Ágnes Heller
LA BELLEZZA DELLA PERSONA BUONA A cura di Brenda Biagiotti
DIABASIS la ginestra
LaGinestra
路5路 Collana diretta da Ferruccio Andolfi e Italo Testa
Il volume è stato pubblicato con il contributo della Fondazione Cariparma
Si ringraziano Anna Zaniboni e l’Archivio Carlo Mattioli di Parma per la gentile collaborazione In copertina Ginestre di Carlo Mattioli
A Theory of Needs Revisited; Self-Representation and the Representation of the Other; Ethics of Personality, the Other and the Question of Responsibility; The Beauty of Morality Traduzioni di Brenda Biagiotti, Debora Spini, Andrea Vestrucci
ISBN 978-88-8103-601-1
© 2009 Edizioni Diabasis prima ristampa 2014 Diaroads srl - vicolo del Vescovado, 12 - 43121 Parma Italia telefono 0039.0521.207547 - e-mail: info@diabasis.it www.diabasis.it
Ágnes Heller
LA BELLEZZA DELLA PERSONA BUONA A cura di Brenda Biagiotti
Ágnes Heller
La bellezza della persona buona
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Oltre l’individualismo: alterità e responsabilità in Ágnes Heller, Brenda Biagiotti
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Una teoria dei bisogni riesaminata
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Rappresentazione di sé e rappresentazione dell’altro
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L’etica della personalità, l’altro e la questione della responsabilità
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La bellezza della moralità
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Questa raccolta
Oltre l’individualismo: alterità e responsabilità in Ágnes Heller Brenda Biagiotti
1. Il pensiero di Ágnes Heller pare essere attualmente oggetto, non solo in Italia, di un rinnovato interesse. Tale considerazione non intende in alcun modo dimenticare, o anche solo rendere marginale, l’influenza esercitata dalle riflessioni sul tema dei bisogni o sulla rivoluzione della vita quotidiana nel dibattito sul marxismo quanto piuttosto soffermarsi sulla fase più recente del suo pensiero. Dopo il distacco dalla tradizione marxiana maturato intorno alla metà degli anni Ottanta infatti, l’indagine filosofica di Heller risulta caratterizzata dallo sforzo di pervenire ad una significativa riformulazione di concetti e categorie che, rispetto ad un contesto storico, politico e culturale attraversato da profonde trasformazioni, apparivano ormai svuotati di ogni potenzialità cognitiva ed interpretativa. Con il mutare dell’orizzonte teorico di fondo, cambiano così anche gli interrogativi cui l’allieva di Lukács cerca di offrire risposte, gli interessi che orientano ed indirizzano la ricerca e gli ambiti di indagine che si dischiudono. Si delinea in tal modo, di fronte al lettore che intenda gettare uno sguardo retrospettivo alla riflessione di Heller, una cesura all’apparenza abbastanza netta fra le opere degli anni Settanta – in cui l’influenza del marxismo, nonostante lo sforzo di operarne un radicale ripensamento, è certamente più evidente – e le riflessioni successive a partire dalle quali la stessa autrice guarda al passato come ad un stagione ormai superata. Il percorso che si intende suggerire in questa raccolta attraverso i quattro saggi presentati in traduzione italiana è pienamente consapevole di tale itinerario e ne offre testimonianza as-
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sumendo come punto di partenza proprio il ripensamento della tematica dei bisogni resosi necessario dopo il definitivo congedo dal marxismo e dalla filosofia della storia che lo sottende; allo stesso tempo però risulta persuaso del fatto che, al di là dei sensibili mutamenti intervenuti nelle premesse teoriche, sia possibile individuare la persistenza di alcuni nuclei tematici originari. È chiaro che, se tale ipotesi interpretativa risultasse accettabile, si tratterebbe di problematizzare quel paradigma interpretativo volto ad individuare nell’abbandono della ‘grande narrazione’ operato da Heller una frattura così radicale da consentire di presentarne il pensiero quasi in termini dicotomici. È comunque a partire da tale presupposto – e nella convinzione che, sotto il profilo filosofico-politico, la riflessione helleriana trovi la sua più originale e compiuta formulazione nella teoria dei bisogni – che si è scelto di porre in apertura di questa raccolta il saggio Una teoria dei bisogni riesaminata. La filosofa di Budapest ne offre un inserimento all’interno del proprio articolato itinerario intellettuale presentando il testo come un tentativo di ripensare la teoria dei bisogni, dopo venti anni dalla pubblicazione dell’opera in cui originariamente apparve1, nei suoi aspetti problematici o non più attuali ma ribadendone, allo stesso tempo, la sostanziale validità di fondo. Come si cercherà di mostrare, a partire da questo contributo si è individuato un percorso unitario nella direzione di una progressiva ‘apertura all’alterità’ che, sfiorando differenti ambiti tematici, ripercorre la riflessione helleriana e individua nella presenza dell’altro e nel rapporto con l’altro un momento cruciale. 2. L’interesse per il tema dei bisogni matura all’interno della ‘Scuola di Budapest’ e cioè in un contesto in cui la rilettura di Marx risultava finalizzata ad offrire adeguati strumenti per una critica al cosiddetto ‘socialismo reale’ condotta dalla prospettiva di un «nuovo radicalismo di sinistra». In questa direzione – nel-
l’esigenza di distinguere fra idea e realtà del socialismo a fondamento dell’analisi condotta con Ferenc Fehér e György Márkus delle società est-europee definite sistemi di «dittatura sui bisogni»2 – Heller perveniva ad un rigetto di tutte quelle visioni che, poggiando sull’idea di uno sviluppo storico deterministicamente orientato, potevano essere, a vario titolo, ricondotte alla filosofia della storia. Tale critica finiva però per investire e travolgere il marxismo stesso ritenuto dalla filosofa ungherese incapace di liberarsi in via definitiva da quei residui di filosofia della storia di derivazione hegeliana costitutivamente in tensione con l’autonomia e la libertà incarnata dai bisogni umani. Negli anni Settanta, interrogandosi in merito alla possibilità di interpretare il marxismo quale dottrina secolarizzata della salvezza3 e di rinvenire al suo interno un’idea di redenzione totale dell’umanità, la filosofa ungherese affermava che, se «intendiamo redenzione e salvezza in senso tradizionale», nei termini di «perfezione, compiutezza, non-contraddittorietà», e ipotizziamo un approdo ultimo della storia, la risposta non può che essere negativa. Distinguendo fra fine della storia – nel duplice significato di finalità interna al processo storico e di possibilità di pervenire ad un esito conclusivo – e «possibilità oggettive» – che implicano l’intervento della prassi umana – la filosofa ungherese cercava di sottrarre il pensiero di Marx a tale accusa4. «La storia non tende ad un fine. Ma gli uomini possono porsi il fine – non appena si siano create le possibilità oggettive – di realizzare la società disalienata»5; «la filosofia radicale non crede nella redenzione» ma rinvia esclusivamente «alla libera azione umana»6. È interessante notare come, in realtà, il tentativo di tornare a Marx liberandone il pensiero da ogni residuo di filosofia della storia – obiettivo e scopo ultimo della riflessione sui bisogni – si rivelerà fortemente problematico a causa della intrinseca difficoltà della nozione di «bisogno radicale» a svincolarsi completamente da tale orizzonte concettuale7. Un’attenta riflessione dovrebbe far
