DIGIMAG 09 - NOVEMBRE 2005

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DIGICULT Digital Art, Design & Culture

Fondatore e Direttore: Marco Mancuso Comitato consultivo: Marco Mancuso, Lucrezia Cippitelli, Claudia D'Alonzo Editore: Associazione Culturale Digicult Largo Murani 4, 20133 Milan (Italy) http://www.digicult.it Testata Editoriale registrata presso il Tribunale di Milano, numero N°240 of 10/04/06. ISSN Code: 2037-2256 Licenze: Creative Commons Attribuzione-NonCommerciale-NoDerivati - Creative Commons 2.5 Italy (CC BY-NC-ND 2.5) Stampato e distribuito tramite Peecho Sviluppo ePub e Pdf: Loretta Borrelli Cover design: Eva Scaini


INDICE

Marco Mancuso

Connessioni Leggendarie, Intervista Alla Netart .................................................... 3 Sarah Nussenblatt

Frieze Art Fair .............................................................................................................. 12 Marco Mancuso

Nuovo Centro Di Elaborazione Dati ......................................................................... 18 Bertram Niessen

Mikomikona, Archeologia Dei Media ...................................................................... 25 Alex Dandi

Slices: Electronic Music Magazine .......................................................................... 29 Giulia Baldi

Scultori Di Suono ........................................................................................................ 32 Leo Learchi

Retina.it: Nel Cuore Del Vulcano ............................................................................. 35 Beatrice Ferrario

Xx(y), Tecnologia E Cromosomi ............................................................................... 39 Maria Molinari

Copyzero: All Rights Digitalized ............................................................................... 41 Gigi Ghezzi

Crionica, Prospettiva Di Immortalita’ ...................................................................... 47 Teresa De Feo

Come Sara’ Il Videogame Del Futuro? .................................................................... 50


Alessandra Migani

I Sei Sensi Della Citta’ Contemporanea .................................................................. 55 Lucrezia Cippitelli

Insite 05, Network Attivista ..................................................................................... 60 Maria Rita Silvestri

New Media Art, Vendere L’immateriale ................................................................. 65 Motor

Interazione E Nuove Percezioni .............................................................................. 69 Annamaria Monteverdi

Living Theatre, Fuck The Legend! ............................................................................ 72 Massimo Schiavoni

E’ Il Tempo Di Zimmerfrei ......................................................................................... 75 Domenico Quaranta

Klee As Software ........................................................................................................ 80 Fabio Franchino

Generative X, Tra Arte E Codice .............................................................................. 83 Miriam Petruzzelli

Techne 05, La Poetica Del Confine ......................................................................... 86 Monica Ponzini

Dara Friedman, Sunset Island .................................................................................. 90


Connessioni Leggendarie, Intervista Alla Netart Marco Mancuso

e modalità di espressione. Questo è il motivo per cui è sempre più complesso affrontare con obbiettività il racconto e la descrizione di una mostra come Connessioni Leggendarie, che si sta svolgendo in questi giorni alla Mediateca di Santa Teresa di Milano e che proseguirà fino al prossimo 10 Novembre 2005. Una mostra sulla Net Art, un tentativo (forse incompleto, come del resto si preoccupano di far sapere gli organizzatori) di storicizzazione e di mitizzazione dei lavori e delle azioni di quel manipolo di agitatori culturali (chiamati nel bene e nel male “artisti”) che hanno costituito l’unica forma riconosciuta e riconoscibile di avanguardia artistica digitale contemporanea.

Difficile calarsi nel ruolo del giornalista super partes nel momento in cui, per l’approccio critico che riveste la propria figura professionale e la responsabilità intellettuale che questo ruolo porta con se, si è quasi obbligati a esprimere un proprio pensiero e un’autonoma opinione su ciò che accade nel mondo dell’arte elettronica moderna, muovendosi con attenzione all’interno delle sue cattedrali, partecipando ai suoi riti collettivi, dialogando con i suoi portavoce e con i custodi di memorie ed esperienze, calandosi nell’intepretazione di forme estetiche e linguaggi di comunicazione allo scopo ultimo di comprendere come si esprime la natura umana per mezzo di strumenti elettronici che abbattono, a velocità crescente, differenze stilistiche e confini ideologici, esperienze creative

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Riflettendo su come si sia radicalmente trasformato il ruolo dell’artista/comunicatore moderno, su quali incredibili strategie mediatiche e di marketing guerrilla siano state messe in atto da nomi leggendari ormai come 0100101110101101.ORG, Vuk Cosic, The Yes Men, Jodi, Mark Napier, Survellance Camera Players, Etoy, Electronic Disturbance Theatre, Ubermorgen, Florian Cramer, Epidemic, Alexei Shulgin, Jaromil, Cornelia Sollfrank, Amy Alexander, Adrian Ward e alcuni altri, su come la Net Art sia ancora oggi l’unica vera corrente artistica elettronica immediatamente riconoscibile dal pubblico e dai media e sia per per questo stata capace di dialogare con l’ovattato mondo dell’arte contemporanea, su come sia stata capace di piegare la Rete al proprio servizio e cortocircuitare le trame invisibili che sottendono la comunicazione mediatica di massa, su come abbia avuto la capacità di muoversi attivamente in un contesto di euforia tecnologica internettiana e di conseguente rinascimento artistico che avrà pochi eguali nella storia futura (per lo meno quella che ci vedrà osservatori diretti), ebbene, i miei dubbi e al contempo il mio rispetto per la Net Art rimangono invariati.

artistico, di situazionismo e autoreferenzialità, i protagonisti della net art si raccontano in Connessioni Leggendarie , parlano di loro stessi dall’interno, alimentando, come loro stessa ammissione con questa rassegna, il mito, la leggenda che sottende alla loro stessa sopravvivenza, utilizzando lo spazio museale come nuovo territorio alternativo a quelle stesse maglie della Rete, che, nella frenesia artistica/mediatica attuale, non consentono più un percorso, per l’appunto leggendario, come quello del periodo descritto dal 1995 al 2005.

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Guardarsi indietro e raccontarsi è forse troppo presto per una disciplina ancora giovane e in trasformazione? Celebrarsi senza una voce che faccia da controaltare è forse errato? Il consiglio è quello di vedere la mostra, leggere le schede di accompaganemento alle opere esposte e di comprare il bellissimo catalogo per avere delle basi solide di

Accusati nel corso di questi dieci lunghi anni di pirateria informatica, di azioni sovversive, di plagiarismo 4


compresione. Io, mio malgrado, mi trovo nel ruolo di colui che, avendo visto in diretta il percorso della Net Art negli anni del suo percorso di apprendistato in Rete, pone domande allo scopo di innescare quel dialogo che penso sia necessario tra l’avanguardia storica della Net Art e il resto del complesso mondo dell’arte elettronica, contribuendo nel mio piccolo ad alimentare questa incredibile e affascinante leggenda. Ne parlo quindi con uno dei curatori della mostra, Domenico Quaranta, a nome però di tutto il comitato scientifco di Connessioni Leggendarie, costituito da Luca Lampo, membro di Epidemic, Marco Deseriis, autore del libro Net Art – L’arte delle connessione, e la coppia degli 0100101110101101.ORG.

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MK: Come è nata l’idea di fare un’antologica sulla net art di questo tipo e quali riscontri avete avuto sulla sua realizzazione e sull’impatto sul pubblico? Domenico Quaranta: Connessioni Leggendarie non è “un’antologica sulla net art”. è un romanzo storico che racconta, mescolando ricostruzione storica e approccio mitopoietico, una vicenda di cui i suoi autori sono stati, a diverso livello, protagonisti o compagni di strada. Si trattava di isolare una vicenda che è stata raccontata più volte, ma di solito come parte di panorami più vasti. È ancora troppo presto per valutarne l’impatto sul pubblico; ma è una storia che andava raccontata, e stando all’esito dei primi giorni, che molti sentivano l’esigenza di ascoltare.

