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La stazione ponte
La stazione del futuro deve essere a flusso libero, in sintonia con il quartiere che la circonda, come un villaggio urbano. Pertanto, la progettazione della nuova stazione ponte di Campo di Marte ha l’intento di realizzare nuove aree di accoglienza e di servizio per i visitatori, e di creare uno strumento strategico di collegamento con la città. La struttura è un ponte a traliccio che poggia su piloni e setti in cemento armato. All’esterno sono posti tutti i servizi d’accesso: scale, scale mobili e ascensori, il che rende lo spazio completamente flessibile, con allestimenti liberi e dinamici che possono adattarsi a diverse esigenze sociali ed economiche.La stazione ha una superficie totale di 3500 mq di piastra ferroviaria, di cui 1000 mq destinati a servizi e commercio. Gli spazi di testa svolgono la funzione di ristoro e sosta, mentre quello centrale fungerà da transito e attesa.Gli arredi avranno un ruolo cruciale, dotando gli spazi di testa di pop up store e arredi per co-working. L’area centrale sarà arredata con sedute e totem insonorizzati per videochiamate o riunioni di lavoro. La stazione ponte di Campo di Marte è accessibile dalle due teste con dei corpi scala che si innestano sotto il volume a sbalzo. La parte inferiore, invece, accoglierà le nuove funzioni pubbliche e di servizio per i viaggiatori, come biglietterie, info point e ristoro.
Schema connessioni in prospetto
Schema connessioni in prospetto
Schema connessioni in prospetto
Legenda
Ascensori Corpi scala
Legenda
Ascensori Corpi scala
Ascensori Corpi scala
Schema connessioni in pianta
Schema connessioni in pianta
Schema connessioni in pianta
Legenda
Legenda
Corridoio di transito Scale d’accesso Ascensori
Corridoio di transito
Corridoi secondari
Corridoio di transito Scale d’accesso Ascensori
Scale d’accesso Ascensori
Corridoi secondari
Corridoi secondari
Planimetria nuova stazione ponte
Schema funzionale in prospetto
Schema funzionale in prospetto
Schema funzionale in prospetto
Schema funzionale in pianta
Schema funzionale in pianta
Legenda
Box ristoro
Box info-biglietteria
Legenda
Box negozio
Box ristoro
Rain garden
Box ristoro
Box info-biglietteria
Box info-biglietteria
Box negozio
Rain garden
Box negozio
Rain garden
Legenda transito Area ristoro-coworking
Area ristoro-coworking
Legenda
Aree di sosta
Aree di sosta
Aree lavoro transito Area ristoro-coworking
Aree lavoro
Aree di sosta
Aree lavoro
Sezioni nuova stazione ponte
Dettagli plastico di progetto sezione longitudinale sezione trasversale
Caro Massimo, scrivo questa “lettera” per tornare a (farti) riflettere su come e perché chi studia o progetta paesaggi, piani e parti di città, debba affidare il suo punto di vista ad un cannocchiale che ruota e si capovolge – come suggeriva Giancarlo De Carlo – debba esercitarsi all’inversione delle ottiche e al movimento dello sguardo: dal grande al piccolo, da vicino a lontano, dall’insieme al dettaglio (e viceversa), provando a lavorare tra e nelle diverse scale della progettazione. In questo senso, mi sembra interessante provare a rileggere alcuni temi che hanno caratterizzato gli esercizi, le analisi e i progetti elaborati nel nostro LAB e nella tua tesi, soffermandomi in particolare sugli aspetti che riguardano il disegno dello spazio urbano e il dialogo che ne consegue o si stabilisce con il contesto esistente. In altre parole, domandarsi come possa avvenire una mutazione che permetta di immaginare una “città passante e pensante”, una città palindroma (come l’ho definita in altre occasioni), modificabile e reversibile in alcune sue parti. Temi e questioni che hanno una grande rilevanza in rapporto alla discussione che anima il dibattito sulle pratiche di riqualificazione della città contemporanea: pensando in particolare a quanto la lettura, il progetto e il disegno della città costituiscano il fondamento di una disciplina urbanistica intesa come strumento capace di dare forma e concretezza ai diversi temi della rigenerazione e della sostenibilità. Occorre però collocare queste prime osservazioni entro una riflessione più ampia, uno sfondo che lasci intravedere: da un lato la possibilità di recuperare la divaricazione tra urbanistica e architettura, la volontà di riannodare questo fondamentale rapporto attraverso una cultura del progetto più attenta all’incontro tra le diverse scale e più capace di saper leggere i molti strati presenti nel territorio; dall’altro la possibilità di superare la dicotomia città-territorio, immaginando nuovi sistemi di relazione e nuove “sinergie” con il paesaggio (cui la stessa città appartiene), il patrimonio storico-architettonico, l’ambiente naturale e le aree agricole; ovvero con l’insieme degli elementi che hanno assunto nel tempo un carattere identitario – riconoscibile e riconosciuto dalla comunità e dalla cultura locale – e che costituiscono una struttura di riferimento stabile e duratura, una figura con la quale confrontarsi e sulla quale “appoggiare” la pianificazione della città e i progetti delle infrastrutture. In altre parole, ciò significa affermare la necessità di costruire una visione strategica al centro della quale vi siano: un progetto di ricomposizione ambientale; un progetto di mobilità sostenibile; un’idea di città che si modifica e si rinnova dall’interno, attraverso operazioni di sostituzione e recupero di tessuti e spazi aperti in gran parte già utilizzati (senza “consumare” nuovo suolo). Ciò che vorrei sostenere però, è che a tutto questo si accompagni una ricerca progettuale sensibile alla natura dei luoghi e alla loro morfologia, capace di cogliere e mettere in relazione tutti quegli elementi che appaiono come il risultato di una condensazione di segni, tracce, usi e modificazioni esito di processi territoriali dei quali occuparsi e sui quali “innestare” gli interventi di modificazione. L’esatto contrario della “tabula rasa” sulla quale intervenire in modo astratto. Ma anche – occorre dirlo – l’esatto contrario di un atteggiamento che rifiuta di confrontarsi con i risultati di quegli stessi processi (naturali, spontanei o dovuti a interventi pianificati) che le città hanno subito e che richiedono capacità di riconoscere e distinguere ciò che deve essere conservato da ciò che può essere recuperato o trasformato.
In questo senso, credo si possa affermare che quelle strutture, quell’insieme di sovrapposizioni e assemblaggi di materiali e immaginari diversi che hanno dato forma a differenti paesaggi – deludenti o straordinari – siano luoghi densi e parlanti che costituiscono un testo inciso nel suolo, le cui voci possono essere ascoltate, le storie ricevute e raccolte, rielaborate ed eventualmente riscritte con la massima cura: poiché, come sostiene Erri De Luca, “si è redattori di varianti, di storie già infinitamente raccontate”.
Goffredo Serrini Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze
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Finito di stampare per conto di didapress
Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Maggio 2023