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emergere gli ostacoli che la teoria incontra, nella sua originaria formulazione, nel perseguire i suoi intenti ma, al tempo stesso, il fatto che il distacco dal marxismo non indurrà comunque Heller ad abbandonare quelle aspirazioni ‘puramente umane’ che, a suo avviso, sono rinvenibili all’interno del pensiero di Marx. È plausibile ritenere che sia proprio nella consapevolezza della possibilità di una distorsione volta a considerare del tutto inattuali quelle riflessioni che la filosofa di Budapest abbia avvertito l’esigenza di ritornare, dopo un lungo intervallo di tempo, sul tema dei bisogni, ridiscutendo la teoria nel suo impianto generale. 3. Tale riformulazione ha luogo a partire da quel mutato sfondo teorico costituito dalla fine del progetto della ‘grande narrazione’: questo costituisce, come già accennato, il presupposto che sottende il saggio Una teoria dei bisogni riesaminata ma risulta cruciale anche per la comprensione degli altri testi consentendo di tracciare la linea di demarcazione tra modernità e postmodernità. Occorre precisare che per la filosofa ungherese il postmoderno non deve essere interpretato come un «periodo storico» o «una tendenza culturale o politica dalle caratteristiche ben definite»; la postmodernità infatti non costituisce un periodo che segue la fine della modernità, quanto piuttosto uno «spazio-tempo» interno alla modernità stessa che ad essa si rivolge. Non «una nuova era» quindi, quanto piuttosto un «parassita della modernità» che si nutre dei suoi dilemmi. La postmodernità è ciò che sorge dal tramonto delle ‘grandi narrazioni’, cioè dalla crisi di concezioni basate su una visione della storia intesa quale svolgimento unitario tendente verso un fine e caratterizzate dalla volontà di «portare il paradiso in terra» offrendo «promesse liberatorie», promesse di un «lieto fine». La condizione postmoderna assume tale sfondo come un orizzonte oramai superato poiché nessuna versione di quella che Heller definisce «politica redentrice», che «attribuisce ad un unico atto finale la capacità di farsi
portatore della liberazione definitiva tanto della società, quanto di ognuno dei suoi membri», può continuare a sussistere8. In questo mutato contesto teorico il concetto di ‘bisogno’ continua a svolgere un ruolo di primo piano poiché, assumendolo quale punto prospettico, diviene possibile delineare uno dei tratti qualificanti della società moderna: l’‘insoddisfazione’. Sostenere che la «società insoddisfatta» è un carattere «della modernità in Occidente» non costituisce «un’espressione essenzialista» ma una considerazione ricavabile dalla prospettiva della «creazione, percezione, distribuzione e soddisfazione» dei bisogni umani. La costante crescita del sentimento di insoddisfazione è indipendente dalle effettive capacità di soddisfare determinati bisogni: se paragonata ad altre formazioni sociali antecedenti infatti, la società moderna mostra la possibilità di soddisfare bisogni che in passato «erano rimasti insoddisfatti». Il fatto che questo non determini né un’attenuazione né una riduzione «dell’insoddisfazione generale» è spiegabile allora con riferimento alla «crescita costante delle aspettative» che rende lo scarto fra aspettative soggettive e concrete possibilità di soddisfacimento dei bisogni addirittura più ampio rispetto al passato. Se si accetta l’idea per la quale «la crescita delle aspettative» è in grado di incidere sia sulla «qualità» che sulla «quantità dei bisogni», si potrebbe interpretare l’insoddisfazione della società moderna come un effetto derivante dall’espansione di bisogni indotti, manipolati, non reali o irrazionali sollevando la complessa questione della possibilità o meno di discriminare all’interno dei bisogni umani. La tematica cruciale che qui si apre è affrontata da Heller assumendo come presupposto della propria teoria l’idea secondo cui «dobbiamo abbandonare la divisione tra ‘veri’ e ‘falsi’ bisogni, equivalente a quella tra bisogni ‘reali’ e ‘non reali’ (immaginari)» e «considerare reali tutti i bisogni che sono sentiti tali dagli uomini, quelli di cui sono coscienti, che vengono formulati da loro, che essi desiderano soddisfare»9. Diversamente non ci si troverebbe soltanto
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di fronte al problema teorico di individuare i criteri attraverso i quali operarne una valutazione ma al rischio di approdare alla logica propria di ogni «dittatura sui bisogni», riconducibile all’idea che gli individui non siano pienamente consapevoli dei propri bisogni o, almeno, dei loro ‘veri’ bisogni e che il compito di far emergere tale consapevolezza spetti ad altri. Al fine di evitare tale esito, Ágnes Heller giunge a formulare il principio del necessario riconoscimento di tutti i bisogni umani, fatta eccezione per quell’unica condizione limitativa definita criterio kantiano di distinzione fra i bisogni; si tratta del principio per il quale si devono riconoscere tutti i bisogni umani ad eccezione di quelli che prevedono un uso strumentale degli altri uomini che, pur costituendosi come reali – il soggetto li avverte come tali – non possono essere accolti perché, se soddisfatti, implicherebbero l’impossibilità degli altri di soddisfare i propri bisogni. Se quindi l’affermazione del carattere storico e sociale dei bisogni umani, la distinzione fra bisogni quantitativi e qualitativi, la rivendicazione della liceità di tutti i bisogni ad eccezione di quelli che insidiano quel bisogno fondamentale degli uomini moderni che è l’autonomia personale, la critica alla pretesa di distinguere fra bisogni legittimi e illegittimi continuano a conservare la loro piena validità, il concetto di bisogno radicale richiede, al contrario, un profondo ripensamento. Per definizione, i bisogni radicali si configurano come quei bisogni che non possono essere soddisfatti in condizioni che risultano contrassegnate dall’esistenza di rapporti di subordinazione e di dominio e che, per questo, pur sorgendo al loro interno, si costituiscono quali spinte in direzione di un loro trascendimento. Se infatti essere ‘radicali’ significa – come già per Marx – cogliere le cose alla radice e la radice dell’uomo è l’uomo stesso, sarà radicale quella teoria che aspira al superamento di tali rapporti così come i bisogni che sono portatori di tale istanza10. Inoltre, dato che fin dalla loro origine sono collocati – per così
dire – fra due piani rappresentati, da un lato, dalle condizioni che ne determinano la nascita e, dall’altro, da quelle verso le quali aspirano per poter essere soddisfatti, si configurano anche come bisogni qualitativi rispetto ai quali una riduzione in termini quantitativi è del tutto impossibile. La centralità di tale nozione e del suo ruolo, all’interno della teoria helleriana ma in particolare ai fini della «rivoluzione della vita quotidiana», risulta piuttosto evidente. Allo stesso modo però occorre notare come, sebbene non si tratti di una categoria che Heller intende abbandonare, il ruolo ad essa assegnato dopo «l’abbandono della grande narrazione» non può che risultare profondamente ridimensionato. In questo contesto, appare, a mio avviso, estremamente significativo che la filosofa ungherese trovi opportuno ribadire, al termine del saggio che apre la raccolta, come sia proprio il loro originario «inserimento [...] all’interno del progetto di una grande narrazione» ad aver richiesto un sostanziale riesame della teoria dei bisogni nel suo impianto complessivo. Quanto appena richiamato infatti mi pare finisca per rendere discutibile la stessa interpretazione che la filosofa di Budapest fornisce del proprio itinerario intellettuale. Nonostante la teoria dei bisogni venisse presentata nei termini di un tentativo di tornare a Marx in una dimensione scevra da ogni determinismo, il legame certamente problematico che ancora intercorreva fra il concetto di bisogno radicale e il progetto della ‘grande narrazione’ appare forse più stretto di quanto la stessa autrice non ritenesse. Se il definitivo distacco dalla tradizione marxiana compiuto nella fase più recente del suo pensiero viene maturando in considerazione dell’idea che il marxismo sia ancora inscritto all’interno del progetto della ‘grande narrazione’ e se, in seguito a tale mutamento di prospettiva, si rende urgente un ripensamento del tema dei bisogni radicali, si potrebbe ritenere – e forse non in maniera del tutto impropria – che quel concetto fosse ancora imbrigliato, in qualche misura, nelle maglie della filosofia della storia nonostante gli sfor-
