DEDALUS
N째1 Ottobre 2014
Per un futuro sempre pi첫 antico, pronti ad aprire un nuovo volume
Sommario
4. Attualità Comunicare le emozioni - Giulia Freni La tradizione aretina - Alessandro Falsini Amici di Alice - Alessandra Innocenti Intervista ai candidati al Consiglio d’Istituto - Andrea Riccardo Albiani Un manifesto per la libertà - Carlotta Casi Libera interpretazione del Carme III,30 di Orazio - Nico Loreti Domino Moderatori Atque Patrono Lycei Francisci Petrarchae - Enrico Fedeli
12. Letteratura
La ragazza delle arance - Marta Nanni Cìeldikarta
17. Arte
Igor Mitoraj: lo scultore dell’oblio - Serena Citernesi
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18. Cinematografia
La promessa dell’assassino - Alberto Ghezzi Drag me to hell - Marco Tenti La messa è finita - Rosaria Carlino
22. Musica
Bob Dylan: Blond On Blond - Matteo Quinti - Gabriele Liberatori Can you felle the spirit - Alessandra Bracciali
26. Narrativa
Soldato senza nome - Martyna Landini Illusioni Ottiche - Sofia Casini
28 Poesia
Silenziosa Realtà - Adele Severi
Editoriale Cari lettori e scrittori in erba, anche quest’estate è passata, riportandoci alla piccola ma cara realtà del nostro Dedalus. Onorati che ci sia stato passato il testimone, mi pare doveroso rivolgere un ringraziamento alla redazione dell’anno scorso, composta da Ginevra Bianchini, Renzo Nuti e Luca Parlangeli, e a tutti coloro che hanno dedicato tempo ed attenzione a questo giornalino. Siamo pronti a proseguire con impegno e volontà un percorso intrapreso ormai da anni, volto a riscoprire e reinventare quello che non è semplice carta scribacchiata, ma uno strumento utile, uno spazio libero d’espressione, uno snodo di informazione, confronto, dialogo e arricchimento reciproco, un campo aperto dove ogni studente può dare il proprio contributo saggiando al contempo le sue capacità. Consci del clima di mutamento e instabilità che aleggia per i corridoi, vogliamo iniziare con un piccolo omaggio nostalgico in onor del passato, dedicando quest’edizione del Dedalus al Professor Giampiero Giugnoli, Preside che per 24 anni, in compagnia di Pascoli e La Penna, fra sermoni ampollosi e voli pindarici, ci ha dimostrato come amare e proteggere una scuola che merita di vivere di vita propria. E a questo proposito, presa nota dell’incerto futuro che ci si prospetta, faccio appello ai ragazzi del Liceo Classico e del Liceo Musicale, affinché si impegnino a far fronte comune: quest’anno più che mai, gli studenti tutti hanno il compito di dimostrare quanto importante sia la natura dei propri studi e quanto per essi siano disposti a darsi da fare, nell’ordine di mantenerne la validità, l’indipendenza e, non dimentichiamocelo, la bellezza.
Per questo ci auguriamo che i ragazzi di entrambi i Licei vorranno partecipare attivamente, dire la propria su questa ed altre questioni, dar prova della volontà e della forza degna di un Liceo storico quale il nostro “Francesco Petrarca”. E il Dedalus può essere un ottimo mezzo per farlo. Con un numero di partecipanti pari (e superiore!) all’anno passato e il giusto spirito di collaborazione, il Dedalus può intraprendere una battaglia sui generis a favore di quest’istituto, riconoscendo l’importanza dei suoi curatori e della sua stessa natura. Può sembrare un’entità troppo piccola per cambiare le cose, ma siamo ancora giovani, abbiamo il dovere di credere che il più piccolo degli sforzi, se fatto ottimamente, può fare la differenza. E dunque ecco il secolare invito a scrivere, scrivere e scrivere, a far partire ogni progetto brillante e ogni idea innovativa dalla punta di una biro, non solo riguardo al Dedalus ma nel quotidiano, consapevoli che “Non importa se
i tuoi scritti saranno pubblicati o no. E’ meglio un fascio di fogli sui quali ti sei sforzato per qualcosa per cui valeva la pena lottare, che un racconto in ogni rivista e la fama internazionale” (Dylan Thomas). Inviateci dunque i vostri articoli, racconti, saggi o quanto ritenete interessante e fruttuoso all’email dedalus.classico@gmail. com. E noi faremo del nostro meglio.
Serena Citernesi a nome di tutta la redazione
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Attualità
COMUNICARE LE EMOZIONI Con il grande processo tecnologico si è rivoluzionata la vita dell’uomo e, in particolare, il modo di comunicare le emozioni: prima si scrivevano lunghe lettere, adesso viviamo in un mondo di e-mail ed sms. Il grande sviluppo tecnologico degli ultimi anni ha cambiato radicalmente il modo di vivere di molte persone; a chi non è mai capitato infatti di prendere in mano il proprio cellulare e connettersi ad Internet semplicemente per scrivere un’e-mail, aggiornare il proprio stato su Facebook o controllare i messaggi su WhatsApp? Oggi risulta quasi “normale” comunicare le nostre emozioni attraverso un social network o tramite sms, cosa che non era affatto pensabile fino a qualche decennio fa. Ai tempi dei nostri nonni infatti non esistevano computer, tablet o cellulari e, quando ci si voleva mettere in contatto con una persona lontana, si era soliti scrivere una lettera in cui esprimere i più profondi sentimenti. Anche se le lettere impiegavano molto tempo prima di arrivare a destinazione e si dovesse sopportare l’attesa di una risposta, scrivere una lettera suscitava sicuramente un’emozione unica: sentire l’odore della carta, trovare le parole adatte per esprimere al meglio ogni emozione, comunicare con qualcuno lontano e sentirlo vicino. Si scrivevano lettere al fidanzato o al marito lontano, all’amico conosciuto durante un viaggio, a un familiare trasferitosi per trovare migliori condizioni di vita, a parenti distanti, a qualcuno che stava
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combattendo una guerra… Nelle lettere si esprimevano sinceramente le emozioni e si parlava di gioie, dolori, paure, speranze; quando una persona scriveva una lettera, vi metteva tutta se stessa attuando un’attenta scelta lessicale che facesse comprendere all’interlocutore ciò che provava nel preciso momento in cui si impegnava a scriverla, anche se era consapevole che la lettera sarebbe arrivata a destinazione molti giorni dopo. Oltre che scrivere una lettera era sicuramente una sensazione stupenda riceverne una: si poteva conservarla e rileggerla ogni volta che si voleva, si poteva percepire il significato di ogni singola parola impressa sulla carta e ammirare la calligrafia di chi ci stava scrivendo. E’ certo però che l’emozione di scrivere una lettera era sempre la stessa e non è equiparabile a quella che proviamo oggi quando, per comunicare con un amico o con una persona che vive dall’altra parte del mondo, scriviamo un’e- mail o un sms. Infatti, a differenza dello scrivere una lettera, usare i mezzi di comunicazione moderni implica un rapporto meno diretto con l’interlocutore dal momento che ci si esprime molto spesso con abbreviazioni che rendono la conversazione più monotona rispetto a una lettera scritta a mano con impegno e con pazienza.
Inoltre comunicando attraverso sms o un social network, si rischia di estraniarsi dalla realtà che ci circonda e vivere rapporti virtuali che limitano le relazioni con il prossimo nella vita reale. Questi mezzi di comunicazione sono privi di emozioni e, se ne hanno, non sono sincere come quelle espresse da una lettera scritta a mano o da due occhi che si incrociano. Come infatti dice il grande scrittore Paulo Coelho, “Possiamo avere tutti i mezzi di comunicazione del mondo, ma niente, assolutamente niente, sostituisce lo sguardo dell’essere umano.”
Giulia Freni
La tradizione aretina Come veniva prodotto il mezzo vino (meno pregiato di quello normale) dai contadini aretini
L’Italia è un Paese ricco di dialetti, che molte volte vengono trascurati: una ricchezza, un patrimonio culturale unico. Il territorio di Arezzo è la culla di un dialetto che ha influenzato poeti e letterati soprattutto medievali, e, carico di storia, tramanda una tradizione con antiche radici. È per questo ch, cercando di riscoprire le usanze passate, quando negli anni 40 e 50 del 1900 il nostro territorio era prevalentemente agricolo, propongo questo brano che narra di come in quei tempi, quando il cibo in tavola non era mai abbastanza, si produceva “ ‘l chècio”.
