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GIORNATA DI STUDIO
from Conservazione e rigenerazione dell’architettura industriale moderna | Giuseppe Alberto Centauro
by DIDA
Sessione mattutina
coordina e introduce: Giuseppe Alberto Centauro
Giuseppe Alberto Centauro Università degli Studi di Firenze
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I bozzetti di progetto per l’allestimento museografico (arch.i Piero Guicciardini e Marco Magni) negli spazi restaurati per il Museo del Tessuto (Mattei 2003)
Abstract
L’articolo contiene una nota di presentazione del programma di ricerca dedicata alle questioni connesse ad un più ampio dibattito disciplinare mosso sul piano culturale e scientifico; il programma è inerente al tema che dà il titolo del convegno: “Il restauro del Moderno: il patrimonio dell’industria pratese del ‘900. Dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni”.
Gli argomenti posti alla base di questo dibattito hanno costituito l’asse portante del presente contributo, in parte ripreso nei temi affrontati dai vari relatori. Inoltre, in premessa, si è precisato il fatto che il particolare angolo visuale riservato alla discussione apertasi in sede di convegno, altro non è che l’atto conclusivo delle lezioni e degli studi che si sono tenuti all’interno del seminario universitario condotto da chi scrive, avente come obiettivo la conoscenza dei metodi e dei criteri per il restauro attraverso le indagini dirette e il rilievo degli apparati costruttivi caratterizzanti gli impianti industriali moderni, senza porre distinzioni tra quelli ancora in uso e quelli in dismissione. Gli ambiti di studio hanno riguardato opifici che necessitano di azioni di manutenzione straordinaria e di risanamento. Gli esempi presi in esame rivolti ad approfondire le condizioni operative per il restauro sono stati relazionati alle più recenti esperienze di recupero edilizio e di riabilitazione funzionale condotte sul patrimonio edilizio esistente a Prato. Si tratta di interventi che hanno affrontato le tematiche del restauro architettonico in senso lato, oggi per lo più declinato in una prospettiva di riuso funzionale. Si descrive l’iniziativa che sta alla base del progetto di ricerca e che nasce da un’idea da tempo condivisa tra il sottoscritto, come docente e responsabile scientifico delle attività didattiche e di ricerca incardinate in seno al Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, e l’Ordine degli Architetti PPC di Prato, interessato a focalizzare l’attenzione della categoria professionale sulle possibili connessioni tra il restauro architettonico che si lega ai processi di “patrimonializzazione” dell’esistente attraverso la valorizzazione culturale del costruito, in un’ottica di rigenerazione urbana. Nel saggio sono messi in evidenza gli obiettivi del progetto di ricerca che si è sviluppato integrando alle attività curriculari del laboratorio didattico precipue indagini sul campo, alternando lezioni teoriche a sopralluoghi, condotti in diretta collaborazione con il Consiglio provinciale degli Architetti pratesi che all’uopo ha delegato suoi iscritti a seguire le attività organizzate con i gruppi di studenti. La sintesi di questa esperienza è stata poi ripresa all’interno del convegno, con lo scopo di riportare al centro dell’attenzione, non solo cittadina, il tema del restauro dell’architettura moderna e di quella contemporanea. Si è trattato di articolare un programma orientato su di una prospettiva di sviluppo sostenibile, analogamente a
Teatro Fabbricone, la galleria movibile. (Foto di D. Venturini)
Teatro Fabbricone, ingresso attuale (giugno 2022) quanto attiene allo spirito uniformatore del PNRR nelle sue molteplici applicazioni, che allo stato attuale sono in fase progettuale a livello nazionale. In particolare, si è cercato di fornire agli studenti strumenti critici ed analitici per condurre il progetto di recupero e di valorizzazione dedicato ad alcune delle testimonianze fisiche più significative della storia recente di Prato, rappresentate dai grandi complessi dell’industria che sono stati fatti oggetto di proposte e progetti di trasformazione. Per i colleghi professionisti che hanno partecipato è stata l’occasione di confronto con i cambiamenti in atto, al fine di intervenire al meglio per la preservazione e il mantenimento degli elementi strutturali e materici caratterizzanti quelle architetture ed essere in grado di ritessere in modo armonico le scelte progettuali in un’ottica di riqualificazione ecosistemica a livello infrastrutturale, residenziale e produttivo del territorio, in parte compromesso dalle caotiche trasformazioni legittimatesi negli ultimi decenni1
Alcune considerazioni preliminari
In premessa è necessario, anticipando alcune considerazioni, precisare che il palinsesto degli argomenti trattati in questa relazione di apertura è stato impostato avendo come precipua finalità il coinvolgimento degli studenti del corso di restauro, giunti al termine al termine del percorso di studio che li ha visti impegnati nelle ricerche e protagonisti dei rilievi sul campo con esercitazioni seminariali dedicate all’architettura industriale del ‘900 del distretto pratese. Questi studi hanno interessato -come richiamato in prefazione- l’articolato compendio di edifici che costituiscono entro un’alta recinzione muraria, la parte storica del grande complesso produttivo tessile del Fabbricone. Quel complesso industriale è un’icona per quel che rappresenta in città, quindi l’espressione giusta per lo svolgimento di un programma di ricerca riservato ad un caso studio emblematico. Ed anche un modo efficace per introdurre le problematiche del restauro del Moderno sui metodi di approccio e le modalità di intervento. Il Fabbricone è composto da una ventina di corpi di fabbrica principali, separati e giustapposti tra loro, nettamente suddivisi in due parti realizzate prima e dopo gli anni ’40 del secolo scorso, offrendo un campionario quanto mai esteso di tipi costruttivi propri dell’architettura industriale moderna.
L’interesse per questo complesso industriale proposto come caso studio poteva, dunque, ampiamente motivarsi sotto l’aspetto architettonico e rispondere agli obiettivi prefissati. Inoltre, per una buona metà, gli stabilimenti sono ancora in piena attività e le porzioni rimanenti, uscite dal ciclo produttivo, ma non per questo meno significative, offrono un ampio ventaglio di soluzioni adattative nell’ambito del restauro e del recupero. Questa duplice situazione caratterizzante lo stato d’uso attuale poteva rendere, non solo ai fini didattici, questo caso ancor più interessante come terreno di ricerca e di analisi nel confronto d’idee che è in grado di suscitare per la salvaguardia futura. Lo studio per questi stabilimenti ai fini dell’argomento trattato si confermava dunque molteplice. Anche altri fattori hanno giocato a vantaggio di questa opzione, uno urbanistico e uno storico culturale. Infatti, uno dei blocchi del complesso industriale è stato fatto oggetto, quasi cinquant’anni or sono, di un’eclatante operazione di riconversione funzionale che ebbe una vasta eco nazionale. In particolare, quando nel 1974, al tempo della austerity, uno dei capannoni edificati nel primo dopoguerra fu dato in uso al Comune di Prato per la realizzazione di uno spazio teatrale all’avanguardia, assecondando la geniale intuizione di Luca Ronconi che vi allestì una memorabile Orestea, ben si comprese che quella suggestiva “location” non era disgiunta dalla fortuna critica ricevuta da quella pièce teatrale. La messa in scena di uno spettacolo in fabbrica si legava perfettamente alla sincera natura costruttiva di quello spazio. In una chiave retrospettiva si può affermare che la stagione del recupero dell’architettura moderna riciclata o riadattata al servizio della cultura, quale le testimonianze fisiche dell’industria potevano offrire, s’inaugurava proprio con il Teatro Fabbricone.