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zi profusi dell’autrice nel tentativo di recidere ogni legame. Diversamente, sarebbe difficoltoso rendere ragione del perché, ferma restando la validità e l’attualità di fondo della teoria, sia proprio questo l’aspetto a necessitare di una sostanziale revisione. Nella formulazione originaria i bisogni radicali costituivano un’istanza di superamento della società capitalistica; ad essi era assegnato il ruolo di operare la ‘negazione della negazione’, ovvero il trascendimento di una società, quella capitalistico-borghese, ritenuta espressione della ‘negazione’ di tutto ciò che appare ‘propriamente umano’, da perseguire attraverso una marcata accentuazione del momento soggettivo sulle determinazioni oggettive dello sviluppo storico. I numerosi luoghi in cui l’autrice tradiva una sostanziale ‘fiducia’ nelle possibilità di una effettiva ‘irruzione’ all’interno dello sviluppo storico dei bisogni radicali però finivano per far assumere a tale nozione una configurazione estremamente problematica11. Se il comunismo non si profila come «il fine della storia umana», ma come una «possibilità oggettiva apertasi per l’umanità in una fase determinata dello sviluppo»; se il raggiungimento di tale ‘possibilità oggettiva’ riposa integralmente sulle forze umane poiché «dipende solo dall’azione dell’uomo, dalla prassi umana, che questa possibilità si attui (e il modo stesso della sua attuazione)», non vi può essere alcuna assicurazione circa l’effettiva insorgenza dei bisogni radicali. È stato rilevato che la maggiore consapevolezza critica del pensiero helleriano sarebbe rinvenibile nella constatazione della presenza in Marx di un’oscillazione fra l’idea che la trasformazione delle condizioni concrete sia una sorta di legge naturale e necessaria alla quale è possibile pervenire attraverso un’analisi critica della struttura economico-produttiva e la concezione per la quale la reale possibilità del cambiamento delle condizioni materiali storicamente determinate possa essere rimessa soltanto ad una opposizione soggettiva e individuale incarnata proprio dai bisogni radicali12. Posta questa distinzione, sarebbe proprio
quest’ultima categoria a consentire quell’abbandono di ogni idea di legge immanente allo sviluppo storico che si configura quale finalità precipua dell’interpretazione di Marx che Heller intende operare. In relazione a questo aspetto però, si profila, a mio avviso, una difficoltà che risulta strettamente connessa alle modalità attraverso le quali i bisogni radicali dovrebbero apparire sulla scena della storia. L’aspetto problematico non riguarda ovviamente la possibilità di individuare un’alternativa ad un determinismo economico-materiale, quanto piuttosto la reale cesura che la categoria dei bisogni radicali riesce ad operare rispetto al rischio di scivolare verso la reintroduzione di un qualche concetto di necessità immanente: in alcuni passaggi in cui la filosofa ungherese si trova a dover chiarire in che modo tali bisogni possano sorgere negli individui in un dato momento dello sviluppo storico infatti, ella sembra esprimere quasi una fiducia acritica nel loro apparire13. Naturalmente, la necessità della loro insorgenza, disancorata da un orizzonte in cui la società futura si configura quale esito ultimo di un processo storico le cui leggi sono individuate nello sviluppo delle condizioni materiali, non risulta adeguatamente fondabile. La riformulazione della categoria dei bisogni radicali che si rende a questo punto necessaria implica, come emerge dal primo saggio, che non sia più attribuibile ad essi il compito di determinare un radicale sovvertimento delle condizioni di vita presenti dato che questo equivarrebbe ad affermare una logica inscrivibile ancora all’interno del progetto della ‘grande narrazione’. Liberati dal ruolo di soggetto storico del cambiamento in precedenza loro assegnato, i bisogni radicali finiscono per assumere esclusivamente la connotazione di bisogni qualitativi, espressioni dell’unicità, della differenza, della specificità dei singoli individui; in altre parole, della ricchezza dei bisogni umani. Sotto questo profilo possono anche costituirsi quale invito ad operare una sorta
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di auto-riflessione critica circa la visione del progresso elaborata dall’Occidente recuperando un’idea del limite che si opponga a quella di uno sviluppo infinito meramente quantitativo; ciò in favore di una ri-traduzione della quantità «nei molti linguaggi della differenza qualitativa», con la piena consapevolezza che tale traduzione può essere operata solo dai singoli individui, pena il rischio di scivolare nuovamente nella «dittatura sui bisogni». 18
4. Muovendo dalle premesse che si è cercato in sintesi di delineare, il secondo saggio, Rappresentazione di sé e rappresentazione dell’altro, costituisce un ampliamento di orizzonte in relazione al tema del rapporto con l’alterità, fin qui mediato dal bisogno inteso quale luogo del dispiegarsi dell’individualità nella sua costitutiva ed inesauribile ricchezza. Come si evince chiaramente fin dal titolo del contributo, l’interrogativo di fondo riguarda la possibilità di una rappresentazione dell’altro, non soltanto in ambito politico, ma anche, ad esempio, artistico e letterario, che possa sottrarsi al rischio di scivolare in una qualche forma di distorsione. In altri termini, si tratta di riflettere criticamente sulla possibilità che la rappresentazione di un soggetto, individuale o collettivo, effettuata da un soggetto terzo rispetto ad esso costituisca, per sua stessa natura, «una falsificazione dell’immagine, delle opinioni, delle azioni, dei bisogni e dei desideri degli altri»; ancora più radicalmente, ciò implica affrontare il problema della «stessa possibilità di esistenza di una forma autentica di rappresentazione». Lo sfondo a partire dal quale il saggio trae spunto è costituito dalla constatazione delle emergenti richieste di riconoscimento di identità particolari che, nelle società attuali, vengono progressivamente avanzate da parte di gruppi e comunità i quali rivendicano per loro stessi determinati bisogni mediante quello che l’autrice considera un processo di auto-attribuzione. Tali richieste di riconoscimento ad opera di soggetti collettivi pongono, secondo Heller, nuovi e particolari problemi soprattutto là
dove approdano all’idea che sia necessario rigettare ogni forma di etero-rappresentazione in quanto distorta e inautentica e che, di conseguenza, soltanto la rappresentazione di sé possa essere ritenuta valida. Centrale nel saggio è la presa di distanza da quello che la filosofa ungherese definisce il «fondamentalismo della differenza», viziato, sotto questo profilo e specialmente in ordine al rapporto sussistente fra individualità e bisogni, dal tentativo di compiere una ‘omogeneizzazione’ di aspirazioni, rivendicazioni e bisogni stessi. «L’omogeneizzazione di un gruppo (come differenza) è ideologicamente sovraccarica», nota Ágnes Heller, nella misura in cui la rappresentazione della differenza non può che essere edificata omogeneizzando le stesse differenze inevitabilmente presenti al suo interno. Gli individui, al contrario, sono caratterizzati da «identità multiple» rispetto alle quali una identità specifica può «costituirsi come prevalente in una situazione determinata», mentre altre possono costituirsi come prevalenti in altre situazioni particolari. Se si assume tale presupposto, ne discende che una rappresentazione integrale dell’individuo è impossibile a meno che non si metta in atto una omogeneizzazione – ovviamente indifferenziata e ‘indifferenziante’ – di tutte le differenze costitutivamente presenti fra individui facenti parte di uno stesso gruppo. La politica della differenza tende quindi ad ‘assegnare’ «una coscienza di genere o di razza» a coloro che fanno parte di un gruppo particolare attribuendo loro un’‘identità’ che, in base a quanto appena accennato, non può che risultare il prodotto di una omogeneizzazione14 di per sé incompatibile con quell’ineliminabile e costitutiva pluralità, molteplicità, individualità di bisogni umani fra loro differenziati. Se la richiesta di rappresentare se stessi può costituirsi, nel caso di minoranze discriminate, «anche come una rivendicazione finalizzata alla preservazione dell’identità» e, di conseguenza, come una auspicabile integrazione del sistema generale della rappresentazione, essa deve comunque restare «un ele-
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mento aggiuntivo» che «può contribuire [...] ad arricchire la vita politica» ma senza pretendere di assurgere a forma più corretta della rappresentazione stessa.