Co’ llatte de pechèra ce se faciva ‘l chècio. Bensìe, quande ce s’ aiva anco le chèpre, se mishjìeva, che ‘l latte de pechèra è più grasso e quel de chèpra ‘nvece è più liggero e stringe meno. Pe’ ffallo se piglia la secchia col latte e se mette ‘n un pignatto de coccio ‘nsiémi al gagghio . (Quande s’ amazza un caprittino, ‘n fondo a lo stommeco gne ci armane qualche palla de lette mèzza digirita e mèzza no. Quelle palle de latte sono ‘l gagghio). No’ se piglièva come fusse unguanno e se mittiva insiemi a tre zzicchine de nocia, tre foglie de rovo, tre de grèno, tre de serpollo , ‘n goccio d’ ojo e ‘n po’ d’ aceto bianco; se faciva ‘l battuto e se rumava dimolto. Doppo se chiudiva drento ‘n panno e gne se faciva passère sopra ‘l latte. Quel latte va drento un pignatto de coccio e ‘l pignatto va misso drento ‘na pentola a bagnomaria
cch’ è pronto. Se cava ‘n pòco a la volta pe’ mmettelo nel cerchio un dù se fa la forma. Con ‘l siero ch’ armène drento ‘l coccio ce se fa la ricotta. Misso ‘l latte aggagghièto ‘nsul cerchio, ‘gn’ aguardère che ‘n ce sia ‘l siero e alora se pizzeca e ce se gira financo ‘n s’ è scoléto pirbinino. Doppo se lascia nel cerchio ‘n giorno antero e se sèla ‘n par de volte. Pe’ ffagli piglière quel culurino giallino s’ arintufa ne lo scotto (lo scotto è l’ acqua che ce resta doppo fatta la ricotta). ‘Na volta ‘gni quindici giorni gne se da ‘na lavèta e doppo ‘n par de mesi se unge e s’ acendarava . Le forme de chècio pronte se tiniveno sopra ‘no strèto de foglie de nocio drento a la caciaia.
Alessandro Falsini
1. Secchio apposito 2. Caglio 3. Quest’ anno 4. Gemme 5. Erba profumata 6. Simile a un vaglio, che dà la forma al latte coagulato 7. Si immerge di nuovo 8. Si passa nella cenere
Misso ‘l latte aggagghièto ‘nsul cerchio, ‘gn’ aguardère che ‘n ce sia ‘l siero e alora se pizzecace se gira financo ‘n s’ è scoléto pirbinino.
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amici di alice Un’associzione della scuola per la scuola.
LA PRIMAVERA La primavera era dentro di me, godevo del primo tepore della stagione; la mia anima e la mia mente erano libere, avvolte nella felicita’, ero serena, non pensavo a niente pero’ sentivo il cuore pieno, grande, padrone dell’universo intero. Mi sentivo calda, sorridevo e cantavo guardando il cielo terso e io ero un uccello che volava nell’immensita’, guardavo l’acqua che sgorgava dalla fontana e mi sentivo limpida, pura e fresca come lei, guardavo i fiori del prato e io sbocciavo con loro. All’improvviso chiusi gli occhi e mi sentii grande. La mamma mi chiamo’: ed era tutto tristemente finito. “(30 marzo 1993, IV elementare) Alice Sturiale nasce il 18 Novembre del 1983. Soffre di una malattia congenita alle gambe, ma questo non le impedirà mai, nella sua breve vita, di gioire dell’attimo presente. Ha tante passioni, la piccola Alice, tra cui la musica e lo sport, che purtroppo non può praticare. Ha sogni, aspettative, come qualunque altra bambina della sua età. La sua forza sta soprattutto nel non lasciarsi mai abbattere e nel diffondere
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Chiè in difficoltà, siano fisiche o mentali, merita di avere le stesse possibilità di chiunque altro.
attorno a sè la sua spontaneità e il suo calore. Viene tuttavia vinta dalla malattia, e lascia questo strano mondo all’improvviso, circondata dai suoi amici, nel bel mezzo di una risata. Anche se il 20 febbraio 1996 ci ha privati del suo sorriso, conserviamo però qualcosa che ci rende speranzosi nel futuro: il suo esempio.
I suoi pensieri sono raccolti nel “Libro di Alice”, dove i suoi genitori hanno convogliato le sue riflessioni, poesie e temi scolastici. E’ nata anche l’Associazione Alice, che promuove iniziative a favore di bambini e giovani con difficoltà psicofisiche. Davanti a tutto questo, anche la nostra scuola ha deciso di
mobilitarsi e di fare qualcosa per migliorare la condizione dei ragazzi disabili. Nel 2011 nasce infatti l’associazione Amici di Alice, sotto l’iniziativa del professor Manfredonia, composta da giovani volontari che con varie iniziative racimolano quanto basta per dare un aiuto a coloro che ne necessitano di più. Principalmente ciò che raccogliamo viene usato per finanziare il Monteore degli insegnanti di sostegno, che non viene completamente coperto dallo Stato. Ciò permette agli studenti di essere seguiti di più e di avere a disposizione più tempo per imparare.
Inoltre, allorché i fondi raccolti fossero maggiori, si possono utilizzare per l’acquisto di dispositivi tecnologici, sempre finalizzati ad aiutare l’apprendimento scolastico. L’esempio di Alice ci insegna che bisogna dare valore ad ogni singolo giorno, senza mai smettere di confidare nel domani. Questo significa anche adoperarsi affinché chi è in difficoltà, siano fisiche o mentali, merita di avere le stesse possibilità di chiunque altro.
interessato a partecipare a far sentire la propria voce. Per informazioni su ciò che facciamo, sulle prossime iniziative o su come diventare soci, potete consultare la bacheca posta davanti alla Sala Professori o chiedere al responsabile dell’associazione Dejan Uberti, 5^ A. Grazie di aiutarci nel diffondere il sorriso di Alice! Alessandra Innocenti
Questo è ciò che l’associazione si propone. Invitiamo dunque chiunque sia
intervista ai candidati al consiglio d’istituto Il 24 ottobre ogni studente di questa scuola avrà la possibilità di votare due liste, le cui idee e proposte influiranno sullo svolgersi del corrente anno scolastico. La prima lista è la lista Petrarca, rappresentata da Enrico Fedeli (già eletto l’ anno scorso rappresentante), Francesco Tenti e Tommaso Caperdoni dal Liceo classico, e da Ilaria Landucci, dalla sezione musicale dell’ Istituto. La seconda lista è invece rappresentata da Nico Loreti e Riccardo Borgheresi, del Liceo Classico. La seguenti interviste mettono in luce gli aspetti basilari e più importanti dei programmi delle due Liste in oggetto, a partire dal motto che ogni lista è portata a evidenziare come fondamento del proprio programma politico.
Avete una frase che vi caratterizza... cosa significa? Lista 1: “Liberarare le menti dalle catene dell’ abitudine.” La frase è di Platone, ma abbiamo scritto
“Gianpiero Giugnoli” perché, nei suoi saluti per l’ inizio dell’ anno, ha detto: “Studiamo un curriculum composto da materie liberali, ovvero che liberano la mente dalle catene dell’ abitudine”. Le materie che studiamo ci portano a capire veramente come è fatto il mondo e a dare una sintesi alla storia del mondo, della filosofia, della letteratura, per creare una rete di significati che ci possa servire anche per il presente. E’ questo il perché dell’ airone che, finalmente, vola: si libera dai condizionamenti. Siamo stati abituati ad una struttura degli studenti fragile, che non rispondeva anche alle esigenze di una popolazione studentesca che cercava anche un cambiamento radicale. Dobbiamo trasfromare la potenza in atto. Lista2: “Vindica te tibi!”. E’ l’ incipit di Seneca nelle lettere a Lucilio e significa “Riappropriati di te stesso”. Come abbiamo
Come abbiamo detto in propaganda, tutti i nostri punti sono volti a questo motto, significa quindi che ogni nostra proposta ha come movente il riappropriarci di noi stessi in quanto studenti del nostro istituto, vogliamo tornare a rivivere la Scuola come seconda casa, essendo determinati e soprattutto determinanti, come è nostro diritto. Ne troviamo esempio in tutte le nostre proposte, noi vogliamo incitare, anche secondo la nostra esperienza, a vivere la Scuola in un modo diverso.
Date la precedenza ai problemi interni o alla pubblicità? Lista1: Dobbiamo cambiare l’ immagine all’ esterno, ma anche valutare gli aspetti all’ interno. Non viene valorizzato l’ aspetto fondamentale del Liceo Classico e Musicale. Stiamo cercando di lavorare molto sugli Open Day per invogliare gli studenti ad iscriversi alla nostra scuola. Per far salire
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Per far salire gli iscritti è necessario andare direttamente nelle classi, come primo impatto. Fare pubblicità è fondamentale, ma ovviamente dobbiamo dar valore a entrambe le cose. Lista2: La pubblicità è importante nel momento in cui si ha qualcosa da pubblicizzare, sono gli uni in funzione dell’ altra. Poichè non dobbiamo svendere merce, ma portare, pubblicizzando, quello che effettivamente accade quì. Sarebbe inutile pubblicizzare qualcosa per cui dopo gli studenti si pentano. Anche negli open day abbiamo intenzione di favorire il rapporto dello Studente con lo Studente, un rapporto più confidenziale che favorisca veramente l’ immagine del nostro liceo e che invogli lo studente.
