Gran torino

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Ernesto Ferrero

Storia di una passione italiana dal 1861


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Prefazione

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a vita è una infaticabile e imbattibile costruttrice di trame romanzesche infinitamente superiori a quelle prodotte dalla più scatenata fantasia di uno scrittore. Si può dire che la storia di ogni famiglia è un romanzo, in cui quello che noi chiamiamo destino si diverte a combinare incontri imprevedibili, colpi di scena, drammi, cadute, riscatti, rare gioie. Quello che potrebbe sembrare incredibile o inverosimile accade tranquillamente. Anche la storia della mia famiglia non fa eccezione. Sono grato a Samuele Marini di avermi chiesto di raccontarla perché sono entrato in quella fase della vita in cui si fa pressante il desiderio di sapere da dove veniamo e, come i salmoni, cerchiamo di risalire verso le sorgenti. Ci interessano e ci appassionano quelle stesse radici famigliari che da giovani abbiamo trascurato, perché non il passato ci interessava, ma il futuro immediato, la nostra conquista del mondo che sembrava a portata di mano. Così non abbiamo sentito il bisogno di raccogliere racconti e testimonianze quando ancora era possibile. Poi arriva il momento in cui ci accorgiamo di sapere poco o nulla perfino dei nostri nonni. Oltre di loro comincia il buio fitto di una notte secolare. Non ci resta che interrogare vecchie fotografie un po’ stinte

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Prefazione

per cercare di cogliere sui volti dei nostri antenati qualcosa del loro carattere, del loro modo di porsi nei confronti del mondo, della vita buona o cattiva che hanno avuto. La storia dei Ferrero, produttori di vermouth, distillati, liquori e sciroppi coincide con quella della recente storia d’Italia, che centocinquant’anni fa ha vissuto una svolta radicale con l’Unità del Paese. Si era creato quasi dal nulla un vasto mercato, e non è certo un caso che il mio bisnonno Riccardo Ferrero abbia aperto la sua azienda nel 1861, e proprio a Torino, fresca capitale del nuovo regno. Ricostruirne le vicende significa anche inserirle nel più ampio contesto di un Paese che cerca di inventare se stesso, e così facendo dà non poche prove di ingegnosità, coraggio, lungimiranza, passione imprenditoriale. “Gran Torino” è il nome che Riccardo Ferrero aveva dato al suo vermouth. Ed è anche il nome che la Ford nel 1972 ha dato a un suo modello coupé, che ha tanta parte nel bellissimo film di Clint Eastwood (2008). La Ford voleva rendere omaggio a Torino, la Detroit italiana, così come quello di Riccardo era anche un gesto d’amore per la città che lo aveva accolto e che vantava una tradizione già gloriosa in quelle che oggi si chiamano le “culture materiali”, certo non meno importanti delle altre: il vino, i liquori, il cioccolato e appunto il vermouth. Torino era un nome che si poteva, e si può spendere con orgoglio. L’abitudine dell’aperitivo era un’importante occasione di incontro. Nei tanti caffè cittadini del nuovo regno si combinavano affari, si discuteva di politica, ci si scambiavano notizie e pettegolezzi: erano il cuore pulsante della vita cittadina, tanto che si racconta che ogni mattina re Carlo Alberto chiedesse ai suoi dignitari di cosa vi si parlava. Nei caffè si poteva cogliere l’aria del tempo, gli umori, le tensioni. Il vermouth

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faceva parte di un importante rito sociale, era una presenza amica, la simpatica consuetudine in cui ritrovarsi. Ăˆ qui che la passione di tanti produttori di vermouth, sempre in gara tra di loro, diventa una storia collettiva, una foto di gruppo in cui ci possiamo riconoscere con piacere, e un po’ di nostalgia.

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1. Le origini

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uesta storia comincia là dove uno non se lo aspetta, da un piccolo paese di mezza montagna. Sta ancorato sulla collina più alta delle Langhe piemontesi, che di lassù prendono a scendere a balzi e salti verso la vicina Liguria. Nelle giornate di vento si può scorgere una striscia d’azzurro tremolante; con un po’ di immaginazione si può persino sentir il profumo del mare, mescolato a quello intenso dei boschi di castagno, regno di volpi, cinghiali, tassi, caprioli e scoiattoli. Il paese si chiama Mombarcaro, il monte delle barche, forse perché venivano qui a prendere gli alberi per costruirle; o perché quel grumo di case evoca la forma della chiglia di un vascello depositato lassù, a quasi novecento metri d’altezza, da un misterioso cataclisma: un’arca di Noè in pietra grigia, chiusa su se stessa per meglio resistere al gelo degli inverni e al peso della neve. “…Era un paese bizzarramente foggiato a barca antica fissato sulla cresta di una eccelsa collina come su un maroso d’un mare procelloso fermato d’un colpo. Una ragnatela di serali vapori avvolgeva, vagolando, le sue case spente, ora impigliandosi al campanile ora sfumante nel cielo iscurentesi. La collina alla base era immensa, larga e mammellosa, digradante in potenti sbalzi al fondovalle già notturno nelle macchie e negli anfratti”. Così lo descrive ne Il partigiano Johnny Beppe Fenoglio, che qui

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aveva fatto le sue prime prove di guerrigliero, “ultimo passero sul ramo” della Resistenza nel tragico inverno del 1944, quando gli inglesi avevano invitato i ribelli italiani a sospendere l’attività, tanto sarebbero poi arrivati loro in primavera. Lui no, lo spilungone dal passo cavallino non aveva nascosto le armi, non era tornato a casa. Era rimasto lassù, da solo. Gli abitanti di Mombarcaro erano contadini, boscaioli, pastori, e buoi e pecore più numerosi degli uomini. Le colline, chiazzate di prati e di folti boschi scoscesi, sono severe, quasi metafisiche. I pendii sono ripidi, finiscono in forre, rittani, gole ombrose. Nessuno si è mai azzardato a coltivare vigne, da queste parti, perché bisognerebbe fare troppa strada per portare a vendere le uve. Ad alzare lo sguardo, in lontananza si vede la chiostra delle Alpi innevate, ed è l’apparizione di un mondo diverso e remoto: lo spettacolo aveva destato grida di stupore alle truppe di Napoleone che nell’aprile 1796 la battaglia aveva trascinato sulle alture della vicina Montezemolo. Tra le colline e le montagne sta, invisibile, l’agognata pianura. Mombarcaro è un paese di silenzi e solitudine, di rapporti umani duri, essenziali, scanditi da poche parole. Non ne occorrono molte per indicare i riti del lavoro, la fatica, il ciclo della vita e della morte. Per secoli l’Alta Langa è rimasta una regione abbandonata a se stessa, quasi desertica, al punto che il re Ottone attraversandola nel 970 con il suo esercito s’era stupito di non potervi imporre nemmeno un tributo. Fenoglio ha raccontato la vecchia Langa della miseria e della malora, omerica nella ruvida schiettezza dei suoi abitanti. Qui fino alla seconda guerra mondiale i figli dei contadini, ancora bambini, andavano a lavorare sotto padrone dai mezzadri. La paga era costituita dal vitto e da una camicia, ma era pur sempre una bocca di meno che a casa

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bisognava sfamare. Venivano chiamati schiavandàri: erano il moderno equivalente degli schiavi antichi. Poi la Langa è cambiata, è diventata ricca e anzi opulenta, la Langa del vino, dei tartufi, delle multinazionali del cioccolato, dei tessuti, della stampa. Nel Medioevo la signoria di Mombarcaro era passata dai marchesi del Monferrato a quelli di Ceva, di Clavesana e Saluzzo; poi ai Del Carretto, ai Falletti di Alba, agli spagnoli. Al dominio spagnolo allude anche un affresco conservato nella cappella di San Rocco in cui si racconta un miracolo di San Giacomo. Qui facevano sosta i pellegrini diretti alla lontanissima Santiago di Compostela. Poi nel Cinquecento erano arrivati i Savoia, e da allora il piccolo borgo dimenticato ne ha seguito le fortune. Le signorie passavano, ma il destino dei suoi abitanti era sempre lo stesso. Rassegnarsi, accontentarsi, resistere, o provare a cambiare il proprio destino. Guerra o pace, non faceva molta differenza. C’erano stagioni che anche la polenta era un lusso, come sta scritto nell’inchiesta governativa condotta dal senatore Jacini e conclusa nel 1885. Carne tre volte l’anno, quando andava bene. Il pane di frumento se lo potevano permettere solo i ricchi. Gli altri campavano di castagne, ghiande, orzo, miglio, segale. Un po’ di forza veniva dal vino. Un avanzo di minestra la mattina, pane, cipolle, una patata la sera, le erbe quelle che si trovano nei campi, nei fossi, lungo i sentieri. Tutto sommato se la cavavano meglio le bestie. Quelle bisognava trattarle il meglio che si poteva, perché producessero quello che si chiede da loro. Anche tra le bestie c’è chi sta peggio, e sono i cani, che però continuano a servire fedelmente anche a trattarli male. Ferrero è un cognome molto diffuso, in Piemonte, perché sta a indicare una corporazione popolosa, quella dei fabbri, in dialetto i fré. Sono gli operai del ferro, gli artigiani metallurghi di cui uno Stato militare

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come quello dei Savoia aveva bisogno per costruire le armi, gli strumenti e i macchinari che servivano alla sua politica espansionistica (a questa manodopera qualificata e competente attingerà a piene mani la nascente industria automobilistica, a fine Ottocento). Lo strano ducato a cavallo delle Alpi, compresso tra vicini molto più potenti e addirittura ingombranti, nel Cinquecento aveva deciso di farsi italiano, di portare la sua capitale da Chambéry a Torino, e scommettere sull’Italia. In Francia non si sarebbe certo potuto espandere ai danni di uno Stato già forte e centralizzato sin dal Quattrocento. Oltre le Alpi invece la miriade di staterelli in cui era frammentata l’Italia lasciava campo alle speranze di una dinastia ambiziosa e spregiudicata. Anche se molti piemontesi campavano lavorando il ferro, non si ricordano fabbri, in famiglia. Certo non lo era Riccardo Ferrero. Non so se fosse il primo a scendere dalle colline o se altri lo avevano preceduto, facilitandogli il cammino. Intere generazioni buttano grosse pietre nel fiume affinchè un giorno qualcuno più fortunato possa costruirvi un ponte e passare sull’altra sponda, e darsi un destino diverso. Posso immaginare che i Ferrero siano scesi nelle ricche città di pianura per vendervi le loro bestie, il loro latte e i loro formaggi; o che avessero già avviato un commercio di vini. Quello che sappiamo per certo è che Riccardo, nato nel 1838, fonda un’azienda vinicola tutta sua e sposa una Teresa Rigat di Fossano, di sei anni più giovane, nel 1861, proprio nell’anno in cui il Regno di Sardegna diventa Regno d’Italia per le astuzie manovriere del “gran tessitore”, il conte di Cavour, e per il successo della spedizione di Giuseppe Garibaldi, che contro ogni verosimiglianza con mille uomini riesce a impadronirsi del Regno delle Due Sicilie. Teresa esce da una famiglia di produttori e commercianti di formaggi. Fossano è una città importante, crocevia di traffici e commerci, do-

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Le origini

Riccardo Ferrero, fondatore di Casa Ferrero, 1890

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minata dall’imponente castello-fortezza già sede dei principi d’Acaia. Ha palazzi medioevali e rinascimentali, e una vista incantevole sulle vicine colline delle Langhe, che arrivano a lambirla. Teresa, chiamata dai parenti Magna Gin, la zia Gin, è una donna solida e cordiale, dagli occhi un po’ sporgenti. Figlia unica, abituata sin da bambina ad occuparsi degli affari di famiglia, ha senso pratico e un intuito infallibile per valutare gli individui. Le basta un’occhiata per pesarne qualità e difetti. Le piace scherzare, motti di spirito e giochi di parole le riescono con facilità, anche se non aveva studiato perché non stava scritto da nessuna parte che i libri giovassero all’educazione delle fanciulle. Sa di matematiche come un esperto contabile, pur non avendo studiato nemmeno quelle. Ha la rapidità di calcolo e la freddezza di un giocatore di carte, anche se detesta ogni tipo di gioco. Diceva di aver visto troppi padri di famiglia rovinarsi per un vizio così stupido. I conti del futuro marito li terrà lei. A sera, dopo averli controllati per bene tre volte, annunciava il saldo con due sole formule: “Andoma bin” o “Andoma nen bin”, andiamo bene o non andiamo bene. Il non andar bene comprendeva anche il pareggio tra attivo e passivo. Diceva che stare fermi significa andare indietro. Questo lo aveva detto anche Goethe, dall’alto della sua gran sapienza, ma Magna Gin non poteva saperlo. Ebbe modo di scoprire l’esistenza del poeta tedesco solo molti anni più tardi, leggendo il programma di sala di un’opera dedicata alle temerarie imprese del dottor Faust. Riccardo Ferrero era un bell’uomo, di portamento distinto, e viso dai tratti armoniosi. Biondo di capelli, fronte spaziosa, naso sottile e ben disegnato, occhi penetranti, lo si sarebbe detto un normanno, un nordico. Il corpo non portava traccia della vita grama dei suoi antenati. Del normanno aveva certe rudi abitudini, conservate sino ai quarant’anni con l’ammirazione dei parenti, come quella di lavarsi all’aria

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aperta anche nella brutta stagione, sfregandosi vigorosamente spalle e torace. Metteva nella pulizia della persona e degli abiti uno scrupolo maniacale. Giudicava gli individui, a cominciare dai commercianti, dalla quantità e qualità delle loro abluzioni: il rispetto degli altri cominciava dal rispetto di sé, diceva. Riusciva ad attraversare strade piene di fango senza macchiare un paio di certi eleganti stivali che metteva nelle grandi occasioni. Solo lui conosceva la fatica che aveva fatto per arrivare a comprarseli. A Fossano qualcuno aveva cominciato a chiamarlo “il Parigino”, per via dei modi signorili e del fatto che parlasse un francese di straordinaria proprietà. Pare avesse lavorato per qualche tempo a Nizza. Erano in molti, quando arrivava l’inverno, ad andare a lavorare in Francia, anche fino a Marsiglia, nelle raffinerie di zucchero, nelle fabbriche di sapone e salnitro; o come muratori. Che cosa vi avesse fatto Riccardo, e perché se ne fosse tornato sulle colline, lui non diceva e nessuno osava domandare. Dalle poche parole che gli si potevano carpire, si capiva che non aveva nessuna stima dei francesi. Li chiamava blaguers: venditori di vento, di fandonie. Al futuro suocero aveva detto che i francesi sono le scimmie d’Europa, per via delle loro moine, del loro lezioso atteggiarsi: attori che devono sempre sentirsi protagonisti dei drammi che si rappresentano sulla Terra, anche se non ne sono all’altezza. Il padre Rigat era rimasto piacevolmente impressionato da quella acuta e sintetica percezione di un intero popolo. Anche lui la pensava così. L’immagine delle scimmie gli piaceva moltissimo.