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5. Gli ultimi due saggi che chiudono la raccolta svolgono ulteriormente il percorso fin qui delineato e, approdando alla fase più recente del pensiero helleriano, introducono alla riflessione etica dell’autrice. Qui il rapporto con l’alterità viene declinato all’insegna della categoria della responsabilità e il terzo contributo proposto, L’etica della personalità, l’altro e la questione della responsabilità, si muove palesemente in questa direzione che sarà ripresa e sviluppata ulteriormente nell’ultimo saggio. Il presupposto assunto dalle riflessioni helleriane negli ultimi lavori è rappresentato dalla categoria della ‘possibilità’; nella modernità infatti l’uomo «non riceve la destinazione, lo scopo della sua vita al momento della nascita» ma elemento essenziale della condizione umana diviene l’esperienza della contingenza. «La coscienza della modernità» – sottolinea Heller nel terzo contributo – è «l’autocoscienza della contingenza dell’uomo». Questa «esperienza della casualità» assume tre diverse forme individuabili nella «contingenza cosmica», nella «contingenza sociale» e nella «decomposizione della tradizione»: mentre la prima fa riferimento alla nuova visione del mondo che viene progressivamente ad imporsi come dominante e che si esprime in un «universo morto, meccanico, indifferente e infinito» che espunge progressivamente la presenza di Dio, il secondo aspetto della contingenza evidenzia che «i moderni sono gettati nella libertà». Esser gettati nella libertà significa essere gettati «nel Nulla, nell’intreccio delle mere possibilità, un intreccio senza telos, senza destinazione, del tutto casuale». È proprio sullo sfondo di un orizzonte contrassegnato dal declino di ogni ordine metafisico e dall’emergere della contingenza quale cifra della condizione umana che si delinea la centralità di quella «scelta esistenziale», «per de-
finizione irreversibile ed irrevocabile», che sola è considerata in grado di determinare «il telos della vita di una persona» mediante la trasformazione della «propria contingenza in destino»15. È su questa strada che l’autonomia individuale e la capacità di auto-determinazione incontrano il tema della responsabilità. La responsabilità che gli individui moderni possono assumersi è rivolta in primo luogo nei confronti di se stessi: l’etica della personalità che Heller propone infatti – e di cui si offre un sintetico ma puntuale abbozzo negli ultimi due saggi – muove dalla consapevolezza, oltre che della disgregazione di un orizzonte metafisico in grado di fondare la scelta morale, della centralità del singolo individuo «in quanto depositario della moralità». È la «persona singola nella sua ipseità, in quanto tale», che compie la scelta di determinare il proprio telos e di assumersi la responsabilità di se stessa16. Questo non deve indurre a ritenere che la riflessione di Heller finisca per approdare ad una forma di individualismo che finisce per ‘ripiegarsi in se stesso’: come si avrà modo di rilevare, l’etica della personalità tratteggiata nelle pagine seguenti trova un momento essenziale nello spazio dell’apertura all’altro, cercando così di sottrarsi al rischio di un formalismo immediatamente e puramente coincidente con la scelta del proprio telos. Si tratta quindi di interrogarsi sulla possibilità di offrire «un contenuto morale, sia pure debole», all’etica della personalità dato il cedimento di ogni orizzonte metafisico; come l’autrice cercherà di argomentare, «il fondamento di un’etica della personalità», il contenuto debole ma sufficiente, non potrà che risiedere nella scelta di sé in quanto «persona retta e onesta», cioè in quanto persona per la quale vale la tesi socratica ‘è meglio subire un torto che commetterlo’. Si tratta di una scelta che, evidentemente, supera i confini dell’individualità per aprirsi all’altro poiché implica un’assunzione di responsabilità per gli altri, intesi, nella prospettiva helleriana, nella accezione ristretta di coloro «con i quali siamo veramente uniti da legami di mutualità e reciprocità».
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6. Il nesso teoretico che lega questa parte della riflessione helleriana a quella relativa all’estetica morale risulta profondo e stringente ed è anche in considerazione di questo aspetto che La bellezza della moralità chiude idealmente l’itinerario teorico qui tracciato. Il saggio conclusivo infatti non si configura soltanto come una preziosa occasione di riflessione sugli approdi più recenti del pensiero della filosofa ungherese analizzando tematiche frammentariamente enunciate in An Ethics of Personality, ma consente di gettare uno sguardo ad una parte estremamente suggestiva del pensiero di Heller. Muovendo dal recupero della tesi socratica per la quale ‘è meglio subire un torto che commetterlo’, si perviene infatti all’affermazione di quel legame fra etica ed estetica che si incarna nella bellezza della persona buona. Nelle lettere sull’estetica morale17 Heller istituisce questo possibile nesso: sebbene la bellezza non appartenga necessariamente alla persona onesta, quest’ultima può essere una persona bella o in ogni caso può diventarlo. Ciò implica che l’essere retti costituisca il presupposto dell’essere una persona bella sebbene non si configuri come una condizione di per sé sufficiente18. La bellezza della moralità, intesa come bellezza di una determinata azione, non risiede allora tanto, o soltanto, nel riconoscimento della bontà di un particolare atto ma, secondo «un’accezione più ‘estetica’», nel fatto che tale atto «è meritevole di lode per la sua bontà e, in più, anche per il modo con il quale [...] è compiuto». La «relazione contemplativa» che intratteniamo con il bello inoltre richiede anche «un certo tipo di visibilità o di conoscenza, talvolta di udibilità» delle azioni morali: un’azione infatti può essere «di suprema bontà» ma se rimane confinata nel campo della segretezza, se non può essere ‘contemplata’, non può avere apprezzamento dal punto di vista estetico: la «dimensione estetica di un’azione» è rinvenibile là dove l’atto «suscita nell’osservatore non solo apprezzamento, ma anche piacere», elemento che consente di valutare colui che lo ha compiuto «non solo come persona buona, ma anche come anima bella».
La bellezza della persona buona delineata in tali passaggi non si profila come una riproposizione dell’ideale greco del kalos kai agathos, per un duplice ordine di considerazioni: in primo luogo, nota Heller, perché l’ideale antico dell’anima armoniosa era strettamente correlato a quello di una omogeneità che non può più essere riproposta in un’epoca quale quella moderna contrassegnata dalla consapevolezza della contingenza. In secondo luogo – e questo mi pare un elemento di estremo interesse per riflettere su alcuni elementi portanti dell’estetica morale helleriana – perché la bellezza cui la filosofa ungherese fa riferimento presuppone un’armonia differente. L’armonia fra le parti dell’anima non viene da lei concepita come la capacità della ragione, ad esempio, di governare le passioni e gli istinti e, subordinandoli a sé, di convertire il «disordine» in «ordine», quanto piuttosto come un accordo fra tutte le parti in virtù del quale ciascuna continua a svolgere il proprio ruolo contribuendo, in tal modo, alla costituzione di tale armonia. «Certi caratteri – rileva però Heller – possono essere amabili anche se la loro vita emozionale non è bilanciata»; in questo caso noi li amiamo per la loro aspirazione «all’assoluto, all’incondizionato, a qualcosa che è infinito», li amiamo «perché la loro bontà è sublime». Oltre che all’armonia, la bellezza della persona buona rinvia alla dimensione dell’alterità: l’apparire estetico della persona buona è infatti caratterizzato dall’apertura, dall’offrire apertamente il volto allo sguardo dell’altro. È sotto questo profilo che la riflessione di Ágnes Heller ci consegna, come risulterà attraverso questo percorso, i tratti di un individualismo non ripiegato su se stesso ma che si apre alla dimensione dell’altro come ad una sua componente imprescindibile.