Siete d’ accordo con le proposte dell’ altra lista? Lista1: I Rappresentanti d’ Istitituto sono rappresentanti, quindi premesso che noi abbiamo intenzione di seguire gli studenti che rappresentiamo fino in fondo, seguendo anche le loro proposte. Quindi al massimo possiamo esprimere il nostro disappunto su questioni ma come persone, e non come rappresentanti di una lista. Quello che cambia sono i valori, ma da candidati possiamo solo dire che il nostro programma non è fisso ma opinabile dagli studenti. Siamo convinti che i rappresentanti debbano dedicare molto tempo al mantenimento della loro carica, e su questo aspetto siamo avvantaggiati. Noi dietro abbiamo un organizzazione aperta a tutti, la Lista Petrarca tornerà ogni anno a proporsi di rappresentare l’ intero istituto. Quindi le proposte della lista 2 che gli studenti reputeranno positive saranno appoggiate e attuate anche da noi. Lista2: Se dobbiamo mettere in dubbio una cosa, che sia
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quella dell’ Istituzione di una Commissione organizzativa per l’ assemblea. Per definizione essa è un momento collettivo per definizione. Il significato dato a quella proposta è dato dal fatto che l’ anno scorso le assemblee venivano erette solamente da un singolo o da pochi, però siamo tutti a organizzare l’ assemblea. Le assemblee funzionano se sono le persone che vogliono attivarsi, poi la gestione è individuale. l’ idea di creare un gruppo chiuso è l’ opposto dell’ assemblea stessa. Dobbiamo valutare anche che le nostre proposte sono simili, perchè di fatto è esistita una collaborazione, ma le nostre liste portano avanti programmi diversi.
Cosa pensate che porti gli studenti a favorire la vostra lista? Lista1: La nostra lista espone i pareri di un organo costituito da studenti del Classico e del Musicale, abbiamo almeno un firmatario per ogni anno e garantiamo la continuità del nostro programma. Non si tratta di preferire quattro persone, ma di preferire loro stessi, noi crediamo che le persone circolino ma i valori restino. Cerchiamo di rappresentare entrambi gli istituti come uno e unico ma senza che nessuno rimanga all’ ombra dell’ altro. Noi abbiamo molto tempo a disposizione da dedicare alla lista e per questo pensiamo che agli studenti convenga votare la nostra lista: per loro stessi e per la scuola. Lista2: Il punto forte della nostra lista è tutto il lavoro che mettiamo dietro a essa. Noi siamo stati due volte al provveditorato, abbiamo parlato due volte con i docenti, ci siamo informati, abbiamo letto tutte le legislazioni ministeriali, la Buona Scuola di Renzi, per questo il nostro lavoro è così concreto e su basi fondate, penso anche che gli studenti debbano
essere attratti dal nostro motto, che ci riavvicina alla scuola. E’ anche vero che le nostre proposte sono responsabilità, ma crediamo negli studenti, renderemo le cose più difficili ma più vere. Andrea Riccardo Albiani P.S. La lista 1 vuole precisare che la commissione organizzativa per l’ assemblea non sarebbe un gruppo chiuso ma aperto a chiunque volesse aiutare a pubblicizzare o organizzare a livello logistico l’ assemblea.
Un manifesto per la libertÁ L’uomo sa di esser vivo in quanto essere dotato di volontà, compiere liberamente le proprie scelte, esprimersi come vuole, essere libero di decidere indipendentemente dal giudizio altrui sono sue espressioni . Essa costituisce l’essenza della sua vita ed egli la sente e non può sentirla altrimenti che come libera, perché senza l’idea stessa di libertà non solo non capirebbe la vita, ma non potrebbe vivere neanche per un istante. Dunque secondo quale criterio o motivazione io sono legittimato a privarlo ciò? Perché una qualsiasi persona dovrebbe sentirsi in dovere di condannarne un’altra ? La risposta è semplice: perché ha opinioni diverse dalle sue. Utilizzando a giustifica questo crudele fondamento sono state uccise milioni di persone (perché la persecuzione è purtroppo un’antica abitudine), compiendo crimini orribili, massacrando e torturando degli innocenti, la cui unica colpa era quella di pensare. Questa è la sostanza del Trattato sulla Tolleranza”(1763) dell’illuminista francese Voltaire, un libro-denuncia che ci illustra in maniera cruda e realista le atrocità della persecuzione, in questo caso, religiosa. E’ un opera profonda e completa, l’ideologia della quale ha dato il via all’ Epoca dei Lumi ed è stata una delle basi su cui si è fondata la Rivoluzione Francese.
che possedeva l’inquisizione e il proibitivo fanatismo degli abitanti, esteso dai contadini fino ai giudici di tribunale. Del suo omicidio Voltaire scrive infatti “commesso con la spada della giustizia”, denunciando il mancato compito delle istituzioni che dovrebbero farsi garanti dei nostri diritti ed essere in grado di riservare a tutti un’equa giustizia. Egli fu condannato a supplizio e fatto morire sulla ruota alla per accondiscendere alle pressanti proteste degli abitanti cattolici, che volevano a tutti costi vendicarsi dei protestanti ,nutrendo la loro fede di prove, così a loro sembravano, concrete e giuste.Il povero negoziante, di nome Jean Calas, era accusato di parricidio, cioè di aver ucciso il suo stesso figlio. Quest’ultimo ,Marc-Antoine, aveva una personalità assai inquieta, era molto irruento e cupo e,come tutti sapevano, si era suicidato dopo una perdita al gioco; essendo però lui cattolico, a differenza della famiglia, viene celebrato come un martire, e fornisce un abile pretesto per la condanna della famiglia. Con una sintassi molto chiara e scorrevole, di tanto in tanto ironica, Voltaire classifica le sue argomentazioni in 26 capitoli, di varia lunghezza.
Partendo dal caso Calas, si sofferma dapprima sul contesto e sugli avvenimenti della Riforma, spiegando i concetti opposti (non sempre visti tali) di intolleranza e tolleranza e , definita quest’ultima quale diritto, ce ne illustra gli aspetti. Segue la seconda parte, che,sebbene non troppo complessa, reinterpreta alcuni fatti da un punto di vista molto, molto di parte, confutando molti eventi storici ormai consolidati, arrivando perfino a rinnegare la persecuzione cristiana nei secoli 1-2 d.C. La conclusione , che comprende gli ultimi cinque capitoli è la riflessione personale dell’autore. L’opera è molto accurata, documentata molto scrupolosamente e in modo assai preciso, inoltre molto interessante e facile da leggere. Concludendo , questo libro ci rende un po’ più consapevoli di ciò che è accaduto in passato , ma che purtroppo continua ripresentarsi e a riproporsi ancor oggi; l’ingiustizia contro coloro che pensano differentemente da noi è crudele , soprattutto perché a subirne gli effetti sono sempre i più deboli. Essere tolleranti non solo è un dovere di giustizia, ma permette anche che lo siano gli altri nei nostri confronti. L’intolleranza, contrariamente, è sempre iniqua e non è strettamente legata alla religione, può infatti essere esercitata da tutti e in qualsiasi contesto; non è sbagliato difendere ciò che è giusto e legittimo, perché è nostro diritto. Carlotta Casi
L’evento che ispirò l’autore, e sul quale è basato l’intero libro, fu la condanna a morte di un commerciante ugonotto di Tolosa, importante città della Francia meridionale, nota soprattutto per l’autorità
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Libera interpretazione del carme III,30 di Orazio Impressit ibi sulcum aere perennius
Ha tracciato un solco più durevole del bronzo
non inter modulos, cartea iussaque
non fra moduli, carte e costrizioni,
vetans aut animos despolians fere
vietando o svuotando insensibilmente gli animi
sed coris adulescentium et omnium
ma nei cuori dei giovani e di tutti coloro
qui carpere sapint quod minus se offerat.
che sanno cogliere ciò che meno si mostra.
Numquam, praeses Iampieros, hinc nimis
Mai, preside Giampiero, sarai troppo distante da qui
donec saltem unus nostri erit memor annorum studium dulcis amoris in, semper te meminit praesidem unicum tu hunc scis, nos igitur sic: ave ac vale!
finchè almeno uno di noi sarà memore degli anni di dolce amore per lo studio, sempre ricorderà te, unico preside, tu questo lo sai, dunque noi ti diciamo così: addio e stai bene!
Nico Loreti
Domino moderatori atque patrono Lycei Francisci Petrarchae Volendo ricordare una figura fondamentale per il Liceo Petrarca, che ha sempre parteggiato per noi studenti ad ogni consiglio d’istituto, che ha sempre cercato l’iteresse generale, che sapeva prendersi le proprie resonsabilià e portarle fino in fondo, e, nonostante qualcuno dica il contrario, aperta al cambiamento come pochi, sentendo il bisogno di rammentare quanto fossero alti il metodo, le parole, i consigli, le lezioni, le riunioni e, perché no, anche la concinnitas, ovviamente priva di virgole chiarificatrici, visto che l’interpretazione della punteggiatura era lasciata al lettore, che avrebbe comunque saputo porla in modo univoco, scrivendo quindi con la giusta serietà “ma non senza commozione” queste lettere, affermando che sono fiero di aver avuto l’onore oltre che il piacere di averla conosciuta, di aver assistito alle sue lezioni e di aver potuto parlare più volte con lei di Canfora, Gentile, Tucidide come del presente, del passato e del futuro del nostro liceo, tanto che questo mi ha portato a considerare che nonostante un decreto del governo non le ha permesso di compiere il quarto di secolo alla giuda del nostro Liceo, non per questo lei non è stata la personalità più importante della sua storia, avendo diretto come un direttore d’orchestra degno di Karajan l’istituto, crescendo il Liceo Musicale e accudendo il Liceo Classico come figli, reputo che queste povere parole sono il minimo che le spetta, potendo però citare una professoressa molto legata al destinatario di questo scritto che spesso ha detto: «A parlare con lui si imparava qualcosa di bello e di buono anche da un semplice “Buongiorno”». Grazie A Giampiero Giugnoli Preside del Liceo Ginnasio “F. Petrarca” dal 1o settembre 1990 al 31 agosto 2014 Enrico Fedeli P.S. Che la forma ipotattica a lei cara possa far apprezzare ancora di più il sincero messaggio.
