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Introduzione

Cristina Acidini

Presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno, della Fondazione Casa Buonarroti e della Fondazione di Studi di Storia dell’Arte “Roberto Longhi”, Firenze

Sono lieta, e ringrazio, per aver ricevuto l’invito a introdurre l’importante sessione del convegno dedicata alle biblioteche. Sorge infatti spontanea la riflessione che condivido con il pubblico, di come la densità e la qualità del patrimonio storico artistico, che fa di Firenze un caposaldo nella storia universale dell’arte, abbia un suo corrispettivo, meno visibile ma non per questo meno vitale, nell’abbondanza delle risorse librarie riunite in biblioteche pubbliche e private, in maggioranza storiche e di lungo corso. E se di questa ricchezza straordinaria il merito va a molti – istituzioni, famiglie, individui – essendo stata Firenze dal Medioevo in poi una città ad alto tasso di alfabetizzazione, tuttavia una speciale coerenza di visione ed efficacia di azione in questo campo, come del resto in tanti altri campi, va riconosciuta alla famiglia Medici. Nell’attuare il progetto della Biblioteca futura Medicea Laurenziana nel complesso di San Lorenzo, intrapreso da Giulio de’ Medici-Clemente VII, figlio illegittimo ma riconosciuto del ramo di Cafaggiolo, il giovane duca Cosimo non si limitava a garantire la continuità di un’impresa impegnativa, che Michelangelo Buonarroti aveva concepito e avviato per poi lasciarla interrotta nel 1534, nel fatidico anno del suo trasferimento a Roma e della morte del papa. Né si preoccupava soltanto di far crescere la cultura nel suo dominio, rendendo disponibile a un selezionato pubblico di studiosi le raccolte medicee di codici antichi, di incunaboli, di libri, di carte. Il disegno politico tratteggiato dal duca, del quale la Biblioteca costituiva un segmento importante per la nobile ubicazione nel complesso laurenziano, consistenza e visibilità, era la continuità con la stirpe dei Medici “vecchi”, ribadita in ogni occasione da lui e dai suoi successori. Incantati dal progetto michelangiolesco, che dalla struttura architettura riverbera fino al soffitto in legno lavorato a rilievo e scorniciato e si rispecchia nel raffinatissimo pavimento in mattonelle montelupine rosse e bianche, figurato a motivi araldici e simbolici, e fin nel disegno dei banchi, di rado ci ricordiamo che quella splendida idea era stata di Lorenzo il Magnifico negli anni ‘90 del Quattrocento, circa quarant’anni prima. Quel proposito, come molti altri, rimase inadempiuto alla morte prematura di Lorenzo, ma si sa che nel suo Giardino di San Marco egli aveva già cominciato a far scalpellare i conci di pietra per la costruzione. L’architettura della Biblioteca naturalmente non avrebbe portato la firma di Michelangelo, allora solo adolescente; si può congetturare che Lorenzo intendesse affidare l’incarico a Giuliano da Sangallo, onnipresente nei cantieri di gestione medicea diretta o indiretta. Certo è

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Biblioteca Medicea Laurenziana, particolare del soffitto ligneo a cassettoni (© Sergey Borozentsev, 123rf)