1 Il seminario, a carattere interdisciplinare, è stato condotto in piena sinergia tra l’Università e l’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Prato, nell’ambito delle attività didattiche del Laboratorio di Restauro nel CdL in Scienze dell’Architettura, in concorso con il CdL in Pianificazione della Città, del Territorio e del Paesaggio, facenti parte del Dipartimento di Architettura di Firenze. Per sottolineare la centralità degli argomenti affrontati e per le indicazioni che potranno scaturire da questa esperienza, Il programma del convegno ha avuto il patrocinio della S.I.R.A. (Società Italiana per il Restauro dell’Architettura).
Lo studio di quella felice esperienza, subito percepita come pienamente compatibile con il restauro della fabbrica, prosegue a tutt’oggi con successo replicandosi spontaneamente in molteplici altri casi, anche in utilizzi transitori, non definitivi di moderne strutture dismesse.
Più recentemente, ad esempio, gli opifici moderni sono divenuti attrattivi anche nell’ambito del marketing aziendale, aprendo la strada ad un’inedita forma di turismo industriale, accogliendo nelle sedi eventi culturali, mostre, ecc. A titolo di esempio, alla ricerca di nuove
Beste Hub (ex Lanificio Affortunati), prima e dopo i recenti interventi di ammodernamento connessioni con la città, l’ex Lanificio Affortunati, sorto nel secondo dopoguerra, è stato ristrutturato dai nuovi proprietari con intervento conservativo, nel mantenimento del fabbricato così com’era, articolato su due piani, nella valorizzazione dei caratteri architettonici originali, sia a livello di parti strutturali, scale ecc. sia accessorie, quali gli infissi, ecc. semmai attualizzando gli ambienti alle esigenze impiantistiche legate all’efficientamento energetico e rivisitando il design degli interni; infine, cavalcando il cambiamento anche nel rifacimento delle coloriture delle cortine esterne, è stato optato per una tinta segnaletica “all white” in linea col nuovo marchio di fabbrica. L’ex lanificio è ora le sede del “Beste Hub” che oltre alle lavorazioni sartoriali trasferite da altra sede si è trasformato in una sorta di grande “show room”, lasciando l’ampio cortile centrale come spazio a disposizione totale delle iniziative della comunità pratese, comunque predisposto ad ospitare manifestazioni culturali.
Questa nuova tendenza nella riconversione d’uso delle fabbriche che, di certo, può valutarsi caso per caso, dimostra quanto vasta sia la gamma degli interventi che possono, sia pure indirettamente, dirsi ispirati a quella prima esperienza data dal Teatro Fabbricone, mutuati nella metamorfosi d’utilizzo da spazio del lavoro a spazio dello spettacolo. Il Teatro Fabbricone è così divenuto un modello da studiare anche da questo punto di vista, antesignano delle potenzialità offerte dal “riciclo dei contenitori” abbandonati dall’industria, ricordando che a metà degli anni ’70 si parlava ancora sommessamente di “Archeologia Industriale”2
2 «L’archeologia industriale in Italia ha una data di nascita precisa: il 1977, a Milano, in occasione del I Congresso internazionale della disciplina, organizzato da un gruppo di giovani laureati, Sono gli anni da noi del successo di Braudel, dell’interesse per la storia della vita comune, quella non scritta contrapposta alla storia esclusivamente politico-diplomatica. Sono anche gli anni dell’abbandono da parte dei monopoli industriali dei grandi
D’altronde quella scarna struttura in c.a., restituita in forme architettoniche ibride composta da mattoni ed intonaci, ben rappresentava l’idea dello spazio indifferenziato, asciutto e senza fronzoli della cultura operaia del periodo. Uno spazio ideale per ospitare il Teatro Fabbricone raccolto in un edificio che non aveva ancor compiuto trent’anni di vita e che nella nuova veste vedeva rispettata la sua configurazione plastica, assai “funzionale” all’immagine ricercata, pur non potendo ambire ad essere riconosciuto come un “monumento architettonico“ dell’industria edilizia moderna. Si può semmai considerare, a mo’ di singolare coincidenza, come proprio in quegli anni si cominciasse a trattare il tema dell’archeologia industriale, divenuto precocemente oggetto di studio, finalizzando programmi di catalogazione degli immobili e degli impianti ad essi connessi per la conservazione e il restauro delle manifatture ritenute di interesse culturale attinenti ai complessi dismessi dall’industria, specie se rappresentative delle tecnologie costruttive e dei materiali moderni (Emiliani 1974). La fortuna critica determinato dal campo di indagine che ruotava sul complesso di ricerche relativo all’archeologia industriale stava suscitando un crescente interesse nell’opinione pubblica e, quindi, di sensibilizzazione nei confronti della salvaguarda dei beni architettonici dell’industria sulla spinta di alcune iniziative editoriali a larga diffusione, ad esempio nel 1983 la pubblicazione del Touring Club del 1983,che si accompagnava con il reportage fotografico realizzato da Gianni Berengo Gardin (Negri A., De Seta C. 1983) . Questo nascente interesse ha generato attenzioni nell’immaginario collettivo e trovato molte opzioni legate al riuso ai fini culturali delle testimonianze fisiche dell’archeologia industriale, mettendo in luce le enormi potenzialità e le suggestioni che i luoghi dell’industria potevano offrire a quel tempo nel semplice e diretto riuso degli spazi, oggi per la rigenerazione selettiva delle funzioni.