Perchè, come afferma Amy Alexander in una storica intervista a se stessa, la storia della net art si costruisce tramite le interviste. E questa che segue è solo l’ultima di una catena lunghissima…

MK: Perché avete deciso di collocare la rassegna espositiva all’interno di un preciso momento storico e con una manciata di artisti e progetti ben precisi? Pensate che oggi la net art non abbia più niente da dire? che abbia esaurito il suo impatto e importanza e che l’unico momento importante sia il decennio appena trascorso? Domenico Quaranta: La tesi di Connessioni Leggendarie è semplice. All’interno del flusso ininterrotto della 5


sperimentazione con i media si può ritagliare un momento unico, identificabile in un certo numero di persone, eventi, operazioni. Un momento in cui le connessioni erano tanto importanti quanto i risultati, e in cui quello che è sparito ha la stessa importanza del poco che è rimasto. Qualcuno l’ha definito il “periodo eroico” della net art. Per noi, è semplicemente la Leggenda. Per essere storicizzabile, questa fase storica deve essere considerata chiusa; ma il nostro “caro estinto”, come dice Luca Lampo in catalogo, è “simulato”. Il senso di Connessioni Leggendarie è tutto in questa contraddizione; per questo, sempre nel catalogo Marco Deseriis può dire che la net art è morta, e io ribattere che la sua morte è solo una parte della leggenda. La net art è morta, viva la net art!

prefissati? E ciò di dare uno spaccato di un preciso movimento storico/artistico degli ultimi dieci anni… in questo senso mancavano alcuni lavori di riferimento, primo tra tutti il famoso “They Rule”, ma me ne vengono in mente un’altra decina almeno Domenico Quaranta: “Perché non c’è Ada’web ?” “Perché manca Carnivore ?” Molte delle domande che ci sono state rivolte in questi giorni vertevano su cosa mancava, invece di cercare di capire perché c’è quello che c’è. Per me, dipende tutto dalla storia che si ha intenzione di raccontare. Lo spaccato che abbiamo offerto non è certamente esauriente, ma è rappresentativo di una vicenda di cui non fanno parte né They Rule (proposto, peraltro, all’ultimo Influencers ), né Ada’web , né Carnivore : elementi dello stesso paesaggio in cui si è svolta la Leggenda, vicende parallele, sfondo, emergenze illustri, a volte. Il nostro obiettivo non è descrivere il paesaggio, ma raccontare le gesta eroiche che l’hanno scelto come propria scenografia. Se ti rivolgi a Connessioni Leggendarie cercandovi il corrispettivo allestito del libro di Rachel Greene, rimarrai deluso. Ma stai cercando la cosa sbagliata. Il che non significa che queste cose non siano importanti, ma solo che non rientrano nel taglio della mostra; un taglio molto preciso, che non esclude,

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MK: Non pensate che in questa antologica non siate riusciti a raggiungere lo scopo che vi siete

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ma anzi auspica, altre proposte, magari in grado di comprendere il famoso They Rule …

mostrare un finto baffo della Nike in mezzo a una piazza? Non pensate che si poteva osare un po’ di più in termini di messaggi politici e sociali vista la matrice fortemente attivista di questo movimento artistico? Domenico Quaranta: Confesso che preferirei evitare di scendere nel merito di una diatriba – quella fra arte e impegno politico – decennale in cui si sono cimentati polemisti molto più vigorosi di me. Ma dal momento che l’equivoco implicito nella tua domanda implica una lettura parzialmente falsata di due capisaldi della mostra, ci proverò. L’arte non ha mai avuto l’ambizione di cambiare il mondo; e nei pochi casi in cui questo grillo le è passato per la testa (ad esempio, nel Futurismo e nel Surrealismo), ha fallito miseramente. Il Futurismo si è costituito addirittura come partito politico, e il Surrealismo imitava la struttura della Terza Internazionale. Entrambi hanno vinto sul piano linguistico, ma sul piano sociale sono stati solo la parodia di una rivoluzione. Il fatto è che la riuscita di un movimento artistico non si valuta dalle sue ripercussioni sul sociale, ma dalla sua capacità di rivoluzionare il linguaggio. Luca Lampo cita spesso l’ammonizione che Artaud rivolgeva a Breton: “Fai pure arte rivoluzionaria, ma che sia arte”. Mi pare che non ci sia modo migliore di porre il problema. Abbiamo cercato di proporre la net art come avanguardia,

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MK: Guardando i lavori esposti, la sensazione complessiva è quella di un movimento artistico un po’ sopravvalutato, soprattutto nella sua mancanza di coerenza tra il suo spirito rivoluzionario delle origini, la sua capacità di aver saputo cogliere le pieghe storte del sistema dell’informazione e averle ripiegate a proprio vantaggio, e l’effettivo risultato dei lavori prodotti, la sua non capacità di modificare niente dello stato delle cose, di non aver avuto l’impatto desiderato su costumi e società e coscienza artistica e popolare. Pensate, per banalizzare, al filmato degli Yes Men: che senso ha poter arrivare a una conferenza internazionale di quel tipo per mostrarsi con una tuta dorata e un fallo finto? Che senso ha mostrare di poter ingannare il sistema informativo e mediatico internazionale solo per

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ma va detto che si tratta di un’avanguardia postmoderna, molto più smaliziata e ironica di quelle storiche: anche solo per questo, mi sembra un’errore pretendere da Vuk Cosic la stessa ingenuità “marxista” di Breton.

Biennali se ne dimenticano quasi sempre. Piuttosto, parlerei di un urgente bisogno di dimostrare la sua importanza nella storia recente, a cui Connessioni si sforza di dare una risposta.

Così, tornando agli esempi che fai… Mostrarsi a una conferenza internazionale con tuta dorata e fallo finto ha senso se, come è successo, l’azzimata platea che ti trovi di fronte continua a considerarti come un inviato del WTO, e plaude seria alle tue sparate fasciste; e il monumento allo swoosh non è il fine di Nikeground , ma il mezzo attraverso cui gli artisti dimostrano che la realtà in cui viviamo è più delirante di qualsiasi ipotesi artistica. Se tu chiedi agli Yes Men o a 0100101110101101.ORG di utilizzare la platea cui sono arrivati per fare un discorso serio sulla fame nel mondo, gli chiedi attivismo, non arte. Ma l’arte, questa arte, è molto più potente dell’attivismo, perché la sua battaglia va al di là della contingenza, attacca il linguaggio e l’immaginario, e crea simboli a cui l’attivismo di tutti i tempi può attingere. Quanto al fatto che la net art sia sopravvalutata… beh, non mi pare che abbia fatto sbancare Christie’s, che sia sostenuta da Gagosian o che abbia fatto vibrare le corde di Arthur C. Danto. Qualche museo americano si è buttato nella mischia, ma si è ritirato in fretta; e le

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MK: Non pensate che sia stato quindi un po’ prematuro fare un’antologica su una serie di artisti e di progetti che potrebbero rappresentare un semplice inizio di un movimento artistico che per essere riconosciuto tale necessità di molto più tempo, come i veri movimenti artistici d’avanguardia? Sono dello stesso parere molti protagonisti della net art stessa, da Shulgin a Cosic a Cramer che preferiscono concentrarsi oggi su opere installative o lavori di altro tipo… Domenico Quaranta: Le avanguardie non si riconoscono a posteriori. Duchamp e compagni lo sapevano benissimo di essere un’avanguardia. Quanto a Shulgin, Cosic e Cramer… Beh, Shulgin è il co-autore di

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Introduction to net.art (1994-1999) , in un certo senso l’inventore del gioco proseguito da Connessioni ; Cosic è stato il primo a parlare di “periodo eroico”, e Cramer scrive libri.

“storicizzare”, ma anche di chiedersi: come conservare dei prodotti culturali interessanti prima che il degrado digitale e l’invecchiamento dell’hardware spazzino via tutto? Come comunicare a un pubblico operazioni di cui spesso ci restano solo delle tracce? Come divulgare opere e nomi spesso trascurati persino dagli operatori del settore? Non si tratta di una questione di azzardo, ma di “visione”. E poi, ti pare così strano che si cerchi di far conoscere il più possibile persone/opere che consideriamo importanti?

Detto questo, la mostra non è prematura anche perché, al di fuori della prospettiva di “antologica” in cui la leggi , uno dei principali problemi che Connessioni si pone è quella della conservazione di un affresco che si sfalda più rapidamente del Cenacolo di Leonardo, e viene sepolto da una critica ottusa sotto quintali di biacca. In altre parole, non si tratta solo di

offline

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Nessuna “lobby” di gallerie, ma pochi coraggiosi che sperimentano a proprie spese – Postmasters e Bitforms a New York, Fabio Paris in Italia. E quanto alla gioventù della net art… da un soffitto di Rivoli pende un cavallo impagliato, quanto è più vecchio del nostro manichino?

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MK: Perché la net art a vostro avviso è una delle principali forme di arte elettronica che è stata in grado di dialogare con il mondo istituzionale delle gallerie e dei musei? Non pensate che anche in questo caso sia un po’ prematuro far dialogare una forma d’arte giovane e ancora in divenire con gli spazi dell’arte classica e il suo pubblico? C’è, in questo senso, un interesse a far fiorire un certo tipo di mercato dell’arte da parte di alcune gallerie in Italia o all’estero?