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Note
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1. Bedeutung und Funktion des Begriffs Bedürfnis im Denken von Karl Marx, 1974, trad. it. di A Morazzoni, La teoria dei bisogni in Marx, pref. di P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano 1974 (ed. inglese, The Theory of Needs in Marx, Allison and Busby, London 1976). Per una riflessione critica, dati i limiti di questa introduzione, mi si permetta di rinviare a B. Biagiotti, Ágnes Heller. Vita quotidiana, bisogni e democrazia, Milella, Lecce 2006. 2. Á. Heller, F. Fehér, G. Márkus, Dictatorship over Needs: an Analysis of Soviet Societies, Blackwell, Oxford 1983, trad. it. di A. Vigorelli, Analisi socio-politica della realtà est-europea, SugarCo, Milano 1984. 3. Cfr., ad esempio, K. Löwith, Significato e fine della storia, trad. it. di F. Tedeschi Negri, il Saggiatore, Milano 2004. 4. Sulla distinzione helleriana fra «filosofia della storia» e «teoria della storia», Á. Heller, A Theory of History, Routledge & Kegan Paul, Boston 1982, trad. it. di V. Franco, Teoria della storia, Editori Riuniti, Roma 1982. 5. A tale proposito cfr. Á. Heller, Toward a Marxist Theory of Value, Carbondale, Telos Books, University of South Illinois 1972, trad. it. di G. Dozzi e E. Fubini, È il marxismo una dottrina secolarizzata della salvezza?, in Id., Per una teoria marxista del valore, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 213-218. 6. Á. Heller, Philosophie des linken Radikalismus, VSA Verlag, Hamburg 1978, trad. it. di L. Boella, La filosofia radicale, il Saggiatore, Milano 1979, p. 124. 7. Sono numerosi i luoghi in cui Heller ha offerto, successivamente, una valutazione critica dei risultati di quel progetto: fra gli altri, Á. Heller, F. Fehér, The Postmodern Political Condition, Polity Press, Oxford 1988, trad. it. di M. Ortelio, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova 1992, ma anche Teoria della storia, cit., Ágnes Heller, una vita per l’autonomia e la libertà, intervista a cura di V. Franco, «Iride» n. 16, 1995, pp. 544-602, Á. Heller, Per una teoria marxista del valore, cit. e Id., Morale e rivoluzione, a cura di L. Boella, A. Vigorelli, Savelli, Roma 1979. 8. Il definitivo tramonto della «politica redentrice» riguarda sia la versione che Heller definisce «anarchica» – «secondo la quale è sufficiente abolire lo stato perché tutto cambi per il meglio e si instauri una società senza violenza» – sia quella del «marxismo ortodosso» – «secondo la quale l’apparato statale deve essere conquistato e distrutto, la classe lavoratrice deve assumere il potere, il mercato deve essere abolito, perché solo così potrà nascere una società completamente nuova e fondata sull’uguaglianza». La modernità deve essere paragonata più che ad «un edificio che, prima di essere ricostruito, deve essere completamente demolito», secondo la logica propria della politica redentrice, ad una nave «sulla quale mentre alcuni si occupano di cambiare gli alberi e le vele,
Una teoria dei bisogni riesaminata
Dal mio libro Sociologia della vita quotidiana1, scritto a metà degli anni Sessanta, fino al più recente, La modernità può sopravvivere? 2, ho problematizzato e ridiscusso costantemente il tema dei bisogni. In tutti questi scritti ho preso in esame differenti aspetti del problema dato che il mio interesse era teoretico e pratico allo stesso tempo. Le riflessioni riguardanti gli aspetti generali della ‘condizione umana’ mi hanno indotto a tematizzare i bisogni in considerazione del fatto che una teoria dei bisogni poteva costituirsi anche quale veicolo di critica sociale. La teoria dei bisogni in Marx3 manifesta così questo duplice interesse. Sebbene il libro non contenesse l’elaborazione compiuta di una mia propria teoria, la lettura di Marx servì da strumento ai fini di una sua elaborazione e chiarificazione. Allo stesso tempo, il testo si proponeva anche come una critica politica dell’allora ‘socialismo reale’ condotta dalla prospettiva di un nuovo radicalismo di sinistra. A partire da quel momento, la mia teoria ha subito alcune revisioni, anche se in merito a pochi aspetti, e ciò è dovuto a due differenti ragioni. In primo luogo, come è ovvio, ho dovuto difenderla da coloro che le hanno rivolto delle critiche, cosa che mi ha offerto l’opportunità di ampliarla e migliorarla apportando alcuni cambiamenti. In secondo luogo, la mia personale posizione filosofica ha transitato lentamente, ma in maniera incessante, da una visione iniziale di stampo
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marxiano, se pur modificata in maniera sensibile, verso una prospettiva che potrebbe essere ora definita ‘post-moderna’. Dato che la teoria dei bisogni non fu mai saldamente legata al progetto della ‘grande narrazione’, dopo aver abbandonato la filosofia della storia di tradizione hegelo-marxiana, ho potuto sciogliere tali legami con una certa facilità. L’unico aspetto che ha richiesto una sostanziale revisione è stato quello dei bisogni radicali. Ciò che intendo presentare in questa sede è un compendio della mia teoria dei bisogni nella sua forma attuale, precisando che si tratterà di un resoconto più strutturale che storico. I Il bisogno è una categoria sociale. Uomini e donne ‘hanno’ bisogni in quanto ‘animali politici’ (zoon politikon), in quanto esseri o attori socio-politici. Eppure i loro bisogni sono sempre individuali. Possiamo venire a conoscenza dei bisogni di ciascuno; possiamo conoscere, se vogliamo, di che cosa ciascuno ha bisogno. Eppure, per quanto concerne la struttura concreta e gli oggetti dei bisogni, ogni individuo è differente. I bisogni si collocano tra i desideri da un lato e le esigenze (bisogni socio-politici) dall’altro. I desideri sono esclusivamente personali e particolari e possono anche rimanere inconsci. Ne deriva che non siamo in grado di sapere che cosa desiderano gli altri dato che non possiamo essere consapevoli con esattezza neppure di ciò che noi stessi desideriamo. A differenza dei bisogni, i desideri non possono essere espressi verbalmente in modo integrale e a volte neppure per approssimazione. Se qualcuno mi chiedesse ciò di cui ho bisogno, potrei esprimerlo; ma se mi si domandas-
se che cosa desidero, di norma, potrei provare soltanto a descriverlo in maniera approssimativa. All’altro estremo della triade desideri-bisogni-esigenze si collocano le esigenze; esse costituiscono delle astrazioni perché quando facciamo riferimento a bisogni socio-politici, o esigenze appunto, stiamo considerando una ‘media’. In senso stretto, nessuno avverte delle esigenze nello stesso modo in cui avverte dei desideri o dei bisogni; ciò nonostante credo sia ancora legittimo parlare delle esigenze delle persone (dei bisogni sociopolitici) in termini di bisogni, senza ulteriori specificazioni. Qui infatti il bisogno è inteso come concetto generale. I desideri manifestano – direttamente o indirettamente – la nostra relazione psicologico-emotiva e soggettiva con i bisogni, mentre le esigenze (i bisogni socio-politici) costituiscono una categoria o tipologia di bisogni che la società attribuisce o assegna ai suoi membri (o ad alcuni dei suoi membri) in generale. I bisogni sono interpretati e determinati in entrambi i sensi. Ad esempio, il bisogno di educazione costituisce un bisogno socio-politico generale (una ‘esigenza’): si tratta di un’astrazione che comprende al suo interno tutti i tipi possibili di educazione poiché prescinde dai contenuti specifici, da tutto ciò che si può imparare. Se consideriamo l’individuo in quanto portatore di bisogni, non potremo mai imbatterci nel ‘bisogno di educazione’, ma sempre in un bisogno concreto di studiare qualcosa di specifico o di acquisire competenze in una determinata professione. Inoltre, più di un desiderio differente può essere in relazione con questi bisogni concreti; ad esempio, il desiderio di superare gli esami con successo, o di trovare l’insegnante dei propri sogni, e altri di cui si può anche non essere consapevoli. Ho distinto tra tre momenti, o aspetti, dei bisogni, quali i