L’esperienza del Teatro Fabbricone è divenuta a maggior ragione emblematica come caso studio per meglio comprendere le occasioni che si potevano offrire nell’ambito del recupero e della riabilitazione al patrimonio industriale3
Negli studi che sono stati analizzati intorno alle problematiche riguardanti un corretto approccio al restauro del Moderno, il cambio di destinazione è così apparso “non più incompatibile” con le esigenze della conservazione dei beni industriali in dismissione, specialmente laddove è in grado di fornire adeguate risposte alla domanda di servizi per la cultura e rispondere all’assunto di legge che più o meno recita in architettura che non esiste “conservazione complessi di tipo ancora tardo ottocenteschi, del rifiuto operario e poi del rapido tramonto della catena di montaggio, e della crescente reazione della gente all’ultimo stadio della società tecnologica (meccanica). Questo spiega il rapido successo dell’archeologia industriale nel nostro Paese» (Da un’intervista rilasciata da Eugenio Battisti, in F.M. Battisti 2001).
3 Cfr. ultra, Il Fabbricone come luogo di sperimentazione e ricerca per il restauro.
Museo del Tessuto (ex Cimatoria “L. Campolmi & Co.”), macchina follatrice
Copertina degli Atti del Convegno di Prato, op. cit.
La vecchia officina meccanica e i telai al piano primo nella fabbrica Campolmi (in alto) , (Mattei 2003) senza valorizzazione”. Sulla scia di quella esperienza altri interventi di riuso sono stati valutati distintamente nel percorso degli studi affrontati nel laboratorio didattico e nell’approfondimento portato in convegno al confronto dialettico con studiosi, docenti di architettura ed urbanistica e in ultimo con i progettisti laddove si porta in evidenza in chiave di restauro e conservazione quali debbano essere i requisiti da ben ponderare negli interventi di riabilitazione per garantire il rispetto del manufatto che si intende tutelare4.
Il presente contributo, svolto come tema introduttivo del convegno, quindi, è anche da considerarsi come propedeutico al dibattito. In particolare, il tema del recupero e della fruizione del bene industriale viene affrontato attraverso il confronto tra i diversi approcci critici nella messa a fuoco delle metodologie d’intervento, passando non astrattamente dalla teoria alla pratica nell’alveo disciplinare del restauro condotto dalla scala territoriale ed urbana a quella architettonica; nel caso del distretto industriale di Prato ripartendo dall’esame delle esperienze condotte in città negli ultimi trent’anni (Avramidou
4 Principi da rispettare negli interventi di recupero e restauro dell’esistente da tutelare (Centauro, 2020a):
- Destinazione d’uso compatibile con la natura costruttiva dell’edificio;
- Ripristino o conservazione del comportamento statico originario nelle opere di consolidamento o di rafforzamento;
- Garantire la compatibilità chimica e fisica dei materiali in opera e la migliore reversibilità possibile degli interventi ;
- Garantire la durabilità e la manutenibilità delle opere.
- Osservare il principio del minimo intervento;
- Osservare la riconoscibilità degli elementi originari.
2001;
2001;
2001;
2004, ecc.) selezionando, in particolare, le vicende legate agli opifici “storicizzati” e/o ai manufatti ascrivibili tra quelli dell’archeologia industriale. In particolare, si vedano gli Atti del Convegno di Prato, organizzato da CICOP e dall’Ateneo fiorentino, in Faustini L. et alii (a cura di ), 2001. Come antefatto conoscitivo a livello locale è stato riservato un posto preminente all’excursus storico evolutivo dei processi di formazione dei patrimoni dell’industria pratese, dalla nascita all’espansione urbanistica5. In particolare, al fine di sviluppare in modo organico la discussione, una particolare attenzione è stata rivolta alle testimonianze architettoniche più significative costituite dai manufatti dell’industria pratese del ‘900 (Centauro 1997; Gurrieri, 2001a; Guanci 2011), selezionando quelle che sono state oggetto di interventi di recupero, riabilitazione e restauro (Centauro 2011). A questo riguardo, la documentazione e la schedatura degli interventi di trasformazione di tale patrimonio edilizio, già oggetto di accurato censimento, sono state messe a disposizione degli studenti del laboratorio (cfr. lo studio di tesi di Falchi et alii, 2004) come base informativa per dar corso alle analisi correnti. La lettura dei processi che hanno interessato le aree produttive dismesse sono indicizzati, cartografati e monitorati, riprendendo in mano studi pregressi (Centauro 2006) ed osservando i risultati delle esperienze più significative di restauro condotte sugli edifici esistenti ritenuti di interesse urbanistico, fra tutti il recupero dell’ex cimatoria “Campolmi” (Mattei 2012)6. Analogamente, nelle lezioni che hanno preceduto il convegno, sono stati riportati alla ribalta alcuni casi emblematici condotti a livello nazionale (Gregotti 2000; Rubino 2001; Docci 2010, ecc.) e internazionale (omissis). Infine, sono state rivalutate questioni riguardanti i metodi e i criteri degli interventi di restauro derivanti dall’analisi delle ultime tendenze che sono state avanzate sotto il profilo disciplinare, storico critico e tecnico nell’ambito delle
Quadro sinottico del censimento industria pratese (Falchi et alii, 2003), in foto l’area “Prato Centro-Nord” con legenda associazioni di categoria; Marino, 2017 per la SIRA (Società Italiana per il Restauro dell’Architettura); Currà et alii, 2022 per l’AIPAI (Associazione Italiana per il Patrimonio Archeologico Industriale), ecc.
Biblioteca Lazzerini. Istituto culturale e di documentazione, particolare della grande sala d’ingresso ricavata nell’ex tintoria della fabbrica Campolmi.
Restauro del Moderno, del Contemporaneo o restauro tout court?