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MK: Che fine hanno fatto e perché alcuni artisti della net art di quel periodo sono letteralmente spariti (vedi JoDi o The Yes Men o Etoy o molti altri)? Pensate, come alcuni sostengono, che il mondo della net art si sia imborghesito, ammantato di autoreferenzialità, e abbia perso quello spirito rivoluzionario delle prime origini non riconoscendosi più in qualcosa di definito nel suo stesso Dna?

Domenico Quaranta: Se quello che dici fosse vero, la Toywar sfoggerebbe la sua virulenza sulle pareti del MoMA invece di ridursi a mucchietto di gif sparse qua e la per la Rete e a qualche pagina Web mal restituita dai browser ora in uso. Il dichiararsi “museificata” è stato – fin dal principio – uno dei giochi della net art, e anche se ha funzionato sarebbe ora di smettere di cascarci come polli con l’aviaria. Quanto al tentativo di far nascere un mercato, certo che esiste.

Domenico Quaranta: Per quanto ne so, stanno tutti bene, grazie. Spariti? No, forse solo un po’ meno visibili. JoDi ha appena inaugurato una mostra importante, Cosic è reduce

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dall’ICA di Londra, etoy si gode le sue share e gli Yes Men hanno da poco chiuso una (vittoriosa) campagna proBush. Se ti sembra poco… La net art imborghesita? Mah, dipende da cosa intendi per net art (e da cosa intendi per borghesia). Marco Deseriis, nel suo testo, dice che la “scena” si è dissolta e che è ora di officiare la messa. Io preferisco pensare che le braci covino sotto la cenere… Ubermorgen

‘[V]ote-auction’

The Yes Men

‘Reamweaver’, ‘The Yes Men as WTO’, ‘The Management Leisure Suit’

I/O/D

‘The Web Stalker’

Heath Bunting

‘Net.art Consultants’

Florian Cramer

Perl poems ‘and’, ‘self’. ‘The Permutation of 0 and 1’

Electronic ‘FloodNet’ Disturbance Theater Cornelia Sollfrank

‘Female Extension’, ‘The net.art generator’

Alexei Shulgin

‘FuckU-FuckMe’, ‘386DX’, ‘Form Art’, ‘Introduction to net.art (1994-1999)’

Alexander R. Galloway

‘What You See Is What You Get’ perl/text

Adrian Ward

‘Autoillustrator’

[epidemiC]

‘Biennale.py’, ‘downJones’

Amy Alexander

‘Merry Christmas ’99 (the gift that keeps on giving)’, ‘The Plagiarist Manifesto’

Mongrel Project

‘National Heritage’

Eldar Karhalev & Ivan ‘Screen Saver’ Khimin etoy

‘Digital Hijack’, ‘Toywar’

Vuk Cosic

‘Deep ASCII’, ‘Documenta Done’

Surveillance Camera ‘Surveillance Camera Players’ Players Sebastian J. F.

‘info wars’

RTMARK

‘The Mutual Funds’, ‘Bringing It To You!’

Joan Leandre retroYou

‘retroyou RC series : 1999’

Mark Napier

‘Riot’

Natalie Bookchin

‘Introduction to net.art (1994-1999)’

Jodi

‘Untitled Game’, ‘All wrongs reversed ©1982’

www.connessionileggendarie.it/ www.ready-made.net/

0100101110101101.ORG ‘Life Sharing’, ‘Biennale.py’, ‘Nike Ground’ Jaromil

www.thething.it/netart/

‘Hasciicam’

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Frieze Art Fair Sarah Nussenblatt

sicuramente la qualità a volte mediocre dei personaggi selezionati. Ciò crea ed alimenta l’odioso divario museo statale/galleria privata, che ha legato e, purtroppo lega spesso e ingiustamente, il primo alla qualità e il secondo alla sperimentazione, non sempre degna di nota. Il Frieze ,che desacralizza il concetto espositivo riportandolo nella realtà quotidiana, in questo caso quello della fiera (ma potrebbe trattarsi anche dell’albergo tematico,della disco-gallery del museo in stazione), un po’ Disneyland un po’ discount della domenica, segue certamente, da primo della classe, il trend positivo e liberatorio che abbatte le ultime barriere tra pubblico-ricevente passivo per un rinnovato prosumer interattivo.

Regent’s Park è uno splendido parco situato nel cuore di Londra ma da tre anni, durante il mese di ottobre, non viene più affollato da pigri turisti o inglesi che sperano di cogliere qualche tiepido raggio di sole autunnale. Questa zona verde si trasforma infatti in un enorme art bazar, talmente impetuoso e potente per la propria organizzazione perfetta, da diventare addirittura la più autorevole fiera espositiva d’Europa: oltre 160 gallerie scelte tra le migliori del mondo, espongono i propri artisti più rappresentativi, un vero “paese dei balocchi” per collezionisti, curiosi e profani alla ricerca del nuovo pezzo cult ma lo sarà davvero? L’unica critica,non di poco conto, a questa splendida maratona che prende il nome di Frieze Art Fair, è

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Cugino colto del nostro Smau, che 12


potrebbe ironicamente ricordare nella morfologia el gadget, Frieze potrebbe rischiare una tragica caduta nel caos artistico, nella nullologia del quotidiano o addirittura nel grottesco, ma la precisa e impeccabile organizzazione londinese è riuscita, come sempre, a creare un mito: del resto ci appelliamo in coro alla demolizione dell’arte d’elite, arte per pochi, arte colta, in favore di una più vasta creatività che coinvolga la gente in toto, pertanto anche da un punto di vista del loisir ciò purtroppo crea spesso una pecca di contenuto. Di cui in pochi si accorgono annebbiati dal “tanto e subito”.

In questo senso Frieze è un vero successo. I quattro giorni in cui si snoda l’Art Fair, quest’anno dal 21 al 24 ottobre, sono accesi da musica live,f este private, conferenze e piccoli workshop. Frieze è certamente intrigante, divertente, non troppo fuori dagli schemi, pertanto perfettamente in equilibrio nella sottile linea che bolla ( se smettessimo di farlo ) il mainstream con l’underground, e ciò permette al festival di respirare serenamente in una sfera politically correct che nulla crea e nulla distrugge, tanto meno equilibri prestabiliti tra gallerie e musei.

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d’arte anche medie e piccole che spingono nuovi nomi, performance serali, sono giustamente vincenti: il festival è stato consacrato come un business week-end, addirittura tra i più importanti del mondo,almeno dalla press britannica.

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Non c’è nulla di genialmente innovativo in questa fiera, poiché in realtà l’originalità che vi cogliamo è apparsa in molte mostre nell’ultimo decennio, ma sicuramente il mercato trattato dai curatori è talmente vasto da renderne l’impatto invasivo; il modello espositivo classico è seguito senza problemi, ma forse, paradossalmente, Frieze deve proprio a questa serafica”normalità seminuova” il proprio successo.

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Enormi stand hanno proposto giovani, vendendone le opere a prezzi relativamente bassi e un buon riscontro di vendite: in un certo senso l’atmosfera non è poi molto diversa da quella di un sabato rovistando tra i mercatini di Portobello Road, non è tutto oro, ma sicuramente qualcosa d’interessante si trova, e, dopo tanto camminare-guardare-sparlae-giudicare, si torna a casa stanchi e contenti.

Nessuno si sogni di denigrare Frieze! Negli ultimi anni infatti,il pubblico che corre a prenotare i biglietti è salito enormemente, i media hanno pubblicizzato sempre più l’evento rendendolo una piccola pietra miliare della stagione autunnale inglese, nonché un appuntamento da non perdere per ogni studente d’arte addetto ai lavori, gallerista o critico. Non è da poco. La terza edizione ha rappresentato quindi un successo annunciato, a sottolineare che gli ingredienti, ovvero creatività, gallerie

Dalla sua nascita ad oggi, Frieze ha supportato certamente la creatività anglosassone ed il continuo tormentone che la pone al centro dello sviluppo artistico europeo: una giornalista londinese di successo,

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Janet Street-Porter, ha sottolineato con arguzia che Mr Blair in persona dovrebbe ringraziare gli organizzatori, Mattew Slotover e Amanda Sharp, per aver usato in modo innovativo i fondi inglesi,trasformandoli in un grandissimo introito sia economico(non stupisce il fatto che il partner maggioritario sia la Deusche Bank) che culturale. Beh,allora grazie mille! Hotel stracolmi, taxy in corsa verso Regent’s Park, prezzi dei voli aerei saliti alle stelle se si considera questo Festival da un punto di vista turistico,il successo è ovvio.

interessanti ( soprattutto quelli di alcune gallerie tedesche ed austriache ), ma credo si dovrebbe cercare, pur vivendo l’arte a 360 gradi e perciò immergendo la propria persona in una giornata di divertimento, di essere un pochino critici e capire che non tutto ciò che viene dall’Inghilterra debba essere perfetto ad honorem. L’Art Fair creata è sicuramente degna di nota, soprattutto perché permette d’esporre anche giovani artisti poco conosciuti, e non i soliti grandi nomi; lasciar spazio a tutti è il motto di questo evento, libertà d’espressione e di scelta. Ciò non accade spesso, e oggettivamente è il punto di forza di maggior rilievo: nessuno può togliere a Frieze il pregio d’essere un contenitore espositivo enorme, di grandissimo rilievo a cui ogni giovane artista voglia prender parte.