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bisogni propriamente detti, il rapporto soggettivo/psicologico con i bisogni, e la relazione sociale attributiva rispetto ad essi. Questa tripartizione assume grande importanza in età moderna sebbene, se si getta uno sguardo retrospettivo all’epoca premoderna, si avrebbe ragione di ritenere che tali aspetti fossero sempre stati distinti, almeno in piccola parte. Dopo tutto, il patriarca Giacobbe non aveva bisogno soltanto di una moglie, egli desiderava Rachele. Di frequente, comunque, la distinzione fra i differenti momenti non veniva riconosciuta e da tale mancato riconoscimento si sono originate molte tensioni. Ho sostenuto in precedenza che i bisogni socio-politici (le esigenze) sono astrazioni e lo sono in quanto si riferiscono ad alcuni tipi o gruppi di bisogni. Si collocano, cioè, bisogni analoghi all’interno di uno stesso gruppo, facendone scaturire un’identità a prescindere dalle differenze. Si opera una distinzione fra un tipo di differenza intesa quale identità e tutte le altre in quanto non-identità. Questo duplice movimento ha luogo ogni volta che i bisogni sono attribuiti o allocati. Tali processi di allocazione o di attribuzione si accompagnano sempre ad una forma di ri-collocazione, ri-definizione e ri-organizzazione delle differenze in identità. Dal punto di vista del processo riproduttivo di allocazione dei bisogni, uomini e donne non sono considerati quali portatori di bisogni in generale, né di un sistema unico e concreto, ma, in maniera intermedia, di determinati generi o gruppi di bisogni. Il processo di allocazione dei bisogni è reso complesso dal fatto che la società deve provvedere ad attribuire sia le tipologie (specie) di bisogni sia ciò che può soddisfarli. Anche i mezzi in grado di soddisfarli sono tipizzati ed astratti e le due astrazioni sono di norma connesse l’una all’altra.
Nelle società premoderne le differenti tipologie di bisogni, i loro oggetti e i mezzi utili per il loro soddisfacimento erano di regola allocati insieme in un nesso molto stretto. I nobili avevano necessità di un determinato tipo di educazione, i borghesi di un altro, le donne (in genere) di un altro ancora, i contadini di nessuno – fatta eccezione per le prescrizioni religiose. Alla nascita ciascuno riceveva fin dalla culla un insieme di bisogni assegnati dalla società in considerazione della posizione occupata al momento della sua venuta al mondo. A differenza delle società premoderne, le società moderne non assegnano bisogni dalla nascita, poiché l’allocazione non viene più effettuata alle classi sociali in base al loro ordine gerarchico tradizionale. In linea di principio, i bisogni dovrebbero essere distribuiti secondo uno status acquisito. Una società moderna richiede che uomini e donne debbano nascere nudi non solo fisicamente ma anche in senso metaforico, dotati di niente altro che di quel bagaglio naturale rappresentato dagli istinti biologici; soltanto quelli biologici infatti, e non i bisogni sociali, possono essere considerati puri e semplici istinti. Questo vuoto è piuttosto una forma di libertà, la libertà dell’indeterminatezza; in termini formali, tale libertà si configura quale assoluta possibilità. Per quanto concerne il contenuto, tale libertà è nulla nel senso che alla nascita al neonato non è assegnato nessun bisogno e nessun mezzo in grado di soddisfare bisogni. Quali bisogni verranno assegnati alla persona, quali mezzi per soddisfarli lui o lei si aspetteranno di desiderare, dipendono non dal passato tradizionale collettivo, ma dal futuro personale del neonato. Si presume quindi che ciascuno avrà la possibilità di scegliere fra posizioni sociali, stili di vita e, così pure, anche fra differenti complessi di bisogni.
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A prima vista, la differenza non appare decisiva, ma in realtà lo è. Consentitemi di enumerare almeno alcuni cambiamenti che scaturiscono da questa nuova forma di allocazione dei bisogni. Finché i bisogni socio-politici rimangono allocati in base a quell’ordine fondamentalmente gerarchico – quale la stratificazione della società –, la qualità dei bisogni rimane la base per la loro allocazione e attribuzione. Ogni gruppo di bisogni e di mezzi per soddisfarli, e il loro insieme che è assegnato ai membri di una classe, è qualitativamente differente rispetto a quelli che sono stati distribuiti alle altre classi. Ad esempio, i bisogni di educazione assegnati ai nobili non sono semplicemente più dispendiosi o più prolungati nel tempo – forse non lo furono –, ma assolutamente differenti da quelli assegnati ai borghesi. Anche il modo in cui si ritiene che le persone debbano vestirsi risulta determinato dal ‘complesso’ di bisogni. Nelle commedie, almeno fino all’età moderna, una nobile donna che avesse scambiato i suoi vestiti con quelli della propria domestica non avrebbe potuto essere riconosciuta come nobile e viceversa; la nobildonna non indossava soltanto abiti più dispendiosi, ma vestiti completamente differenti. Dal XVIII secolo in avanti, almeno nell’Europa Occidentale, l’antica struttura gerarchica di stratificazione sociale fu lentamente e rispetto ad allora interamente distrutta. Simultaneamente emerse una nuova forma di allocazione dei bisogni. Nella percezione moderna ciascuno viene al mondo libero ed ugualmente dotato di ragione e coscienza; nulla pertanto può legittimare l’allocazione dei bisogni in base alla posizione sociale occupata al momento della nascita. L’allocazione sociale dei bisogni deve restare un’astrazione. I bisogni inoltre sono assegnati alle persone in base alla loro af-
filiazione di gruppo, ma tali gruppi sono ora prodotti dalle istituzioni. L’allocazione pertanto segue la gerarchia entro le istituzioni sociali e politiche. Dato che siamo tutti nati liberi ed ugualmente dotati di ragione e poiché non abbiamo avuto in eredità un complesso di bisogni e di mezzi per soddisfarli fin dalla culla, nessuna qualità determinata può essere distribuita socialmente. Fin tanto che il fondamento è costituito da una reciprocità asimmetrica, la società provvede all’assegnazione di bisogni differenti sotto il profilo qualitativo ai gruppi; tuttavia poiché la reciprocità asimmetrica attualmente non costituisce più il punto di partenza, quanto piuttosto l’esito – ed è questo il significato di uguale opportunità –, i rapporti differenziati sotto il profilo qualitativo hanno perso ogni legittimazione. L’unica possibilità che resta è quella di assegnare i bisogni in base alla posizione che le persone occupano all’interno della gerarchia sociale, ovvero di assegnare le stesse tipologie di bisogni sotto il profilo qualitativo, ma in quantità completamente differenti. Questo è il motivo per cui Rawls, formulando il suo noto principio di differenza, dà per scontato che ci sia un solo criterio per determinare quali strati sociali siano i più svantaggiati, rappresentato dalla quantità di denaro che ricevono. La moderna allocazione dei bisogni è interamente quantitativa e pertanto può essere completamente monetizzata. Questo è il motivo per cui possiamo davvero parlare di ‘standard di vita’. In età premoderna non vi era alcuna possibilità di mettere a raffronto lo stile di vita di un cittadino libero con quello di un cittadino non libero poiché non esisteva nessun termine di paragone comune comparabile con lo ‘standard di vita’. Il metro di raffronto comune – perché quantitativo – è applicabile in una società in cui ogni differenza è diventata