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Letteratura
La ragazza delle arance Un incontro con la filosofia e con la gioia di scoprire la forza dei sentimenti attraverso gli occhi di un adolescente.
La storia è ambientata a Humleveien, in Norvegia. Georg Roed ha 15 anni e conduce una vita tranquilla. Un giorno la nonna paterna gli consegna una lettera che suo padre Jan gli aveva scritto prima di morire, quando il ragazzo era ancora molto piccolo, e che aveva poi nascosto nella fodera del passeggino, affinché il figlio la potesse trovare una volta grande. Lui non sa cosa pensare: è confuso, triste, ma allo stesso tempo è anche molto contento per quel “dono” che viene dal passato. Decide così di chiudersi in camera sua e di intraprendere questo viaggio a ritroso, armato di Coca Cola e di quel preziosissimo plico. In questa lettera che Jan ha scritto nei suoi ultimi mesi di vita, racconta della Ragazza delle arance da lui incontrata per caso su un tram di Oslo. La fanciulla ha in mano un sacchetto colmo di meravigliose arance, una diversa dall’altra. Il giovane le finisce addosso mentre è intento a contemplarla, facendole cadere la busta; lei gli inveisce contro e scende alla fermata successiva. Da quel momento inizia la ricerca della bella. Il tempo che Jan impiega per trovarla è descritto in modo approssimativo, mentre si sofferma di più sulle sue emozioni, in particolar modo riguardo al senso di vuoto che sente nascere dentro di sé. Destino vuole che la rincontri di sfuggita per altre due volte. Si danno appuntamento per la sera della vigilia di Natale. Quel giorno la ragazza gli chiede di aspettarlo per sei mesi, ed è ciò che lui prova a fare. A questo punto sono spiacente, ma non posso proseguire nel riassunto, altrimenti rischierei di rovinarvi il finale e voi non leggereste questo libro. Ciò che mi ha colpito molto in questo romanzo sono le osservazioni del signor Roed, che mi hanno fatto
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capire quanto sia preziosa la nostra vita, che va vissuta giorno per giorno, fino alla fine senza rimpianti. C’è un discorso che secondo me racchiude appieno il senso del racconto: «Immagina
di trovarti sulla soglia di questa favola, in un momento non precisato di miliardi di anni fa, quando tutto fu creato. Avevi la possibilità di scegliere se un giorno avresti voluto nascere e vivere su questo pianeta. Non avresti saputo quando saresti vissuto e non avresti saputo per quanto tempo saresti potuto rimanere qui [...] Cosa avresti scelto, Georg, se ci fosse dunque stata una potenza superiore che ti avesse lasciato questa scelta [...] Avresti scelto di vivere un giorno una vita sulla terra, breve o lunga, [...] oppure avresti rifiutato di partecipare a questo gioco perché non accettavi le regole?». Quando l’ho letto per la prima volta, non sono riuscita a smettere di pensarci. Persino adesso non so cosaispondere. Ma Georg sì, e ce lo scrive qualche pagina dopo.
Il padre è simpatico, ironico, dolce, sensibile e struggente. La mamma è una donna buona, che è costretta a fare delle scelte nella vita, che altrimenti non avrebbe fatto. Georg è un ragazzo sfortunato perché ha subito una grossa perdita troppo presto, ma la sorte ha voluto che fosse circondato dall’amore dei suoi cari. Ho molto amato questo romanzo per le emozioni e i pensieri che trasmette. Lo consiglio vivamente a tutti coloro che non sono felici di vivere, alle persone che si sentono sole e a chi è alla ricerca di un po’ d’amore. Ovviamente, anche chi è sereno e ha una vita perfetta può abbandonarsi alla bellezza de La Ragazza delle arance, non è un optional per i disperati!
Lo consiglio vivamente a tutti coloro che non sono felici di vivere, alle persone che si sentono sole e a chi è alla ricerca di un po’ d’amore.
Marta Nanni
I personaggi di questo libro sono fantastici.
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Arte
igor Mitoraj: lo scultore dell’oblio Si è spento a Parigi lo scorso 6 ottobre Igor Mitoraj. Lo scultore polacco, allievo di Tadeusz Kantor, ha posto le radici della propria arte nella tradizione canonica classica, attualizzandone la concezione per temi e termini. Avvicinatosi alla scultura durante un viaggio in Messico in cui entrò a stretto contatto con la cultura latinoamericana, Igor Mitoraj trova il suo trampolino di lancio a Parigi, dove ottiene un’esposizione alla Galleria La Hune nel 1976, ma la terra che lo condurrà al proprio apogeo sarà l’Italia, ereditaria delle memorie architettoniche della Magna Grecia e di tutto il patrimonio classico cui l’artista attingerà per tutta la vita. Lo stile di Mitoraj si fonda sull’ossimorico connubio fra
dialogo e dibattito con la classicità: da una parte la ripresa dell’estetica angolare, i moduli e il titanismo dell’arte scultorea greca, dall’altra la disfatta di quelle opere che guardavano all’eterno e che invece sono crollate sotto la pesante colata del tempo. La predilezione per i vigorosi corpi umani sfocia in busti tronchi, arti e teste “mozze”, che rappresentano l’eredità sia dello stato in essere, insito nell’inarrestabile flusso temporale, delle sculture e delle architetture classiche, sia dell’incuria riservata loro dai posteri. Un approccio dunque tutto postmoderno nei confronti di una materia quantomai antica. Tra le moltissime istallazioni in Italia rimangono celebri quelle ad Agrigento,
dove si ergono 17 mastodontiche opere bronzee fra cui si riconoscono personaggi mitologici quali il Centauro, Icaro, Venere e Eros, e ai Giardini di Boboli, a Firenze, il “Tindaro Screpolato”, un’enorme testa bronzea solcata da profonde crepe che incombe grave sul prato dell’Uccellare. Mitoraj incarna dunque un paradosso: egli è un imperituro che canta la storia di ciò che muore. Con il massimo del lirismo e l’efficacia del caustico approccio post moderno, l’artista piange austero la caduta dei grandi valori del mondo antico, perduti nella fuga temporum, immensi e squarciati nella loro epocale discesa dentro l’oblio. Serena Citernesi
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Cinematografia
LA PROMESSA DELL’ASSASSINO Pochissimi registi, soprattutto quelli con una lunga carriera alle spalle, hanno sempre saputo dare prova della loro bravura senza mai sbagliare un colpo. Fortunatamente per noi, David Cronenberg è uno di questi: infatti, il cineasta canadese, dopo quarant’anni di duro lavoro cinematografico, è ancora in grado di realizzare eccellenti film, tra i quali “La promessa dell’assassino”. Questo thriller, uscito nel 2007, ha come protagonista il misterioso e ruvido Nikolai (Viggo Mortensen), un autista legato a una delle più note famiglie criminali di Londra. Egli gestisce il suo lavoro in maniera rigorosa e metodica, ma tutto cambia quando sulla sua strada incontra Anna (Naomi Watts), un’ostetrica in cerca di spiegazioni sul mistero che circonda una sua paziente, una prostituta morta durante il parto. La donna scopre accidentalmente delle prove compromettenti per la famiglia cui Nikolai si dedica: ciò scatenerà una serie di delitti, menzogne e tradimenti con Mortensen a fare da perno a tutti gli avvenimenti. A metà tra un thriller freddo e intenso e un noir cupo e spietato, il film di Cronenberg è ambientato nei bassifondi della capitale inglese, descritta come una città tetra e distaccata che rappresenta la perfetta cornice di una storia di scelte morali e malavita organizzata. Dunque, sebbene il regista si sia allontanato dai generi che l’hanno reso noto tra cui l’horror e la fantascienza, lo stesso non rinuncia ai temi
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a lui più cari come la poetica del corpo, l’avidità di potere, il male interiore e la violenza. L’ossessione per i cambiamenti e per le mutazioni del fisico umano, che da sempre contraddistingue la filmografia del regista, in questo caso è individuata nei tatuaggi della Vory V Zakone (l’organizzazione criminale russa). Infatti, secondo una singolare tradizione della mafia russa, ogni membro della fratellanza ha il dovere di tatuarsi, in modo tale che sulla pelle vi siano incise le storie della propria vita e la memoria delle proprie scelte. Senza di questi non si è nessuno e sotto tale punto di vista i tatuaggi assumono un significato che va al di là dalla semplice incisione, e diventano l’allegoria di un passaggio da un mondo normale fino al lato più oscuro di esso che abbraccia la via dell’efferatezza. L’ostentazione della mostra del corpo umano avviene anche attraverso la violenza, messa in scena in modo piuttosto centellinato, ma allo stesso tempo in maniera realistica e cruda, senza mai risparmiare su sangue e dolore. A tal proposito, memorabile la scena clou del film, quella in cui Mortensen combatte a mani nude in una sauna contro due sicari armati di coltelli: tra vapori e mattonelle, tra affondi di lame nella carne e pugni ben assestati, Cronenberg dirige in modo impeccabile una delle migliori sequenze d’azione degli ultimi anni. Se da una parte però viene dipinto un microcosmo sregolato e corrotto, emblema del profilo