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Ma cosa non crea trend quando ha la fortuna di nascere a Londra? I piccoli festival nostrani sono davvero meno validi? Qualcuno s’è domandato se vi fosse reale qualità artistica nelle opere esposte? Purtroppo credo di no. Anche Frieze rientra a pieno titolo nelle operazioni di marketing ben riuscite. Con ciò non voglio assolutamente sostenere il basso valore degli stand, spesso molto

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Infatti,tra i 47.000 curiosi che hanno inondato l’edizione dello scorso mese, oltre a collezionisti e amanti dell’arte,

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sono stati intravisti anche grandi nomi, tra cui il nostro Maurizio Catelan, Lawrence Weiner, Sir Peter Blake, Anish Kapoor, Grayson Perry; ciò sottolinea innanzitutto l’ottima risonanza data all’evento dai media inglesi, la perfetta organizzazione dei manager, nonché una comunicazione vincente che amplifica Fair-prodotto oltre i confini del paese, per renderlo momento cult in Europa e non solo. Tutti vogliono partecipare a Frieze Fair.

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Pertanto la piccola Frieze dall’edizione un pochino “pacchiana” e scontata del 2004 è sicuramente cresciuta, incamminandosi verso una strada che la consacrerà di fatto (e non solo di nome,come accade attualmente) a fiera della qualità, cancellando la vanità che ha creato il solo “personaggio virtualmente valido” ancor prima di collaudarlo. Miracoli londinesi!

Sicuramente la stampa inglese sa svolgere bene il proprio lavoro, sa come vendere e come vendersi. Frieze-oggetto di culto conscio della propria capacità di auto valorizzarsi, realtà che non stupisce affatto, poiché è l’ennesima esemplificazione di un gran dono del popolo inglese: sapersi abbellire fin troppo bene. Ma Frieze è anche immatura, è bambina che flirta con la stampa, piccola ammaliatrice di masse che inizia a rendersi conto della propria essenza:fiera d’arte contemporanea internazionale, neonata e già d’alto livello.

L’edizione 2005 ha rappresentato non solo un evento per i feticisti e i presenzialisti ad ogni costo, quanto più una fiera di vendita di opere d’arte visiva intriganti; perciò l’evento è risultato vincente siada un punto di vista economico e mediatico, che qualitativo. Perfino il curatore della (Film)Tate Modern, Stuart Comer, ha applaudito con rispetto la buona riuscita di quella che, a detta dello stesso, è diventata la punta di diamante del mercato dell’arte per collezionisti. Sicuramente la scaletta di Fair 2005 è stata geniale: la compra-vendita è stata infatti accompagnata da differenti progetti che potessero integrarsi l’uno con l’altro e affascinare ogni tipo di spettatore, i più ingordi sono infatti potuti passare da visioni cinematografiche di Bill Viola, Andy Warhol e Daria Martin fino al

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concerto(sold out) di musica elettronica di Karlheinz Stockhausen. E non scordiamoci che il marchio Frieze, rivista d’arte di rilievo, punterà ancora piÚ in alto.

www.friezeartfair.com www.frieze.com

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Nuovo Centro Di Elaborazione Dati Marco Mancuso

Perché sarebbe stupido e pericoloso non ammettere che la giovane disciplina dell’elettronica audiovisiva sembra sempre più spesso mostrare la corda, in termini creativi, in rapporto a una crescente produzione artistica e a un livellamento tecnico generale. Marc Weiser, musiche e programmazioni, e Lillevan, video e loop, sono quindi profondamente consapevoli di ciò che li circonda, di come si sia arrivati in pochissimo tempo alla necessità di una svolta, o di una profonda presa di coscienza artistica, forse analoga a quella che li spinse a scrivere quel documento programmatico dell’integrazione audiovisiva che ha rappresentato un dogma per molti giovani artisti che seguirono negli anni.

Rechenzentrum, centro di elaborazione dati. Nome francamente più azzeccato per un collettivo di sperimentazione elettronica audiovisiva non ci potrebbe essere, con quel tocco teutonico sempre ricco di fascino per noi italiani e non solo. Tutti coloro che operano e si interessano al mondo dell’arte digitale, hanno imparato e conoscere e apprezzare questo trio berlinese che dall’ormai lontano 1997 ha compiuto molta strada, agendo spesso da pioniere e spartiacque a cavallo tra video arte e musica elettronica, al punto da essere oggi tra i primi a venire sommessamente accusati di avere raggiunto quella sorta di plateaux creativo che ha sempre più spesso i connotati dell’inerzia, o della semplice mancanza di stimoli.

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Senza quindi dilungarsi in una 18


trattazione del loro lavoro e della loro estetica audiovisiva che ha fatto proseliti in tutto il mondo, compendio perfetto e rarefatto di minimalismo estetico, improvvisazione dada e tecniche live e cut up, preferisco lasciare spazio alla loro voce e al loro pensiero. Una conversazione che mi ha portato a comprendere come forse, dopo molti anni di attività, l’evoluzione in corso all’interno del Centro di Elaborazione Dati berlinese, sia molto più profonda di ciò che un semplice show possa mai raccontare

nello stesso tempo abbiamo però il sentore che il pubblico, e forse anche i media, sarebbero pronti per una svolta che vi possa avvicinare a una realtà analoga a quella degli altri paesi europei. Anche per quanto riguarda la produzione artistica.

Marco Mancuso: Siete presenti ad Audiovisiva a Milano e negli ultimi anni siete passati più volte dall’Italia. Ricordo Roma, Pisa, Napoli, Palermo e sicuramente mi scordo qualcosa. Cosa significa per voi venire a esibirvi nel nostro paese?

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Marco Mancuso: Avete scritto che vi considerate alla stregua di una vera band che si esprime mediante elementi audiovisivi, dando la stessa importanza quindi alle componenti visive e a quelle sonore, portandole su un unico livello, trattando la musica con un approccio visuale e i video come uno strumento musicale. Ma come traducete in pratica questo concetto e questo approccio? Come è possibile capire questo dalle vostre performance?

Rechenzentrum: Ci sono effettivamente molti luoghi in Italia in cui siamo stati invitati per performance dal vivo. Ci siamo sempre trovati molto bene, le persone che abbiamo incontrato sono sempre state di mentalità molto aperte, sempre pronte a fruire di elementi anche innovativi da un punto di vista culturale. E in questo includiamo cioè che è oggi l’arte elettronica. Certo, probabilmente si sente la mancanza di un centro di riferimento, di un organo di stampa di riferimento come possa essere il vostro, un luogo fisico che possa fare da centro aggregatore;

Rechenzentrum: Beh, noi abbiamo scritto un manifesto su quello che è il nostro pensiero della sperimentazione elettronica audiovisiva. Nei primi anni ’90 c’erano molti club che iniziavano a

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presentare, al fianco dei loro dj, dei video; e lo stesso valeva all’interno dei festival. Si è reso presto necessario scrivere un manifesto che traducesse il nostro approccio a questo lavoro, che spiegasse chiaramente che per noi è importante che la musica e le immagini camminino insieme, creando un unico evento che non può essere ripetuto, come una sorta di improvvisazione in cui la componente visuale è sempre allo stesso livello della musica e del ritmo. Senza in questo controllare come possa reagire il pubblico, ma lasciando scorrere il tutto con estrema naturalezza. Non c’è una componente tecnica eccessiva nel nostro lavoro come molti credono, c’è molta componente umana, molta improvvisazione, molta visione comune delle cose. Dal vivo ognuno di noi non sa cosa sta facendo l’altro; improvvisiamo sulla base di ciò che sta accadendo sul palco in quel momento. Sulla base delle nostre emozioni

modificare le ritmiche o gli effetti. Non ci sono forti sincronismi tra audio e video, pensiamo che non ci sia niente di più noioso della sincronizzazione; è come una presentazione di un lavoro, non c’è nessuna componente dal vivo, è tutto bello e perfetto ma non c’è improvvisazione e umanità in questi show. Guarda un’esibizione degli Skoltz Kolgen e capirai cosa intendiamo dire.