La documentazione sull’architettura industriale moderna ha altresì fornito la base conoscitiva essenziale per affrontare in maniera omogenea lo spinoso e, per certi versi, ancor aperto e assai dibattuto capitolo del restauro del Moderno nelle sue molteplici sfaccettature (Gizzi 2012). Un primo elemento di riflessione è dato da quella che appare oggi come un’apparentemente netta contrapposizione esistente tra il restauro dell’architettura moderna e il restauro di quella contemporanea. Non è del tutto estraneo a tale netta distinzione il retaggio storiografico degli storici dell’arte che hanno più in generale retrodatato l’età Moderna con la fine del Medioevo, riconoscendo l’inizio dell’età Contemporanea a partire dai lasciti dell’Illuminismo o, per quanto concerne l’architettura, post Rivoluzione Industriale. Non è così però per gli storici dell’architettura che collocano l’incipit della modernità esattamente dove i primi collocano la sfera d’influenza del Contemporaneo, sia pure condividendone un’evidente sovrapposizione con il Moderno. Ma, al di là delle considerazioni più o meno accademiche, l’edificio contemporaneo attiene soprattutto all’architettura post-industriale (non a caso indicata anche come postmoderna) che più che al tema della conservazione, risponde nell’ambito dell’opzione restaurativa alle categorie della prevenzione e della manutenzione, ordinaria e straordinaria. Inoltre, si deve considerare che per il miglioramento e adeguamento sismico delle strutture esistenti non si pongono particolari distinzioni tra moderno e contemporaneo ovunque si riveli nei beni architettonici un deficit di sicurezza o una condizione di rischio. Al di là dell’etichettatura cronologica interessa però verificare le peculiarità che distinguono l’architettura del passato da quella moderna, osservando i sistemi costruttivi e i materiali messi in opera, ovvero se queste prerogative corrispondono alla tradizione costruttiva (di tipo artigianale) oppure a quella della produzione industriale che troviamo soprattutto nell’edificato novecentesco. Tuttavia, soprattutto se ci riferiamo alla prima metà del secolo scorso, abbiamo a che fare per la maggior parte dei casi con soluzioni ibride, con impiego di materiali misti ed elementi costruttivi moderni nel corpo di edificazioni murarie tradizionali che riscontriamo facilmente negli edifici industriali. Esiste inoltre un’altra differenziazione tra moderno e contemporaneo che si lega agli autori dei progetti che possono nell’arco delle proprie carriere essere stati del tutto trasversali nell’uso delle tecniche costruttive, modificando nel tempo l’impianto di progetto, interagendo senza partizioni temporali ora nella prevalenza dell’uno ora nell’altro campo. Nel caso di un edificio progettato da architetti/ ingegneri non più viventi, in mancanza dell’artefice si potrebbe, nel mettere mano alle opere incorrere in un arbitrio interpretativo, andando a modificare elementi architettonici, né più né meno di quanto può accadere con edifici storici, Ciò risulterebbe eticamente sbagliato in quanto lesivo dell’autenticità per dell’opera originaria da salvaguardare per quanto di recente composizione. Naturalmente questa tematica è resa ancor più evidente nel caso di riparazioni o restauri che attengono alle opere d’arte. L’attenzione rivolta al rispetto dei diritti di autore (riferendosi agli autori dei progetti) quindi interessa molto il contemporaneo interessa che si pone senza apparenti distinzioni rispetto alle diverse categorie tipologiche di appartenenza; ciò a valere anche nei confronti di profili architettonici di carattere urbanistico e/o paesaggistico (Centauro 2020a).
Tuttavia, anche considerando questo particolare risvolto etico più che sul piano normativo, resta il fatto che un capitolo nevralgico da sviscerare nella prassi corrente resta quello che determina, specialmente nell’architettura moderna, il confine tra interventi conservativi di manutenzione, risanamento e restauro e l’azione di rinnovamento o rifacimento o più semplicemente di ristrutturazione.
Queste considerazioni risultano dunque valide al di là dalle attribuzioni di valore culturale riconosciute anche ai capisaldi dell’archeologia industriale, quali icone della modernità, facendo riferimento alle fabbriche sia della prima che della seconda metà del secolo scorso. La dimostrazione ci viene dalle molteplici esperienze osservate, improntate a strategie di riqualificazione molto diverse fra loro, che registrano negli esiti, alti e bassi, attenzioni e disattenzioni nei confronti dei valori testimoniali riconosciuti ai manufatti moderni, spesso caratterizzati dalla riproducibilità degli elementi architettonici seriali che ne determina anche la facilità della rimozione e spesso ne autorizza il rifacimento. Situazioni queste che hanno portato alla perdita di un gran numero di beni, com’è facilmente riscontrabile nella conta degli interventi che hanno comportato lo smantellamento di interi stabilimenti come nelle manipolazioni estese di corpi di fabbrica o di singole parti caratterizzanti quelle strutture e persino nell’eclettismo di certe realizzazioni degli apparti decorativi e delle superfici.
Hanno giocato un ruolo negativo soprattutto tre fattori: un’inadeguata protezione urbanistica sul piano normativo, spesso legata a presunti difetti compositivi; la scarsa conoscenza delle tecnologie impiegate e dei valori formali posti in gioco rispetto al tipo costruttivo attribuito alle fabbriche oggetto degli interventi e, infine, la convenienza economica degli interventi eseguibili per la riabilitazione del patrimonio esistente a vantaggio delle operazioni di demolizione/ricostruzione laddove le problematiche di riuso legate alla dismissione delle aree produttive non fossero state adeguatamente sorrette da lungimiranti strategie di sviluppo alternative alla sola domanda di mercato, motivata dagli asset commerciali o residenziali del momento. Formulazioni risultate prevalenti negli ultimi trenta/quaranta anni (Rubino 2001).
Quelli però sono anche gli anni che segnano l’avvio del lungo e tortuoso percorso di avvicinamento culturale legato alla salvaguardia e al recupero dei giacimenti immobiliari dell’industria sul territorio. Ma quanti e quali sono questi beni? In effetti sono state condotte negli anni passati vaste operazioni di censimento e monitoraggio, alimentate dalla necessità degli enti territoriali di produrre elenchi di edifici da includere in liste di protezione urbanistica, da ben ponderare ai fini dell’inserimento o meno nelle categorie di intervento del “Restauro (R)” e del “Risanamento conservativo (Rc)”.
Non staremo in questa sede a ripercorrere le molteplici regolamentazioni e norme che autonomamente le Regioni e i Comuni hanno prodotto. Tuttavia è interessante fare alcune riflessioni in merito alle discriminanti di valore assegnate ai fini della tutela. Una prerogativa che appare elemento ricorrente in tutte le distinzioni che sono state fatte è data dalla conoscenza dei beni con azioni promosse da Università ed Enti di ricerca sotto la spinta di comitati locali o delle associazioni di settore, o portate alla ribalta dai media nazionali non disgiunte da studi e pubblicazioni di settore (guide ecc.).
L’elencazione e il monitoraggio delle minacce che incombono su questi patrimoni, laddove venga loro riconosciuto in un’ampia condivisione un valore culturale, è l’altra azione indispensabile per concorrere alla salvaguardia dei beni.