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Torino, Piazza Vittorio Veneto vista dalla riva opposta del fiume Po, 1906

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2. La capitale del Regno d’Italia

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in da quando era stato accolto in casa, vista la serietà delle sue intenzioni, Riccardo Ferrero parlava di Torino come della sua méta naturale, la sua Gerusalemme Celeste. Parlava di quello che vi avrebbe fatto con una sicurezza contagiosa. Ora che diventava la capitale del nuovo Regno, Torino era la città del futuro, il luogo di tutte le potenzialità e le promesse. Una capitale significava anzitutto il moltiplicarsi della casta di dirigenti, funzionari, impiegati e professionisti in genere. Tutta gente dagli stipendi sicuri e garantiti, non legata ai capricci della natura, alle alluvioni e alla siccità, alle carestie e alle malattie. La città si sarebbe ingrandita rapidamente, avrebbe attirato capitali, iniziative, imprese. E lui, l’uomo che aveva dimestichezza soprattutto con gli animali, parlava delle macchine, soprattutto quelle che si producono in Inghilterra e in Germania, veri prodigi della tecnica, come degli strumenti che avrebbero impresso a ogni tipo di produzione una rapidità mai vista prima. Le macchine hanno il gran pregio di non fermarsi mai. Non mangiano, non bevono, non hanno mai sonno. Una sera annunciò agli suoceri Rigat che i secoli della lentezza a misura dell’uomo erano finiti. Il futuro si sarebbe svolto per intero sotto il segno della velocità. Gli suoceri lo guardavano perplessi e anche un po’ preoccupati. Il mondo come era sempre stato non gli pareva poi tanto male,

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malgrado tutto. Che bisogno c’era di tutta questa velocità? Comunque erano contenti che l’uomo fosse innamorato del futuro. A Nizza Riccardo aveva letto il Memoriale di Sant’Elena che Napoleone aveva dettato al suo segretario Las Cases. Erano due grossi volumi rilegati in marocchino rosso, se li era fatti prestare da un amico perché costavano troppo. Ebbene, l’Imperatore lo aveva scritto a chiare lettere: il vero tesoro che i borghesi dovevano mettere a frutto, se volevano conquistare il mondo come lui aveva fatto, era proprio il Tempo. Chi è padrone del Tempo è padrone di tutto. Ogni minuto sprecato è una risorsa che si perde per sempre; e inversamente, ogni minuto bene impiegato è un investimento destinato a produrre risultati formidabili. Anche per questo non perse tempo a chiedere la mano di Teresa. L’aveva vista alla cassa del negozio di famiglia: sapeva essere cordiale pur continuando a tenere le giuste distanze con tutti, e non si faceva incantare da clienti, fornitori o lavoranti che credevano di saperla lunga e gliela cantavano soave. Aveva mani da signora, non da contadina, ma forti, agili, precise: bellissime. Con quelle mani era manifestamente fatta per reggere un’impresa, una famiglia. Insieme lei e Riccardo avrebbero conquistato Torino, e la nuova Italia. Queste e altre cose Riccardo Ferrero raccontava al futuro suocero e alla prosperosa fanciulla che aveva chiesto in moglie, accalorandosi, lui di solito parco di parole: perfino loquace, per una volta. Quel che non dissero le sue parole lo espresse il colore rosato che avevano preso le guance solitamente pallide: non amava il sole, e anche per casa, ove le buone creanze lo consentissero, amava portare larghi panama da esploratore. D’altra parte era quello il sogno di tanti italiani: partire per lontani continenti favolosi, abbandonarsi all’avventura. Il futuro suocero, a sua volta, guardò la figlia di sottecchi, e quando le

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vide fare – non vista- cenni di consenso al racconto dei piani ambiziosi che il fidanzato enunciava, sentì con sollievo che le impressioni che aveva provato a caldo coincidevano con quelle della figlia che gli era più cara della sua stessa vita, perché gli sembrava che fino ad allora il destino non l’avesse compensata come meritava. Al termine del pranzo di fidanzamento giunse a lasciar intendere che avrebbe aiutato il futuro genero a trovare i capitali di cui aveva bisogno per iniziare le sue attività. Quanto a Teresa, molti anni dopo confessò che la prima volta che l’aveva visto in negozio aveva creduto che lui fosse un principe in incognito, venuto a cercare la futura sposa tra la gente del popolo per le sue virtù, non per il censo. Lei non pensava affatto di essere Cenerentola (diceva ridendo che aveva piedi piuttosto grossi), né avrebbe mai scommesso un soldo, nemmeno in sogno, sul fatto che un principe avrebbe scelto proprio lei. Ma quella era la storia che si raccontava nell’unico romanzo che avesse letto. Principe o non principe, non aveva mai pensato che l’uomo di Mombarcaro fosse un blagueur come tanti francesi, o gli italiani che li scimmiottavano. E lei non si sbagliava mai, a pesare le persone. Fu così che Riccardo si congedò per sempre dalle alte colline. Ma nelle notti di pianura si sorprendeva a cercare oltre gli scuri ben chiusi delle finestre il rombo che il vento faceva scollinando oltre le case grigie del paese. Allora l’accanirsi del vento, i suoi sordi ululati erano la rappresentazione sonora delle battaglie che lo attendevano, e che lui avrebbe vinto; tanto che poteva accadere che in piena notte si intabarrasse a dovere e uscisse fuori a sfidarlo a muso duro, quel vento che si precipitava tra i larici e i noccioli verso il mare lontano, a dirgli che non gli faceva paura, che non sarebbe riuscito a buttarlo giù. Ora invece i silenzi della pianura addormentata gli mettevano apprensione, come se si

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fosse perso in contrade sconosciute, senza il conforto di una bussola, o delle stelle. Meglio un nemico rumoroso che un nemico silenzioso. Lui Torino se l’era studiata per bene, dalla stazione ferroviaria ai tram a cavalli, dalla piazza d’Armi ai gasometri, dai mercati popolari alle vie del centro, con i loro bei palazzi nobiliari. Lo aveva capito presto: a Torino niente è come sembra. Le apparenze sono quelle della misura, dell’ordine, della regolarità. Così dice l’impianto geometrico della città, le strade diritte, interminabili, i quartieri disposti a scacchiera. I palazzi sembrano reggimenti che sfilano ordinatamente in parata, ma dentro, nei cortili, nelle stanze che si intravedono benissimo anche dalla via, è un rincorrersi di colonne, di riccioli, di volte sontuose, di ornamenti ricercati che annunciano lo stile floreale e il déco. Razionali come sono, i torinesi amano stupire e stupirsi: proprio perché hanno i piedi ben piantati per terra, non disdegnano gli incantamenti, i sogni, le favole. Ci giocano come fa il domatore con gli animali feroci, ma sanno che il meraviglioso e lo stupefacente non vanno esibiti, ma semmai riservati agli sguardi di pochi intenditori. Nella città degli angoli retti abbondano curve morbide e sinuose, rotondità che ti abbracciano, ti avvolgono, invitano all’abbandono. Dell’attrazione che i torinesi provano per l’esotico e il fantastico è testimonianza il Museo Egizio, il secondo per importanza al mondo, dopo quello del Cairo; o le decorazioni orientaleggianti di Palazzo Reale, con le sue lacche cinesi. Approdato in una notte di luna piena in piazza Castello, alla vista della cupola della Sindone illuminata dall’interno, Stendhal aveva confessato che gli pareva di essere in una misteriosa città indocinese. I sabaudi sapevano per istinto che tra fantasia e geometria, tra piacere estetico e ragion pratica, tra tecnica e arte non c’è opposizione, ma semmai corre un nesso profondo. E poiché sono curiosi, sperimentatori inguaribili,

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Torino, Piazza Castello, inizi ‘900

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non c’era campo in cui non applicassero il loro talento di inventori. Di Torino si dice, e si ripete spesso, che è una città laboratorio. Come ogni luogo comune, anche questo contiene un’ampia porzione di verità. La rivoluzione industriale aveva offerto ai piemontesi le macchine per liberare la loro creatività, che è nutrita di metodo, disciplina, dunque di pazienza sperimentale; e loro nei secoli hanno imparato a distillarne anche troppa, ma senza mai rassegnarsi, o ridursi all’inazione o al servilismo. Al contrario: le difficoltà li spronano, quasi li esaltano. A fine Ottocento si lanciano nella costruzione di carrozze a motore. Ogni settimana nascono nuove aziende in fiera concorrenza tra di loro: la Diatto, la Ceirano… Alla fine saranno superate da una delle ultime arrivate, la Fabbrica Italiana Automobili Torino, la FIAT di Giovanni Agnelli e di una combriccola di suoi amici, che si impone sui concorrenti perché meglio di loro ha saputo mettere a frutto il modello produttivo americano di Ford. Le vetture a motore sono rumorosissime, hanno freni che funzionano poco e male, sollevano al loro passaggio nuvole di polvere che provocano le proteste sdegnate dei cittadini; dopo ogni viaggio abbisognano di una manutenzione lunga e costosa, e si possono usare solo con il bel tempo. Sono un capriccio di scarsa utilità pratica, oltrechè pericoloso per sé e per gli altri, eppure sembra che i ricchi non possano farne a meno. La produzione aumenta con il passare di ogni mese. Non è la sola follia dei tempi moderni. Dai campi di periferia si sollevano lentamente e maestosamente i palloni aerostatici, e osano andare verso le montagne, addirittura sfidarle. Su trabiccoli di tela e legno fanno le loro prime prove arditi aviatori, incuranti dei disastri che falciano i più ardimentosi di loro. Sfidano la morte sorridendo, elegantissimi nei loro caschi di cuoio, nelle sciarpe di seta bianca, negli occhialoni che coprono i loro volti. A Torino nasceranno la moda, il

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cinema con le ambiziose produzioni di un altro provinciale, Giovanni Pastrone; più tardi la radio, la televisione. La società dei rudi soldati produce sogni per tutti. Anche quando è avanti negli anni e non vuole più muoversi di casa, Riccardo chiederà ai figli di portarlo al cinema, a vedere uno dei film di cui tanto si parla. Lui lo ha sempre saputo: alle diavolerie della modernità non ci sarebbe mai stata fine. L’estro fantastico dei torinesi si applica anche ai piaceri del palato. Sembra che sia la stessa corte reale a incoraggiarli a tanto, come a premiarli della loro fedeltà, della vita disciplinata che conducono. A corte approdano viaggiatori che come i Re Magi recano in dono delizie esotiche che conquistano al primo assaggio. Le sovrane venute dalla Francia, le Madame Reali, spesso protagoniste di lunghe reggenze, sono le più aperte a gusti nuovi e raffinati, che sposano trionfalmente la già forte passione per l’esotico, il meraviglioso, lo stupefacente. È Maria Giovanna di Savoia-Nemours a rilasciare nel 1678 la prima patente per la produzione di cioccolato a tale Gio Battista Ari. Lo chiamano “brodo indiano” perché viene servito liquido e fumante in tazza, e si ottiene macinando le “mandorle” (cioè le fave) che arrivano dal Nuovo Mondo. La corte di Spagna ne ha custodito gelosamente il segreto per un secolo, ma adesso la bevanda irresistibile conquista l’Europa e furoreggia nei salotti aristocratici, diventa un simbolo di stato. Al punto che alla fine del Seicento esisteva presso la corte un “Ufficio della cioccolata”, destinato a regolamentare una produzione che nel secolo seguente poteva arrivare ai 350 chilogrammi giornalieri, esportati in tutta Europa. Richiestissimi, all’inizio dell’Ottocento, i Diablotin, antenati degli attuali cioccolatini, in forma di grosse pastiglie: dolcetti la cui paternità è addirittura attribuita al Diavolo, a significare la loro irresistibile bontà. Erano molto apprezzati anche dal clero.

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Torino, Palazzo Reale, inizi ‘900

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Presto il cacao proveniente dalle Americhe non basta a far fronte alle richieste. Diventa troppo caro, anche a seguito del blocco continentale proclamato da Napoleone per danneggiare i commerci degli Inglesi. Come al solito, la necessità aguzza l’ingegno. Qualcuno scopre che alle fave americane si possono mescolare le nocciole della Langa e del Monferrato, opportunamente macinate. Dalle nozze obbligate nasce il cioccolato gianduja nelle sue varie incarnazioni, giù giù sino alla pronipote Nutella. Un nuovo, benefico aroma si spande beatamente nei portici della città, nei cortili e nelle piazze, in corrispondenza delle botteghe artigianali che lavorano il cioccolato. Un profumo incantatore che ha sentori di vaniglia, mandorle e nocciole tostate, caffè, cacao, con venature di frutta e di miele. Se ne dichiarano estasiati consumatori illustri, scrittori di passaggio o residenziali, come Carlo Goldoni, Alexandre Dumas, Friedrich Nietzsche (che vivendo in centro aveva a disposizione un ampio ventaglio di scelte). Quella che si radunava a Torino, facendone una capitale del gusto, era una vera internazionale del cioccolato, riconosciuta dagli stessi francesi. Tra i maestri cioccolatieri alcuni venivano dalla vicina Svizzera, come il ticinese Giò Martino Bianchini, inventore di una macchina a forza idraulica “pel tritolamento del cacao, zucchero e droghe”, o dalle valli valdesi, come Pierre Paul Caffarelli e Michele Talmone, poi Michel Prochet. A Torino avevano fatto il loro tirocinio, prima di tornare in patria, anche François Caillier e Philippe Suchard. C’è un’altra specialità in cui rifulge il talento sperimentale e combinatorio dei torinesi, ed è il bicerìn, letteralmente in dialetto il “bicchierino”, la cui formula risale addirittura al 1763. È una ghiotta miscela di caffè, cioccolato e crema di latte, particolarmente energetica, da consumarsi preferibilmente nel piccolo locale storico che ne vide la nascita, accanto al

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santuario della Consolata. Il conte di Cavour non cominciava le sue operose giornate senza il prediletto bicerìn. Nel negozio dove si serve il bicerìn era entrato con aria furtiva anche Riccardo, la prima volta che era arrivato a Torino sul calessino di un suo amico che commerciava cavalli dalle parti di Carrù; e aveva sentito il bisogno di togliersi il cappello, entrando, come per rispetto alla sacralità del luogo. Poi, così riconfortato dagli strapazzi del viaggio, la città l’aveva girata tutta, almeno quella che a lui interessava, la Torino dei suoi futuri clienti, i bravi borghesi, i benestanti, gli abbienti. Lo incantavano i negozi, i caffè eleganti, le vetrine imbandite come per una festa continua. Stava a guardarli per intere mezze ore, con la tensione amorosa con cui un cacciatore inquadra la preda nel mirino del suo fucile pregustandone il possesso. Ammirava gli specchi e gli stucchi dorati, le boiseries, la profusione di marmi tirati a cera (rosso del Var, onice di Piemonte, verde delle Alpi, giallo Imperiale…), i velluti rossi, le luci sapienti, le decorazioni floreali in bronzo, l’eleganza civettuola dei tavolini, la cordiale sveltezza delle commesse e delle cameriere, i baffi solenni degli uomini che servivano ai banchi con un’aria di segreta complicità, consapevoli di officiare un rito. C’erano almeno novanta caffè, in città: luoghi d’incontro ideali, salotti politici e letterari, autentiche bomboniere, piccoli teatri goldoniani dove recitavano disinvolte commedie mondane, si scambiavano pettegolezzi, si trattavano affari, si architettavano burle, si scrivevano epigrammi mordaci. Ai tavolini di marmo Rattazzi, Lamarmora, D’Azeglio e Cavour intrecciavano trame politiche, combinavano governi o li facevano cadere. “Che si dice al Florio?” chiedeva ogni mattina il Re ai suoi dignitari. Lo diceva già Napoleone: l’opinione pubblica è quel tale mostro imprevedibile che un governante deve tenere da conto.

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Caffè Al Bicerin, Piazza della Consolata a Torino. Aperto nel 1763, questo locale storico prende il nome dalla sua creazione più famosa il Bicerin, preparato ancora oggi secondo la formula originale.

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Caffè Baratti & Milano, Piazza Castello a Torino. Aperto nel 1880, è uno dei locali storici di maggior prestigio del nostro Paese.

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3. Gran Torino

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ur essendo la capitale di uno Stato che viene considerato austero, di spirito nordico, tutto assorbito dai propri doveri, Torino è dunque una città “favorevole ai piaceri”, come l’avrebbe definita agli inizi del Novecento Guido Gozzano. Nelle sale lussuose del Caffè Baratti & Milano il poeta spia maliziosamente le signore e signorine che si ingozzano di piccole paste prelibate. Vorrebbe esser lui l’oggetto di quella golosità infantile, vorrebbe baciarle tutte: la vorace che solleva la veletta quel tanto che basta a divorare in fretta la preda, l’incerta che non si decide a scegliere, la cogitabonda riflessiva, la sognatrice estasiata che degusta “crema e cioccolatte” come “superliquefatte/parole di D’Annunzio”. O quell’altra alle prese con un cannolo di cui “con bell’arte/ sugge la punta estrema:/invano! Ché la crema/esce dall’altra parte”. Si sa: fantasticare è meglio che guardare, e nel riserbo dei torinesi c’è anche una punta di raffinato voyeurismo. Nei negozi eleganti, nei caffè il lusso diventa spettacolo, e Riccardo si sente vagamente imbarazzato di fronte a quella che sembra un’ostentazione di ricchezza, ma capisce che fa parte del gioco, e si sforza di memorizzare ogni dettaglio. Anzi, si è munito di un quadernetto nero, e annota lì sopra tutto quello che gli potrà tornare utile, tanti piccoli dettagli, ma è proprio la somma dei particolari a decidere il risultato

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finale. Questo lo ha sempre saputo. Ogni riempirsi e alzarsi di bicchierini, ogni brindisi gli sembra un rito di affiliazione alla società segreta di coloro cioè che sanno gustare con garbo, con misura, che diamine, le cose buone della vita. Lo ipnotizzano i colori che scintillano nelle bottiglie di quello che a lui sembra purissimo cristallo: le opalescenze del gin e dell’anisette, l’ambrato dei cognac, il rosa ciliegino del cherry brandy, i verdi elegantissimi delle chartreuses, in cui frati alchimisti avevano depositato una sapienza secolare, anzi millenaria. Al cavallante di Carrù, che lo tirava per la giacchetta perché non voleva perdere tempo, smanioso com’era di fare l’esperienza delle donne pubbliche della capitale, aveva confidato che a sorseggiare attentamente una chartreuse uno poteva anche trovare la fede, se non ce l’aveva, perché nel liquido verzolino stava tutto intero il campionario delle erbe in cui si materializza la genialità della Creazione. I liquori lo hanno sempre appassionato perchè sono complessi, hanno un’anima multipla: proprio come gli uomini. Decifrare l’anima di un vino in fondo è più facile. Il vino è un solista, il liquore è un’orchestra. In breve tempo Riccardo s’era sentito in grado di discernere in quel concerto di aromi e sapori la personalità di ogni singola erba. Si compiaceva di avere un fiuto e un gusto di speciale sensibilità, come se li avesse affinati proprio la fame di tante generazioni di contadini. Li chiamava Fratello Naso e Sorella Papilla, lui che di fratelli non ne aveva. Il giorno che in un caffè elegante della città di Alba, concluso un affare che riteneva vantaggioso, aveva degustato il suo primo vermouth, ne aveva ricavato una tale esaltazione che, da impiedi come si ritrovava, per il contraccolpo si era dovuto sedere sulla prima sedia che aveva trovato. Si faceva girare coscienziosamente per la bocca quel liquido