che sul letto di morte, come riferì lo storico coevo Piero Parenti, fra le cose che morendo avrebbe lasciato con rammarico irrisolte o interrotte, Lorenzo citò «la libreria, quale greca e latina mirabile parava». A sua volta il Magnifico s’inseriva in un’attitudine dinastica a formare raccolte di testi antichi e moderni, da mettere a disposizione di lettori esterni alla cerchia familiare. E non tanto a imitazione del padre, poiché Piero detto il Gottoso – privilegiando la dimensione raccolta e raffinata dello scrittoio e del tempietto – teneva gelosamente nel suo stanzino nel palazzo di via Larga i codici di meravigliosa fattura, rivestiti di sontuose coperte di velluti colorati; quanto piuttosto sull’esempio del nonno, Cosimo detto il Vecchio e Pater Patriae, che iniziando attorno al 1418 la sua biblioteca personale l’aveva poi arricchita a dismisura con acquisti, per donarla poi in gran parte al Convento di San Marco. Prima biblioteca aperta ad accogliere lettori selezionati, la lunga aula di lettura – un autentico tempio della conoscenza – è divisa in tre navate scandite da colonne ioniche in pietra serena. Viene dalle finestre la luce naturale, che dobbiamo immaginare percorsa in origine da sfumature verdi, per riflesso della coloritura dell’intonaco: una coloritura pacata, atta a favorire la concentrazione senza stancare il lettore. La funzionalità e la bellezza dell’ambiente, in osservanza di un principio comune a molte biblioteche di età umanistica, furono garantite dalla progettazione dell’architetto di fiducia di Cosimo, Michelozzo di Bartolommeo, autore della completa ristrutturazione del complesso domenicano. E perfino durante il breve esilio in Veneto (1433-34), Cosimo lasciò grata memoria di sé donando al monastero benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia, dov’era alloggiato, una collezione di manoscritti e il progetto di una biblioteca, anch’esso di Michelozzo, che viaggiava al suo seguito. L’intelligenza politica del duca Cosimo, dunque, non poteva che ispirarlo a dimostrare la sua lealtà nei confronti dei predecessori del ramo principale della casata, riattivando i cantieri abbandonati da Michelangelo in San Lorenzo, compresa la “libreria”. Sono note le vicende del completamento, che vide attivo Niccolò Tribolo con maestranze di legnaioli e figuli, fino all’ultimazione dei lavori di quella che resta una delle più belle sale di studio del mondo, se non la più bella: e l’ultimazione delle strutture architettoniche, assai sofferta, con la scala del Ricetto o Vestibolo per la quale Michelangelo, più volte scongiurato di rivelare il suo progetto, mandò infine da Roma un modelletto di terra. All’inaugurazione nel 1571, che Cosimo I – investito granduca dall’anno precedente – fece in tempo a vedere benché gravemente malato e debilitato, era in loco anche una buona parte delle trenta finestre vetrate (1553-1574), che costituiscono una serie unica e non ancora abbastanza studiata nel campo dell’arte manierista del vetro, frutto della collaborazione fra artisti d’impronta vasariana per i disegni e maestri fiamminghi per la realizzazione a “quadrotte” impiombate. Le decorazioni a grottesca spiritose e fantastiche, esaltate in trasparenza dalla luce naturale, potevano offrire un diversivo piacevole e a suo modo istruttivo per gli studiosi, durante le pause nella lettura dei codici o dei libri. Ma al tempo stesso costituivano le monumentali e fulgide pagine di un altro “libro”, aperte per sempre e fissate alla parete: la narrativa dinastica medicea, meticolosamente esaltata reiterando non solo le armi araldiche familiari e gli emblemi di Clemente VII (con il triregno papale) e di

Cosimo, nonché l’onorificenza imperiale del Toson d’Oro di quest’ultimo, ma anche rappresentando le divise e imprese più antiche, dei Medici “vecchi” quattrocenteschi. L’impresa così conclusa sanciva per immagini, una volta di più, la legittima continuità della casata da un “broncone” all’altro: una riaffermazione squisitamente politica, che non sembra resa visibile per caso, con tale splendida chiarezza, proprio nel luogo deputato agli studi più approfonditi e specialistici in Firenze e in Toscana. Forse un monito agli intellettuali eventualmente ancora scettici e segretamente riottosi? Per quanto l’ancient régime autocratico del granduca sia lontanissimo dalla sensibilità odierna, vien da rimpiangere quel tempo, in cui i governanti – anche i più autoritari – esprimevano i messaggi politici in termini di “manifesti” culturali, fondando biblioteche e dotandole di apparati artistici d’alta qualità inventiva e di raffinata manifattura.

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