malvagio dell’umanità, dall’altra viene narrata la realtà di una famiglia ordinaria e normale; si assiste così allo scontro di due mondi completamente differenti: una donna comune alla ricerca del proprietario di un neonato orfano si opporrà alla cinica brutalità della mafia, in un conflitto destinato a durare eternamente perché fatto di contrasti inconciliabili. Al centro delle ostilità si colloca come sempre la questione morale, le scelte che si devono compiere quando siamo chiamati ad agire, il dramma della decisione tra bene e male che traspare come un’inquietudine esistenziale. Comunque, se ciò che appare sullo schermo è uno spettacolo, il merito non va soltanto al noto autore canadese, ma anche all’intero comparto tecnico che si comporta in maniera irreprensibile. In primo luogo la fotografia, curata da Peter Suschitzky, che mette bene in evidenza le nette divergenze tra la dimensione luminosa della normalità e quella tenebrosa della malavita, prediligendo l’uso del nero e di colori saturi; uno speciale encomio è d’obbligo anche per la colonna sonora di Howard Shore, finalizzata a rendere l’atmosfera di grande impatto e a essere un’accompagnatrice quieta di una storia oscura. Ovviamente a capo di tutto vi è la mano ferma e consapevole di Cronenberg, forte di quarant’anni d’esperienza che lo portano a non commettere alcun errore di tipo artistico o riguardo alla coordinazione della prova attoriale. Difatti i protagonisti in scena sono tutti in stato di grazia, tra i quali spicca il magistrale Viggo Mortensen, che conferma con questa prova di essere un attore a tutto tondo. Il suo personaggio, caratterialmente diviso tra luce e ombra attraverso un perfetto equilibrio tra la sua espressività e i modi di interloquire e agire,
è imperturbabile, glaciale, avvolto da un’aura di mistero che lo rende terribilmente affascinante. Naomi Watts invece, complice di una velata storia d’amore con Nikolai, è chiamata a compiere un’interpretazione meno complicata rispetto ai suoi colleghi, ma egualmente di grande spessore, giacché ha il compito di restituire sia sentimenti di timore sia d’incredibile forza d’animo e lo fa in maniera giusta, senza sbavature. Ai vertici dell’organizzazione criminale vi sono Semyon e Kirill: il primo, interpretato da Armin MuellerStahl, gestisce come copertura il ristorante Trans-Siberian, ma dietro il viso di un anziano sulla via della pensione, si cela un boss mafioso autoritario, cinico, disposto a tutto pur di raggiungere i propri scopi. Il secondo è suo figlio, nonché Vincent Cassel, il quale da sfoggio della sua abilità d’attore impersonificando un uomo tormentato e instabile, pieno di disagio nascosto dalla sua faccia da rozzo criminale. Kirill è pienamente consapevole di essere fuori luogo in quest’attività illegale e, non avendo mai ricevuto molti affetti dal padre, cerca conforto nello stretto rapporto con il suo amico Nikolai. L’affezione verso questi personaggi deriva soprattutto dall’appassionante trama che si lega perfettamente con la sceneggiatura avvincente e stimolante di Steve Knight. Così David Cronenberg, portando le tematiche principali a un realismo totale, firma un thriller/noir che possiede sia la purezza e la moralità di un classico, sia l’energia e la forza di un film d’autore; il lungometraggio termina in un finale coerente con tutto il resto, antiretorico e che lascia spazio all’immaginazione dello spettatore. Alberto Ghezzi
Drag me to hell Titolo: Drag me to hell Regia: Sam Raimi Sceneggiatura: Sam e Ivan Raimi Genere: Horror Anno: 2009; USA Cast: Alison Lohman, Justin Long, Lorna Raver, David Paymer, Dileep Rao Durata: 99 min. È innegabile che l’horror cinematografico negli anni 2000 abbia passato un periodo assai buio: infatti tranne alcune lodevoli eccezioni, come “28 giorni dopo”, i film di Rob Zombie e, anche se qualitativamente non di poco inferiori, “The ring” e “Saw- l’enigmista”, il genere si è mosso attraverso schemi ben precisi e assai prevedibili, sfornando una lunga serie di prodotti nei casi migliori mediocri, in quelli peggiori indecenti. Un mare di nulla che ha subito una svolta solo a partire dal 2009 proprio con “Drag me to hell” che, oltre ad essere il ritorno di un grande film horror, segna anche il ritorno dell’autorialità nel genere. Il regista e co-sceneggiatore è infatti Sam Raimi, al quale si devono pellicole come “A simple plan- Soldi sporchi” e la trilogia de “La Casa” e, più recentemente i tre film dedicati a Spiderman,
alcuni tra i migliori esempi di film supereroistici. Qui il suo ritorno all’ horror con un film assolutamente fuori dal tempo, che per una volta ricolloca il genere non solo come fonte d’intrattenimento, ma anche come veicolo per messaggi più forti e profondi. Christine Brown lavora come impiegata all’ufficio prestiti di una grande banca, ed è felicemente fidanzata. È in lizza per una promozione quando si presenta alla sua scrivania la signora Ganush, che chiede la proroga della restituzione di un prestito, poiché sta per perdere la casa. La ragazza sarebbe anche disposta a concederglielo, ma decide di consultare il capo dell’ufficio, il quale le lascia intendere che se lo farà potrà scordarsi la promozione. Christine allora rifiuta di aiutare la vecchia, trattandola inoltre
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BRACCATA DA UN DEMONE Rham: Ti ha fatto una maledizione, è una Lamia, il più terrificante di tutti i demoni, per i primi tre giorni lo spirito tormenta le sue vittime, dopo verrà a prenderti... Christine: Dove vuole portarmi? Rham: A bruciare all’inferno per l’eternità...
male quando questa la implora. Dopo lo sgarbo l’ anziana, che è in realtà una sciamana zingara, la maledice, scatenandole contro un demone, la Lamia, che dopo tre giorni di persecuzione la verrà a prendere per portarla all’inferno. Allora la ragazza deve trovare una soluzione... Ciò che contraddistingue maggiormente il film è, come già accennato, che non si limita al mero intrattenimento, ma ha ben 3 chiavi per essere visto: Chiaramente funziona come cinema horror: la sceneggiatura è perfetta: i dialoghi, la trama, i colpi di scena, le situazioni, tutto è calibrato in modo eccelso. La tensione è costante, non c’è mai spazio per la tranquillità, del resto la Lamia è un demone incorporeo, non c’è un luogo che non può raggiungere, è un essere infallibilmente letale. Anche i momenti “ salto dalla sedia” non mancano, anche se non sono particolarmente frequenti. Rimane anche un horror demenziale, in piena coerenza con “La Casa”, anche se più contenuto e misurato. In effetti è questo il miglior pregio a livello di narrativa: la capacità
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di passare da un piano di paura a uno di commedia o ironia senza soluzionecomiche, che non sovrastano mai il resto. La seconda chiave di lettura è ancora più importante, ed è l’intento sociale del film: la critica spietata verso una mentalità, quella della protagonista: lei all’inizio non da il prestito alla signora Ganush , ma non è obbligata : se aiutasse l’anziana in difficoltà perderebbe solo una promozione, non il lavoro, non comprometterebbe la sua vita, ma sceglie comunque di preferire il denaro alla vita degli altri; esattamente come in “ A simple plan- soldi sporchi” Raimi pone il denaro come fonte di male, come corruttore dell’animo umano, perché come il protagonista del film del 1998 era una brava persona prima di trovare la borsa con quattro milioni di dollari, anche qui Christine è una ragazza vegetariana, che ama il suo gatto e lo difenderebbe da qualunque male, ma quando gli viene prospettata la possibilità di sacrificarlo per placare il demone lei non esita un attimo e lo uccide. Il discorso della critica sociale si può allargare
anche alle banche, qui poste sotto una luce estremamente negativa, dato che vengono presentate come istituzioni che non hanno alcuna intenzione di aiutare le persone, ma solo di ottenere sempre maggiori introiti, senza preoccuparsi del danno che causa agli altri. L’ultima chiave di lettura della pellicola è quella autoriale : è l’apice del cinema di Raimi, un film dove si capisce che un regista affermato, in grado di finanziare da solo la pellicola e quindi di avere piena libertà nello sviluppo del progetto, decide di fermarsi e guardarsi indietro, vedere tutti gli elementi che hanno caratterizzato la sua carriera e prenderli nella loro forma migliore, dosandoli con un calibro ineccepibile e raggiungendo così una perfezione nella tecnica e nel suo stile, caratterizzato da inquadrature sghembe, movimenti di macchina tesi a riportare un’estetica da fumetto o da cartone animato d’alta scuola, nel senso più positivo che l’affermazione può avere, visto che è uno stile di messa in scena e di regia, che non ha nulla a che estremamente apprezzabile. Rianimatore di un genere in collasso, capace di mescolare commedia, horror e critica sociale, “Dragme to hell” non può che porsi come miglior horror degli ultimi 15 anni, come miglior film di un grande regista, e , per una volta che il termine non viene usato senza senso, per di più per un film horror, come capolavoro. Marco Tenti
la messa È finita Così parla Don Giulio, il protagonista de La Messa è Finita, e in questa frase si potrebbe riassumere il tema di tutto il film. Infatti regna questa aspra critica degli adulti, pieni di debolezze, e la nostalgia dell’infanzia; inoltre questo stesso prete rifugge dalle domande complesse, dalle situazioni in cui si trova a disagio, perché sogna il mondo perfetto di quando era bambino. Certo dire che tutti gli uomini hanno dei difetti suonerà razionale, ma in tale sceneggiato questi vengono sicuramente accentuati. Infatti gli amici di don Giulio sono un terrorista, un fanatico ossessivo della Chiesa, un malinconico per via di un’antica delusione d’amore; il padre abbandona la famiglia per stare con una donna più giovane, e la sorella risulta, insieme alla madre, l’unico personaggio positivo. Lo stesso protagonista è ben diverso dal tipico sacerdote: si lascia prendere dalla rabbia, preferisce evitare di affrontare i problemi e non è sempre disposto al perdono (“Ogni tanto non do l’assoluzione: perché non sono veramente pentiti. Anzi, a volte vorrei picchiare qualcuno. Sì, è un pensiero che ho sempre più spesso”). Insomma, questo film certamente colpisce per la vena un po’ pessimista con cui sono filtrati i fatti. Certo, la fine riscatta la storia, ma devo ammettere che mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca sul momento. Credo che questo sia uno di quei film su cui bisogna riflettere prima di capirlo veramente. Vale la pena vederlo per questo, per la tipica ironia di Nanni Moretti, e per le inquadrature e gli ambienti che mi sono davvero piaciuti.