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Marco Mancuso: Molte performance in elettronica sono considerate molto belle ma fredde proprio per questa componente di “pre-parazione” che li caratterizza

Marco Mancuso: C’è molta improvvisazione quindi nel vostro lavoro e nei vostri show

Rechenzentrum: Appunto, siamo convinti che il fatto di riuscire a presentare uno show unico e singolo in quel dato momento sia la chiave di lettura più importante oggi. Non qualcosa che puoi vedere anche a casa, ma qualcosa di cui puoi godere solo se vieni a sentire e vedere un

Rechenzentrum: Sicuramente il live ha una componente di indeterminatezza molto forte, anche se abbiamo cose preparate molto complesse; con un computer a disposizione possiamo scegliere cose già preparate in studio, mixarli nella maniera più opportuna, cambiare solo dei parametri e 20


nostro spettacolo. E’ qualcosa di molto diverso che fruirne da un Dvd.

in cui ne sta iniziando un altro.

Marco Mancuso: So che periodicamente collaborate con altri progetti e artisti di diversa natura, siano essi performer, ballerini o coreografi. Quale è il potenziale effettivo di questo approccio al vostro lavoro? Rechenzentrum: Ognuno di noi in questi anni ha sempre voluto seguire anche altri progetti che lo interessassero, collaborando con altri artisti e riportando all’interno del progetto Rechenzentrum le esperienze vissute. Io (Marc Weiser) collaboro con alcuni ensamble di musica contemporanea, modificando in questo modo la mia stessa idea di musica, il mio modo di comporre musica, molto meno industrial e rudimentale del passato. Sai, non ci aspettiamo di vendere milioni di copie con il nostro lavoro, non pensiamo di diventare ricchi con la nostra attività, non abbiamo una vera label di distribuzione ( la Mille Plateaux che distribuiva il loro lavoro Direcor’s Cut

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Marco Mancuso: Voi siete tra i pochi artisti audiovisivi di un certo livello ad avere portato un vostro prodotto su un supporto Dvd. Cosa ne pensate del mercato potenziale dei Dvd per l’elettronica audiovisiva, ha qualche potenzialità analoga al mercato della musica elettronica nel futuro? Rechenzentrum: La nostra esperienza con la Mille Plateaux ci ha stupito molto dal momento che avevamo venduto tutte le copie della prima stampa del nostro Dvd eppure la label è fallita. C’è da dire che onestamente non siamo molto interessati a seguire i nostri show su un Dvd a casa e lo stesso penso chevalga per i nostri fan; preferiscono seguire lo show dal vivo, sentirne le emozioni. Il mercato dei Dvd è quindi importante per fare promozione, come dimostrano i recenti progetti della Scape o anche della Shitkatapult, ma non per vendere i propri lavori.

ha fatto bancarotta recentemente) per cui ci affidiamo alle nostre esperienze e a ciò che ci arricchisce veramente. Non cerchiamo di confezionar un prodotto che venda, l’importante è che piaccia a noi e tanto meglio se piace anche ad altre persone; ogni progetto e ogni prodotto finisce nel momento stesso 21


Marco Mancuso: Come vi rapportate con il crescente e spesso frenetico approccio high-tech alla sperimentazione digitale audio-video?

lavoro. E’ importante tenere sempre presente cosa si sta facendo in quanto artisti.

Rechenzentrum: Dobbiamo ammettere che la nostra ricerca spinge in una direzione diversa da quella iper-tecnologica che caratterizza la maggior parte delle sperimentazioni moderne, diversa l’attenzione dalla ricerca tecnica o dalla realizzazione sincronica del lavoro. Il nostro scopo, ciò che ci piace fare realmente, è una versione umana dell’audiovisivo elettronico. Ci interessa scegliere la direzione verso la quale lavorare in modo autonomo, non quella che ci consigliano la Sony o la Pioneer o le grandi ditte di produzione di software e supporti. Quindi anche per questo il Dvd è un supporto che non ci interessa. Nei prossimi dieci anni sarà tutto nuovamente diverso, sia per i supporti audio che per quelli video, nonché per quelli di riproduzione, senza dimenticare tutto quello che si potrà fare scaricando i contenuti dalla rete e rendendoli disponibili su diversi supporti come cellulari o palmari, a velocità crescenti. In questo senso si rischia la sovrapproduzione di contenuti; musicisti e video artisti dovranno stare attenti nel senso che tutti questi supporti richiederanno contenuti, sempre di più e sempre più spesso, tendendo a sminuire e ridurre l’importanza e l’impatto del proprio

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Marco Mancuso: Non pensate che, proprio per il vostro ruolo di artisti, sia importante avere anche un approccio al proprio lavoro in termini di comunicazione oltre che un impatto esclusivamente estetico ed emotivo? Rechenzentrum: Sicuramente come artista tendi a lavorare su differenti livelli; io (Lillevan) scelgo le immagini per differenti motivi, sia perché sono belle ma anche perché comunicano un certo stato d’animo. La pura estetica non è sufficiente, bisogna cercare una narrativa, anche essendo astratti, proprio perché “astratto” significa cercare l’essenza delle cose. Con il suono è lo stesso, non è più difficile e non penso che l’impatto sia meno diretto rispetto ai visual. Marco Mancuso: Mi chiedo perché la maggior parte degli artisti che usano elettronica, avendo in mano un 22


grande potenziale di comunicazione legato a incredibili tecnologie, non lo usano per convogliare messaggi sociali o politici in modo potenzialmente diretto ed esplosivo.

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Marco Mancuso: Però ammetterete che ci sono pochi artisti nell’ambito dell’elettronica performativa che sono attenti a queste tematiche

Rechenzentrum: Ottima domanda, con molteplici risposte. In Sud America per esempio la situazione è molto diversa, molti artisti elettronici hanno molta più attenzione in questo senso. Per rispondere alla tua domanda, uno dei possibili motivi è che si è già costantemente investiti di m e s s a g g i d i q uest o t ip o un po’ dappertutto e sebbene sarebbero contenuti molto interessanti da valorizzare, il rischio di essere banali è forte. Quando eravamo a Istanbul per uno show, gli Usa attaccarono l’Iraq, ma a noi sembrava stupido e banale inviare dei messaggi come “fuck Bush” in quel momento. Non è il nostro mestiere fare politica. Guarda il percorso compiuto dall’hip hop, nato nei ghetti americani con precise connotazioni sociali e politiche oggi è diventata musica per ricchi papponi e star di colore, e questo non lo diciamo noi ma i Run Dmc in un’intervista a una radio americana.

Rechenzentrum: Le persone che lavorano con i pc sono quasi degli alieni che lavorano dietro i loro computer e non sono molto attenti o interessati a ciò che avviene nel mondo. Sono super-minimal anche nella loro vita. Senza considerare che la propaganda contro la guerra per esempio è ormai riconosciuta come una serie di belle parole senza significato, qualcosa che va di moda è che è necessario fare per sentirsi meglio. Ovvio che noi siamo contro la guerra, ma sappiamo anche che sono molte le incongruenze nel fare propaganda oggi; forse oggi molti artisti sono disillusi, forse sono pronti a fare la rivoluzione in un altro modo, senza cadere in queste forme di narrativa che si sono già ampiamente dimostrate inutili. Molte nostre scelte, come suonare negli squot di Berlino, in festival con pochi soldi, in cause contro la guerra, sono in funzione di scelte ben precise. Ma è stupido non pensare che molte operazioni come l’ultimo Live Aid siano solo grandi operazioni commerciali non solo per Bog Geldof che ha stretto contratti con oltre 20 televisioni commerciali in tutto il mondo, ma anche per gli stessi

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artisti partecipanti che in quel periodo hanno venduto milioni di copie di dischi in più o hanno messo sul mercato lavori nuovi come accaduto per i Pink Floyd o per Madonna. A noi, come pensiamo alla nuova generazione di artisti elettronici, tutto ciò non interessa.

Quale è il vostro approccio verso questa crescente tendenza? Rechenzentrum: Effettivamente artisti veri come Carsten Nicolai hanno sfondato questo muro perché erano già degli artisti prima di questo momento di rottura; avevano già un sistema dell’arte alle spalle. Per noi al momento non è molto diverso suonare in un club o in un museo o in un teatro; la cosa importante è che nuovi soggetti e giovani curatori siano presenti all’interno delle gallerie principali per valorizzare sempre di più tutto ciò che è arte digitale. E’ una problema di cambio generazionale. Ma per noi non cambia molto, progettare lavori per una casa occupata o per un museo rimane fondamentalmente la stessa cosa.