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quantitativa. Il tipo ideale di una moderna società democratica è costituito da una popolazione all’interno della quale esistono ricchi e poveri – o, almeno, in cui alcuni hanno maggiori possibilità economiche di altri – ma in cui non esiste nessun’altra caratteristica distintiva fra uomini e donne. Stile di vita, preferenze e tutto ciò che è possibile ricomprendere nell’espressione ‘sistema di bisogni’ divengono identici – ad eccezione dei mezzi per il loro soddisfacimento che possono essere di maggiore o minore valore monetario. Tale caratteristica della società moderna fu individuata ben presto e fu guardata con scarso favore. La tradizione romantica è una sola, ininterrotta linea di accuse rivolte contro la completa indifferenza della ‘società borghese’ per le distinzioni qualitative. L’egualitarismo, la scomparsa della raffinatezza e della bellezza, la mercificazione di ogni cosa, inclusa la cultura, furono denunciate in quanto differenti manifestazioni di tale misconoscimento. In maniera paradigmatica, il potere livellante del mercato fu ritenuto responsabile della perdita di differenziazione qualitativa, ma anche la democrazia – in particolare la ‘democrazia di massa’ – fu annoverata fra i maggiori colpevoli. Il primo argomento fu proprio di Marx, il secondo di Nietzsche. Ad esprimere le proprie riserve in merito alla tendenza alla quantificazione di tutto ciò che in precedenza era differenziato sotto il profilo qualitativo non furono soltanto i romantici; anche i liberali manifestarono profonde inquietudini. Kant fu uno dei primi a chiarire la profonda relazione sussistente fra riduzione delle qualità in quantità all’interno del sistema di allocazione dei bisogni da un lato e le forze motivazionali degli uomini dall’altro. Sottolineò la riduzione di tutti gli istinti concreti a tre: la brama di possedere, di potere
e di gloria. È inutile rilevare che gli uomini hanno sempre desiderato potere, gloria e ricchezze, sebbene non tutte le specie di potere, di fama o di ricchezze siano oggetto di desiderio. Fin quando i bisogni venivano allocati alle diverse classi in gruppi differenziabili sotto il profilo qualitativo, una persona appartenente per nascita ad una determinata classe non avrebbe desiderato mezzi per il soddisfacimento propri di un gruppo di bisogni assegnati ad un’altra classe. In questo modo, prima dell’avvento della modernità, gli uomini non contendevano per ‘il possesso’ in generale, ma per il possesso di certi beni concreti, determinati e specifici (ad esempio, un particolare appezzamento di terra), in preferenza tratti dal complesso di bisogni proprio di una considerazione e posizione più elevate. Per gli uomini moderni, al contrario, è predominante l’identità assoluta: A è uguale ad A. Il potere è il potere. Qui tutte le differenze sono annullate nella mera identità della quantità di beni. Di conseguenza, il solo interrogativo che conserva ancora un qualche interesse per coloro che agognano il potere è il medesimo che si pongono coloro che bramano gloria o ricchezza: quanto? Sebbene il fenomeno della quantificazione dei bisogni emerse già all’alba dell’età moderna, fu necessario parecchio tempo prima di riuscire a cogliere le dense implicazioni di questa metamorfosi; a questo si aggiunge l’interrogativo circa il livello di autentica comprensione al quale siamo approdati, sebbene ne sappiamo molto di più di cento anni fa. Ascrivere la quantificazione dei bisogni all’interno del processo di mercificazione e quest’ultimo, a sua volta, alla logica del mercato è apparsa all’inizio la spiegazione più plausibile; fin troppo plausibile – si potrebbe dire – dato che scalfiva solo la superficie del problema e per di più in rela-
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zione ad un aspetto non determinante. Da allora, abbiamo appreso dalla spaventosa ed atroce storia delle società di tipo sovietico che l’abolizione del mercato non inverte la tendenza alla quantificazione dei bisogni, ma comporta una drastica decrescita della quantità dei prodotti commerciabili alla quale segue quella di tutti gli altri beni. Per questa ragione, nelle società di tipo sovietico l’equilibrio fra le tre specie di bisogni quantificati fu seriamente compromesso. Il bisogno di potere divenne il principale poiché tutti gli altri bisogni potevano essere soddisfatti in misura proporzionale alla posizione di potere che si ricopriva all’interno di un universo politico completamente monolitico. Gli scarsi mezzi per la soddisfazione dei bisogni che restavano venivano distribuiti esclusivamente dai detentori del potere centrale, i soli a determinare i bisogni delle persone (i gruppi sociali); l’unico criterio di valutazione per una simile determinazione (quantitativa) era rappresentato dalla quantità di mezzi per la soddisfazione dei bisogni che avrebbero allocato tra i differenti gruppi. Con Fehér e Márkus ho definito questo sistema di allocazione dei bisogni «dittatura sui bisogni»4. Di certo, la determinazione dei bisogni e l’allocazione dei mezzi per il loro soddisfacimento da parte di un’autorità centrale costituisce una dittatura al suo massimo grado; se il bisogno fosse quello di perpetrare una vita meramente biologica, cioè di preservare la propria integrità corporea e la mera libertà personale, anche questo sarebbe allocato centralmente dall’autorità. Eppure, le società sovietiche furono, e rimasero, società moderne. Insieme alla Germania nazista, costituirono il peggior sviluppo possibile del mondo moderno. Si potrebbe richiamare alla mente che i bisogni non vennero qui allocati – come in nessun altro luogo nella modernità – in
base ad una posizione ereditata dalla nascita, ma considerando la posizione acquisita da una persona all’interno della gerarchia sociale – nel caso specifico, all’interno della gerarchia del partito – o che l’allocazione dei bisogni era controllata dal partito. Si tratta di un caso paradigmatico in cui la quantificazione dei bisogni è penetrata completamente nella sfera biologica e psicologica divenendo onni-inclusiva. A prescindere dalle esperienze sociali e politiche, si assiste ad una crescente consapevolezza del fatto che la tendenza alla quantificazione non riguarda soltanto le merci o i bisogni umani mercificabili. La stessa natura, o piuttosto la nostra visione della natura, ad esempio, è diventata pressoché interamente quantificata. Come ha rilevato Hans Jonas in Organismo e libertà5, prima dell’ascesa della metafisica e della scienza naturale moderne il nostro mondo era pieno di vita; la morte, o piuttosto la morte del corpo, era una sorta di eccezione. Il modello moderno di natura è, al contrario, completamente quantitativo. I moderni matematizzano la natura e, così facendo, trasformano la vita in morte. Lo stesso universo diviene una sorta di ‘Necropoli’, la città vasta ed infinita della materia morta. Il processo di quantificazione del sistema di bisogni ha, d’altra parte, i suoi propri difensori i quali asseriscono che il denaro, sebbene quantifichi, costituisca anche un potente equalizzatore. Molti autori si soffermano sull’effetto liberatorio della monetizzazione. Dopo tutto, se i rapporti di tipo tradizionale avevano il pregio di una maggiore ricchezza sotto il profilo qualitativo costituivano pur sempre vincoli di servitù. Di certo, le donne a quel tempo non guadagnavano meno denaro, sebbene non potessero affatto condurre un’esistenza indipendente, a meno che non si voglia ritenere la
