aveva portato fin qui. E leggeva le lettere dei loro figli, delle mogli e dei genitori. Erano fogli scritti in caratteri incomprensibili, spesso, ma eleganti. I suoi compagni di reclusione gliene spiegavano il significato: tempo ne
avevano quanto ne volevano. E quando di tempo se ne ha da buttare, se non si è stupidi si fa in modo di regalarne molto a se stessi. Aveva imparato molte cose. A leggere meglio dentro di sé, ad esempio. E a leggere l’arabo. Ora finalmente sapeva esattamente cosa voleva. Il fatto è che lo aveva sempre saputo, ma era come bloccato. Paralizzato in una sorta di presente immobile che, gira e volta, restava un passato. Fuori dalla piccola porta del carcere, a bordo di un’auto, lo aspettava Fabrizio. Dopo tre anni, u caruseddu s’era fatto uomo. Una barba morbida s’era finalmente impossessato delle sue guance, ma soprattutto s’erano cristallizzati in lui tutti quegli avvenimenti violenti e anche la responsabilità che s’era accollato sulle spalle una volta tornato al paese. Non dimenticare, ma allo stesso tempo non parlarne più. Digerire e defecare il male. Guardare con altri occhi tutto ciò che, attorno alla sua giovane esistenza, ruotava all’inverso. All’inizio era stato difficile capire i motivi che avevano spinto il suo capitano a buttare la sua vita a mare per cercarne una nuova. Ma poi, piano piano, ogni cosa aveva preso il suo posto e il profilo di Karim gli era entrato nell’anima come un volto antico e allo stesso tempo familiare. Karim era un marinaio, o per lo meno lo era il giorno che lo avevano ripescato. Poi, da marinaio che era, nella mente di Fabrizio, Karim divenne finalmente un uomo, un essere umano o meglio ancora un suo simile, in tutto e per tutto. Totò non sembrava più così difficile da capire. Quel che aveva fatto era catalogabile in uno di quei rari gesti che un uomo può definire virile. Autentico. Totò aveva fatto quello che doveva fare un uomo. Per quanto potesse sembrare folle. Per tre anni, Fabrizio viaggiò per scoprire il suo paese. Guadagnava e partiva. Guadagnava e partiva. Voleva vedere, capire. E qualche volta gli era capitato di fermarsi davanti a una lapide che ricordava qualche ragazzo come lui. In una grande città del nord, le strade ne erano piene. “Al martire dell’eterna libertà”. Che follia può aver spinto – pensava fra sé – un ragazzo a buttare il meglio della propria vita in una pozza di sangue, fra brandelli di carne e sudiciume e mosche. E in un brivido riconosceva la forza benefica di quella follia, la saggezza più antica. Decidere da uomo e da uomo giocarsi persino la vita, per non voler essere più un essere incompiuto. Non c’è pazzia in questo. Non c’è neanche un briciolo di stupidità. Sfortuna, al massimo. Ché certamente a nessuno piace morire a vent’anni, neanche per il più bello degli ideali o per rivendicare la propria dignità. Se ne farebbe volentieri a meno, di morire. Ma vivere da morto, non si può. È contro natura.