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Marco Mancuso: C’è infine un’attenzione crescente dalle istituzioni e del mondo dell’arte contemporanea classica verso l’arte elettronica, performativa e installativa.

www.rechenzentrum.org/

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Mikomikona, Archeologia Dei Media Bertram Niessen

con i 16mm. Ogni loro spettacolo è la summa di un percorso di archelogia dei media che raramente si osserva nel campo della sperimentazione elettronica audiovisiva. Mentre aspettiamo di rivederli dal vivo in Italia, abbiamo fatto loro qualche domanda:

Mikomikona è un duo berlinese composto da Andreas Eberlein e Birgit Schneider. Le loro performance audovisive, improntate verso un forte rigore estetico minimalista, sono delle vere e proprie sessions di laboratorio sperimentale durante le quali il duo si concentra sulle trasformazioni fisiche del suono in immagine e viceversa.

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Bertram Niessen: Potete dire ai nostri lettori qualcosa a proposito della vostra storia artistica prima e dopo la creazione dei Mikomikona? Venite da studi artistici o di tipo tecnico?

Sperimentalismo “spinto”, liveness e forte impatto scenico sono le caratteristiche salienti dei loro lavori, progettati in bilico tra approfondita consapevolezza teorica e ricerca tecnologica. Gli strumenti che utilizzano dal vivo possono essere lavagne luminose dotate di dispositivi analogici autocostruiti che leggono e trasformano in segnali audio le stratificazioni di layer optical sui fogli lucidi, oppure strane macchinazioni

Mikomikona: Veniamo da un background in parte pratico e in parte teorico. Andreas viene dalla fisica e dai Media Art Studies, Birgit ha studiato teoria dei media, storia dell’arte, media art e filosofia. Abbiamo studiato entrambi alla

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Hochschule für Gestaltung Karlsruhe. Abbiamo iniziato a lavorare insieme in occasioni diverse ed in campi diversi: per esempio abbiamo organizzato una esibizione di TV-Test-Image a Berlino, che è stata trasmessa su una piccola stazione tv; ma abbiamo anche fondato un ufficio di graphic design/spazio artistico a Berlino nel 1997. Birgit poi ha iniziato a lavorare all’Università in un programma di studi visuali sull’immagine tecnica a Berlino. Andreas ha fatto molto vjing e videoinstallazioni.

mix tra i nostri interessi. Birgit fa ricerca sull’immagine tecnica, come immagine codificata e frammentata, a partire dalla tessitura e passando per la stampa, la storia della TV e l’informatica. Quando Birgit ha letto alcune cose su come l’interferenza rivela effettivamente gli aspetti tecnici di produzione dei media, abbiamo avuto l’idea di usare vecchi media in un modo diverso e performativo. Questo è stato il punto di partenza di mikomikona e dell’idea di praticare archeologia dei media, che non è né puramente scientifica né puramente artistica.

Il progetto mikomikona è un link e un

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L’estetica mediale che risulta da queste nozioni sulla codifica e decodifica per noi può essere solo “pura” e “grezza”; il che nel nostro caso si ricollega alla nostra particolare predilezione per il bianco e nero, per le linee e le colonne e per la tendenza all’astrazione a e all’uso del found footage. .

Bertram Niessen: Quali sono le vostre principali influenze estetiche? So che spesso è una domanda semplificante, ma nel vostro lavoro FourierTanzformation I+II oltre all’influenza del minimalismo mi è parso di vedere anche quella dell’Arte Programmata. E’ possibile? .

Mikomikona: La principale influenza estetica, dal punto di vista artistico, è senz’altro il minimalismo, ma anche il costruttivismo (Lazlo Moholy-Nagy). Adoriamo i primi media-esperimenti di Nam June Paik e Vasulka. E’ importante per noi anche la storia dei film sperimentali degli anni ’20, come quelli di Oskar Fischinger, Raoul Hausmann e Walther Ruttmann; così come la lunga storia degli esperimenti ottofonici. Anche noi concepiamo le nostre performance come “esperimenti”. Altre influenze vengono più dall’ambito della filosofia dei media, come Friedrich Kittlero o, in parte, Vilém Flusser.

Bertram Niessen: Perché siete così affascinati dall’analogico? Mikomikona: La cosiddetta era digitale dà l’idea dell’esistenza di un passato analogico. Non condividiamo questa visione imperante di un’epoca analogica seguita da una digitale, come due entità dissociate. Ci interessa maggiormente rafforzare il concetto di differenti tipologie di media che si mescolano, che storicamente hanno avuto una mistura di entrambi gli aspetti, sia analogici che digitali, come la TV o il video. Ci interessa quindi la simultaneità dei media analogici e

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digitali. L’alfabeto, la tessitura e la notazione musicale hanno infatti sempre avuto forme discrete, molto prima dei CD e di Internet.

riguarda.

Il computer ci ha dato la possibilità di pensare in un modo nuovo i “vecchi ” media e le “vecchie” tecnologie e ci ha dato la possibilità di porci nuove domande sulla codifica e sull’universalità dei codici. Alcuni aspetti che oggi sono indicati come tipicamente digitali (come il multimedia, che è la possibilità di interpretare un codice digitale come testo, immagine o suono) possono essere realizzati anche in un ambiente analogico. E’ questo che cerchiamo di dimostrare nelle nostre performance. Con l’aiuto di un circuito analogico, trasformiamo le immagini in suono; questo è qualcosa che i media-artisti di oggi fanno con la cosiddetta universal computing machinery e di sicuro ha senso solo nel contesto dell’informatica e delle laptop performances. Enfatizzando l’analogico, cerchiamo poi di scoprire anche di più sul digitale e su ciò che lo

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Bertram Niessen: Come vi organizzate nelle vostre performance audiovisive? Usate un canovaccio, una partitura, oppure tutto è libero e improvvisato? Mikomikona: Normalmente usiamo una specie di partitura, che generalmente dà un ordine alla performance come se fosse una composizione; questo anche se all’interno della performance finiamo per fare altre cose esterne alla partitura che avevamo pianificato.

www.zuviel.tv/mikomikona.html

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Slices: Electronic Music Magazine Alex Dandi

nostra infina Telecom, che spinge e sponsorizza così il cosiddetto electronic music life and style in Germania. In questo modo i govani tedeschi possono fruire di un prodotto all’avanguardia senza spendere nemmeno un Euro; ah, quanta strada deve ancora fare la nostra povera Italietta. Ma con un po’ di fortuna Slices si riesce a reperire anche in Italia (o in omaggio facendo acquisti attraverso qualche sito internet) e il doppiaggio/sottotitoli in lingua inglese ne facilitano la fruizione. Slices è un esperimento innovativo che raggruppa interviste, speciali, videoclip, tutorial e ogni tipo di interazione prevista dal formato DVD: una vera e propria rivista multimediale, un’alternativa alle televisioni musicali sempre più svuotate dai loro naturali contenuti.

Mentre da qualche mese in Italia possiamo godere dell’agognata prima rivista cartacea dedicata alla musica elettronica ricavata da un affermato format francese che prende il nome di Trax, quei furbacchioni dei tedeschi si sollazzano con la prima rivista di musica elettronica totalmente su DVD. Nome del progetto editoriale: Slices-the electronic music magazine. E per farci morire ancor di più dall’invidia Slices è pure gratuita. Certo non si può mancare di cogliere quel piccolo logo presente su ogni copertina di ogni nuova issue, una piccola scritta che recita “Electronic Beats”. Partendo da questo logo, senza eccessivo sforzo si arriva a sapere che il progetto è in realtà patrocinato nientemeno che dalla TMobile, l’equivalente teutonico della

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Quello che colpisce è l’intento genuino di promuovere la musica elettronica/dance come cultura e corrente artistica e allo stesso tempo come industria e intrattenimento. E’ questo il doppio filo che rende Slices qualcosa di unico. Esemplificativo degli intenti il servizio con stile giornalistico e documentario, nel primo numero, su Kompakt, etichetta discografica e distributore di un suono minimale che ha conquistato i dancefloor mondiali.