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Gran Torino

Buono a sorpresa vermouth Gran Torino, 1947

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scuro (che colore dargli? per quanto si sforzasse, non trovava la parola adatta) e si sentiva sollevare dolcemente, e smaterializzare, trasmigrare su una sorta di nuvola. È questo che voglio, pensò confusamente: offrire a me stesso e agli altri questi rari piaceri. Gli sembrava anche che questo fosse un modo per non tradire la terra dei padri, che pure non era stata generosa con loro. Le erbe che avevano ceduto all’alcool i propri segreti, dispensandoli a molti, erano le stesse che lui aveva incontrato mille volte scendendo e salendo le colline. Semplicemente, non le aveva sapute vedere, non le aveva riconosciute: perché questo ci accade ogni giorno, vediamo soltanto ciò che già sappiamo, e siamo poco disposti ad accettare tutto quello che è diverso da noi, che non fa già parte del bagaglio delle nostre esperienze. Eppure quanti sapori e aromi si possono sprigionare combinando foglie, fiori, semi, radici, bulbi, cortecce di piante diverse tra loro. C’era di che riempire un’intera vita. Che altro fanno i profumieri? E i poeti, i quali combinano in modi sempre diversi quelle erbe rare che sono le parole? E i musicisti, cui bastano sette note per imbandire le melodie più disparate? E i pittori, che accostano i milioni di colori che la Natura mette a disposizione di chiunque abbia intendimento d’arte? Da quando viveva a Torino gli capitava di pensare con tenerezza struggente all’infinita gamma di verdi che la Langa si inventa ogni primavera. L’idea di riuscire a combinare in sé le qualità del poeta, del musico e del pittore dava a Riccardo una tale esaltazione e un tal senso di pienezza che gli sembrava non esistessero parole in grado di esprimerle. Ben sistemato nel talamo nuziale, una notte Riccardo annunciò con voce quasi commossa alla giovane moglie che aveva trovato un nome per il vermouth che aveva in mente di produrre una volta che si fosse installato con pieno successo nella capitale del nuovo Regno, secon-

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Gran Torino

Con questa etichetta, il vermouth Gran Torino vince le medaglie d’oro alle Esposizioni Internazionali di Edimburgo 1897, Buenos Aires 1898, Parigi e Vienna 1900

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do una ricetta tutta sua, inimitabile e ovviamente segreta: - Lo chiamerò Gran Torino – disse con fare solenne. La sposa sorrise nel buio. Conosceva l’entusiasmo che la città non ancora conquistata ispirava al coniuge. In famiglia ci scherzavano sopra. Lo chiamavano Turinèt, anche se era di buona stazza, e i diminutivi non facevano per lui. - Bien joué, mon petit. Très bien joué – disse stringendogli forte la mano. Ci teneva a fargli sapere che un po’ di francese lo parlava anche lei, che si sentiva all’altezza di quei sogni. Quanto a Riccardo, che non aveva conosciuto la madre, sentirsi chiamare mon petit dava al cuore un dolce struggimento. Discuteva sempre con lei delle cose da fare, le piccole come le grandi, e quando si sentiva dire mon petit capiva di essere sulla strada giusta.

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4. La prima liquoreria

I

nvidio a Riccardo e ai suoi contemporanei il sentire pianure e città come il grande spazio in cui lanciarsi, non diversamente dai pionieri della lontana America, di cui non conoscevano ancora l’epopea. Qui non c’erano genti da sottomettere, ma industrie, commerci da sviluppare, opportunità da cogliere, piaceri da concedersi anche per dare un senso ai guadagni appena accumulati. Con l’abolizione dei dazi, che rendevano difficile vendere le proprie merci fuori casa, genti che parlavano linguaggi tanto diversi sembravano in grado di intendersi benissimo, anche se l’italiano era parlato da un’esigua minoranza. Prosperavano le filande, le tessiture, le officine, le fonderie, le distillerie. I torrenti e i fiumi che scendevano dalle montagne offrivano ai macchinari la loro energia. Interi quartieri erano segnati dagli obelischi delle ciminiere e dai fumi neri che emettevano in continuazione, quasi con insolenza. In pochi anni i 2.000 chilometri di ferrovie di cui disponeva il nuovo Stato divennero 7.000, e ogni mese continuavano a crescere. Con i treni le merci potevano arrivare dappertutto. Le fiere diventavano esposizioni, i banchetti smontabili dei mercati padiglioni ambiziosi in cui mettere in mostra i prodigi della modernità. Gli orgogliosi espositori tornavano a casa con medaglie, coppe, attestati. L’unità d’Italia si è appena fortunosamente realizzata a marzo, che già a settembre si

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tiene a Firenze la prima Esposizione alla Stazione Leopolda. Vi partecipano 8.500 ditte, tra cui numerose imprese alimentari. Ogni industria ha i suoi ingegnosi pionieri. In Barolo, un piccolo centro di quella stessa Langa da cui veniva Riccardo, la produzione su larga scala del più illustre dei vini piemontesi viene avviata dai Marchesi di Barolo, tanto meritevoli nella beneficenza quanto innovativi nell’imprenditoria. Un altro piemontese, Francesco Cirio, aveva imparato a Parigi le tecniche di conservazione degli alimenti attraverso la sterilizzazione: le verdure, pulite, spezzettate e chiuse ermeticamente in bottiglie di vetro, venivano immerse in grandi recipienti pieni di acqua in ebollizione. Così Cirio ha l’idea di conservare le verdure estive per rivenderle in inverno, e per cominciare l’attività gli bastano una stanza e due caldaie. Dopo essersi cimentato con successo con i piselli in scatola, passa a pomodori, funghi, carciofi, pesce, frutta. Grazie al treno è in grado di far arrivare i suoi prodotti a Vienna in due giorni. Con le scatolette fa fortuna anche Giuseppe Lancia (padre di Vincenzo, futuro pioniere dell’automobile): rifornisce di carne l’esercito piemontese che parte per la guerra di Crimea; poi tocca al salumiere Citterio di Rho. Intanto il lombardo Francesco Peroni aveva aperto nel 1846 la sua prima birreria a Vigevano, prima di trasferirsi a Roma; sulle sue orme si lancia anche il varesino Angelo Poretti. A Milano è in produzione dal 1845 l’amaro Fernet Branca, la cui formula segreta prevede più di quaranta erbe. In Sicilia, Vincenzo Florio aveva aperto nel 1834 a Marsala una casa vinicola destinata a grande fortuna: aveva cominciato anche lui con una bottega di spezie e droghe vicino al porto di Palermo. In Toscana sono i nobili a perfezionare le nuove tecniche enologiche: i Frescobaldi, i Ricasoli, gli Antinori. La ricetta dell’autentico panettone alla milanese viene trionfalmente ospitata in un manuale di successo, Il memoriale della cuoca di Giuseppe Sorbiatti dedicato alle nuove

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casalinghe. A Siena una versione bianca del tradizionale panforte viene dedicata alla Regina Margherita, molto amata perché sa fare bene il difficile mestiere di sovrana. Nel 1879 a Torre Annunziata, Giuseppe Voiello inizia la produzione dei suoi pregiati “maccaroni”. Lunga è la strada che Riccardo deve percorrere, arrivato nella città dei suoi sogni. A prendere il passo costante delle salite è abituato. Sa pagare gli scotti dell’inesperienza, sa che una clientela si costruisce con pazienza, che non bisogna scoraggiarsi nei momenti difficili. La sua prima liquoreria sta dalle parti di Via Nizza, la prima grande arteria cittadina che aveva incontrato arrivando in calesse. Ogni successivo avvicinamento al centro è lento e faticato, ma lui ha bene in mente dove vuole arrivare. Intanto cura i suoi prodotti, li affina, studia. Tiene sul comodino il Manuale del liquorista, lo conosce a memoria, ma non gli basta, perché nulla sostituisce l’esperienza diretta. Assume informazioni su liquoristi e cantinieri della concorrenza. Ha bisogno di collaboratori esperti, è un investimento su cui non bisogna risparmiare. Su questo è d’accordo anche Teresa. D’altra parte Riccardo non ha vizi, a parte la predilezione per i sigari che appestano la casa; ma lei è arrivata ad accettarli come parte integrante degli odori maschili e famigliari. Con i lavoranti il nuovo imprenditore discute di formule e ricette, di come migliorarle, proporre nuovi gusti. Le bottiglie della concorrenza stanno lì sui tavoli massicci della stanza che funge da laboratorio, come soldati in parata, e lui se le studia per bene. Gli assaggi sono lunghi e pensosi, danno alla testa, anche a non voler tracannare i liquidi. Quella del vermouth è già una lunga storia. A Riccardo fa piacere che la tradizione dei vini aromatizzati sia antica. È commosso dalla bellezza della continuità, dai saperi che si tramandano nei secoli, e ognuno vi aggiunge qualcosa di suo.

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Certe storie gliele aveva raccontate il vecchio parroco della Madonna delle Grazie, che era un pozzo di scienza e non si capiva perché lo avessero relegato lassù: forse perché diceva sempre quello che pensava, anche ai superiori. Per esempio l’uso dei Greci antichi di mescolare al vino miele e farina, ma soprattutto erbe e piante aromatiche. Già Ippocrate, nel V secolo prima di Cristo, aveva ottenuto un elisir facendo macerare nel vino le punte fiorite dell’assenzio e le foglie del dittamo. Proprio per via dell’assenzio quel suo vino veniva chiamato Vinum Absinthiatum. Anche Plinio il Vecchio, vissuto molti secoli dopo, conosceva le virtù degli infusi di assenzio, timo, rosmarino, sedano e mirto macerati nel vino. Altre spezie magiche erano arrivate dall’Oriente: cannella, noce moscata, pepe, chiodi di garofano, mirra, vaniglia, zenzero. Nientemeno che dalla Cordigliera delle Ande veniva la corteccia della china, con i suoi benefici influssi digestivi. In Piemonte le montagne offrivano ai liquoristi piante intensamente aromatiche come la genziana, l’achillea, il genepy, la stessa artemisia. Dell’achillea il vecchio parroco diceva che si chiamava così perché Achille l’aveva usata per curare le ferite dei suoi soldati. I contadini la utilizzano ancora adesso, e i contadini la sanno più lunga di medici e farmacisti. Era capitato che nella prima metà del Seicento un erborista piemontese aveva fatto omaggio al re di Baviera d’una sua ricetta speciale, vino trattato con l’assenzio. E poiché in tedesco l’assenzio si dice “vermuth”, lo squisito prodotto diventava un Wermuth Wein: aveva trovato il suo nome, che in Francia si sarebbe lievemente ingentilito in Wermouth. Ci vogliono ancora cento anni prima che la ricetta approdi a Torino. È il 1786 quando Antonio Benedetto Carpano, un garzone di bottega che arriva da un paesino del biellese e lavorava alla bottega del signor Marendazzo in Piazza Castello, allora chiamata Piazza della fiera, si in-

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Le radici di genziana hanno eccezionali proprietĂ digestive grazie ai loro oli essenziali

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testardisce a produrre un vino aromatizzato con erbe e spezie, secondo una ricetta che gli avevano insegnato certi frati delle sue parti. La novità piace talmente che la buvette della piazza diventa presto il locale più frequentato della città. Il nuovo prodotto incanta anche Vittorio Amedeo III, al punto che, dietro suo ordine, il vermouth sostituisce il vecchio “rosolio” nelle predilezioni della corte. Più tardi sarà il negozio del signor Rovero a ricevere un’ordinazione di re Carlo Alberto. Fioriscono concorrenti e imitatori, quella dell’aperitivo à la Carpano è una moda che non conosce flessioni. Nel 1816 scende in campo Francesco Cinzano, che ha bottega in Via Garibaldi. Lo seguono i fratelli Giuseppe e Luigi Cora, Carlo Gancia, Alessandro Martini & Luigi Rossi. I produttori sono diventati la rispettata corporazione dei vermuttieri. Riccardo Ferrero è orgoglioso di farne parte. Lavora in silenzio, a testa bassa. Sogna il giorno felice in cui anche lui entrerà a far parte dell’eletta schiera dei fornitori della Real Casa. La licenza che il nuovo Regno gli ha rilasciato per esercitare le sue attività produttive porta il numero tre. Riccardo si sente orgoglioso delle sue intuizioni, della sua tempestività. Ripete che i soldi li puoi anche buttare e ne puoi fare degli altri, ma il tempo perduto quello no, non te lo restituisce nessuno, dunque non ci si può permettere di sprecarlo. Per questo mette sempre premura a tutti, li incita a far presto, sempre più presto. In famiglia, evocare il magico numero tre della licenza diventa un modo di dire che bisogna far presto, tenere gli occhi sempre bene aperti, saper cogliere le occasioni. Nella liquoreria, la licenza sta bene in vista, racchiusa in una cornice dorata, sotto vetro. Riccardo la fa spolverare ogni mattina. Adesso ha un motivo in più per guardare avanti: gli sono nati due figli, Enrico nel 1862, Ernesto nel 1864. Ma proprio in quell’anno il regno e

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la città in cui aveva riposto tutte le speranze lo tradiscono crudelmente. A settembre si viene a sapere che a seguito di un protocollo d’intesa firmato con la Francia la capitale d’Italia sarà spostata a Firenze. È un escamotage politico e diplomatico che suona anche come una rinuncia a Roma. I torinesi insorgono. Il 20 settembre una folla vociante invade le piazze del centro, in preda all’agitazione. Vanno a gridare la propria rabbia sotto i ministeri e il municipio, sventolano bandiere, cantano canzoni in cui si proclamano figli di Gianduia, come se la maschera bonaria avesse il potere di rendere più incisiva la loro protesta. Il giorno dopo il consiglio comunale si dichiara all’unanimità contrario alla convenzione, chiede spiegazioni al governo. Il ministro Menabrea, lì

F.lli Ferrero di Riccardo, Fornitori della Real Casa, dal 1861

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presente, abbandona l’aula imbarazzato perché non sa cosa dire. Nuovi assembramenti si formano in piazza San Carlo. Le guardie di pubblica sicurezza fanno qualche arresto a caso, sequestrano bandiere. La folla si ribella, lancia sassi contro la Questura, si arma di bastoni e vuole raggiungere la via Po, sede del Ministero degli Interni. Qui si scontra con i carabinieri schierati a difesa. A un colpo di rivoltella sparato per aria i militi rispondono con una scarica di fucileria ad altezza d’uomo che lascia tre o quattro morti sul terreno. I dimostranti svaligiano le botteghe degli armaioli, assaltano le redazioni dei giornali, colpevoli di appoggiare il governo. Ci sono altri morti in piazza Castello, dove i manifestanti armati di sassi, bastoni e pistole si scontrano con uno squadrone di allievi carabinieri che perdono la testa. Tra i soldati si contano 17 tra morti e feriti. Il 22 settembre truppe di rinforzo arrivano da fuori città, prendono posizione nella piazze devastate, ma sono altrettanto inesperte e mal dirette. Botteghe e negozi rimangono chiusi per tutta la giornata. Anche Riccardo, quando dal centro arrivano le brutte notizie, si è affrettato a calare le serrande del suo locale e a barricarsi in casa; al primo piano Teresa sta allattando il secondogenito. In piazza san Carlo la situazione precipita nuovamente: altri lanci di sassi, nuovi colpi d’arma da fuoco innescano sparatorie e fucilerie. Adesso ci sono soldati che sparano contro i carabinieri, gli ufficiali faticano a far cessare il fuoco. A sera i morti sono 26, tra di loro anche donne e bambini; il conto totale delle vittime sale a 53, i feriti sono 187. Viene chiamata in servizio la guarda nazionale, si invocano inchieste, si discute se prima di sparare guardie e carabinieri abbiano fatto le intimazioni di rito. Il Re chiede le dimissioni del primo ministro Minghetti, che le rassegna prontamente, e offre 12.000 lire per soccorrere i feriti. La sera viene proclamato il coprifuoco. Nuovo primo ministro è il generale Alfonso Ferrero della

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L’Artemisia absinthium è una delle principali piante aromatiche che compongono Gran Torino e Xenta Absenta. Le sue foglie donano a questi un sapore leggermente amaro con eleganti note speziate.

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Marmora. “Abbiamo un parente primo ministro e non me lo avevi mai detto” riesce a scherzare Teresa. Riccardo fa una smorfia: “Ce la caveremo anche senza generali”. Il 3 febbraio 1865 il Re parte per Firenze in ferrovia e si installa con la corte a Palazzo Pitti, tra entusiastiche accoglienze popolari. Riccardo si sente tradito come tanti altri torinesi. È anche lui furioso con il Re, che è diventato un leccapiedi dei Francesi e si fa umiliare da loro. I Francesi, grida, lo trattano come un parente povero, buono soltanto a ubbidire. Ce l’ha anche con Napoleone III, che protegge quel reazionario forcaiolo del Papa. Dice che è tutta colpa sua. Ma poi che cosa c’entra Roma con l’Italia, una città di preti e di codini, che non ha un’industria, non ha nulla, solo conventi e aristocratici rimbambiti e incapaci di combinare qualcosa? Ferita, esasperata, Torino si svuota lentamente. Partono i funzionari, gli impiegati: venti, trentamila persone. Ci sono mattine che nel negozio di Riccardo non entra nessuno. Lui non si capacita. I torinesi non bevono più, non c’è vino o vermouth che li distolga dalle loro rabbie, dai loro rancori. Ma ha fiducia: il progresso non si può fermare, di questo sono convinti tutti. Le macchine aiuteranno i torinesi a vincere la battaglia che non credevano di dover combattere. Nel 1866 il Re torna in guerra, sempre spalleggiato dagli insopportabili Francesi. Perde a Custoza e a Lissa, ma le vittorie degli alleati prussiani contro l’Austria gli fanno guadagnare il Veneto. Nel 1870 scoppia un’altra guerra, e questa volta i Prussiani sconfiggono i Francesi e tolgono di mezzo Napoleone il Piccolo, come lo chiamano i suoi nemici, grande protettore del Papa. Vittorio Emanuele può finalmente prendersi Roma, e trasferirsi nella capitale.