È bello essere bambini. Non avere responsabilità e nessuno che ti chiede niente.
Rosaria Carlino
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Musica
Bob Dylan : Blonde On Blonde Storia, anneddoti, parole e musica di un capolavoro storico di un artista storico.
Il culmine massimo di creatività della musica giovane, il momento in cui il rock si è elevato ad arte, cultura dello scorso secolo. La leggenda vuole che Dylan l’abbia partorito interamente durante una lunga e febbrile notte di folgorante ispirazione. All’ascoltarlo, ancora oggi, quest’album sembra davvero un flusso continuo ed inarrestabile di parole, poesia e musica racchiuse in un lisergico e mistico sospiro. Nervoso, febbricitante, inafferrabile, impalpabile ma materiale, Dylan è lì a cantarci addosso con la sua voce aspra e spigolosa un vero fiume in piena che ci eleva a latitudini omeriche. Dylan è in un momento creativo superlativo, sprigiona carisma senza proferire parola, è “una colonna d’aria” la cui brezza è il respiro e l’ispirazione per la sua arte: un tuttuno simbiotico con essa. Dalla prima canzone all’ultima il disco è pervaso da un suono onirico, mai più udito nella storia del rock: è il “selvaggio suono di mercurio” che per sempre renderà unico questo disco. Blonde on Blonde settimo album in studio di Bob Dylan,pubblicato nel 1966,primo album doppio della storia del rock che a sua volta conclude la trilogia”svolta” elettrica iniziata dall’autore con “Bringing It Al Back Home” è proseguita con “Highway 61
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La bellezza e la freschezza di questo album rimangono intatte ad oltre 30 anni di distanza
Revisited”, con questa trilogia Bob inventa il genere folk rock, in cui alla semplice struttura folk si uniscono sonorità elettriche.
Musicalmente l’album raggiunge il perfetto equilibrio e la perfetta fusione tra rock e folk,con sonorità evidentemente blues,uno stile che ha caratterizzato l’intera trilogia elettrica. Troviamo dei leggeri accenni alla musica psichedelica,d’obbligo per un disco americano del 1966.Segna inoltre il definitivo passaggio dal 45 giri al 33 giri. Questo album è un fiume inarrestabile di suoni, parole, suggestioni rielaborate in modo assolutamente rivoluzionario.Ma la vera rivoluzione Dylan la compie sui testi, fino a quel momento il punto debole della musica rock, che abbandonano il registro della canzone di protesta e diventano ermetici, metafisici e visionari. Le canzoni di “Blonde On Blonde” parlano d’amore, ma lo fanno attraverso una cascata di citazioni e riferimenti che vanno da Shakespeare a Platone. Dylan, in queste 14 canzoni ha riscritto la storia del rock, unendo in modo inedito strumenti tradizionali come
strumenti tradizionali come il piano e le tastiere, creando un suono destinato a rimanere immortale. Le canzoni, dicevamo: dalla citata “Just like a woman”, a “I want you”, da “Visions of Johanna” a “Stuck inside of mobile with the Memphis blues again” non c’è quasi nulla di sbagliato in questo disco. Su “Blonde on blonde” sono stati versati fiumi di inchiostro al proposito e una recensione non potrebbe certo renderne conto. Al di là di ogni giudizio critico e storico, però, la bellezza e la freschezza di questo album rimangono intatte ad oltre 30 anni di distanza. In Blonde On Blonde si trovano diverse delle più importanti e profonde canzoni di Dylan,tra cui spiccano sia per l’importanza del tema trattato che dal punto di vista musicale Visions Of Johanna” e “Sad-Eyed Lady Of The Lowlend” che tra di loro sono legate dal tema della figura della donna che viene idealizzata,molto spesso,da Bob
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In “Visions Of Johanna”, Dylan, come Alice, passa attraverso lo specchio e si lascia andare al flusso di coscienza; le visioni d’amore allucinato delle cinque strofe del testo si insinuano subdolamente nei labirinti della mente e gettano l’ascoltatore in un sublime stato di trance ipnotica. Indubbiamente il capolavoro dell’album, un volo pindarico dell’immaginazione verso l’infinito. Considerata una delle più grandi composizioni di Dylan da critica e pubblico, Dylan stesso la indicò come la sua canzone preferita dell’album Blonde on Blonde, di cui è la terza traccia, poiché catturava “quel sottile, selvaggio suono al mercurio” che aveva in testa. Il brano si è classificato alla posizione numero 404 nella lista delle 500 migliori canzoni di tutti i tempi redatta dalla rivista Rolling Stone. Essenzialmente nella composizione affiorano due personaggi femminili, che rappresentano le due facce opposte della femminilità che da sempre si ritrovano in ambito letterario: Louise, terrena e carnale, e Johanna, pura e immacolata come una madonna. Mentre Sad-Eyed Lady Of The Lowland capolavoro nel capolavoro, opera d’arte a sé stante, la cristallina dedica alla moglie Sara. Splendida nel testo e nella musica è una delle vette massime della musica rock. All’epoca, con i suoi 11 minuti e 23 secondi di durata, la canzone fece molto scalpore per la sua lunghezza e per l’immaginifico testo pieno di poesia surreale dedicato all’immagine idealizzata di una non specificata figura di donna. Oltre undici minuti di celebrazione della donna come opera d’arte, come immagine divina, come fonte di eterna bellezza e puro incanto: è Sad-Eyed Lady of the Lowlands, la canzone che occupa l’intero quarto lato dell’edizione in vinile di “Blonde on Blonde” (1966) di Bob Dylan.E’ la ragazza dagli occhi tristi che, come l’“oscura signora”
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di Shakespeare, diventa fonte d’ispirazione misteriosa. E’ una donna imprevedibilmente forte tanto quanto prevedibilmente debole, innocente ma corrotta allo stesso tempo. La disarmante genialità di Dylan in questo brano sta nell’aver introdotto metafore e allusioni nel rock (bocca di mercurio, occhi come fumo, carne come seta, viso come vetro, ecc.) e nell’aver reso il testo meno macchinoso adattandolo ad un arrangiamento aggraziato, delicato e sognante. La voce di Dylan scivola delicatamente sulle note della chitarra e dell’armonica, come fa una sottoveste di seta sulla pelle di una donna, ma lascia un segno indelebile sulle corde dell’anima.