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Ancor più interessante e lo spazio che “Slices” dedica alle nuove tecnologie e ai software per produttori e dj. Per non parlare di uno special sul design e la storia dei flyers. L’aspetto visivo della cultura elettronica è poi garantito da videoclip di primissima scelta difficilmente visionabili sulle nostre televisioni. Nei primi numeri hanno già fatto capolino videoclip di Fenin, S.I. Futures, Captain Comatose, Rother, Minus, I-Wolf, Rex The Dog, Alter Ego, Nightmare On Wax, Funkst ö rung. Parlando di videoclip diventa quasi scontato parlare di nuove frontiere Slices del vjing ed anche in questo caso è in prima fila. Il terzo numero è appena uscito e il quarto è atteso per dicembre. Gratuito o meno, io sono già in fibrillazione e sono sicuro che i lettori più attenti di Digicult sapranno cogliere il suggerimento. Uno squarcio interessante sull’editoria digitale del futuro tra clubbing e arte.

Fino ad ora sono usciti tre numeri che hanno già dato ampio spazio ad interviste con personaggi come Richie Hawtin, Ricardo Villalobos, Miss Kittin, Alter Ego, Ewan Pearson, A Guy Called Gerald, Slam, Matthew Dear, Anthony Rother e tanti altri. Non mancano poi gli special sulle label più all’avanguardia da emergenti come Get Physical e Klein a pilastri della produzione elettronica come Warp e Novamute.

www.eb-slices.net/

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Scultori Di Suono Giulia Baldi

riconosciuta non come “bizzarra, inusuale, estrema”, ma come fucina creativa oggi viva più che mai e forte di un’identità propria, che muovendosi nel complesso territorio del “suono come materia” ha dato vita ad alcune tra le creazioni più avvincenti della contemporaneità.” “I musicisti in questione hanno raggiunto una maestria nell’assemblare i suoni che nasce da

Titolo libro: Scultori di suono – Percorsi nella sperimentazione musicale contemporanea Autore : Daniela Cascella Editorie: Tuttle Edizioni Pagine: 160 pagine Prezzo: 13 Euro

un confronto intenso, ostinato, con il proprio strumento espressivo: il fatto che lo strumento in questione non sia più (o non più esclusivamente) un pianoforte o una chitarra con cui interpretare uno spartito, ma un software musicale o un oggetto da sfregare per trarne rumori, una serie di vecchi vinili da mandare in loop o la giusta porzione di onde radio, non legittima alcun tipo d’approssimazione o di superficialità nell’assemblaggio del suono stesso. Dal momento in cui il suono, espanso

“Costruttori di suono, rivelatori di suoni, e ancora potremmo chiamarli scultori, traduttori, rabdomanti del suono o, per rubare un espressione a Edgar varèse, “lavoratori di ritmi, frequenze e intensità ” : la nostra riluttanza a chiamare i personaggi in questione musicisti sta tanto nel fatto che, effettivamente, gran parte di loro non sono musicisti in senso canonico, quanto nella volontà di riconoscere e legittimare un’area espressiva ancora marginale rispetto a tutta l’altra musica, che necessita di essere

attraverso gli strumenti più diversi, si apre ad una miriade di possibilità, il controllo attento della materia sonora così legittimata è ancora più necessario e richiede una fineza di tocco particolare. ricordiamo le parole di Morton Feldman citate da Cage: ”

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Ora che le cose sono tanto semplici, c’è tanto da fare “. Il pericolo insito non soltanto nella diffusione della tecnologia digitale legata al suono, ma anche nel rendere ogni oggetto un potenziale generatore di suoni, sta nell’approsimazione. oggi apprentemente tutti possono fare musica, ma quanti ci riescono ?”

Peter Brandlmayr_Philip Jeck_Ryoji Ikeda_Stephan Mathieu_Steve Roden_Terre Thaemlitz_The Books_Tina Frank_Tommi Grönlund_Tu m’_Ultra-red_William Basinski. Perchè, come l’autrice di questo lavoro, la curatrice, critica e giornalista Daniela Cascella, chiarisce nell’introduzione, Scultori di suono non è un manuale e non ha pretese di esaustività. Ma, aggiungiamo noi, è comunque un libro originale e prezioso nel panorama editoriale italiano. Infatti, attraverso pagine in cui si alternano ricostruzioni storiche, riflessioni personali e interviste [materiale in parte inedito, in parte rielaborato da quello pubblicato in questi anni dalla Cascella sulle pagine di Blow Up], Scultori di suono ci racconta la genesi e l’evoluzione della musica elettronica digitale dichiaratamente sperimentale e della sound art più recente. Anzi, delle musiche. Lo fa prima analizzando i linguaggi emersi dall’incontro tra le menti musicali e le tecnologie e tecniche digitali, e poi teorizzando, da esperta, sulle forme di quelle nuove musiche. In questo modo ricostruisce e restituisce al lettore in modo sintetico e puntuale una parte importante, molto interessante e ancora poco esplorata del panorama sonoro contemporaneo. E il libro, che pure lascia spazio al dubbio, all’inespresso, allìirrisolto, diventa

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“I musicisti di cui parleremo sono tra coloro che sono riusciti ad accendere il suono[…] con una scintilla che ha reso il loro linguaggio riconoscibile, e lo hanno fatto dopo continue sperimentazioni, ascolti e conflitti con la materia sonora” Per la cronaca, quegli artisti sono: AGF_Akira Rabelais_Alvin Lucier_Bernhard Günter_Carsten Nicolai_Christophe Charles_Coil_Ekkehard Ehlers_Fennesz_Granular Synthesis_John Duncan_John Hudak_Kim Cascone_Matmos_Max Neuhaus_Pan Sonic_Paolo Piscitelli_

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comunque un utile ‘compendio’ di quello che di più significativo, e a volte weird [eppure sempre più di moda], è stato prodotto negli ultimi 10 anni nell’ambito della sperimentazione sonora. Arricchito di discografia e webgrafia essenziale degli artisti citati.

realtà altrettanto interessante, come puntualmente fa notare Valerio Mann ucci sulle pagine di Nero, poter leggere qualcosa di più sui contesti sociali e culturali da cui le tecnologie, le tecniche, le idee, le arti, le musiche sono emerse e in cui sono immerse. Contesti che certo hanno un ruolo, spesso fondamentale. Ma forse ‘Scultori di suono’ non si poneva questo obiettivo, concentrato com’è sull’altrettanto fondamentale aspetto formale. Noi comunque concludiamo lasciando la parola all’autrice, nel caso voglia intervenire in proposito…

Il libro non è ancora distribuito in libreria. Può essere ordinato direttamente all’editore mandando un’email con il proprio indirizzo postale a : blowupmag@virgilio.it

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Se si può indicare una possibile ulteriore direzione futura a lavori di questo tipo, è quella che sarebbe in

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Retina.it: Nel Cuore Del Vulcano Leo Learchi

Aviv su tutti, hanno invece introdotto il cantato con esiti modesti, mi riferisco al pur valido Map of what is effortles del 2004. Due cd all’attivo: Volcano.waves.1.8. inciso nel 2001 per la Hefty che propone una deriva elettronica fluttuante, sapientemente leggera, mai scontata. Segue nel 2004 il secondo Cd. Semplicemente intitolato Retina.it riesce a mettere a fuoco ancora di più l’indiscutibile talento dei due musicisti di Pompei: un disco che raccoglie e distilla le intuizioni della prima opera. L’attenzione di chi ascolta viene catturata dalla prima all’ultima traccia.

E’ un piacere parlare dei Retina.it, il progetto di Lino Monaco e Nicola Buono. Nati dall’ evoluzione di quanto seminato e raccolto con il sodalizio con Rino Cerrone, noto DJ partenopeo, il suono del gruppo ha sfrondato le reminescenze post new wave per arrivare ad una formula personale e matura. Elettronica che colpisce per la capacità di creare un percorso autonomo: nessuna sudditanza da modelli europei, capacità compositiva che evita le secche di quanto ormai ampiamente ascoltato, meditato e analizzato in ambito contemporaneo: ne electro ne glitch, ne bombardone ne rarefazione ultraminimale.

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Da segnalare oltre ad una manciata di EP e la presenza in numerose raccolte la costituzione insieme a Marco Messina di una Label personale, la Mousikelab che nel 2003 ha

Si apprezza la proposta esclusivamente strumentale la dove altri artisti del roster Hefty, Telefon Tel

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pubblicato a nome Resina la prima uscita. Contattati via Email i Retina.it rispondono a qualche domanda:

tutti i pomeriggi in studio ed il più delle volte chiudiamo i pezzi nell’arco della giornata. Raramente sostiamo su di una traccia più di un giorno. Preferiamo che le tracce prendano vita perlopiù dall’ overdubbing, più che dalla stesura su sequencer arricchendo e riarrangiando il lavoro fino alla nausea. Una volta chiusa una registrazione del lavoro, riascoltiamo il tutto dopo qualche giorno, per capire se ciò che avevamo registrato mantiene le stesse caratteristiche di intensità e feeling con la quale la traccia era stata creata.