All’inizio del terzo millennio hanno aderito alle sollecitazioni e raccomandazioni mosse in questa direzione dal Consiglio d’Europa una quarantina di paesi nella campagna intitolata “Europa, il nostro comune patrimonio” (Bergeron L. 2001). Queste indicazioni sono da intendersi come opportunità e fattori di crescita culturale, promosse non casualmente in sede europea, con l’obiettivo di ricercare comuni matrici storiche legate all’interscambio di materie prime, all’energia e alla rete infrastrutturale, in un percorso storico evolutivo di antica data da condividere tra i vari Stati membri della U.E. per meglio comprendere le ragioni dello sviluppo e i processi di “modernizzazione” seguiti nei territori. Nel mirino delle ricerche legate all’archeologia industriale, nel passaggio tra antichi e nuovi processi, ci sono le evidenze determinate dai procedimenti industrializzati introdotti nel settore delle arti applicate, dagli stessi sistemi di produzione e dall’applicazione diffusa di tecnologie costruttive innovative sostenute dai fenomeni di innovazione tecnologica. Questi obiettivi sono stati perseguiti sviscerando, pur nella consapevolezza di trovarsi di fronte a profonde diversità, le molteplici situazioni sociali e politiche vissute dalle varie nazioni. Le difficoltà non sono certo mancate e ancor oggi non mancano. Basti pensare alle diversità emerse a livello europeo dopo la “caduta del muro” tra i paesi dell’est e quelli dell’ovest. Non dimenticando il ripetersi di conflitti, drammaticamente tornati alla ribalta in questi mesi con l’invasione russa dell’Ucraina che ha portato, come qualche anno fa lo furono per la guerra nei Balcani, alla distruzione di intere compagini architettoniche, nella fattispecie degli impianti produttivi come di interi quartieri ad essi collegati, colpendo mortalmente specialmente il patrimonio architettonico del ‘900.
Per tutte le ragioni sopra espresse è opportuno introdurre con forza la questione del restauro del Moderno in Architettura, che allo stato attuale del dibattito sembra ancora galleggiare in un ambito dialettico rimasto sostanzialmente invariato dalla fine del secolo scorso. Soprattutto si distingue il restauro dell’architettura, distinta nelle sue parti materiche, rispetto ai caratteri costruttivi, senza ben considerare che la conoscenza degli impianti strutturali a telaio come quelli murari tradizionali costituisce una parte essenziale del progetto di restauro architettonico. Tuttavia, riallacciandosi non solo alle esperienze di recupero del patrimonio architettonico industriale, si registrano in maniera più marcata le tendenze che esaltano il valore icastico ed estetico piuttosto che quello tecnologico e strutturale dei beni architettonici moderni. Per questo si potrebbero abbinare a queste valutazioni, nell’impossibilità di intervenire in maniera larga sul patrimonio esistente, le composite ma riduttive argomentazioni, talune ambigue, mosse dalla critica d’arte, alimentate nell’era di internet del terzo millennio, che puntano al valore dell’immagine piuttosto che alla natura strutturale del permanere delle testimonianze fisiche dell’architettura moderna e contemporanea. In questo senso le enunciazioni che fanno capo a questi principi possono considerarsi come la proiezione dialettica della cosiddetta “storia visiva” (Savorra 2006), qui da intendersi piuttosto come strumento analitico di conoscenza e divulgazione al fine di promuovere la conoscenza del costruito esistente per varare una possibile azione di tutela, specialmente a valere nei confronti della produzione architettonica dell’industria; laddove la memoria che si conserva nell’immagine copre solo in parte la perdita dell’oggetto, la documentazione prodotta ante quem la trasformazione può semmai colmare il vuoto temporale generato dallo strappo causato dal rinnovamento che si contrappone alla conservazione. Il ricorso all’immagine fotografica per la compilazione di campionari di architettura, già perseguito come principale fonte documentaria per la catalogazione dei beni fin dall’istituzione dell’ICCD, ben si attaglia alla produzione, certamente non così ben scandagliata dai media, dell’architettura moderna. Naturalmente esiste una forte opposizione a questo modo “surrogato” di operare che si basa sull’analisi comparata dei risultati. Dal confronto di questo genere di attenzioni virtuali con gli interventi che hanno posto il restauro al centro dell’interesse culturale per la collettività, si capiscono facilmente le buone ragioni addotte a supporto del restauro e si evidenziano ancor meglio gli esiti producibili se si valutano le problematiche legate alla necessità di preservare le opere d’arte moderne e contemporanee, Queste ultime, non disgiunte dalla conservazione delle stesse immagini documentarie, analogiche e digitali che siano, evidenziano la necessità di una profonda riflessione sulle questioni tecnico-applicative irrisolte che la scienza della conservazione non è al momento in grado di assicurare (Salvo 2016).
Ripercorrendo la storia stessa del restauro in epoca moderna, si deve però sottolineare come siano ancor oggi prevalenti i metodi di ricerca legati ad una narrazione prettamente cronologica dei beni architettonici, certamente alimentata dalla lunga tradizione epistemologica della disciplina generata da una visione storicistica della salvaguardia.
Tuttavia, se fosse solo questa l’accezione che identifica l’architettura moderna si tralascerebbero alcuni principi fondamentali del “fare moderno” che, in un’ottica miope, tornerebbe ad essere soppesato, come spesso si è fatto, con le opere del passato, con un metro di giudizio basato sull’epoca di costruzione, alimentando pregiudizi e storture. Per tali ragioni questa visione non appare del tutto confacente rispetto ai caratteri dell’architettura moderna che non può essere esclusivamente vista come il risultato formale o storico evolutivo attuato attraverso le nuove composizioni materiche messe in atto dopo la rivoluzione industriale, trascurando l’altra metà della rivoluzione, quella che si realizza nel ‘900, tra le due guerre, con il Movimento Moderno che alimenterà negli anni’20 nuovi canoni estetici e funzionali fondati sul funzionalismo e il razionalismo. In questo senso la frattura prodotta dal Movimento Moderno nei confronti della produzione artistica ed architettonica del passato, avrebbe dovuto produrre riflessi anche nel metro del giudizio di valore da applicare nella cernita critica di ciò che, in chiave di restauro, merita di essere salvaguardato da ciò che può essere modificato, rinnovato o sostituito proprio in nome della “modernizzazione” (Gizzi 2012). Quindi è proprio il concetto di moderno in architettura che si viene a porre al centro del dibattito internazionale ed italiano anche nell’ambito di salvaguardia. Un esempio ci è dato dalla nascita dell’associazione “DoCoMoMo” (Documentation and Conservation of building, sities and neighbouthoods of the Modern Moviment) verso la fine degli anni ’80/inizi anni ’90, che testimonia come la discussione sul moderno in architettura non sia univoca, ma che piuttosto sia dovuta ad una discriminante determinata dal fattore temporale. Su questo viene indicato ciò che può considerarsi moderno da ciò che attiene al passato né più né meno da quanto formalizzato dal Movimento Moderno negli anni’ 20.