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A Torino non esultano. Sono anni difficili per tutti, e chi ha più da guadagnarci sono proprio quegli scansafatiche dei romani. Ogni volta che legge i giornali, Riccardo ruggisce di rabbia: Roma ingrassa e Torino deperisce lentamente. Si chiede come farà a tirare su i figli. Menomale che c’è Teresa. Riesce a risparmiare su tutto, senza nemmeno farsene accorgere. Tre anni dopo le cose prendono una piega anche peggiore. Questa volta la crisi arriva addirittura di là del mare, e Riccardo, che fa già fatica a capire cosa succede in casa nostra, non si può capacitare che ci sia gente che decide i destini degli altri così da lontano, e che le cose che accadono là possano avere degli effetti a tanta distanza. Il mondo è improvvisamente diventato piccolo. Un suo amico che sta in banca gli ha spiegato che questi americani nelle loro sterminate pianure appena strappate agli indiani producono tanti cereali, e a basso prezzo, perché usano le macchine invece degli uomini. Così possono esportarli in Europa a prezzi quasi stracciati, hanno anche le navi per farlo. Arrivati in Europa, i treni fanno il resto: nel 1871 avevano aperto il traforo del Fréjus, si va e viene dalla Francia che è un piacere. Così gli americani hanno letteralmente sommerso l’Europa con il loro grano, e conciato per le feste i nostri contadini, soprattutto i braccianti. Come se non bastasse ci si è messa anche l’Argentina con la sua carne a buon mercato, e gli orientali con il riso. Qualcuno diceva che l’Europa s’era cullata su facili entusiasmi, produceva troppe merci, e non c’erano abbastanza acquirenti. Così i prezzi cadevano, le fabbriche non sapevano più come tirare avanti e fallivano. Per fortuna il vino se la cavava ancora bene, malgrado la fillossera e peronospora e riusciva a spuntare buoni prezzi. Emigravano in molti, dapprima negli altri Stati europei, poi lontano e lontanissimo, in Brasile, in Argentina. Davanti a questi fatti angosciosi Riccardo diceva che non si poteva

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restare piccoli, che bisognava crescere per forza, mettersi insieme, fondersi. L’unione fa la forza, si sa. Ma a pensarci bene non voleva entrare in società con nessuno, e magari ritrovarsi in casa un socio prepotente che si sarebbe preso tutto e avrebbe voluto comandare lui. Con chi allearsi, poi? Con Carpano, Cinzano, i Cora? Erano troppo grossi. In giro si diceva che quella era una crisi di sovrapproduzione, ma a lui sembrava di produrre quel tanto che bastava, di non fare mai il passo più lungo della gamba. In questo lo aiutava Teresa, che sapeva guardare avanti ma sempre tenendo i piedi bene per terra. Adesso si faceva aiutare da una balia, che poi era una ragazza di Fossano con cui era cresciuta. Continuava a dire “andoma bin”, o “andoma nen bin”. Quella volta disse: “Stiamo da noi, non facciamoci mangiare da nessuno. Pensiamo anche ai figli. Non voglio che vadano sotto padrone. Sono in gamba”. Quelli che venivano dalla campagna dicevano che i piccoli proprietari erano in aumento. I nobili volevano disfarsi della terra che non rendeva più, e vendevano ai contadini. I nuovi proprietari erano pronti a qualsiasi sacrificio pur di non tornare sotto padrone. Abbattevano i boschi e al loro posto impiantavano vigne. Molti dicevano che distruggere i boschi era una disgrazia che si sarebbe pagata a caro prezzo, tutti quanti. Riccardo non sapeva se biasimarli o apprezzarli: capiva le ragioni di tutti e due, si diceva che il progresso è una macchina che divora tutto senza stare a guardare troppo per il sottile. Ma a ogni bosco che spariva gli si stringeva il cuore. Intanto proprietari e fittavoli s’erano messi a litigare, non riuscivano a mettersi d’accordo, e questo era un danno per tutti. Dalle campagne arrivavano sempre più braccianti rimasti senza lavoro, e diventavano operai. A Torino un abitante su quattro faceva l’operaio. Lavoravano anche quindici ore al giorno, sabati compresi. Loro sì che dovevano

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mettersi insieme per strappare dei salari meno da fame, e fondare delle società di mutuo soccorso per quando si ammalavano. Riccardo sapeva che cosa avevano in testa. I suoi lavoranti cercava di trattarli bene, di aiutarli se avevano problemi. Quel che non faceva lui lo faceva Teresa di sua iniziativa, senza dir niente. Aveva sempre sulle labbra un piccolo sorriso appena accennato, come se vivesse storie che aveva già letto in un libro, e sapesse come sarebbero andate a finire. I figli che crescono sono molto diversi tra loro. Enrico è introverso, precocemente adulto. In casa parlano sottovoce di quanto è serio, come se fosse preoccupato delle prove che lo attendono. Gli regalano elmi da corazziere con il pennacchio, sciabole di latta e fucilini di legno, ma lui preferisce le matite colorate. A quattro anni aveva già imparato a scrivere da solo; e suo padre s’era accorto che riusciva a leggere i titoli dei giornali che trovava per casa, persino la “Gazzetta piemontese”. A scuola è bravissimo, dicono i maestri, non si perde una parola. A dieci anni ha scritto una poesia: “Stelle lontane, parlatemi/ che anch’io ho qualcosa da dirvi”. Ernesto è invece un allegro estroverso che se la cava facendo il meno possibile, e incanta i maestri con la sua parlantina. Al tavolino su cui dovrebbe studiare con suo fratello preferisce il cortile di casa, dove si imbranca con bande di ragazzini di cui è il capo riconosciuto. Dice che da grande vuole diventare un domatore del circo. Gli piace scolare senza farsi vedere le bottiglie che i grandi lasciano sul tavolo, si diverte a recitare la parte dell’ubriaco, dice parole sconnesse, cade per terra. Un teatrante. Intrattiene i cavallanti che portano le botti di vino sui loro enormi carretti raccontando avventure di sua invenzione, di cui sono protagonisti gli animali che ha visto al circo, tigri, leoni, elefanti, scimmie. Proprio una scimmia aveva chiesto a Gesù Bambino in una

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lettera che aveva fatto scrivere da sua madre. È rimasto molto deluso di non vederla arrivare, tiene il broncio alla madre per una settimana, perché è convinto che non ha scritto bene la lettera. Per questo Gesù Bambino non aveva capito, e s’era limitato a portare un pacchetto di caramelle, che lui per il dispetto aveva gettato per terra. Enrico ed Ernesto chiedono sempre di poter entrare nella stanza-laboratorio sul retro della bottega. È lì che il liquorista-capo riempie le sue bottiglie di liquidi colorati, e poi li guarda in controluce, li versa con cautela nei bicchieri, degusta, annusa rumorosamente, schioccando la lingua, scuotendo piano la testa. Accanto a lui assaggia e annusa anche Riccardo, sempre con il panama in testa, come fosse appena rientrato dalla savana. Il liquorista si chiama Ermenegildo, per tutti Gildo. Non ha capelli in testa, ma in compenso un paio di baffi neri, foltissimi e ispidi. Non gli si conoscono donne, soltanto una sorella che si era fatta suora. Vive da solo in un piccolo alloggio tenuto a specchio e tirato a cera, affacciato su via della Dora Grossa, la zona degli erboristi. L’unico svago che si concede la domenica sono le partite di pallone elastico, sport di cui è un autentico competente. Riteneva di essere dotato delle qualità che avrebbero fatto di lui un eccellente giocatore, forse un campione; ma non lo avrebbe confessato nemmeno sotto tortura. Riccardo l’ha scoperto in una distilleria oltre il dazio della strada per Lanzo, aveva assunto informazioni, l’aveva corteggiato con discrezione, ma con decisione. Si erano intesi in fretta. Gildo non gli aveva nascosto l’ambizione di mettersi in proprio, un giorno. La città era piena di garzoni e lavoranti che volevano diventare i padroni di se stessi, e spesso ci riuscivano come era accaduto a Giovan Battista Carpano. Avrebbe dunque accettato la proposta solo pro tempore, e gli piaceva dirlo apertamente, perché lui era uno che non gli piacevano le furbe-

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Dal quaderno di Gildo. Ricetta originale vermouth Gran Torino, 1870.

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rie. Sarebbe invece rimasto con Riccardo fino alla fine dei suoi giorni, l’avrebbero pianto e rimpianto come un famigliare. Veniva spesso nei discorsi di famiglia come esempio di saggezza: Gildo avrebbe detto, Gildo avrebbe fatto. L’uomo solitario che passa anche le domeniche tra i banconi della stanza-laboratorio sarebbe stato un ottimo padre. Si lascia tormentare dai bambini Ferrero, che gli stanno sempre attaccati al grembiule e cercano di usarlo come cavalcatura. A loro insegna anche il nome degli attrezzi con cui lavora. Permette persino di sfogliare il prezioso quadernetto delle ricette segrete che si porta sempre dietro, e la notte ripone sotto il guanciale, per sicurezza. Nel maneggiarlo i bambini danno prova di una delicatezza singolare per la loro età. Da come ne parlano i grandi, sono convinti che il quadernetto abbia poteri magici. Il padrone e il suo liquorista si scambiano parole avare, ma si capiscono benissimo, a occhiate, a gesti, come vecchi coniugi. Ogni tanto si appartano e confabulano tra di loro. Teresa ne sorride e dice che sembrano dei carbonari, dei cospiratori mazziniani, persino degli anarchici. Tengono tutti e due un diario e ci annotano gli esperimenti in corso, i dosaggi, le prove, le erbe che aggiungono e tolgono, l’equilibrio difficile tra il dolce e l’amaro; persino le delusioni. Perché questo è il bello del vermouth: è come la vita. L’armonia nasce dall’equilibrio dei contrasti. Alle spalle di ogni liquorista ci sono secoli di esperienze non scritte, di ricette tramandate a voce, di anonimi che hanno portato ognuno la sua pietruzza alla costruzione di una sapienza condivisa: ognuno con la sua storia e le sue passioni, eppure tutti sconosciuti. Il liquorista non può fermarsi, deve continuare a sperimentare per dimostrarsi degno dei suoi antenati. Come gli antichi alchimisti, coltiva una passione religiosa, il senso di appartenere a un qualcosa di misterioso e

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Dal quaderno di Gildo. Ricetta originale Xenta Absenta, 1870.

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profondo, a un’armonia universale. Difatti Gildo è molto religioso. Con parole tutte sue prega il Dio delle erbe, con il quale si intende benissimo. Quando pensa alle capacità del Creatore, sente la commozione salirgli agli occhi, inumidirli di pianto. Gildo ha trasmesso le sue silenziose passioni a Enrico, che sogna di scrivere le storie dei liquoristi anonimi, per riscattarli dall’ingiusto oblio. Anche lui pensa che le erbe su cui lavorano i liquoristi sono una meraviglia anche solo a nominarle, una poesia, una dolce litania di beatitudini, prodigi, promesse. In ogni nome stanno racchiusi interi mondi. Regina delle erbe è l’artemisia, naturalmente, chissà se chiamata così in onore della dea Artemide, o perché artemes in greco significa “sano”, e dunque evoca le proprietà curative della pianta, ben nota anche agli Egizi. I romani invece la chiamavano absinthium, e Linneo mise d’accordo tutti chiamandola artemisia absinthium. Com’è elegante nelle sue foglie grigio-verdi, cosparse d’una leggera peluria bianca. Non ha pretese, non richiede cure speciali: cresce nelle zone temperate, fino a mille metri, persino nei campi più incolti. Tra luglio e settembre si raccolgono le foglioline e le punte dei piccolissimi fiori gialli. Serve a tutto: come digestivo, antiinfiammatorio, antisettico, antibatterico, antispasmodico, vermifugo, e stimolante del sistema vascolare. Giravano brutte voci sull’assenzio, la “Fata Verde”, come lo chiamano in Francia per via del colore; e Riccardo se ne dispiaceva come se parlassero male di un parente stretto. Ne produceva piccole quantità per i clienti affezionati. Dicevano che provocava allucinazioni, persino attacchi epilettici, che veniva adulterato con l’oppio. Calunnie, leggende. L’absynthe era forte di suo, poteva contenere anche il 75% di alcol, era quello a dare le allucinazioni. Impossibile berlo puro: bisognava aggiungere acqua ghiacciata; in Francia, dove amavano il dolce, magari

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una zolletta di zucchero. Lo bevevano scrittori, artisti e poeti “maledetti”, ma costava poco, se lo poteva permettere anche la donnetta dimessa con il cappellino di sghimbescio che Degas aveva ritratto in un caffè: arresa alla propria infelicità, senza la forza di reagire. Non c’è solo l’assenzio, nell’amaro del vermouth. Di ogni pianta Riccardo racconta ai figli le livree, le abitudini, i luoghi di provenienza, il tipo di coltivazione che richiede, i benefici che dispensa. Ognuna ha il suo carattere, dice, e non è sempre quello che appare, proprio come accade con gli uomini. Può accadere che le piante piccole e gentili, che starebbero bene in un giardino, sono quelle di più forte carattere. Del cardo santo, che cresce allo stato selvatico, spinoso, irto di brattee, colpisce il fiore color porpora, tanto più acceso quanto più l’ambiente circostante è arido, spoglio. Fa bene al fegato, è un depurativo, come il carciofo, la leggenda vuole che sia arrivato dall’India per curare l’emicrania di un imperatore. Cresce dovunque anche la centaurea minore, con i suoi fiori rosa-rosso a ombrello. Anche lei è una pianta povera, senza pretese, generosa di doni. Il centauro Chirone la usava per guarire le ferite. Cura il diabete, l’anemia, la clorosi, la dispepsia, l’eczema, le flatulenze, l’itterizia, i pruriti…L’estratto è un liquido di un bel rosso bruno, di sapore fortemente amaro. L’issopo ha i colori del cielo, il suo sapore amaro è prezioso per la Chartreuse e per l’acqua di Colonia. Viene dai deserti la maggiorana, i suoi fiori delicati virano sul lilla chiaro. Si intenerisce, Riccardo, di fronte al delicato aroma alla cedronella della Melissa, alla semplicità frastagliata delle sue foglie. Bianchi e rosa sono i fiori del dittamo, che a sfregarlo lascia sulle mani un buon odore di limone. Arriva da Creta, pare una minuscola orchidea e quasi vorrebbe chiedere scusa della sua bellezza; la sua essenza ha la miracolosa facoltà di cicatrizzare ferite e abrasioni. Il timo, con i suoi piccoli fiori bianchi, rosei o lilla, è un piccolo miracolo dei luoghi

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Capitolo 4

aridi: quanto più è aspro l’ambiente in cui vive, tanto più sprigiona un aroma intenso. Sua cugina la salvia è una cara presenza famigliare: digestiva, diuretica, antisettica, balsamica… Ecco, i fiori. Ci vogliono quelli della camomilla, del luppolo, del sambuco, i pistilli gialli e porpora dello zafferano, i chiodi di garofano, che vengono dalle Molucche, dal Madagascar, da Zanzibar, con il loro profumo dolce e fiorito, pepato... Tra i frutti, l’anice stellato è il più bello: un gioiello fatto di un legno che è insieme forte e delicato. I ragazzi entusiasti ne portano a manciate alla madre perché ne possa fare delle collane, poi chiedono di piantarlo in giardino, dopo gli ultimi geli invernali. L’anice stellato si accompagna benissimo ai semi di finocchio: dicono che il suo infuso favorisca la montata lattea e ne renda più gradevol e il sapore. Dei frutti rotondi del coriandolo, tanto amato dagli Arabi, invece si dice che guariscono l’epilessia, rendono indolore il parto, producono effetti inebrianti, ma più umilmente stimolano la digestione, calmano i disturbi addominali, danno sapore agli arrosti…Il cardamomo scende dal Nepal e dal Sikkim, con le sue capsule dai semi marrone-nero: i turchi e arabi lo usano per preparare i loro caffè, dicono che rinfresca il sangue. In India è una parte essenziale del curry, in Cina accompagna le carni arrosto. Ernesto ha scoperto in un grosso trattato di erboristeria scovato nella biblioteca di casa, che il cardamomo ha poteri afrodisiaci e chiede a suo padre cosa voglia dire. Riccardo sorride, si liscia i baffi. Dice che afrodisiaco è qualcosa che rende più allegri. Viene dalle Molucche il macis, che è la guaina rosso brillante che riveste la noce moscata: si usa con parsimonia perché è raro da trovare. Quanto alla noce moscata, è il seme di un albero tropicale sempreverde che si chiama Myristica Fragrans. Gildo ne ha un’autentica venerazione perché crede che Myristica voglia dire Mistica, e tutti sanno che la Ma-

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I frutti dell’anice stellato sono a forma di stella e sono caratterizzati da un profumo di legno e liquirizia.