Raccontava quei suoi viaggi a Totò, nelle lettere che gli scriveva. E gli raccontava anche del mare, ma poco a dir il vero. Sapeva che se a Totò qualcosa mancava da starne male, era il mare. E i suoi figli. Ma dei suoi figli, Totò aveva piacere a sentirne parlare, perché sapeva che la loro relazione era solo un discorso sospeso. Del mare invece no. Preferiva non parlarne perché quello era un argomento diverso. Quasi ogni notte si addormentava sognando di essere sul ponte dell’Anadro o sul molo, a fumare e guardare l’onda. Il mare era la sua voce interiore, il suo stesso fiato. Non credeva gli potesse mancare tanto, fino a quando gli mancò. Le cose vanno così. Il paese era tale e quale a come l’aveva lasciato. Al balcone di Rosa gettò a malapena uno sguardo. Quella casa non gli apparteneva più. Non ne sentiva il richiamo. Non fosse per i bambini ovviamente. Ma era diverso. I bambini erano la casa e non viceversa. Quando Fabrizio si fermò sotto la casa di Rosa non sentì niente. U caruseddu non gli aveva detto che Rosa era andata via. Non ce n’era bisogno. Fra uomini queste cose non servono, si capiscono al volo. Se Rosa fosse stata lì ad aspettarlo, Totò lo avrebbe saputo. Ma tanto, non lo voleva. Scese dall’auto e li vide. Erano lì affacciati. Rimasero a guardarsi a lungo senza dire una parola. Lui, Luigi e Daniela. Un sorriso lungo quanto il sole. Dietro ai suoi bambini, che intanto erano diventati ragazzi, la sagoma di Rea. E in braccio all’amica, un bambino. Piccolo e scuro. Con un ciuffo di capelli neri come la notte e il profilo di uomo perso in mare solo una parentesi fa. Totò capì subito. Dunque il sangue di Karim non era partito. Sono quei miracoli così semplici, così banali. L’amore. Quella banalità immensa che è tutto quel che ci occorre. Dunque eccoli. I suoi figli e Karim, che era tornato in vita reincarnandosi in vita. E poi c’era il suo progetto. Il suo disegno che era un’altra ribellione. Tutta la sua vita era stata segnata dalla ribellione, solo che prima Totò la scambiava per attitudine o malmosto. Aveva preso coscienza. La sua prima fuga per andare a pesca. La sua ferma decisione di andare per mare. I suoi rifiuti alla vita da studente modello, da professionista asciutto, da marito senza croste di sale. A salire, fino alla deviazione sulla spiaggia della Silusa. Karim e Rea. Il poliziotto dalla faccia di serpente. Non era uno scarto dal binario, non aveva avuto niente di casuale. Era l’umanità sua che si affacciava. Non ce n’era. Niente di diverso. Era quello che era diventato, lo era sempre stato. Il destino degli uomini si compie sempre. Se ancora non siamo quello che dobbiamo è solo questione di tempo. Ma la riga si traccia solo alla
fine. E spesso la fine non è quando smettiamo di respirare. Finché il sangue gira, gira e fa bollire l’esistenza di tutti o di qualcuno. Basta vedere Karim. Ora toccava a Totò riprendere il filo di un discorso sospeso. E il suo pensiero andò immediatamente all’Anadro II e a quello che ancora gli restava da fare per essere pronto a riprendere il mare. Totò si era inventato una nuova attività. Sarebbe diventato uno spacciatore, ma spacciatore di una merce assai più preziosa e lucrativa di qualsiasi tipo di droga. Quanto prendono quei mafiosi per trasportare disperati? Lui l’avrebbe fatto a prezzi stracciati. Tanto quanto bastava per mantenere l’Anadro, l’equipaggio e i suoi figli. Avrebbe legalizzato gli sbarchi a modo suo, da solo. Come fa un uomo. Avrebbe spacciato uomini e non per denaro. E come guadagno, ci avrebbe guadagnato un posto pulito nella sua coscienza. E se non è poco, forse è tutto.
Ancora.
“Spinga adesso, spinga forte”. Spingere. Forte. Per cosa? Tu vuoi la mia spinta? Sei sicuro di volerla? Te la darò. E poi? Dovrò dartela per sempre? Ce la farò? Se ce la faccio oggi, ce la farò. Sono sola. Sola. Con te che sei già del mare. Il mare? Cosa vado a pensare. Adesso che sono sopraffatta dal dolore e penso di morire e non farcela. Il mare t’ha ficcato nelle mie carni. E adesso ti aspetta per trascinarti nella sua corrente, in cui presto o tardi ti ritroverai a respirare, a tratti, ma solo. Vorrei dirtelo. Te lo dirò. Appena il dolore mi lascerà sopravvivere. Fai in fretta, se puoi. Tuo padre era l'uomo. E adesso sei tu. E questa fine non è che l'inizio.