Questa presa d’atto, alla luce di tutte le considerazioni fin qui fatte pare essere pertinente e giusta pur non essendo norma ma solo una indicazione orientativa. Questa nuova accezione di merito evidenzia anche quello che appare essere ancor oggi il maggiore limite ai fini del riconoscimento di valore dei beni architettonici moderni, ovvero l’esiguità dello spazio temporale che intercorre tra la realizzazione dell’opera e l’esigenza di una sua manutenzione (da intendersi come presa in cura di protezione) che separa la produzione architettonica moderna dall’azione programmabile di restauro. Tuttavia, c’è anche chi ritiene che “moderno” viene da “moda” e che la moda passa, e che questo «genera una confusione tra moderno e contemporaneo. Il concetto di moderno rimane indefinito.»7
Nell’ambito del restauro questo può per taluni ritenersi una questione di lana caprina, senza considerare che il problema della conservazione può manifestarsi a prescindere dalla distinzione tra moderno e contemporaneo in ragione dell’instaurarsi di fenomeni patologici intrinseci connessi alle tecniche costruttive moderne, spesso sperimentali, e agli stessi materiali di nuova generazione impiegati, oppure estrinseci dettati dalle condizioni ambientali causate da innumerevoli altri fattori che poco o niente possono avere a che vedere con lo stato di salute del manufatto. Un’altra peculiare caratteristica dei materiali e delle strutture moderne, che interferisce pesantemente con le modalità di intervento proprie del restauro conservativo è dato dalla riproducibilità dei tipi, dovuta quest’ultima alla molteplicità e diffusione degli esemplari che sono stati realizzati a macchina e che possono facilmente riprodursi (sostituendosi agli originali) rendendo la conservazione un’opzione in chiave di riabilitazione, utilizzando copie riprodotte con analoghi procedimenti. La questione si allarga ancor più se consideriamo le necessità ricorrenti di adeguamento funzionale degli edifici che comportano inevitabilmente l’inserimento di nuovi impianti nelle migliorie da farsi
(impianti di riscaldamento o elettrici, bagni, nuovi infissi, ecc.).
La questione disciplinare, per così dire morale del restauro, prima ancora quella di un’ecumenica dottrina dettata dalla teoria, pone grazie al restauro del Moderno nuove domande alle quali dover rispondere, del tipo: come posso intervenire nelle circostanze sopra esposte? Una domanda che appare legittima e alla quale si deve dare risposta partendo dal presupposto che il progetto originale, ammesso che sia ben documentato, potrebbe già avere subito modifiche o alterazioni come puntualmente si riscontra per gli elementi architettonici della prima metà del ‘900, rimaneggiati negli usi o dismessi da pochi anni. Gli adempimenti che dettano le linee di intervento del direttore dei lavori impongono anche ulteriori opere non solo impiantistiche per il contenuto dei consumi energetici ma anche strutturali ai fini sismici, ma, più in generale, “nell’intreccio fra nuovi principi formali e nuove regole costruttive”. Di questi aspetti sarà trattato in maggior dettaglio in una successiva relazione8.
Restaurare l’architettura italiana del XX secolo nella successione temporale che prende le mosse dalla rivoluzione industriale e motiva le proprie ragioni nelle trasformazioni indotte dal Movimento Moderno, trova dunque la sua massima espressione solo nel ‘900 e non prima, anche sul piano metodologico, passando dall’analisi filologica a quella organica fin quasi ad annullare nella pratica i principi che avevano governato le immutabili regole dell’arte del costruire, progressivamente subordinata all’emergente industrializzazione edilizia. Il progetto di restauro dell’architettura sembra avere seguito strade divergenti, da una parte si interviene sui monumenti insigni del passato nei modi sostenuti dai filologi ottocenteschi e nell’esaltazione dei valori storici, seguendo fino alla Carta Italiana del Restauro del 1972 gli universali principi di brandiana memoria, dall’altra si attua un “restauro diffuso” sul patrimonio edilizio dettato dall’utile e del funzionale che si esercita soprattutto nel restauro del Moderno e, nei limiti prima evidenziati, del Contemporaneo. Una prima enunciazione della radicalmente diversa attitudine nell’approccio agli interventi riabilitativi validi anche nell’ambito della conservazione è coincisa, fin dai primi dibattiti degli anni ’60, con l’estensione della tutela ai centri storici che, nel giro di una quindicina di anni, assume i connotati di una vera e propria svolta epocale. Nelle applicazioni del restauro alla scala urbana, infatti, sono andate modificandosi le stesse categorie d’intervento sulla scorta dei principi europei sinteticamente riassunti nella locuzione “conservazione integrata” (v. “Carta di Amsterdam” del 1975). Da quella enunciazione in avanti, nel giro di pochi anni, entrerà a fare parte dei quadri normativi nazionali e 8 regionali un altro genere di atteggiamento nei confronti della salvaguardia del patrimonio edilizio esistente, prima ancora dei beni architettonici che a livello urbanistico sono distinti sul piano della tutela. Non staremo a ripercorrere quella “frizzante” stagione di cambiamenti in primis istituzionali. Saltando agli anni recenti , una definitiva e netta demarcazione nell’ambito del restauro dell’architettura la troviamo puntualmente nel quadro normativo vigente, riassunto nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 che pone l’azione del restauro, quale categoria di intervento in subordine rispetto a quella della conservazione (Centauro 2020).
Occorre a questo punto riconsiderare l’origine della contrapposizione tra “antico e moderno” caratterizzante i canoni del Movimento Moderno definiti nella prima metà del ‘900. Sul piano del metodo, facendo ancora una volta un parallelo con quanto generato nel dibattito nazionale, come del resto in quello europeo, non si può non porre l’attenzione nei confronti dell’atteggiamento progressivamente più consapevole dimostrato dalla società contemporanea nei confronti delle testimonianze dell’archeologia industriale, nella sua prima enunciazione disciplinare (Borsi 1978).