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Capitolo 4

donna viene chiamata anche Rosa Mistica. Invece la fava tonka cresce in Venezuela e in America Latina, e i suoi frutti sembrano piccoli manghi rinsecchiti. La mandorla interna, a grattugiarla, sprigiona sentori di fieno, vaniglia e miele… La vaniglia è facile da trovare in bustina nei negozi ma nessuno sa che è un’orchidea: si sviluppa nelle foreste tropicali, e i suoi baccelli contengono migliaia di minuscoli semi. In Messico ne avevano custodito il segreto per due secoli; quando l’hanno portata in Europa, la corte di Luigi XIV e Madame de Monstespan se ne erano entusiasmati. Il re voleva persino farla coltivare sull’isola di Réunion, ma ci vorranno due secoli prima di trovare il giusto metodo di impollinazione manuale. Ernesto rimane molto colpito quando apprende che questi fiori vivono poche ore, ma ci vogliono dieci mesi per ottenere un bastoncino di vaniglia commerciale. Il vermouth chiede anche un sapiente dosaggio di radici. L’angelica cresce sui monti del nord Europa, è una pianta esigente che chiede terreni fertili. Viene usata per l’aroma, ha una parte importante nel gin e nella chartreuse; invece sua cugina l’imperatoria, con i suoi begli ombrellini bianchi, cresce dappertutto senza fare storie, e in famiglia la conoscono anche perché viene usata per aromatizzare certi formaggi. Il calamo aromatico vuole invece umidità, terreni palustri, non ama i calori estivi. L’enula campana viene dall’Asia, ha grandi fiori gialli, è ottima anche per i canditi e i dolci, e lenisce la tosse. La galanga è una delicata parente asiatica dello zenzero e del cardamomo, il rizoma ha odore pungente e gusto dolce. La genziana invece è di casa sulle Alpi, il suo blu intenso non sfugge ai ragazzi Ferrero, che quando vengono portati in gita corrono a farne omaggio alla loro madre. Gildo ha insegnato loro che il suo nome viene da un re dell’Illiria che secondo Plinio ne aveva scoperto le virtù curative.

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L’angelica sprigiona profumi intensi e caratteristici con sentori di menta.

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L’ireos in Toscana cresce persino lungo i muri, lo chiamano giaggiolo. Ha preso il nome dalla dea Iride che personifica l’arcobaleno e sta perfino nello stemma di Firenze. Il rizoma in polvere, profumato com’è, è molto usato in erboristeria, anche per i dentifrici e le ciprie. Lo zenzero, come il cardamomo, arriva anch’esso dall’Oriente, pare portato dai soldati di Alessandro Magno. Il bel rizoma carnoso lo fa assomigliare al topinambur piemontese, di cui Riccardo è ghiotto (sua moglie glielo cucina per premio). Lo usano dappertutto e per tutto, una panacea universale, dall’India al Congo e all’America. Parente dello zenzero è la zedoaria, che arriva anche lei dal sud-est asiatico, con il suo lieve aroma canforato e una nota di rosmarino. Poi ci sono le scorze: di cannella, di china, di melograno, di arancio. E il legno del quassio, che viene dal Surinam e dalla Giamaica, e con il suo gusto amarissimo fa bene al fegato e tiene lontani gli insetti dalle foglie. E il succo di aloe, che con tutte le sue vitamine e minerali da quattromila anni è considerato la pianta miracolosa per eccellenza, il guaritore naturale: una liliacea della famiglia del giglio e della cipolla, che riesce a vivere nei deserti, superba come una scultura, un totem. Di piante ed erbe esistono tantissime specie, bisogna saper distinguere. La cannella può essere di Ceylon o di Goa (la preferita di Gildo), la China Callissaria o Gialla, la Genziana in polvere o in fiore. Gildo non nascondeva la sua predilezione per le piante poco note o poco utilizzate, che si ingegnano a crescere in ambienti meno favorevoli. Gli piaceva il camedrio, anche per via dei fiori rosati, che assomigliano a piccole bocche. Ci aveva giocato da bambino, e gli sarebbe piaciuto di essere il solo a conoscerlo. Le piante più rare e preziose sono quelle che non abbiamo ancora trovato. Ogni volta che saliva in collina o in montagna Gildo sognava l’incontro della sua vita.

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5. La ditta “Fratelli Ferrero di Riccardo”

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a crisi mordeva, banche che fallivano, scandali finanziari, rivolte popolari per le troppe tasse, scioperi lunghi intere settimane, ma Riccardo le teneva testa. Si ostinava a cercare i vini migliori, andava a selezionarli di persona nelle cascine, stava fuori anche una settimana, prendeva il cavallo e andava. Diceva che non dormiva mai tanto bene come sui giacigli improvvisati che gli offrivano quando voleva fermarsi la notte. Si faceva raccontare le storie di famiglia, chi era nato e chi se ne era andato altrove a cercar fortuna, e poteva capitare che in caso di liti e discussioni chiedessero a lui di mettere pace. Nessuno ebbe mai a lamentarsi delle cose che decideva secondo buon senso, e anzi la sua attività di conciliatore veniva apprezzata. Lui si schermiva dicendo che da lontano si vede meglio che da vicino. Del resto lo stesso vino è uno strumento di pace. Davanti a una bottiglia non si può restare nemici. Proprio per via della crisi gli riuscì di avvicinarsi al centro cittadino, come aveva sempre progettato. Se gli affari di qualcuno andavano male si potevano creare delle buone occasioni, bisognava saperle cogliere al volo. Lo confortava la fedeltà dei suoi clienti, che erano anche avvocati, medici, professori, altri commercianti che conoscevano il mestiere. Lasciò i locali di Via Nizza, i primi che lo avevano accolto, con un po’ di dispiacere, ma vietandosi la commozione dei ricordi. Nulla

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gli dava piacere come sistemare un nuovo negozio, scegliere i mobili adatti, e specchi più grandi, e gli stucchi e i velluti, e gli impianti della luce a gas, che venivano dalla Francia. Gli piaceva anche dare il bianco con le sue mani. Si metteva un grembiulone, un berretto da operaio in testa, afferrava il pennello, e dava anche tre o quattro passate. Non gli sembravano mai abbastanza. Fu un altro colpo di fortuna quello che lo portò ad arrivare esattamente là dove aveva sognato la prima volta che era arrivato a Torino. Le insegne della sua liquoreria adesso brillavano in via Alfieri, all’angolo con Piazza San Carlo, nel cuore stesso della città. Per quella occasione, volle mutare il nome della ditta, per significare che guardava avanti più che mai, e quello non era un punto d’arrivo, ma di partenza. La chiamò “Fratelli Ferrero di Riccardo”. I figli l’avrebbero portata ancora più lontano. Nel 1888 arriva a Torino Friedrich Nietzsche. Il grande filosofo tedesco, malato, errabondo, insofferente, sta cercando un luogo amico che dia un po’ di requie ai tormenti che lo affliggono. È un incontro che si rivela presto felice. “Torino – scrive a un amico- mi sembra la più bella città d’Italia, e forse dell’Europa, per le strade diritte, la regolarità degli edifici e la bellezza delle piazze. La più nuova tra queste è circondata da portici”. Magari qui non si possono trovare monumenti straordinari, ma quella che colpisce Nietzsche è la regolarità, l’ordine segreto che governa i fabbricati. “Tutto uguale e nulla di mediocre; ciò forma un insieme, piccolo sì (perché la città è piccola) ma affascinante.” Torino gli sembra una città “dignitosa e severa”, una “residenza del diciassettesimo secolo, dove su tutto era stato imposto un unico gusto, quello della Corte e della noblesse. Su ogni cosa è rimasta impressa una quiete

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La ditta “Fratelli Ferrero di Riccardo”

Torino, Piazza San Carlo, inizi ‘900

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aristocratica: non vi sono meschini sobborghi”. Entrato in sintonia con la città, Nietzsche ne apprezza ogni aspetto: passeggiate, caffè e cafè-chantant, teatri, librerie, trattorie. Dai fruttivendoli ai camerieri, tutti con lui sono garbati e allegri: i ristoratori gli riservano un trattamento di riguardo offrendogli i loro piatti più deliziosi. Nessuno lo tratta da tedesco, ma semmai da francese. Per la prima volta in vita sua si sente amato. Non è difficile immaginare che il filosofo abbia frequentato anche la liquoreria dei fratelli Ferrero di Riccardo, che dista pochi isolati dalla sua casa di via Carlo Alberto, aperta sulla piazza e inondata di luce. Nelle lettere dà prova di essere capace di apprezzare i piccoli, grandi piaceri della vita. Anche grazie a quelli, il soggiorno torinese diventerà per lui “il tempo della mia grande vendemmia”. Adesso che i treni andavano lontano, Riccardo prende la via di molti imprenditori del Nord. Compera vino al Sud, lo fa caricare sui grandi carri cisterna e se lo porta a casa, dove quei vini di forte gradazione, selvaggi, quasi, sono l’ideale per dare un po’ di corpo e sostanza a certe annate un po’ flebili. Il mondo del Sud lo affascina e sconvolge. La luce, anzitutto, l’esuberanza delle piante, il basilico e il rosmarino come alberelli, la terra rossa o color caffè, le movenze solenni, quasi sacerdotali degli ulivi, e i concerti frenetici delle cicale, i campi bruciati dal sole, e le vigne così femmine, i grappoli, gli acini che sembrano turgidi di una segreta pulsione animale; e gli odori acri, e i sapori forti. Sembra a Riccardo che la vita si disveli per intera soltanto qui, e che quella che si pratica altrove sia una specie di pallida copia. Quell’eccesso di vita calcinata dal sole, certi sguardi torvi, il senso di attesa e di mistero che aleggia su grandi spazi vuoti, le interminabili ca-

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La ditta “Fratelli Ferrero di Riccardo”

lure del pomeriggio lo esaltavano e stordivano. Respirare quell’aria rovente e profumata era come bere marsala, abbandonarsi al calore che i grappoli d’uva avevano imprigionato. Il marsala detta pensieri profondi, fa diventare filosofi. Porta lontano. È più incantatorio della voce delle Sirene. Tornato a Torino, Riccardo si metteva a letto per due giorni per smaltire gli ingorghi d’energia. Teresa stava a guardarlo di soppiatto, spiava in certi minimi gesti di lui le prove di un qualche tradimento che avesse consumato laggiù: con l’aria e con il sole, prima che con una di quelle donne selvatiche e scarmigliate, sempre vestite di nero: così almeno lei le immaginava. Diceva che i piemontesi al sud tendono a squagliarsi come gelati al sole, e rideva. Però la prima volta che si decise ad accompagnare il marito in quel viaggio interminabile, due giorni e mezzo, e con la novità di un traghetto nel mezzo, rimase così colpita da confessare che le era venuta la tentazione di fermarsi lì. Le dispiaceva di non essere un pittore per fissare quei colori. Con quelli del sud non era nemmeno un problema capirsi, anche se parlavano una lingua stretta e arrotata che era peggio dell’arabo. Spesso era il tono di un discorso a spiegare il contenuto. Per dire la qualità di un vino bastavano i gesti delle mani, un lampeggiare d’occhi, smorfie appena accennate. Ma ad ogni prezzo che veniva calato durante la contrattazione partivano salve di lamenti, come se la rovina del venditore fosse stata appena sancita da un tribunale malevolo. Le trattative si protraevano sino a tarda notte, tra brindisi e attestazioni d’amicizia, e ognuno sperava che quei bicchieri rendessero l’altro più torpido, distratto. Riccardo teneva il vino benissimo, da quella parte non si poteva sperare di sorprenderlo. Lo accompagnava con pane, olive, pezzi di formaggio. Restava imperturbabile, come il sovrano di un regno nordico. Faceva soggezione, sempre così impassibile.

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Capitolo 5

La prima volta che era arrivato un ordine dalla Real Casa, con tanto di timbri e firme svolazzanti, e lo stemma sabaudo ben in rilievo, Riccardo era tornato a casa correndo, senza stare ad aspettare il nuovo tram elettrico, che era un altro dei prodigi della modernità. Era ancora nell’androne che già ruggiva: Teresa! Le aveva dato la notizia in poche parole confuse per l’emozione, poi si erano abbracciati in silenzio. L’aveva pregata di ringraziare i suoi genitori, che erano stati i primi a credere in lui. La sera erano andati al ristorante, poi a teatro, ma non avevano capito niente della commedia che si rappresentava, erano troppo frastornati e contenti. Pensavano al lavoro che c’era voluto per arrivare fin lì. Si immaginavano le bottiglie che portavano il loro nome entrare solennemente nei saloni sontuosi di Palazzo Reale, venire offerte agli invitati, degustate e lodate. Si immaginavano persino la Regina intenta a versarsi il vermouth nel bicchierino. No, la Regina i bicchierini non li stava a riempire lei, c’erano maggiordomi, ciambellani, dignitari, servitori in livrea che provvedevano a queste incombenze. La Regina degustava, ecco tutto. Erano contenti lo stesso. Riccardo scacciò perfino il pensiero molesto che la Casa Reale volesse dare un po’ di commercio a tutti per non creare invidie e gelosie. No, a corte avevano saputo che i suoi prodotti erano buonissimi, e sani, confezionati secondo regole igieniche rigorose. Su questo Riccardo era intransigente. A sera, quando il lavoro finiva, e restava nell’aria un odore dolce e avvolgente di spezie, tutto doveva essere lavato, e tirato a lucido. Come uno specchio, diceva. Igiene! Mi raccomando! intimava ai ragazzi. Gli ordini crescevano. Adesso i prodotti apprezzati dalla Casa Reale erano richiesti anche all’estero, dove marchi più famosi avevano aperto la strada: la Francia, la Germania, l’America. L’idea di vendere i suoi prodotti in Francia suonava a Riccardo come una rivincita per gli anti-

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chi torti, di cui peraltro continuava a tacere, ma gli dava molta soddisfazione anche il gradimento dei mercati americani: ormai si era capito che era quel popolo giovane e vitale ad aprire la via delle innovazioni, e gli europei dovevano mettersi al passo. Per la prima volta dopo tanti secoli, il futuro arrivava da Occidente. Glielo diceva anche Teresa: fai come gli americani, che son sempre più avanti, mica bacucchi come noi. Tu che ne sai dei ‘mericàn? Li hai mai visti da vicino? replicava Riccardo. E lei: sta’ tranquillo che lo so.

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Uno degli espositori utilizzati dalla Casa Fratelli Ferrero di Riccardo in numerose fiere internazionali a seguito delle quali otterrà premi e riconoscimenti tra cui le medaglie d’oro di Milano 1894, Guatemala 1897 e Torino 1898.

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6. Le grandi Esposizioni

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iccardo ricominciò a passare le domeniche a fare progetti di ingrandimenti. Voleva una vera fabbrica, non degli spazi ricavati alla meno peggio in cortili dove il sole tardava ad arrivare o in umide cantine che facevano venire i reumatismi. I figli ormai grandi erano i primi a spingerlo in quella direzione. Ernesto aveva già fatto il servizio militare presso i Bersaglieri. Nel salotto di casa faceva bella mostra di sé la fotografia in grande uniforme, con la grossa piuma sul cappello rotondo, baffetti ritorti, occhi sognanti che facevano pensare a innamoramenti più che a esercizi militari. Lui a mettere su famiglia non ci pensava, la madre scherzava sul numero delle sue fidanzate, lo chiamava “farfallone amoroso”. Sembrava che per lui la vita avesse il sapore delle paste di mandorle che il padre portava dalla Sicilia, di ritorno dai viaggi d’affari. Enrico non aveva la felice estroversione del fratello. La vita era per lui un cumulo di doveri da onorare, scadenze da rispettare. Industria e commercio gli parevano una giungla in cui vige la legge del più forte, un teatro di agguati e di inganni. Si svegliava ogni mattina nel pensiero di quanti in quella stessa giornata gli avrebbero teso una trappola. Gli sarebbe piaciuto continuare a studiare, isolarsi per leggere nel raccoglimento di una stanza. Si sentiva il soldato di una guerra strisciante

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Capitolo 6

che non aveva voluto: quella con gli altri uomini. E tuttavia per nulla al mondo avrebbe tradito le aspettative che i suoi riponevano su di lui. Si mise diligentemente a cercare lo stabilimento che serviva e lo trovò in Barriera di Lanzo, all’estrema periferia occidentale della città. Era un ex opificio, aveva spazi ben disegnati, e i lavori di adattamento comportavano costi ragionevoli. I tram elettrici non passavano ancora di lì, poco più oltre cominciavano i prati, le grandi cascine venivano mangiate ad una ad una dalla città che avanzava. Arrivare fin là con il calesse era un piccolo viaggio, molto gradevole nella bella stagione. Enrico era affezionatissimo ai suoi cavalli, li curava di persona. Era più sereno da quando aveva sposato una distintissima signorina della buona borghesia imprenditoriale, i Dotto, che in città possedevano una catena di tintorie bene avviate. Un’altra Teresa entrava in famiglia. Era di sette anni più giovane di Enrico, di una bellezza diafana, come dipinta in punta di pennello su porcellana: la fronte ampia chiusa da riccioli soffici, lo sguardo altero e disarmato al tempo stesso, la bocca finemente disegnata. Elegantissima nella foto che la ritrae in camicetta bianca con i jabot, la giacca chiara con i revers di velluto scuro. Sembra interrogare un evento misterioso che si svolge fuori scena. Suo nonno Felix Renaud, nato nel 1805, aveva avviato una stamperia su seta a Lione, poi nel 1860 si era trasferito a Torino perché qui nessuno sapeva fare quel tipo di lavoro, e aveva capito che c’erano ottime prospettive. Negli stessi anni arrivò in città da Biella un lavorante molto esperto in tintura e lavatura di lana e seta, Clemente Dotto. Entrato in azienda, aveva sposato la figlia di Felix, Cécile. Teresa, la loro figlia primogenita, doveva molta della sua bellezza a questa madre francese, bionda e luminosa, dai tratti delicati, che si sentiva un po’ sperduta

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Le grandi Esposizioni

Ernesto Ferrero besagliere, 1883.