Il tema di fondo del disco e` l’amore,ma l’amore libero, selvaggio, sfrenato, delle altre canzoni contrasta con l’amore astratto di questi due poemi allegorici, moderne visioni dantesche che affermano l’entita` soprannaturale attraverso il miraggio di un arcano essere femminile. L’organo di Kooper e` qui protagonista tanto quanto il canto, con le sue impennate gospel e le sue note protratte. Così cala il sipario su un album straordinario, che negli anni diventerà l’ossessione di tutti i cantautori del globo, e che, soprattutto, rimane una preziosa testimonianza di come la musica rock possa trasformarsi in arte con la A maiuscola. Matteo Quinti Gabriele Liberatori
can you feel the spirit? Questo articolo è inutile e non ha nessun senso. Inutile perché Bruce Springsteen non si può recensire. Senza senso perché vi restituirò soltanto una minima parte di quello che ho provato quella meravigliosa notte dell’ 11 luglio, nonostante ciò ci proverò lo stesso. Sono andata a vedere Springsteen a Roma giovedì per la prima volta; sapevo che sarebbe stato epico e strepitoso, ma così si esagera veramente... Non mi metto a fare la scorsa della scaletta, quella ve la vedete da soli su internet (anche se è stata straordinaria). Vi basti sapere che per tre ore e mezzo, l’11 luglio all’Ippodromo delle Capannelle di Roma c’è stato di tutto. C’è stata la morte spirituale di
ciò che eri prima e c’è stata una nuova rinascita per condurti ad essere una persona nuova. Può sembrare un linguaggio da fissati, ma credetemi, è così: un concerto di Springsteen ti cambia la vita (andatelo a dire al ragazzo che sul palco ha chiesto alla sua fidanzata di sposarlo durante Dancing In The Dark.). C’è stata l’identificazione con Bruce, che non è cosa da poco, perché ciò che riescono a fare meglio i testi delle sue canzoni è metterti completamente a nudo. In un verso solo riesci a comprendere il tuo cuore e le emozioni che hai sempre provato ma non sei riuscito a spiegare; una volta che sei riuscito a comprendere te stesso trovi anche la forza e le soluzioni per agire. Non mi scorderò mai il mio lungo pianto di Candy’s Room,
Le autostrade sono piene di eroi distrutti alla guida della loro ultima possibilità sono tutti in fuga, stanotte ma non è rimasto più nessun posto dove nascondersi insieme Wendy possiamo sopportare la tristezza ti amerò con tutta la pazzia della mia anima un giorno ragazza, non so quando arriveremo in quel posto dove davvero vogliamo andare e cammineremo al sole ma fino ad allora i vagabondi come noi sono nati per correrere perché lì, in quei versi, mi sono sentita a casa, libera, senza costrizioni, ho assaporato tutta la tristezza e l’ho buttata fuori senza mezzi termini. Ho toccato il fondo e ne sono risalita. Finalmente non avevo bisogno di fingere di essere migliore di quello che ero, potevo essere me stessa, perché in quelle canzoni non si parlava di uomini perfetti, di gente che sa sempre cosa fare, ma di persone sofferenti, di sognatori, di vagabondi nati per correre, di cuori infranti, di persone che magari non avranno avuto la faccia in copertina su Vanity Fair, ma che nonostante tutto sono riusciti a Vivere e quelle vite così epiche, lì, in quel momento, sono diventate mie, dandomi una forza incredibile che non avrei mai immaginato. Finalmente ho sperimentato cos’è il riconoscersi in qualcosa. Qualcosa ai cui credere, in cui sperare, qualcosa che renda la tua vita migliore di come era prima. Ero dove veramente dovevo essere. Ero dove potevo sentirmi felice e dove mi veniva data la speranza per
poter credere nei miei sogni, ma anche per apprezzare tutto quello che già ho. Bruce era uno di noi, lo è sempre stato e lo sarà sempre. Lui ci salva ogni volta con la sua musica e noi salviamo lui ripagandolo con il nostro sostegno durante i concerti. È reciproco aiuto per sopravvivere. Poi è arrivato. Il capolavoro tanto atteso e insperato. Bruce si avvicina al pubblico e prende uno striscione dalla pria fila. Inizialmente non riesco a leggere bene dalla mia posizione, leggo solo un ...”renade”. Ma vuoi vedere che... No, non è possibile... Non la fa mai... L’ultima volta è stato nel 2009... L’ha fatta pochissime volte dal ‘73 e mai fuori dagli Stati Uniti... E invece la fa. Al mio primo concerto di Bruce, sono riuscita a sentire New York City Serenade. Una canzone (se così si può chiamare una meraviglia del
genere) in grado di toccare il cielo, di smuovere le montagne, di una bellezza così rara e pura impossibile da trovare. Diamond Jackie, Billy, non siete soli nella vostra passeggiata di mezzanotte a Manhattan. Lo so che è una cosa da pazzi, ma tutti e 35.000 vi aiuteremo a camminare a testa alta o non cammineremo affatto. E poi i grandi classici come Bobby Jean, Born In The U.S.A. e l’immancabile Born To Run con quel “TRAMPS LIKE US...” urlato a squarciagola insieme a tutti gli altri... Il concerto si conclude con quelle cover esaltanti (non ho mai ballato così tanto!) di Twist and Shout e Shout, che sfiniscono e ti lasciano con un sorriso di gioia pura destinato a rimanere per molto sulle labbra. No, aspettate... che ho detto prima? Il concerto si conclude? Eh no, impossibile che il concerto si concluda senza Lei. La sola, unica e inimitabile. La splendida, magnifica Thunder Road suonata solo con la chitarra e l’armonica. Non ho intenzione di scrivere altro, perché sminuirebbe la grandezza di questa canzone, ma posso dirvi una cosa: se almeno una volta nella vostra vita avete desiderato riscattarvi, riempirvi di speranza... è la canzone giusta per voi. In ogni caso, dovete avere la forza di cercarvela la vostra Thunder Road, io lo sto facendo ogni giorno e prima o poi la troverò. Se volete davvero conoscere la Bellezza, usate quelle belle manine per scrivere sulla tastiera “Bruce Springsteen live in Roma” invece di spremervi a cercare su Google qualche frase fatta sull’amore eterno da fregare ad un autore famoso per prendere mi piace su facebook. (se proprio dovete farlo almeno fregatele da Bruce, che sono più belle). Alessandra Bracciali
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Narrativa
Soldato senza nome Antica novella e storia oscura deserti in fiamme e mari d’ ossa prigione gelata di violenta paura calor non v’ è che scioglier possa Imbocco una strada dopo l’ altra, scavata tra le macerie color sabbia di edifici crollati. Non c’ è spazio nella mia mente per alcun tipo di pensiero. Non c’ è spazio nemmeno per il silenzio, solo tamburi che battono ritmo di guerra, trombe squillanti che non smettono mai di suonare. Sulle spalle il fucile è pronto e ben saldo, i sensi sono all’ erta come quelli di un animale, i nervi tesi e scattanti. Continuo a correre tra gli scheletri di questa città straniera e sconosciuta. Le sembianze del nemico sono indefinite, sfumate, tenute insieme e celate dalle stoffacce nere in cui sono avvolti e ricostruiti i cadaveri. Non devo fermarmi. I giorni, le ore, i minuti, mi scivolano addosso come gocce di rugiada su petali di un sinistro fiore. Ogni secondo che passa si infrange al suolo e va a far parte di un qualcosa di scuro ed indefinito, che da quel momento in poi non mi apparterrà più. Presente è solo questo sole che brucia la pelle, il sudore che imperla la fronte corrugata, nient’ altro. Imbraccio il mio fucile e vado avanti, sempre più veloce,
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sabbia che odora di morte mi riempie le narici. Nella testa il ritmo dei tamburi e delle trombe si fa sempre più incalzante e le mie gambe, veloci ed avvezze, stentano comunque a seguirlo. Le mani sono forti, paiono appartenere ad una riproduzione marmorea di un eroe al quale sia stato infuso soffio vitale. Miriadi di uomini sono stati abbattuti e sento che il mio volto, seppur sia ancora in vita, stia già cominciando a confondersi con i loro. In un singolo vortice in preda al caos, visi nemici e quelli di coloro che una volta sarei riuscito ancora a definire come compagni si fondono e si completano a vicenda.
Martyna Landini su questa terra martoriata, e tendo le braccia davanti ai miei occhi. La definizione di quel termine, già labile, antitetica e difficoltosa in precedenza, si era compressa fino ad esplodere in mille pezzi e così, persino di quell’ “assurdo”, non rimane adesso più nulla. Sento solo il sinistro scricchiolio delle ossa che si piegano sotto il peso di una coscienza inascoltata. Non comprendo le linee scavate sui miei palmi e nemmeno il pianto di quel falco lassù, che si libra nel cielo, che solo adesso riesco a distinguere. Abbasso le palpebre impastate da muco e polvere e mi accascio a terra, lasciando che il mio cranio si frantumi al suolo.
Andrà a sporcare il suo sangue Dovrei continuare a correre, sull’ attenti, non dovrei fermarmi mai. Sento però che stavolta qualcosa mi impedisce di prendere parte alla folle marcia. In una nicchia polverosa e dimenticata all’ interno del mio corpo, quella sorgente di rabbia e furore, alimentata da forze e cause a me inspiegabilmente sconosciute, che premeva continuamente per sgorgare all’ esterno, si è ora prosciugata. Tra questi relitti di case, botteghe, uomini, i tamburi e le trombe si sono messi improvvisamente a tacere. Una sola domanda sboccia nel silenzio: “Non sono più nemmeno un guerriero dell’ assurdo, adesso?” Lascio che il fucile cada con un tonfo sordo
la stessa roccia che or sono inverni macchiò quello da massa esangue di Gutei e Sumeri freddi e inermi Al crepuscolo di ieri splendeva il ferro di una lancia sotto le prime luci del giorno, i colori lievi dell’ alba venivano poi intessuti da quadrelle di balestra. A mezzogiorno un dimenticato comandante scagliava disperate file del suo esercito contro repliche delle loro stesse emaciate sembianze, verso sera la quiete del tramonto veniva turbata da assordanti spari. Scendeva dopo la notte e la Luna danzava confusa con accecanti razzi bengala. La mezzanotte è ora passata. Aprirai di nuovo gli occhi, soldato senza nome? Ma sopratutto, stavolta, cosa vedrai?