Questa apertura ha coinciso con la definitiva messa in crisi del “monumentalismo” a vantaggio della celebrazione del “simbolismo autopresentativo”, che pone sullo stesso piano di interesse l’opera finita e l’autore del progetto, talvolta come riconoscimento “griffato” dell’opera moderna. Si comincia cioè a sottolineare in maniera decisa la rilevanza attribuibile al genio creativo dell’autore del progetto, come fattore culturale imprescindibile. Si tratta di un passaggio decisivo per quanto riguarda le fortune del restauro dell’architettura d’autore. Analogamente si rafforza per le opere moderne la tendenza a dare maggior peso all’icasticità delle forme dell’elemento architettonico piuttosto che trascendere sul loro valore documentale. Questo atteggiamento che, portato alle estreme conseguenze, appare assai discriminatorio non tarderà a produrre effetti nefasti ai fine della conservazione, specie in seno alle testimonianze dell’archeologia industriale. Con questo metro di giudizio si possono dare spiegazioni a certe discutibili scelte d’intervento perseguite nel recente passato. In ogni caso, superati gli anacronistici effetti prodotti nel restauro dalla mera selezione per tipi, la prassi corrente del recupero sembra aver focalizzato l’attenzione verso i valori formali dell’architettura moderna principalmente espressi - come già evidenziato – dalla sua stessa immagine. Cambiando il profilo dell’approccio e l’analisi dei valori anche il restauro dell’architettura, in special modo per quanto concerne la manifattura moderna e gli stessi materiali in uso, ha subito non pochi contraccolpi. Lo dimostra in modo inequivocabile ed emblematico il percorso maturato per il recupero dopo le dismissioni del patrimonio architettonico dell’industria pratese del ‘900 che ha determinato anche la perdita di strutture realizzate da eminenti progettisti, tra queste molte opere giovanili dell’ing. Pier Luigi Nervi (Guanci 2008). Questi episodi danno la misura del ritardo culturale accumulato non più tardi di venti anni or sono nell’ambito delle politiche di salvaguardia dell’architettura moderna, azioni che, per certo, riassumono ancor oggi molte delle tematiche al centro della controversia ideologica tra restauro conservativo, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione. Tutto ciò sembra spostare l’asse della riabilitazione al di fuori dei canoni più consolidati del restauro, ponendo il restauro del Moderno al di fuori del restauro tout court. Da questo punto di vista prende campo e si sviluppa in maniera più incisiva la tematica del restauro urbano come intervento che fa capo ai principi della “conservazione integrata”, da perseguire attraverso la riabilitazione funzionale dei manufatti, in particolare con il cambio di destinazione. Per questo in una fase di transizione quale quella che stiamo vivendo, la cultura del restauro, fermamente ancorata nei suoi principi generali alla conservazione sul piano esclusivamente materico dei manufatti, non sembra aver ancora trovato una giusta connessione con i temi del restauro strutturale e della rigenerazione delle funzioni che, non a caso, sono al centro degli approfondimenti di studio oggi valutati da un punto di vista metodologico. Del resto la stessa matrice del restauro tout court dell’architettura che, in quanto disciplina storico-critica, nasce e si fissa soprattutto nei canoni ottocenteschi, pone questioni del tutto analoghe a quelle del restauro del Moderno che attendono come le prime giuste declinazioni. Occorre dire in positivo che le riflessioni sulle misure da adottare nel restauro dell’architettura moderna hanno riportato l’asse dell’interesse sulle parti strutturali della fabbrica fino a pochi anni addietro largamente disattese negli interventi di restauro, anche a seguito di eventi sismici o disastri inattesi come l’improvviso crollo, il 18 agosto del 2018, del ponte Morandi sul torrente Polcevera, dal quale avremmo ancora molto da imparare. Una ferita ancora sanguinante per la storia del restauro del Moderno. La vicenda del crollo del ponte Morandi, infatti, ha messo in evidenza quali debbano essere le attenzioni da rivolgere alle strutture in c.a. caratterizzanti l’architettura moderna quali esse siano, sia in fase di monitoraggio di controllo dello stato di conservazione che di prevenzione. Infatti, per il caso del ponte Morandi, ho già avuto modo di sottolineare:
«Per la complessa natura tecnologica delle strutture in c.a. precompresso con quegli stralli incamiciati sarebbe stato comunque non agevole, ancor prima del drammatico cedimento, l’accertamento delle reali condizioni di esercizio e dell’usura dei materiali in opera. Una puntuale azione di monitoraggio avrebbe semmai potuto avvertire per tempo circa la progressione e l’entità “oggettiva” del rischio, specialmente in relazione alle molteplici concause ambientali determinate al contorno negli anni recenti, sia per l’aumento quasi esponenziale dei carichi sopportati dalle strutture rispetto all’epoca di costruzione e ai primi anni di esercizio, sia per gli ammaloramenti nascosti che si celano nel c.a. e soprattutto nelle tirantature metalliche precompresse, situazioni non determinabili a vista senza il supporto di un capillare screening di controllo delle superfici. Per il restauro strutturale, come per quello architettonico, l’ausilio dell’analisi autoptica preliminare risulta altresì indispensabile per stabilire i provvedimenti più opportuni da adottare in chiave di prevenzione (per scongiurare potenziali défaillance dovute agli stress funzionali sopportati e alle pregresse carenze di manutenzione), ma anche rispetto alle stesse misure di protezione di tipo passivo eventualmente da mettere in campo. Di natura largamente empirica risulterebbe poi la sarcitura delle superfici, il rammendo di fessurazioni e il ripristino dei copriferro, pur trattandosi di operazioni in ogni caso necessarie ma per certo non risolutive rispetto alle cause intrinseche che caratterizzano l’opera (dai fenomeni all’affaticamento occulto degli stralli incamiciati alla viscosità del calcestruzzo, ecc.)» (Centauro 2018).
Dopo il crollo del ponte sul Polcevera s’impone un’ampia riflessione su quanto è capitato ad una delle opere italiane più celebrate dell’ingegneria in calcestruzzo armato precompresso.
Tutta l’Italia ha capito che occorre svolgere una capillare azione di controllo e prevenzione su tutte le strutture in c.a. aventi più di 50 anni di vita, per la sicurezza e la salvaguardia stessa di questi beni. Questo vale anche per Prato che, dopo aver perduto gran parte delle fabbriche della prima fase dell’industrializzazione, quelle in mattoni, vetro e ghisa, rischia di perdere le strutture in c.a., protagoniste nel ‘900 della stagione del funzionalismo.
«Oggi con le esperienze acquisite possiamo tuttavia migliorare la diagnostica preventiva a cominciare da un’attenta perlustrazione delle superfici e della geometria del sistema portante (travature, piloni, stralli, impalcati e così via dicendo), da ripetersi nel tempo al fine di evidenziare l’incipit di ogni manifestazione di decadimento del c.a., in particolare di corrosione ed espulsione dei materiali cooperanti. L’applicazione per lo studio delle superfici in c.a. a faccia vista della diagnostica per immagini digitalizzate (diagnostics for digitized images) del quadro fessurativo e delle texture potrebbe indirizzare le ricerche sulle patologie nascoste del c.a., sulle cause dovute alla qualità delle gettate, alla distribuzione degli inerti nel calcestruzzo risultanti dalle impronte lasciate dalle casseforme dopo il disarmo, ecc. Dalla diagnostica per immagini (termografica, radiografica, ecc.) e dalle poco costose indagini sclerometriche, utili in un primo livello di valutazione per la resistenza sismica, potremmo inoltre ottenere informazioni orientative per condurre campionature (carotaggi) e esami più accurati (ultrasonici, magnetometrici, ecc.) nelle porzioni risultate “difettose” o non del tutto conformi, consapevoli che difficilmente si potranno eseguire scansioni tomografiche estese. Tutte le informazioni raccolte, tracciabili in un sistema georeferenziato sono trattabili in via informatica, possono entrare in un “database” predisposto ad hoc ai fini della manutenzione programmata e del restauro. Si costituirebbe così un sistema di gestione dei dati, come quello che in informatica è conosciuto con l’acronimo CMS (Content Management System). Nell’ottica della conservazione attiva di un tal genere di patrimonio queste azioni limiterebbero i rischi anche in presenza di difetti congeniti e, se non tutto potrà essere conservato nelle forme originali, optando per la sostituzione parziale o totale degli elementi strutturali difettosi, sarebbe comunque assicurato un futuro alle testimonianze dell’archeologia industriale, icone nella storia dell’ingegneria moderna» (Centauro, 2018a).