Enrico Ferrero da giovane, 1880.

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nella città in cui si era trovata a vivere. Nel 1900 Enrico e Teresa hanno una figlia, chiamata Cecilia in onore della nonna francese. Due anni dopo la giovane madre muore dopo una breve malattia, a soli trentatré anni. Sul letto di morte, angosciata per il destino della bambina che ha appena avuto, fa promettere alla sorella minore, Maria, che avrebbe sposato Enrico, e si sarebbe occupata di Cecilia come una vera madre. Maria è già fidanzata, si ritrova davanti a una richiesta che non può eludere. Promette. Vive un doppio dramma, una perdita crudele e la rinuncia a una vita che aveva immaginato diversa. Maria è mia nonna. A distanza di tanti anni, penso spesso a lei, ai giorni terribili che ha dovuto affrontare, alla prova che la sorella le ha imposto. Appartiene a quel genere di donne che per destino, imposizione o scelta sacrificano tutte se stesse. Ancora bambino, e prima di conoscere la sua storia, sentivo d‘istinto la profondità e la fermezza della sua dedizione, delle scelte mai rinnegate; amavo il calore marrone dei suoi occhi, il suo stile di gran signora, la sua eleganza (i cappellini con la veletta, il bastone da passeggio con il manico d’argento degli ultimi anni, gli scatolini con le mentine che teneva nella borsetta). Solo più tardi avrei colto nelle fotografie che la ritraggono accanto al nonno Enrico un fondo di severa malinconia; né a lui né a lei capita mai di sorridere al fotografo. La sua conoscenza del dolore le fa affrontare la vita per quello che è, senza vittimismi e senza sconforto, paga di tenere la posizione, di restare fedele a se stessa. Anche lei ha gettato pietre nel fiume perché altri potessero un giorno costruirvi dei ponti. Nel primo decennio del nuovo secolo l’Italia conosce uno sviluppo impetuoso, i consumi crescono, e vermouth, marsala e liquori non fanno eccezione. Altre soddisfazioni arrivano dalle esportazioni. La ditta

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Le grandi Esposizioni

Medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Bordeaux, 1894.

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Capitolo 6

“Fratelli Ferrero di Riccardo” raccoglie onorificenze nelle esposizioni che si tengono a ritmo serrato in Europa e nelle Americhe: Milano 1894, Edimburgo e Guatemala 1897, Buenos Aires e Torino 1898, Parigi e Vienna 1900, Ostenda 1901. Ma l’emozione più forte restava, per Riccardo e i suoi figli ventenni, aver partecipato all’Esposizione di Torino del 1884. Era la loro prima, la crisi stava passando, c’era fiducia, perfino entusiasmo. Oltre ai tanti, imponenti padiglioni, al parco del Valentino avevano costruito un intero Borgo Medioevale affacciato sul fiume, con il castello, il ponte levatoio, la torre imponente, le alte mura scandite dai merli, le viuzze, le botteghe artigianali, tutto così fedelmente riprodotto da sembrare autentico. I fidanzati ci andavano a passeggiare la domenica. Il Borgo era dedicato all’arte, da quella antica a quella medioevale, e i visitatori vi si inoltravano con reverenza. Poco fuori c’era la Kermesse, in puro stile olandese: ospitava una birreria-caffè, un restaurant, un teatro per commedie e vaudeville, diversi chioschi per la vendita di liquori, fiori, profumi, giocattoli. I ragazzi Ferrero avevano scoperto con orgoglio che c’erano anche i prodotti paterni. Nei diplomi che vengono rilasciati agli espositori si fa un grande spreco di vittorie alate e volanti, avvolte in pepli svolazzanti che lasciano indovinare le loro grazie giovanili. Le vittorie distribuiscono serti d’alloro, c’è gloria per tutti, ma il vero premio è sentirsi parte di un possente movimento collettivo. Accanto alle dee dispensatrici di serti sostano atleti nerboruti, anch’essi seminudi, come altrettante divinità greche cresciute in rudi sobborghi operai, però privi di ogni segno di fatica. Stanno appoggiati su gambe muscolose, con aria protettiva e insieme vagamente minacciosa, e simboleggiano la forza, le conquiste del lavoro: reggono strumenti e bandiere come fossero armi. È quello che vogliono simboleggiare le esposizioni: l’idea di una forza inarrestabile,

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Le grandi Esposizioni

Medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Bruxelles, 1910.

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Capitolo 6

e insieme di benessere, di opulenza: di un progresso destinato a non aver fine. Come diceva il sindaco, l’instancabile senatore Villa, “Torino, figlia primigenia del Risorgimento, aveva pur perduto il rango di capitale, ma conservava intatto il primato morale e produttivo”. Solo tre anni prima, all’esposizione di Milano, l’elettricità era stata presentata come un fenomeno curioso, da trattare con la cautela: una bizzarria un po’ fine a se stessa. A Torino invece un faro posto sulla sommità della stazione illumina l’intera via Roma, ed il Re può arrivare al’ingresso dell’esposizione su una ferrovia elettrica di ottocento metri che percorre il corso Massimo d’Azeglio. Per immortalare l’evento avevano perfino voluto costruire un altro prodigio della tecnica, la ferrovia funicolare che porta alla Basilica di Superga. Persino i francesi, così superbi, avevano dovuto ammettere che la funicolare rappresentava una delle applicazioni più ingegnose del trasporto su forti pendenze. In quei giorni festosi Ernesto s’era appassionato alle gare dei velocipedi, organizzate dal Veloce Club di Via Cernaia, e avrebbe voluto parteciparvi anche lui. Stare in equilibrio sulla enorme ruota anteriore richiedeva doti non comuni di agilità, e lui era un acrobata nato, una scimmia. Sua madre diceva che non era figlio suo.

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Le grandi Esposizioni

Medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di San Francisco, 1915.

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Veduta dello stabilimento F.lli Ferrero di Riccardo a Trofarello-Moncalieri, 1906.

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7. Uno stabilimento moderno

I

l nuovo secolo sta tenendo fede alle sue promesse. In capo a qualche anno il piccolo stabilimento di Barriera di Lanzo diventa insufficiente. Anche se ha lasciato ai figli il timone dell’impresa, Riccardo dedica le energie che gli restano al suo progetto più ambizioso: la costruzione di uno stabilimento tutto nuovo, pensato espressamente per lavorare in grande, in modo razionale: in una parola, moderno. Occorrono due anni per costruirlo quindici chilometri fuori città, presso la stazione ferroviaria di Trofarello, in posizione strategica sulla linea Torino-Genova. I binari entrano direttamente nella fabbrica, portando sino alle banchine di carico e scarico i grandi carri cisterna, i vagoni con le cassette per l’esportazione, destinate al porto di Genova. Così i Ferrero possono finalmente lasciarsi alle spalle i problemi di spazio che li hanno sempre angustiati. I capannoni sono progettati in modo da poter prevedere grandi sviluppi: le gigantesche vasche di stoccaggio in cemento, le enormi botti in rovere destinate all’invecchiamento, i magazzini a perdita d’occhio, gli alambicchi per le distillazioni, i saloni d’imbottigliamento, il laboratorio. Sui tetti svettano le due ciminiere della centrale termica. Inghiottono ogni giorno quintali di carbone. Il fumo scuro che emettono è l’odore del lavoro. Le volute grigio-nere che salgono in cielo sono la bandiera stessa dell’operosità. A Torino il

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Capitolo 7

quartiere di Vanchiglia, allora semiperiferico, che ospita numerose fabbriche, viene chiamato famigliarmente “il borgo del fumo”. Nessuno se ne scandalizza, o protesta. Fin che c’è fumo c’è lavoro. All’ingresso della fabbrica sta una palazzina liberty con pretese di eleganza. Al piano terreno ospita gli uffici, e al primo un appartamento, una sorta di ampia foresteria, con un bel terrazzo affacciato sui capannoni e sulla campagna. Una costruzione così impegnativa comporta anche un grosso sforzo finanziario. Enrico chiede aiuto alla suocera francese, la gentile madame Renaud, e concorda un prestito di 45.500 lire al tasso annuo del 6%, “pagabile a semestri maturati”. Una lettera del febbraio 1912 ci attesta che il debito è stato finalmente estinto. Nel 1906 Riccardo muore, e nasce il figlio di Enrico e Maria. Gli danno il nome del nonno. Il piccolo Riccardo ha due sorelle più grandi, ma cresce come un figlio unico. Come suo padre, è serio, silenzioso, ottimo scolaro. Ha la passione per la bicicletta, e la fabbrica, con i suoi grandi spazi, è il luogo ideale per imparare, la domenica. Gli piace fare acrobazie tra le botti e le vasche di stoccaggio. È uno sportivo: frequenta la pista del pattinaggio al Valentino, gioca a tennis in eleganti pantaloni bianchi, ama la montagna. In compagnia di un gruppo di amici, il sabato si inerpica con le pelli di foca sino a sperduti rifugi alpini. Dopo una notte passata nei sacchi a pelo, il giorno dopo scende nella neve fresca, disegnandovi le morbide curve del telemark. Intanto la grande Esposizione Universale con cui Torino festeggia nell’aprile 1911 i primi cinquant’anni dell’Unità d’Italia sembra premiare le sfide imprenditoriali della famiglia. Sulle due rive del Po, al Valentino, hanno costruito un’intera città. Almeno cinquanta palazzi ricchi di cupole, guglie e colonnati, timpani, pinnacoli, frontoni, riccioli, in cui Francia, Inghilterra e Germania gareggiano in grandeur monumentale. La città di Parigi ha un imponente palazzo tutto suo.

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Uno stabilimento moderno

La palazzina in stile liberty, costruita nei primi del ‘900, ospita ancora oggi gli uffici dello stabilimento di Moncalieri (Torino).

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Capitolo 7

Lavori per la costruzione del nuovo stabilimento di Moncalieri (Torino), inizi ‘900

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Uno stabilimento moderno

Operai dello stabilimento F.lli Ferrero di Riccardo a Moncalieri (Torino), 1910

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Capitolo 7

Interno dello stabilimento. Particolare con alambicco, 1911

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Uno stabilimento moderno

Impianto per l’imbottigliamento mano-macchina del vermouth Gran Torino, 1930

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Capitolo 7

I padiglioni dell’Esposizione Internazionale di Torino, 1911

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Uno stabilimento moderno

Ma ci sono anche Paesi lontani come il Siam, la Nuova Zelanda, il Giappone, la Persia, l’Argentina, il Messico e il Perù, il villaggio somalico, quello eritreo e quello alpino, il tapis roulant, l’acquario, la guidovia aerea, l’ottovolante, i vaporetti sul fiume, i palazzi dell’Industria, della Scienza e della Tecnica, della Moda… La Città Moderna occupa 6.000 metri quadrati e vi si possono trovare tutte le novità in fatto di servizi igienici, riscaldamento, mobilio, cucina. Non mancano i padiglioni della Compagnia Liebig, il Cognac Martell, Moët & Chandon, Talmone. All’inaugurazione partecipano le Altezze Reali, il presidente Giolitti, vari ministri e sindaci, cinquanta senatori, cento deputati, l’intero corpo diplomatico. Il vermouth dei Fratelli Ferrero di Riccardo ottiene il Grand Prix dell’Esposizione. Da allora il riconoscimento viene ricordato con orgoglio sulle etichette e nella pubblicità. I buoni risultati spingono i fratelli a nuovi investimenti. Nel 1912 Ernesto scende in Sicilia, a Marsala, per aprirvi una fabbrica. Come già suo padre, nell’isola si trova benissimo. Va spesso a Palermo dove, estroverso e generoso com’è, si è fatto numerosi amici. In città furoreggia una diva del varietà, pugliese di Manduria. Ha scelto il nome d’arte di Cabiria, la protagonista del film di Giovanni Pastrone, il primo colossal del nascente cinema italiano, che ha trovato a Torino l’ambiente adatto per svilupparsi. Con le sue imponenti scenografie esotiche il film desta grande impressione. È ambientato all’epoca delle guerre puniche, tra battaglie, incendi e sacrifici umani. Dura quattro ore, le didascalie sono state chieste a D’Annunzio per conferire all’opera una piena dignità artistica. È costato un milione di lire oro. Alla “prima” dell’aprile 1914 la proiezione è accompagnata dall’orchestra e dal coro del teatro Vittorio Emanuele. Ci sono sere in cui Ernesto requisisce per sé e per i suoi amici il teatro palermitano dove si esibisce Cabiria. Alla fine dello spettacolo la scian-

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Capitolo 7

tosa scende in platea. Accaldata, discinta e sorridente com‘è, stampa un grosso bacio colorato sulla pelata dello zio, trionfalmente seduto in prima fila, come un pascià, tra le ovazioni degli astanti. Il giovane nipote Riccardo, che ha fatto in tempo a conoscerla, la ricorda divertito come una delle debordanti donne di Fellini. In famiglia la chiamano, un po’ per scherzo, un po’ per simpatia, “zia Cabiria”. È probabile che zia Cabiria abbia contribuito non poco all’erosione delle fortune famigliari, ma nessuno glielo ha mai rimproverato.

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Uno stabilimento moderno

L’etichetta e la bottiglia con cui il vermouth Gran Torino dei F.lli Ferrero di Riccardo ottiene il Grand Prix all’Esposizione Internazionale di Torino, 1911

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Riccardo Ferrero nel magazzino dello stabilimento di Trofarello-Moncalieri. Particolare con damigiane di vermouth, 1956

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8. Tempi nuovi, nuovi gusti

E

nrico Ferrero muore nel 1929. Nelle ultime fotografie mi pare di poter cogliere nel suo sguardo lo smarrimento incredulo di chi deve misurarsi con la malattia come con un mostro misterioso che lo ha colpito a tradimento. Lui che si è sempre sentito minacciato dalla malevolenza degli altri uomini è stato aggredito da un male molto più subdolo di loro. Il figlio Riccardo ha solo 23 anni, ma è già profondamente attaccato alla fabbrica di Trofarello. Ai primi annunci della malattia del padre ha rinunciato all’università, e cercato di imparare il più in fretta possibile quel lavoro difficile, da artisti. Quando lo zio Ernesto a metà degli anni trenta decide di ritirarsi dagli affari e va a vivere in Riviera, la conduzione dell’azienda ricade per intero sulle spalle di Riccardo. Adesso tocca a lui andare periodicamente a Marsala. I racconti che fa della Sicilia sono molto meno pittoreschi di quelli dello zio, e certo non rallegrati da dive del varietà. Gli pesano i viaggi interminabili di allora, due giorni di treno, la polvere, l’arsura, la noia delle ore che lui cercava di riempire con letture anche raffinate, come i libri di Savinio e Bontempelli. La buona letteratura non escludeva l’appassionata frequentazione dei Manuali Hoepli, con cui l’editore svizzero-milanese offriva agli italiani una serie di libretti tecnico-scientifici che coprivano ogni campo dello

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Capitolo 8

scibile. Dell’Ottocento Riccardo ha ereditato le passioni enciclopediche, il gusto di approfondire le sue conoscenze, il piacere di stupirsi, la passione degli elenchi, delle tabelle, delle caselle, in cui la scienza e la tecnica diventano una griglia ordinata con cui si può spiegare ogni fenomeno fisico. Gli piace misurare, calcolare, attribuire dei numeri esatti a quello che fa. Per questo porta nel taschino un regolo, con il quale riesce rapidamente a impostare moltiplicazioni e divisioni. Per lui la chimica è l’equivalente del gioco del meccano che gli avevano regalato a Natale. Attraverso la chimica si possono capire meglio i meccanismi che regolano ogni aspetto della vita naturale. Lo appassiona il poter sperimentare nuove formule combinando gli elementi a disposizione. Dal nonno di cui porta il nome ha preso anche l’amore per le erbe e gli alambicchi. Riccardo è magro, nero, serio e signore come un siciliano. Ha svelti baffetti, assomiglia un po’ all’attore Gabriele Ferzetti. Quando è a Marsala passa le giornate in solitudine, come in un Paese nemico. Non ha fatto in tempo a crearsi qualche amico tra i notabili della città, e faceva fatica ad entrare in confidenza con i suoi operai. Le notti e le domeniche se ne sta barricato nella villetta padronale annessa allo stabilimento, come in un fortino assediato. Sente salire dagli scantinati il sordo rumore provocato dal rotolìo delle botti che gli stanno portando via, ma ritiene prudente non scendere di sotto e affrontare i ladri. Quelli sono in molti, e lui è solo. Sta a patire il loro assedio invisibile e rumoroso con una sorta di rassegnazione filosofica. Forse anche per quello alla fine degli anni trenta decide di vendere lo stabilimento. Il marsala non aveva più futuro. I gusti erano cambiati rapidamente. Adesso si beve cognac, whisky, i raffinati liquori francesi, come il Grand Marnier con il suo avvolgente