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prostituzione una forma di ‘esistenza indipendente’: questa era schiavitù. Il nuovo mondo, al contrario, è un mondo caratterizzato dalla mobilità: è soltanto in condizioni di quantificazione che tale mobilità sociale può divenire un fenomeno emblematico ed ininterrotto. Anche se le illimitate possibilità di singoli uomini e donne sono mere realtà della ‘istituzione immaginaria della società’, almeno qui sono ben radicate. Il mondo moderno è ancora ricco di possibilità inesauribili. Certamente il modello non è stato realizzato, ma può ancora esserlo; non si dovrebbe desiderare di tornare alle forme antidiluviane di allocazione dei bisogni e dei mezzi per la loro soddisfazione, quanto piuttosto rendere efficaci le idee di uguali opportunità e di eque condizioni di partenza. Se ciò accadesse, chi si curerebbe più del problema della quantificazione di bisogni qualitativi? Vi è un’altra posizione – che ora personalmente condivido – che non è né radicalmente romantica né assimilabile ad un liberalismo che si compiace di sé ma che scorge alcuni pregi in entrambe. La capacità critica del romanticismo e del radicalismo non viene persa, anche se molte delle considerazioni romantiche e radicali si rivelarono fatali, in parte perché misconobbero l’origine della categoria di modernità e, in parte, per altre ragioni che non possono essere discusse in questa sede. Se si afferma la società moderna non è possibile poi respingere ciò che le è essenziale, ma si deve schiettamente ammettere la quantificazione dei bisogni al livello dei bisogni sociopolitici (delle esigenze). Ed è possibile farlo senza rammarico, il che significa che si deve accettare che, nel caso di un’allocazione e di un’attribuzione sociali dei bisogni, quest’ultimi appaiano in gruppi quantitativi e possano essere distinti in base alle differenze di grado, ‘più’ o ‘meno’ (più o meno potere,
più o meno gloria, più o meno denaro). Il mercato si costituisce quale istituzione necessaria ai fini di tale distribuzione quantitativa. Qualsiasi sia la forma assunta dall’allocazione dei bisogni in una società moderna, così come le forme di redistribuzione, non è possibile costituire o attribuire nessun gruppo che sia distinto sotto il profilo qualitativo. Le allocazioni dei bisogni, ed anche dei mezzi per la loro soddisfazione, devono essere misurate nei termini di ‘standard di vita’. Fino a quando l’allocazione sociale dei bisogni socio-politici (delle esigenze) perdura, c’è maggior merito nell’argomento conservatore-liberale; fino ad un certo punto, il processo di quantificazione e di monetizzazione ci rende realmente liberi, ma – ed è qui che l’altra posizione introduce talune perplessità – non vi è alcuna correlazione necessaria tra l’allocazione dei bisogni socio-politici da un lato e l’attuale sistema di bisogni di singoli individui, o anche di un gruppo di individui, dall’altro. Le prime (le esigenze) non determinano i secondi, anche se i secondi (i sistemi di bisogni individuali) si costituiscono in quelle condizioni che sono state determinate dalla presenza significativa delle prime. Le circostanze in cui i bisogni vengono allocati quantitativamente (di norma nei termini di ‘quanto costa?’) non stabiliscono ciò che gli individui (o i gruppi) intendano fare di questa ‘quantità’, se, o piuttosto come, la convertiranno di nuovo in qualità. Dopo tutto, i sistemi di bisogni degli individui – al pari di quelli delle singole comunità – non possono essere descritti per intero in termini quantitativi. Le quantità infatti vengono sempre riconvertite in qualità e questo per il semplice fatto che nessuno mangia o beve denaro. Il problema non riguarda tanto il processo di riconversione in sé, quanto piuttosto la misura del valore del risultato finale distinto
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sotto il profilo qualitativo. Si può prediligere la qualità semplicemente per ciò che è, oppure anche per ciò che essa implica. Inoltre, ciò che realmente conta non è la riconversione della quantità in termini qualitativi, quanto piuttosto il sistema di bisogni all’interno del quale tutti i bisogni sono inseriti. La medesima quantità di mezzi per la soddisfazione dei bisogni può essere allocata ad A e a B; ciò nonostante, A e B possono condurre un tipo di vita del tutto differente. La questione cruciale in tutte le teorie dei bisogni perciò si condensa attorno al ‘modo’ in cui operare tale distinzione. Quest’ultima non appare in contrasto con la tendenza della modernità; lo è certamente invece l’abolizione del mercato o il ritorno, piuttosto immaginario, ad una allocazione qualitativa dei bisogni. La nostra distinzione, al contrario, è moderna. Ho cercato di mettere in evidenza come nell’età premoderna i tre aspetti del sistema di bisogni (i bisogni propriamente individuali, i desideri e i bisogni socio-politici, o esigenze) fossero differenziati, anche se non propriamente distinti, e come sia solo nella specificità della modernità che tale distinzione è diventata possibile e praticabile. L’interrogativo riguarda se la percezione del carattere tripartito dei bisogni debba essere considerata un fenomeno provvisorio che ha connotato il passaggio da un’allocazione dei bisogni di tipo qualitativo ad una meramente quantitativa, o se tale tripartizione continuerà a sussistere o diventerà ancora più marcata. Allo stato attuale non è possibile stabilire quale sia il caso. Con tutta probabilità, dipenderà dall’aver o meno a che fare con un fenomeno transitorio e dal dover o meno condividere il profondo pessimismo dei critici della cultura. Il punto di vista che assumo vuole mettere in discussione la possibilità che la tripartizione possa durare.
In ciò che segue intendo affrontare il nuovo (moderno) stato dei bisogni su due livelli. Per prima cosa discuterò i problemi intrinseci all’allocazione dei bisogni socio-politici e, in secondo luogo, volgerò l’attenzione alla discussione sulle forme di vita nell’ottica delle possibilità di preservare alcune delle loro caratteristiche qualitative. II Come ho già rilevato, i bisogni socio-politici sono allocati socialmente, così come lo sono i mezzi per il loro soddisfacimento. ‘Allocazione sociale’ è un termine ampio; sia gli agenti che le modalità di tale allocazione infatti stanno mutando. Il cambiamento principale e repentino dal modo di allocazione premoderno a quello moderno include molteplici aspetti, il più rilevante dei quali concerne la sua dinamica. Definisco ‘dinamica della modernità’ un concetto che racchiude tutto al suo interno; non c’è da stupirsi allora che includa anche tutto ciò che riguarda l’allocazione dei bisogni e dei mezzi per il loro soddisfacimento. La modernità prospera nel dinamismo e per questo la negazione costituisce un momento indispensabile per la sua preservazione e persistenza. Nelle società premoderne la negazione era distruttiva e decostruttiva; per questo è stata possibile solo per un breve periodo, nella fase di transizione verso la modernità. In Europa, anteriormente al XVII-XVIII secolo, tutti i tentativi fallirono. Successivamente alla nascita della modernità europea – evento che innescò un cambiamento analogo in tutto il mondo – le dinamiche sociali moderne vennero lentamente accettate. Ora è diventato possibile opporsi a tutte le istituzioni, considerarle erronee e sbagliate. Ed è
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LA GINESTRA Biblioteca per un individualismo solidale
Da due secoli, di fronte alla crisi delle rassicuranti comunità naturali e all’accelerazione dei processi di individualizzazione, filosofi e pensatori sociali si sono posti il compito di costruire teorie nelle quali la coesione della società non confligge ma va di pari passo con la cura di sé di individui emancipati. La collana La ginestra documenta l’esistenza di questa tradizione di individualismo solidale attraverso i testi di autori classici e contemporanei. Titoli pubblicati Georg Simmel Friedrich Nietzsche filosofo morale
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di Ágnes Heller quinto della collana La Ginestra nata dall’amicizia e dal lavoro comune individuale e solidale tra l’Associazione omonima e le Edizioni Diabasis viene pubblicato alla sua prima ristampa nel carattere Garamond a cura di PDE Spa presso lo stabilimento di LegoDigit Srl - Lavis (TN) nel marzo dell’anno duemila quattordici
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«È meglio per la filosofia morale limitarsi a seguire umilmente il cammino della vita di alcune persone rette e, come cronista fedele, descrivere, interpretare ciò che fanno. Le persone buone esistono. Sono reali. E tutto ciò che è reale è possibile»
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