Tuttavia, non sono ancora del tutto superate alcune incongruenze che riferendosi al restauro del Moderno appaiano marcatamente più vistose. L’attenzione mostrata ai caratteri stilistici più che ai caratteri costruttivi ne è solo un esempio. Questo indirizzo appare limitante e del tutto anacronistico specie nei confronti dell’architettura moderna che esprime il proprio punto di forza espressiva soprattutto attraverso l’impianto strutturale. Si tratta di una tendenza radicata che ha attraversato gran parte del secolo scorso, laddove il restauro dell’architettura non è stato perseguito come strumento di prevenzione o riabilitazione dell’esistente se non per la ricostruzione postsismica degli edifici (Gurrieri 1999; Centauro 2014). Del resto la dicotomia tra “città vecchia e città nuova” che si radica negli anni ‘20 è emblematica dei sentimenti che si agitano come retaggi difficilmente risolvibili intorno al tema del restauro, così come in modo analogo si consuma la diatriba tra i sostenitori della conservazione e gli esponenti delle avanguardie. Le criticità e gli anacronismi sono molteplici: in primis quello di considerare il termine di vetustà (prima di 50 anni, oggi ampliato ai 70 anni) come discrimine per il riconoscimento della tutela, andando cioè a rincorrere negli anni che verranno i requisiti necessari per la salvaguardia e condannando alla manipolazione selvaggia, se non addirittura alla demolizione, cioè senza soverchi controlli, persino per quei manufatti che nel tempo sarebbero divenuti “monumenti”, testimoni autentici del loro tempo. In questo modo si sono perduti negli anni trascorsi degli immobili, intere fabbriche che oggi si sarebbero salvate. Al netto di quanto si è fin qui considerato, si potrebbe dedurre che il restauro delle testimonianze architettoniche moderne debba essere considerato a pieno titolo quale una categoria indistinta del restauro tout court, ma a ben guardare, le cose non stanno proprio così. Infatti, alla luce delle considerazioni fin qui avanzate, la questione che al momento maggiormente si dibatte e che probabilmente sarà al centro delle prossime riflessioni, altro non è che lo specchio delle dinamiche che agitano non solo le leggi della tutela o i regimi normativi che riguardano lo sviluppo delle città e dei territori, ma anche il mondo dell’arte, le creazioni dell’ingegno umano, il rispetto delle regole nel gestire in modo congruo il recupero dell’architettura moderna. Il dibattito degli ultimi anni sul restauro del Moderno che viene a sommarsi, ancor più criticamente, a quello del Contemporaneo, si è focalizzato, ancora una volta sui principi e in maniera stereotipata sugli aspetti teorici della questione, tralasciando spesso l’aspetto pragmatico dell’operare che, più di qualsiasi altro fattore, incide sui risultati attesi ai fini della salvaguardia e della stessa manutenzione degli edifici, generalmente insoddisfacenti all’atto pratico se non addirittura del tutto disattesi nei progetti di recupero.
Vale la pena ricordare che negare le specificità della manifattura architettonica del ‘900 preclude a priori la possibilità di curare come si dovrebbe il mantenimento delle fabbriche, dalle superfici a vista in c.a. agli infissi originali, le nuovi componenti materiche delle strutture metalliche senza considerare le pesanti ristrutturazioni o demolizioni che hanno interessato il patrimonio edilizio dell’industria in presenza di dismissioni funzionali. Da questo processo introspettivo resta escluso il progetto che sorregge l’impalcatura dell’opera da restaurare. Sul tema dell’impianto metodologico più consono per la conduzione dei cantieri di restauro del costruito industriale, al di là delle valenze archeologiche insite in questi organismi, si possono trovare molteplici spunti in tanta parte degli interventi prodotti in questi ultimi anni, oggi portati all’attenzione del pubblico.9
Come è stato giustamente osservato:
«La specificità dell’ambito in questione è, al contrario, incentrata sul disagio storico-critico che interessa l’atto di riconoscimento di valore, inevitabilmente ostacolato dall’assenza di un congruo distacco “storico” e di una storiografia consolidata. In questo senso, l’atteggiamento retrospettivo verso l’architettura contemporanea può essere interpretato come indolente proiezione sul passato della “debolezza”’ della nostra civiltà che, per svariati motivi, tende a riappropriarsi dei simboli del recente passato negando l’incidenza di quel breve ma denso lasso di tempo intercorso fra la creazione di tali opere e la loro ricezione nel presente» (Salvo 2011).
All’opposto l’incontro tra l’archeologia industriale e il restauro dell’architettura moderna, a differenza di quanto a lungo profetizzato nella disciplina, offre per le caratteristiche stesse dei manufatti che costituiscono il principale repertorio dei casi esistenti, l’occasione di riaprire in senso dinamico ed evolutivo il rapporto tra conservazione e restauro per la restituzione della leggibilità dell’autenticità architettonica, ponendo al centro il confronto tra il progetto ereditato dal passato e quello nuovo da intraprendere, trovando in questo la giusta sintesi dell’azione restaurativa da condursi in una chiave di rigenerazione delle funzioni che, insieme alla valorizzazione, rimane l’obiettivo di ogni qualsivoglia azione conservativa.
Al tal proposito si ritiene, ancora in fase di introduzione oggi ai temi dibattuti, che le relazioni presentate in convegno possano offrire nuovi utili contributi per capire le tendenze che stanno spostando le attenzioni del progetto di restauro dalla conservazione alla rigenerazione delle funzioni.
Prato scomparsa: L’ingegnoso innesto del deposito dell’acqua sul fusto della ciminiera nel Lanificio Risaliti, in un’immagine degli anni ’30 (Fonte: APT, Prato)