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Tempi nuovi, nuovi gusti

Spedizione delle botti di vermouth Gran Torino, 1930

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Capitolo 8

Cantine per lo stoccaggio del vermouth Gran Torino, 1920

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Tempi nuovi, nuovi gusti

sapore all’arancio. Riccardo non perde tempo, vuole sfruttare le capacità produttive della nuova fabbrica, che era stata pensata proprio per lo sviluppo. Parte per Bordeaux e acquisisce il marchio René Briand, perché vuole lanciare un cognac nostrano che ha l’ambizione di rivaleggiare con quelli francesi. Poi mette a punto un suo whisky. Garantisce che nasce da una “genuina distillazione di malto d’orzo, che si effettua nel nostro stabilimento sotto controllo statale e secondo l’identico procedimento in uso presso le fabbriche scozzesi”. Può vantarsi di essere l’unica distilleria di whisky esistente in Italia “per apposita autorizzazione dello Stato”. E intanto, per completare il ventaglio dei prodotti, rileva un altro marchio molto noto e apprezzato a Torino, la casa Martinazzi, fondata nel 1864, anch’essa produttrice di vermouth, liquori e sciroppi. Per le etichette dei prodotti Martinazzi Riccardo vuole colori allegri e brillanti, che suggeriscono piaceri signorili. Evocano un lusso discreto, non esibito, scenari eleganti senza ostentazione, serate al caminetto con amici, chiacchierate con belle signore. Con l’etichetta Martinazzi, Riccardo lancia il “Gran Liquore Monopol”, il suo Grand Marnier. Si diverte a scrivere lui stesso i testi per le brochures della pubblicità: “Finissimo liquore distillato con scelte e invecchiate acquaviti di vini bianchi associate a frutti squisiti, è il risultato di settant’anni di esperienza e maestria nell’arte di distillare i liquori. Delizioso al palato, digestivo, tonico, riunisce tutte le qualità che si richiedono ad un liquore di gran classe e costituisce una netta affermazione della produzione italiana in confronto con i migliori liquori europei”. Del suo cognac e dell’acquavite di Moscato “distillata con il metodo Beccaria” scrive che sono ottenute da “doppia rettificazione delle vinacce di uve moscato”, un miglioramento degli stessi metodi di lavorazione dei maestri francesi. Inventa persino un Ver-Gin, cocktail già pronto a base di finissi-

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mo Vermouth di Torino, amaro angostura e gin secco. “È il cocktail adatto al palato italiano, di giusta alcoolicità, di gusto fine, profumato, costante”. “La frusta dell’appetito”, come sta scritto sull’etichetta. Anche se è attento ai cambiamenti dei tempi nuovi, il giovane Riccardo conosce il valore delle tradizioni, la pazienza del fare, i tempi lunghi che la ricerca della qualità comporta. Conduce l’azienda che ha ereditato con il passo costante che ci vuole per andare in montagna. Quando disegna le nuove etichette, le prime cose che vuol mettere in evidenza sono la licenza numero tre, l’anno di fondazione della casa, il 1861, e la qualifica di “Antichi fornitori della Real Casa”. Mescolare il nuovo e l’antico era stata la ricetta che aveva sempre ispirato suo nonno e suo padre.

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Tempi nuovi, nuovi gusti

Cantine per l’invecchiamento del brandy RenÊ Briand, 1935

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Foto di famiglia. Riccardo Ferrero tiene in braccio il piccolo Ernesto. A destra zio Ernesto, 1939

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9. Il quadernetto segreto

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el 1937 Riccardo si sposa. Paola Clara Bensa detta Clara è ligure di Porto Maurizio, suo padre è un banchiere che ha perso tutto nella grande crisi del 1929; lo zio Paolo Emilio giurista, professore di diritto all’Università di Genova, è senatore del Regno dal 1908, e ancora oggi a Genova ha una via intitolata a lui. Riccardo l’ha conosciuta d‘estate al mare, a Diano Marina, dove i Bensa si erano trasferiti. Clara è minuta, rotondetta, festosa, di una simpatia contagiosa. Ha gli occhi che ridono, riccioli un po’ agitati e un nasino all’insù. Le piace disegnare, ricamare, preparare torte. Leggere, proprio no. Quando era ragazza, non andava a scuola: aveva un precettore tutto per sé, un anziano professore che immagino mite, bonario e anche troppo tollerante. Lei si vantava di averlo corrotto con scatole di ottimi sigari cubani, e il professore non intendeva certo accanirsi su un’allieva di così disarmante sincerità, così poco portata agli studi. Si vantava ridendo di non aver mai letto un libro in vita sua. La sua intelligenza intuitiva sembrava non aver bisogno di libri. Riccardo, introverso come suo padre, è incantato da lei. La porta a vivere nella bizzarra villetta che lo zio Ernesto aveva fatto costruire per sé in corso Re Umberto, quasi di fronte all’Ospedale Mauriziano. L’architetto è lo stesso della villa annessa alla fabbrica di Trofarello. La

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Capitolo 9

casa ha tre piani, finisce con una buffa torretta su cui si agita un galletto segnavento, ha ampi terrazzi, gode di un piccolo giardino a elle in cui troneggia una grande magnolia, scuderie per almeno quattro cavalli, garage e casa per i custodi. Nell’atrio del pian terreno lo zio Ernesto, che evidentemente ama i giochi d’acqua, ha fatto sistemare una grossa fontana in ferro che può lanciare schizzi fino al secondo piano, infilandosi nella tromba delle scale in legno. A noi bambini è rigorosamente vietato toccare le manopole che regolano i getti della fontana. Quando ancora abitava in corso Re Umberto, nella buona stagione uno dei piaceri dello zio Ernesto era prendere uno degli amati cavalli, e andare con quello sino alla fabbrica di Trofarello passando per la collina, godendosi boschi, prati, viottoli ombrosi. Adesso che i cavalli non ci sono più, sostituiti da una Balilla color vinaccia, nella scuderia Riccardo ha sistemato i sacchi delle erbe che gli servono per il vermouth e gli altri liquori. Grossi sacchi arancione delle ditte Ulrich e Orbisflora, che vengono maneggiati con grande attenzione e rispetto, perché le erbe possono essere molto costose, come per esempio lo zafferano. La ricetta del vermouth Gran Torino, di cui Riccardo è fiero perché è figlia di una storia lunga e complessa, è così segreta che la tiene annotata su un suo quadernetto nero. Quando si tratta di preparare la miscela che dovrà poi essere messa in infusione nel vino, provvede lui stesso, lontano da occhi indiscreti. Non si fida di nessuno, nemmeno dei collaboratori più stretti. E poiché i fornitori potrebbero dedurre la ricetta del vermouth dai quantitativi delle erbe che lui ordina, Riccardo per prudenza distribuisce gli acquisti in maniera tale che non sia possibile ricavarne alcuna deduzione. Sbircio il quadernetto segreto, e mi sembra di compiere un’indiscrezione. Ci sono ricette in cui ritrovo presenze domestiche: la camomilla (che ha da essere “romana”), i fiori del sambuco, il timo, il tiglio, boc-

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Il quadernetto segreto

cioli di rose, persino le mandorle, però “armelline”. Imparo che l’assenzio, oltreché “romano” e “pontico”, i più diffusi, può anche essere “gentile”. Anche dell’angelica esistono tre qualità, e ognuna è presente in quantità diverse. I garofani “regina” devono venire rigorosamente dal Madagascar, la cannella da Ceylon, i coriandoli dalla Romagna, il balsamo dal Tolù (dove sarà mai?). Il calamo ha da essere decorticato. Il dittamo è presente nella specie “eretico” (in che cosa consisterà mai l’eresia del dittamo? La perniciosa eresia si annida anche tra le piante? Ci sono inquisitori che la inseguono fin là?). Trovo nel quadernetto anche tocchi di esotismo fiabesco: la mirra dei Re Magi, che apprendo essere una gomma, la Zedoaria, l’Aloe soccotrino (della remota isola di Socotra? In una ricetta che qualcuno ha riportato su un foglietto volante “soccotrino” diventa “scontrino”). Ogni qualche mese un autocarro porta nelle scuderie dello zio Ernesto dei grossi cassoni di zinco. È lì che bisogna versare le erbe, nelle proporzioni rigorose stabilite dalle ricette. Alcune, come il rabarbaro, l’anice stellato o la noce moscata, sono solide; altre invece, come l’artemisia, sprigionano una polvere giallastra che va dappertutto, nei bronchi, nei capelli. Per difendersi dalla polvere aromatica Riccardo si intabarra come un beduino: indossa una tuta da lavoro, calca in testa un vecchio Borsalino marrone, protegge il naso con una sciarpa, eppure ogni volta esce da quel lavoro starnutendo e tossendo. Il profumo delle erbe gli resta addosso per giorni, resiste a qualsiasi lavaggio. Quando ho quattordici anni sono ammesso a partecipare alla cerimonia. Mi piace l’aria di rito misterioso che la circonda. Peso scrupolosamente le erbe su una grossa bilancia, e intanto chiedo informazioni. Mio padre parla e tossisce. Non è un sentimentale, ma per le sue erbe ha parole d’affetto.

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Capitolo 9

Quando arriva la guerra, i bombardamenti alleati colpiscono Torino in maniera sempre più devastante. La città brucia. La villa dello zio Ernesto non è lontana dagli stabilimenti Fiat di Mirafiori, e poi gli Alleati non vanno per il sottile. Non si limitano a colpire gli insediamenti industriali, lanciano spezzoni incendiari anche sulle case civili. Ne cadono ben sette tutt’intorno alla villa, nel cortile, sulla strada, come disseminate da un bambino dispettoso. Una sorta di corona di fuoco che risparmia la casa. I miei parlano di miracolo. La buffa villa dello zio Ernesto si è salvata. Stare a Torino diventa pericoloso. Riccardo porta la famiglia (adesso i bambini sono tre) nella villa annessa alla fabbrica. Ma una notte gli Alleati bombardano anche la vicina ferrovia per Genova, i vetri delle finestre vanno in frantumi, e solo le zanzariere salvano i bambini in culla (mosche e zanzare sono un tormento, il ddt non è stato ancora inventato, nelle cucine pendono sconciamente i rotoli della carta moschicida, neri di prede). Bisogna andarsene di nuovo. Riccardo trova una villa a metà collina. È grande e tranquilla, ha un ampio giardino affacciato sulla pianura. La scoprono anche i tedeschi e sistemano lì il loro comando di zona. Però si comportano bene, cercano di limitare i disagi degli ospiti. Una sera un soldato piuttosto anziano si presenta in cucina con un coniglio, e chiede quasi con imbarazzo se glielo possono cucinare. Clara sa un po’ di tedesco, ma il soldato vuole parlare italiano, si ostina a chiamare il coniglio “kunìkkolo”. Ci vuole un po’ per capirlo. Clara ride, e il tedesco ride con lei. Clara sa come trattare persino i tedeschi. Un pomeriggio, mentre gioco in giardino sotto gli ippocastani, compare in cielo un caccia inglese, uno Spitfire. Fa una brusca virata proprio davanti a me per risalire la collina, scivola vistosamente sull’ala, così vicino che posso vedere distintamente il pilota che smanetta nervosa-

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Il quadernetto segreto

Cantine per lo stoccaggio del vino, 1945.

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Capitolo 9

Tecnico di laboratorio, 1959

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Il quadernetto segreto

Linea di imbottigliamento,1960

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Capitolo 9

Cantina di stoccaggio, 1952

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Il quadernetto segreto

Magazzino per le spedizioni, 1967

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Capitolo 9

Tecnici di laboratorio sul piazzale dello stabilimento, 1948

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Il quadernetto segreto

mente, come se fosse su un sidecar. Mi butto prontamente per terra, vedo la pancia dello Spitfire passarmi sopra la testa con un feroce ringhio metallico. Quando arriva la Liberazione, gli italiani sono diventati altrettanti partigiani e antifascisti. Di quel giorno rimane una fotografia celebrativa. Riccardo si fa ritrarre nel cortile della fabbrica, in mezzo ai suoi operai, dieci in tutto, trasformati in eroici guerriglieri. Sono allegri e contenti come in una recita, sembra che siano stati loro a liberare l’Italia. Cinque sono riusciti a ricuperare degli elmetti, uno porta la coppola di tutti i giorni. Qualcuno imbraccia vecchi fucili ’91 della Grande Guerra che da allora non avevano più sparato un colpo, altri portano infilate nella cintura delle bombe a mano tedesche con il manico in legno. Davanti al gruppo è stata piazzata a mo’ di trofeo una mitragliatrice con treppiede, probabilmente abbandonata dai tedeschi in fuga. Riccardo sta seduto al centro, serio, composto, con l’aria più preoccupata che marziale. Non sorride come gli altri, forse la recita non lo diverte affatto. Tiene in mano anche lui una bomba a mano come fosse uno dei tanti attrezzi della fabbrica, una chiave inglese, una tenaglia. Lui fascista non è stato mai. C’è sempre stato troppo humour a Torino per prendere sul serio le pagliacciate del regime. Qui Mussolini veniva malvolentieri. Giravano molte barzellette antifasciste sin dagli anni ’30. Quando il ministro nazista von Ribbentrop era andato a Roma in visita ufficiale, si diceva che gli strilloni dei giornali gridassero: “Ruben tròpp a Roma! Ruben tròpp a Roma!”. Già allora le mangerie dei governanti erano oggetto di sarcasmi. Adesso che la guerra è finita, lo stabilimento è fonte di continue meraviglie, perfetto per scorrazzare con la bicicletta. Nel cortile principale c’è un vecchio tiglio che a maggio spande un profumo che stordisce.

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Capitolo 9

Il retro della fabbrica ospita una grande vasca per l’acqua che d’estate può fungere da piscina. Il bottaio ha costruito per noi bambini un camion e rimorchio in legno che porta sulla fiancata la ragione sociale dell’azienda “Fratelli Ferrero di Riccardo”. Ne sono immensamente orgoglioso, e ci trasporto i miei fratelli. All’interno dei padiglioni ho scoperto degli interi sacchi di liquerizia in bastoncini, che è bello masticare e succhiare a volontà. Ne ricavo una favolosa sensazione di abbondanza, quasi di onnipotenza. Mi piace gironzolare dalle parti dei grossi tavoli su cui le operaie applicano a mano le etichette alle bottiglie, perché le etichettatrici meccaniche non sono ancora state inventate. Sono donne del paese, bianche del pallore di chi vede poco il sole. Hanno sorrisi buoni, vagamente malinconici. Già allora mi stringeva il cuore il pensiero di quel loro lavoro ripetitivo, sempre uguale, per ore. Stanno in branco, come nelle veglie nelle stalle, si raccontano storie, parlano per ingannare il tempo che non passa. Altro motivo di orgoglio sono le cassette in legno accumulate nel magazzino, pronte per essere spedite all’estero. Trovo miracoloso che in Paesi lontanissimi, come le Isole Mauritius, allora non ancora toccate dal turismo, o l’Argentina, ci sia qualcuno che conosce il vermouth Gran Torino e i liquori di mio padre. Potrei ricostruire la mappa delle esportazioni attraverso i francobolli della corrispondenza commerciale che lui mi regala, e che sistemo con cura in appositi classificatori in finta pelle di lucertola. Possiedo molti francobolli di re Faruk d’Egitto, con il fez nero ben calcato in testa e le Piramidi sullo sfondo (in altri francobolli c’è anche un bimotore in volo, a significare che il Paese si stava rapidamente modernizzando). Esistono ancora le colonie, e molte sono inglesi. Il profilo di re Giorgio d’Inghilterra e poi della sua giovane figlia Elisabetta compare dappertutto: Aden (dromedari e va-

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Il quadernetto segreto

Etichette Vermouth Rosso e Dry Riserva dei F.lli Ferrero di Riccardo destinato al distributore Banfi Product Corporation di New York, U.S.A, 1953

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scelli a vela), Australia (coccodrilli e koala), Ceylon (raccoglitrici di tè e alberi della gomma), Cipro (minareti), Costa d’oro, Malta, Jamaica (coltivazioni di canna da zucchero, e sempre Re Giorgio che vigila). Il Congo, ancora belga, esibisce una serie coloratissima di maschere in legno di prepotente forza espressiva. In alcuni francobolli compare anche re Baldovino, e ha l’aria di un seminarista triste. Ho molti francobolli dell’Etiopia, con il Negus e la regina che si guardano benevolmente, divisi da uno scudo e due lance incrociate; e persino dell’Africa Occidentale Francese (fanciulle nere adorne di strane acconciature e vistosi tatuaggi in rilievo). Considero una vera rarità un francobollo della lontana Islanda, con un geyser che spara in cielo soffi di vapore e acqua calda. Sono contento che anche gli islandesi apprezzino il vermouth di Riccardo, e con quello confortino le tristezze della lunga notte invernale.