ILLUSIONI OTTICHE 8° Concorso AMMI “Inno alla vita: alla ricerca dei valori perduti. La mia risposta è...” Nonostante la gerarchia materialistica delle “età” sia un concetto assolutamente discutibile e fortunatamente superato, non sono del tutto certa che la società contemporanea abbia realmente e profondamente fatta propria l’idea del “progresso”. In modo parallelo alle parole “tecnologia” e “innovazione”, nella nostra mente si affaccia di frequente quella decadenza continua e irrefrenabile con cui gli antichi definivano la storia. Soprattutto in questo periodo di crisi così profonda, non c’è da stupirsi che il richiamo del passato sia seducente quanto quello del futuro. Spesso, spettatori o vittime della nostra, moderna decadenza, siamo portati a rifugiarci nei ricordi (diretti o indiretti), e a decantare i sani valori di ciò che è stato in contrapposizione al disastro di ciò che è ed alla sicura catastrofe di ciò che sarà. In poche parole, la tipica visione che gli anziani hanno del mondo, un mondo sicuramente più comodo, se così si può dire, ma assolutamente incomprensibile e invariabilmente peggiore di quello della loro gioventù. E questo giudizio così negativo, questa idea di costante corruzione dell’animo, dei principi, della cultura, potrebbe anche essere effettiva e corretta, se solo non avesse riassunto, da tempi remotissimi a questa parte, le motivazioni principali del conflitto tra la vecchia e la nuova generazione. Io tendo, per mia natura, a filtrare sempre ciò che mi circonda attraverso l’ottimismo, o meglio, la fiducia nel futuro. Ciò non significa, al contrario, una sfiducia totale nelle realtà lontanissime
o solo immediatamente precedenti alla nostra. Come è giusto, il mio rispetto per i valori dei nostri anziani, in gran parte -purtroppo- perduti, è estremo, e credo anche sufficientemente dimostrato. Ma non sempre il rispetto coincide con la condivisione, né tantomeno con la continuazione di tali tradizioni. La storia ci insegna che il patrimonio etico dei nostri antenati è un bagaglio imprescindibile per chiunque voglia lasciare una traccia nel presente e nel futuro, e proprio l’osservazione di ciò che è già accaduto e la previsione di quello che succederà sono la base tattica di qualsiasi guerra: che poi sia una guerra a dei nemici fisici o all’apatia di un periodo in cui urgono delle riforme, è indifferente. Al nostro periodo urgono delle riforme. Ma questo non vuol dire che abbiamo tutto da imparare dal passato. Pudore, merito, professionalità: sono questi i punti di forza che abbiamo perso di vista. Gli uomini politici, corrotti e imbelli, sono lo stendardo di una società che ha smarrito il buon senso e la forza di lottare per ciò a cui aspira davvero, accontentandosi delle briciole che le vengono concesse. Sono l’emblema di un popolo che non si interessa più a niente se non alla formalità e all’estetica. Le cose futili hanno soppiantato la sostanza e sono il diletto di moltissime persone, ché hanno paura di scendere in profondità. Persino la fiducia, che presso i nostri predecessori era un principio fondamentale, è stata sconfitta dalle troppe delusioni subite, anche e purtroppo da figure di fama e valore eccezionali.
Forse perché, più di tutto, abbiamo perso l’ “Aretè”: quell’onore e quella dignità che in Omero determinavano la vita e la morte degli uomini, adesso non sono che un vago ricordo. Eppure, nonostante questi evidenti sintomi, non riesco ancora a convincermi di una particolare decadenza rispetto ai decenni ed ai secoli precedenti. Gli adulti in generale guardano a noi giovani con una certa apprensione per la nostra irresponsabilità ; gli anziani, invece, ci classificano come scostumati, scapestrati e prepotenti. La nostra vita è uno scandalo continuo, in confronto alla loro casta e morigerata giovinezza. A volte me ne lascio quasi convincere, ma poi penso: “I giovani di ogni epoca sono stati criticati duramente dai propri anziani, eppure ogni anziano è stato a sua volta giovane, e quindi criticato etc. etc. Se il declino umano fosse così veloce e inarrestabile da interessare una dopo l’altra tutte le generazioni, a quale stadio di atrocità saremmo arrivati oggi?”. Mi piace la matematica, nei suoi significati più filosofici, e mi diverte pensare che la storia sia tutta quanta dominata dalla legge della proporzionalità. Le persone e i loro costumi ne sarebbero il primo fattore, direttamente o inversamente dipendente da un secondo fattore, e cioè il contesto storico-culturale in cui vivono. E il quoziente che deriva da questo rapporto, qualsiasi siano le caratteristiche dei due fattori (purché l’uno dipenda dall’altro), è sempre costante. Così come lo sono le problematiche e i decadimenti di ogni epoca e,
Dedalus | 2014 27
ancora più tangibilmente, di ciascuna generazione, in rapporto all’etica e alla compagine antropologica di coloro che ne fanno parte. Di conseguenza ogni frangente storico è sostanzialmente simile a tutti gli altri, proprio perché circostanze distanti tra loro a livello di cronologia e di significato provocano in persone diverse uguali reazioni, e la decadenza non è continua, poiché insieme ai confini temporali si spostano anche quelli di ciò che l’uomo considera normale, giusto o sbagliato, migliore o peggiore. Caro diario, sono righe e righe che utilizzo tanti aggettivi e intricati discorsi per trasmetterti la mia insicurezza nell’osservare il mondo dagli occhi di un’adolescente. Però mi sento confortata dal pensiero che le tante mancanze di cui ci vediamo accusati facciano parte di una realtà ciclica e relativa, e che molto probabilmente tanti altri giovani si siano ritrovati come me in questo mare di riflessioni. Presumibilmente tra qualche millennio qualcuno sarà più corrotto, più scostumato di noi. Qualcuno guarderà al nostro presente da una prospettiva sommaria e clemente con le nostre dissolutezze, e prevederà invece per sé atroci futuri. Finché le generazioni non avranno più la forza di rincorrersi. Ma prima, forse, avremo finalmente compreso che le nostre colpe non erano che il modo sbagliato in cui esperienze troppo vecchie, troppo stanche e troppo invidiose hanno reagito al nostro comportamento. Forse, una volta per tutte, avremo capito che non c’è che un presente, che deve fare i conti con un passato e prendersi la responsabilità di un futuro. Perché alla fine l’unica cosa che conta davvero è apprezzare e godere appieno la meraviglia della vita, del nostro piccolo ritaglio di presente. Sofia Casini
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2014 | Dedalus
Poesia
silenziosa realtÁ Sconosciuto patto di ciò che si annienta silenzio profondo la realtà si distacca e si dipinge negli occhi il sogno. Sulla riva del blu un poeta cerca se stesso ma non bada a lui il mare vorrebbe volare e con tutte le forze prova a raggiungere il cielo, lo guarda malinconico ondeggia e il cielo ricambia tingendosi di cenere, si specchiano desidererebbero essere l’uno nell’altro e non si conoscono se non con lo sguardo e nemmeno si sfiorano nell’orizzonte dove sembrano essere uniti da un eterno contatto. In scogli di pensieri vento infrange colori di vita il soffio mescola tavolozza incompresa luce inattesa variopinti pensieri pioggia. Il poeta solo piange sogna
sogna di essere mare,cielo,vento,vita ma non è niente, sogna di volare i piedi sono saldi a terra, sogna di immergersi nel silenzio abissale per amarne i segreti costretto sulla spiaggia guarda i flutti, sogna di essere eterno soffio fermo cammina il breve tempo concesso tormente nel cuore lo fanno soffrire. Piange non scrive, piange ma esiste, lacrime ricongiunte col mare tramonto di sole stelle occhi di cielo illuminano vite svegliano parole. Ormai giunta la sera il poeta tutto in un solo solitario istante avendo scovato in sÊ l’infinito piange e vive.
Adele Severi
Dedalus | 2014 29
Svago
IPSE DIXIT Eccola qua! Dopo tante richieste e dopo tanti tentativi da quest’anno abbiamo anhce la rubruca Ipse Dixit. Una rubrica dove verranno riportati, in modo anonimo, strafalcioni di professori ed esilaranti conoscenze degli studenti. Tutto ovviamente è pensato per farvi sorridere e, non si sa mai, anche per riflettere su quello che davvero sapete e cosa no, non per offendere o per sminuire nessuno! Speriamo di ricevere alla nostra mail sempre più battute esilaranti, che tutti noi facciamo, sentiamo e viviamo.
Studente F.: Pascoli è nato nel 1855 Studente G.: Quindi dopo la II Guerra Mondiale. Studente O.: Martedì vengo volontario! Prof G.: Che prenoti? Non sei mica al bancone dei salumi dell’ipercoop! Prof B.: Cosa serve per la costruzione personale con opus est? Studente V.: ... neutro ... Prof B.: Cosa neutro? Neutro può essere anche un sapone!