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Etichetta Fernet Ferrero, amaro digestivo a base di erbe, prodotto nello stabilimento F.lli Ferrero di Riccardo, 1955

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Etichetta Vermouth Gran Torino prodotto nello stabilimento Noilly Prat di Torino e destinato al distributore Browne Vintners di New York – U.S.A, 1962

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el dopoguerra, Riccardo decide di ampliare la sua attività alle bevande gassate, con le quali sfida il gigante americano della Coca-Cola. Il suo prodotto di punta è l’Aranciata Martinazzi. Acquista una enorme macchina francese che fa tutto da sola: lava le bottigliette, le riempie, le etichetta, le chiude con i tappi Corona. Le bottigliette corrono sui nastri trasportatori come soldatini ubbidienti, salgono e scendono dalla macchina riempitrice, ed io, che non ho avuto un trenino elettrico all’altezza delle mie aspettative (nemmeno a Natale le abitudini delle famiglie italiane si allontanavano dalla più rigorosa parsimonia), sto a guardarle per intere mezze ore, affascinato dal sincronismo dei movimenti. Poter prelevare una bottiglietta dal nastro trasportatore e bere a garganella è uno dei piaceri che rimpiango di più. Per distribuire il suo nuovo prodotto, Riccardo ha allestito una flotta di camioncini che portano ben visibile sulle fiancate la scritta “Aranciata Martinazzi”. Sono almeno una ventina, una domenica sfilano in parata in Piazza Castello, e si fermano per la fotografia di rito, tutte allineate per bene come soldati. Come sempre Riccardo ha idee originali, in fatto di pubblicità. Una delle prime star dello spettacolo è Joséphine Baker, la ballerina e cantante afroamericana che era arrivata a Parigi nel 1925 e da allora aveva fatto

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impazzire i francesi, che l’avevano subito adottata. Joséphine ballava vestita di un solo gonnellino di banane. La sua nudità innocente, il suo garbo, il suo sorriso, la sua umanità erano irresistibili. Aveva portato al successo una canzone, J’ai deux amours, in cui diceva appunto di amare due cose, il suo Paese d’origine e Parigi, che l’aveva accolta con tanto calore. Riccardo riesce a farle firmare una dichiarazione in cui diceva di amare tre cose: il suo Paese, Parigi e l’Aranciata Martinazzi. A Torino c’è un giovane pubblicitario che sta facendo passi da gigante. Si chiama Armando Testa, ha fondato quella che diventerà una delle principali agenzie italiane. Riccardo gli chiede un manifesto per la sua aranciata Martinazzi. Testa ha un segno forte, diretto, immediato, che va al cuore del messaggio senza tanti fronzoli. Disegna una bella arancia rossa, e ci infila dentro una bottiglietta dell’aranciata Martinazzi, come a dire che arriva direttamente dal frutto. L’arancia di Testa è una specie di sole mediterraneo che esprime, vita, calore, entusiasmo. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Negli anni ‘50 a Natale è consuetudine diffusa regalare cassette di liquori. Anche Riccardo prepara le sue, come Cora, Cinzano e Martini e Rossi, e a me sembrano le più belle. Tornando da scuola, guardo le vetrine dei negozi che le espongono, e rientro a casa da tifoso contento. Allo stesso modo osservo le bottiglie ben allineate dietro i banconi dei bar, per vedere se hanno il suo vermouth, il suo cognac. Controllo i livelli delle bottiglie, se sono bassi vuol dire che sono richiesti. Alle scuole medie del Collegio San Giuseppe mi ritrovo nella stessa classe con Piero Cora e Ernesto Rossi di Montelera, eredi di due illustri dinastie di vermuttieri. Diventiamo amici. Piero è anche un campione di golf e vuole diventare ingegnere. Io vado bene in italiano ma vengo

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J’ai trois amours

Poster pubblicitario Aranciata Martinazzi, Armando Testa, 1955

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sempre bocciato in matematica, per questo lo guardo con speciale ammirazione. Il papà di Piero è un commendatore molto distinto, la mamma una signora molto bella, che però non compare mai perché ha sempre mal di testa e se ne sta ritirata nelle sue stanze. L’autista dei Cora si chiama Oscar, ci porta ai campi di golf su una Fiat 1500 dal muso lunghissimo. Oscar è imponente, stempiato. È il maggiordomo perfetto, sembra uscito da una commedia di Hollywood, o da un film di Hitchcock. I genitori di Ernesto possiedono una villa bellissima a Pianezza, affacciata sulla Dora che scorre poco sotto. In fondo al parco, in mezzo ad alberi d’alto fusto e spalliere di rose, c’è il tennis. Giochiamo tutti e due in modo disastroso. In compenso quando torniamo in villa ci attendono delle merende memorabili, tramezzini, spremute di frutta. I Rossi di Montelera sono dei gran signori. La villa mi intimidisce. A scuola ci danno i soliti temi. Che cosa farai da grande? Scriviamo tutti e tre le stesse cose: da grande farò il vermouth, e lo farò più buono di quello di Piero Cora e di Ernesto Rossi. Loro scrivono altrettanto. Poi confrontiamo i temi e ridiamo. No, non siamo molto concorrenziali e competitivi. Ci interessano di più le imprese delle squadre di calcio. Piero è un tifoso del Grande Torino, e suo padre addirittura un dirigente della società. Io invece sono juventino, perché Riccardo da ragazzo giocava nelle squadre giovanili. Da portiere, perché si era fatto male a un ginocchio. Credo fosse un bravo portiere. Aveva una grande rapidità di riflessi. Ancora negli ultimi anni era capace di acchiappare al volo una mosca che si fosse posata su un suo dito. Quanto a me, mi ero fatto cucire una bandiera bianca e nera dalla nonna Maria, juventina anche lei, per quando andavo allo Stadio Comunale, ex-Mussolini. Il tifo non era becero e violento come oggi. Guardiamo insieme le partite alla tv. I nostri idoli sono Boniperti, Char-

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J’ai trois amours

Collegio San Giuseppe a Torino, 4a ginnasio. Ernesto Rossi di Montelera e Ernesto Ferrero sono seduti in prima fila, primo e secondo da sinistra, 1952.

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Capitolo 10

Cantine odierne per lo stoccaggio del vermouth Gran Torino

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J’ai trois amours

Interno dello stabilimento di Moncalieri oggi. Linea di imbottigliamento

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Capitolo 10

Laboratorio per il controllo della qualitĂ

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J’ai trois amours

Degustazione finale prima dell’imbottigliamento

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les e Sivori, lo scugnizzo argentino che gioca con i calzettoni arrotolati sulle caviglie, ha una faccia da schiaffi e si diverte a fare il tunnel agli avversari, che lo odiano. Riccardo aveva conosciuto i tre danesi dell’attacco, i due Hansen e Praest, che erano diventati suoi clienti. Come tutti i nordici, anche loro adoravano i vini del Sud. Da grande non mi sono poi messo a produrre il vermouth, come gli altri Ferrero scesi dalle alte colline delle Langhe, e come i miei compagni di scuola. La vita è fatta di svolte e giravolte strane, di appuntamenti mancati, di sorprese, imprevisti, coincidenze fortuite che diventano altrettanti segni del destino. Nel mio destino c’erano i libri, la scrittura, l’editoria. Dicevano che anche al nonno Enrico piacesse scrivere, ma non voleva abbandonare la strada di quello che lui sentiva come un dovere primario, occuparsi dell’azienda di suo padre. Mi farebbe piacere poter dire che ho potuto realizzare quello che per lui, imprenditore per obbligo, era rimasto un sogno. Mio padre ci ha lasciato più di vent’anni fa, ma ogni giorno parlo con lui. Forse non gli sono mai stato tanto vicino. Ricordo con tenerezza i pomeriggi delle sue domeniche, quando si sedeva al tavolo dello studio, tirava fuori da una valigetta le sue carte, e si divertiva a progettare, sempre con il fido regolo in mano, nuovi impianti più moderni, nuovi padiglioni e magazzini, nuove linee di trasporto delle bottiglie, controllando tre volte gli stessi conti, stilando preventivi, limando budgets. L’ordine rigoroso delle sue carte mi dava sicurezza. Fosse stato in mano sua, il disordine del mondo avrebbe potuto finalmente acquistare un senso. La fabbrica mi è rimasta nel cuore. Adesso è di proprietà di Carlo Vergnano, che lì aveva fatto i primi passi della sua carriera professionale, entrandovi dopo la laurea. Mio padre lo stimava e gli voleva bene. Mi

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J’ai trois amours

Gran Torino Bianco, packaging 2005

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Capitolo 10

fa piacere che il quaderno nero con le ricette segrete lo abbia lui. Sono tornato di recente a vedere la fabbrica. Il tiglio odoroso della mia infanzia è stato tagliato, ma tutto è più grande e più moderno. Ho visto i nuovi impianti che Riccardo aveva progettato nei suoi tranquilli pomeriggi domenicali. Le linee di imbottigliamento corrono a pieno ritmo, le donne che appiccicano le etichette chiacchierando fitto tra loro sono sparite. Le macchine fanno tutto loro. Ogni passaggio è automatizzato, ma gli alambicchi sono sempre acquattati nell’ombra come grossi bonzi tibetani, elegantissimi e solenni nelle loro livree di rame. Nei magazzini stanno allineate ordinatamente, a perdita d’occhio, le cassette che andranno per il mondo. Grossi, lunghissimi Tir le aspettano sui piazzali. Vergnano mi fa assaggiare un bicchiere di Gran Torino. Chiudo gli occhi, mi concentro e cerco di ritrovare le erbe che aiutavo a versare nelle grandi casse di zinco e che fanno l’unicità del suo gusto. Penso al bisnonno Riccardo, al suo sogno di conquistare Torino, di avere un negozio e una fabbrica sua. Mi viene in mente una frase che Cesare Pavese aveva annotato nel suo diario: questo solo conta nella vita di un uomo, il ricordo che porta e il ricordo che lascia.

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J’ai trois amours

Gran Torino Bianco, packaging 2013

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Cronistoria

1861

Riccardo Ferrero, capostipite della famiglia, ottiene la licenza n. 3 e apre il suo primo negozio a Torino vicino a Piazza S. Carlo per la produzione e vendita al pubblico di distillati, liquori e sciroppi, ma soprattutto del vermouth Gran Torino. Nasce la Casa Ferrero, e con lei la storia di una passione italiana lunga più di 150 anni.

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1890

I prodotti Ferrero piacciono da subito alla clientela e si distinguono dalla concorrenza per la loro straordinaria fattura e qualità. E’ sull’onda di questi successi che l’azienda ottiene l’ambito riconoscimento di “Fornitori della Real Casa”. Nel giro di pochi anni, la famiglia inizia a commercializzare i propri prodotti anche all’estero: la Francia, la Germania, l’America. La ditta F.lli Ferrero di Riccardo raccoglie onorificenze nelle esposizioni industriali che si tengono a ritmo serrato in molti paesi del mondo: Milano 1894, Edimburgo e Guatemala 1897, Buenos Aires e Torino 1898.


1861-1911

1906

Enrico ed Ernesto, figli di Riccardo, prendono in mano le redini dell’attività di famiglia. Con loro avviene il passaggio alla dimensione industriale, grazie alla costruzione di uno stabilimento tutto nuovo, dotato di impianti all’avanguardia, con sede in Moncalieri (Torino), vicino alla stazione ferroviaria di Trofarello.

1911

La Grande Guerra è alle porte ma i fratelli Ferrero non si perdono d’animo. Decidono di concentrarsi solo su alcuni prodotti, uno di questi è il vermouth Gran Torino. Per questo affidano ad un famoso studio di Torino il redesign del logo Gran Torino. Il vermouth di Casa Ferrero, con il nuovo logo stampato sull’etichetta, ottiene il Grand Prix all’Esposizione Universale di Torino del 1911.

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Cronistoria

1930

Mentre in Italia e nei principali mercati internazionali imperversa la grave crisi finanziaria, Riccardo Ferrero, figlio di Enrico, subentra al fianco dello zio Ernesto nell’amministrazione dell’azienda. Riccardo, animato da una grande passione imprenditoriale, punta sull’espansione dell’attività. Acquisisce un marchio molto noto e apprezzato a Torino, la Casa Martinazzi, fondata nel 1864, ed accresce così la quota nel mercato di vermouth e liquori.

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1935

Ha inizio la prima diversificazione della produzione. A quella tradizionale dei vermouth e liquori viene affiancata quella del brandy. L’azienda acquisisce da una casa francese il marchio Renè Briand ed inizia a distillare il brandy nello stabilimento di Moncalieri secondo le formulazioni sviluppate in collaborazione con la casa francese.


1930-1961

1950

1961

Nel dopoguerra, l’azienda entra nel mercato dei soft drink. Il prodotto di punta è l’Aranciata Martinazzi che ben presto diventa una delle bevande più conosciute e apprezzate dal pubblico italiano.

La multinazionale Seagram e la francese Noilly Prat acquisiscono l’azienda di Moncalieri nella misura del 50% ciascuno ed entrano nel mercato del Vermouth Classico di Torino.

Una joint venture con la Canada Dry International Incorporated di New York avvia la produzione in esclusiva nello stabilimento di Moncalieri delle bevande gassate della società americana.

Nel corso dell’anno, la produzione supera 1 milione e mezzo di litri di solo vermouth bianco ottenuto dalla miscelazione di vini bianchi secchi con gli estratti aromatici di erbe spezie e radici tra cui la genziana, l’artemisia e l’angelica.

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Cronistoria

1967

Viene ampliata l’area produttiva dell’azienda con la costruzione a Santena (Torino) di magazzini di invecchiamento e doganali di 8.000 mq su una superficie di 104.000 mq, che si vanno ad aggiungere allo stabilimento di Moncalieri.

1974

La Seagram finalizza l’acquisizione del 100% dell’azienda di Moncalieri e diventa unico proprietario.

L’azienda di Moncalieri cambia denominazione in Seagram Italia S.p.A.

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1983


1967-2005

2003

Vasco International Group S.a.r.l. Lussemburgo acquisisce Gran Torino, tra i marchi storici italiani leader a livello internazionale nel segmento aperitivi e vermouth.

2005

Gran Torino rinnova la sua immagine con la linea vermouth (Bianco, Rosso e Extra Dry). Adesso la bottiglia esprime una brand image unica e distintiva. Le nuove curve la rendono più snella, mentre l’etichetta più sobria ed il logo trasversale Gran Torino attirano l’attenzione e danno maggiore visibilità al prodotto. I vermouth Gran Torino tornano ad occupare una posizione di assoluto primo piano sui mercati internazionali, forti come sono di una lunga tradizione familiare costruita sui valori della qualità e dell’innovazione.

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Cronistoria

2007

Con Gran Torino Asti D.O.C.G. e Gran Torino Prosecco D.O.C. Extra Dry, il Gruppo Vasco entra nel mercato dei vini spumanti. La linea elegante della bottiglia “collio” e l’etichetta trasparente su cui risalta il logo Gran Torino, vogliono comunicare al consumatore le caratteristiche premium del prodotto. E’ questa l’occasione per il Gruppo di ampliare il proprio brand portfolio con un altro marchio leader.

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2010

Allied Brands S.r.l. acquisisce il marchio Gran Torino ed insieme una lunga storia di famiglia.


2007-2013

2012

Nuovo packaging e nuove referenze per la linea Gran Torino spumanti. Asti D.O.C.G. e Prosecco D.O.C. Extra Dry sono adesso affiancati da Cuvée Storica Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore D.O.C.G., Prosecco D.O.C. Treviso e Cuvée Velvet Extra Dry Rosé. Le nuove etichette, sottili e minimaliste, evidenziano nei colori le diverse tipologie di prodotto, senza dimenticare il passato di storia e qualità dell’azienda. Sul collarino impreziosito da una striscia di velluto, compare la scritta “Fornitori della Real Casa dal 1861” e l’immagine del toro con la corona, simbolo della città di Torino, che entra ora a far parte del logo Gran Torino.

2013 Anche il Vermouth cambia look. Il nuovo design interessa sia la forma del vetro sia la grafica e la forma dell’etichetta. Il risultato è una bottiglia elegante e slanciata che esprime forza e personalità. Il toro con la corona, simbolo ormai del Vermouth Gran Torino, e la parola Gran Torino vengono lavorati a bassorilievo sul vetro, rendendo la bottiglia ancora più preziosa e inimitabile. L’etichetta sul fronte ripropone in maniera essenziale e moderna il logo trasversale Gran Torino, mentre la parte inferiore dell’etichetta sintetizza gli elementi storici che garantiscono l’autenticità e la qualità del prodotto: la licenza numero 3, l’anno di fondazione della casa e la firma originale “F.lli Ferrero di Riccardo”. Con questa nuova e forte identità visiva, il Vermouth Gran Torino si reinventa ed è pronto a riconfermare la propria posizione di primo piano sul mercato.

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Indice

Prefazione 5 1. Le origini

9

2. La capitale del Regno d’Italia

17

3. Gran Torino

29

4. La prima liquoreria

35

5. La ditta “Fratelli Ferrero di Riccardo”

59

6. Le grandi Esposizioni

67

7. Uno stabilimento moderno

77

8. Tempi nuovi, nuovi gusti

89

9. Il quadernetto segreto

97

10. J’ai trois amours

113

Cronistoria

126

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