Leo Learchi: Come vedete l’attuale scena elettronica di casa vostra? Retina.it: Da quando abbiamo iniziato a produrre musica elettronica sono cambiate molte cose. Agli inizi degli anni ’90 c’era un interesse marginale per le cose che proponevamo, pur provenendo da ambienti non propriamente dance riuscivamo a proporre la nostra musica solo in ambito esclusivamente tehno. Da un po’ di anni però , le cose sono cambiate ed attualmente ci sono diverse realtà che operano nel nostro territorio, principalmente a Napoli. Se solo si vuole pensare alla scena techno che ha dato e continua a dare validi personaggi , si può avere una vaga idea di quante persone attualmente scelgono di esprimersi con l’elettronica. Inoltre i festival, Sintesi di Napoli, e Interferenze, nella provincia di Avellino, sono l’espressione più evidente di come, seppur con difficoltà, la musica

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Leo Learchi: Per quanto riguarda le strumentazione? Analogico, digitale o software?

elettronica è sentita nella nostra regione.

Retina.it: Tutti e tre sono processi fondamentali nella creazione dei nostri brani, da sempre. Il campionatore, che e’ uno strumento hardware digitale, ormai seppellito dalla popolarità del crescente uso di software di campionamento usati sul

Leo Learchi: Come nascono i vostri pezzi? Retina.it: L’approccio alla creazione della nostra musica e’ rimasto invariato. Ci vediamo continuamente

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computer, e’ stato il primo strumento digitale ad entrare nei nostri studi, affiancato da una varietà di sintetizzatori e drum machines in gran parte dei casi analogici, collezionati soprattutto durante i primi anni della nostra attività. Anche l’uso del software è una costante invariabile che ci accompagna da sempre. Nel lontano ’93 abbiamo iniziato con un Atari provvisto di software per sequenze Midi. Oggi usiamo diversi computer sia per la realizzazione di sequenze audio/Midi sia per il processo di registrazione finale ed editing. Grazie anche alla versatilità e alla trasportabilità dei computer

odierni, per i nostri live abbiamo ormai adottato il classico uso di portatile e scheda audio al posto di un registratore digitale ad otto tracce del peso di 8/10 Kg!! Fondamentalmente il nostro approccio rimane comunque analogico, in quanto preferiamo lavorare i brani a un mixer analogico e processarli attraverso outboards, pur rischiando di compromettere l’audio con fruscii e ronzii, piuttosto che restare incollati a uno schermo in un regime del tutto virtuale con il pretesto di avere un suono chiaro e pulito.

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Obmana, Raymond Scott, Glass, Riley, Satie, l’elettronica della Warp, Bretschneider, con il suo Flex album datato 97 fu di riferimento per il nostro suono, Atom e le sue molteplici incarnazioni…etc etc. Leo Learchi: Progetti per il futuro? Retina.it: Il futuro e’ qualcosa di imprevedibile , possiamo solo dirti che abbiamo tantissime tracce nuove e che avranno di sicuro una loro collocazione. Da un po’ abbiamo consegnato un remix ad un gruppo di Chicago, Bosco & Jorge. La band in questo pezzo si e’ avvalsa della collaborazione di personaggi di spicco della scena post rock di quella città, i nomi che compaiono nel brano da noi remixato sono quelli di Rob Mazurek, John Herndon e i fratelli Navin degli Alluminum Group .

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Leo Learchi: Quali gruppo/artista vi ha maggiormente ispirato? Retina.it: Citare gruppi e artisti che hanno condizionato il nostro sentire /produrre musica potrebbe risultare un elenco noiso ed infinito. Però e’ giusto che qualche nome sia fatto. John Foxx, leader dei primi Ultravox con il suo Metamatic, album che consigliamo vivamente per chi non lo conoscesse, i Clock Dva di Andi Newton, Colin Newman, Duet Emmo, Dome, Pwog, Coil, Spk, Eno, Vidna

www.retinait.com

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Xx(y), Tecnologia E Cromosomi Beatrice Ferrario

che non sono un gruppo nel senso tradizionale del termine: . Preferiscono quindi definirsi . Corinna, una ragazza dell’associazione, aggiunge:

Un locale a vetrate, molto simile a un negozio, al centro di un cortile di case popolari nel nord di Milano: si presenta così il nido di Xxy, un’associazione nata dall’incontro tra un gruppo di ragazze della “fu villetta occupata” Shesquat e dall’esperienza dell’ex laboratorio di hacking Loa. Ecco spiegato il perché del nome: un cromosoma mutante che racchiuda entrambi gli universi, maschile e femminile, con le loro diversità. Giovani che mischiano tecnologia e progetti sociali, in tempi in cui la formazione hi-tech è ostica, ma d’obbligo e venduta a caro prezzo. Così l’autoformazione attraverso la condivisione dei saperi (il cosiddetto sharing) sembra l’unica via percorribile.

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Persone diverse, con attitudini e interessi differenti, che portano valore aggiunto alla comunità attraverso la realizzazione di progetti talvolta molto distanti tra loro. Si parte dall’informatica in senso stretto, con net point per il libero accesso a Internet, sperimentazioni wireless e voice over IP, corsi di crittografia e formazione di base ai sisitemi Unix, si passa per il video editing e la web radio, per arrivare alla comunità degli scriventi e ai progetti editoriali: è questa infatti la casa natale di Ippolita, un server che è anche database di contenuti opensource, ai quali

A Xxy ci tengono subito a precisare

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attingere per i propri progetti di scrittura creativa e comunitaria.

e utilizzo del sistema operativo linux, per principianti, programmazione in linguaggio C, Web semantico, scrittura di exploit e shellcode, presentazione del progetto Annotea (per maggiori info, corsi_xxy@ippolita.net) .

Spiega Corinna. .

Non solo iniziative strettamente tecnologiche, ma anche rivolte alle persone del quartiere, non proprio giovani: . Anche il progetto “Giardino partecipato” si colloca in quest’ottica, con un’insolito riavvicinamento alla natura in mezzo al grigio cittadino.

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Sono in cantiere dei corsi di formazione specifici, a pagamento o gratuiti a seconda dell’ampiezza del target a cui si rivolgono: installazione

www.ippolita.net http://xxy.realityhacking.org/

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Copyzero: All Rights Digitalized Maria Molinari

(copyleft) a costo zero. Il diritto d’autore (in Italia regolamentato dalla legge 22 aprile 1941, n. 633) comprende i diritti morali, cioè il diritto alla paternità e all’integrità dell’opera e il diritto al suo ritiro dal c ommerc io, e i di r i t t i patrimoniali, come il diritto allo sfruttamento economico dell’opera, il diritto di pubblicarla, riprodurla, distribuirla, modificarla. I diritti morali sono inalienabili, imprescrittibili e irrinunciabili, restano cioè sempre dell’autore, quelli patrimoniali possono essere anche ceduti, ad esempio a una casa editrice, in cambio di denaro. Molti, purtroppo, pensano, erroneamente, che tali diritti siano riconosciuti a un autore solo se è iscritto o se ha depositato la propria opera alla Siae, alla società italiana degli autori ed editori. Il diritto d’autore, invece, è automaticamente applicato all’opera all’atto della sua creazione senza che sia necessario eseguire alcuna formalità amministrativa, iscriversi a nessuna associazione, o ricorrere a nessun tipo di registrazione.

Il Movimento Costozero è un’associazione senza fini di lucro che si batte per la gratuità del diritto alla comunicazione, considerata fonte di reale sviluppo. Sostiene l’informazione gratuita e l’accesso gratuito ai mezzi di informazione, la diffusione dell’open content e l’adozione del software libero nella pubblica amministrazione, nelle aziende, nelle associazioni, nelle scuole, nelle università e nella ricerca scientifica. Tra i vari progetti concreti e servizi promossi e offerti dal movimento – un elenco è nella sezione Proposte e Servizi del sito www.costozero.org -, vi è Copyzero, un modo per tutelare il diritto d’autore (copyright) e soprattutto il permesso d’autore

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Tali diritti però possono essere protetti con strumenti tecnologici e giuridici alternativi, altrettanto efficaci e meno onerosi (un elenco completo è qui: www.comune.torino.it/musicainpiem onte/consulenze.htm). Tra questi c’è appunto Copyzero, la tutela del diritto d’autore tramite apposizione di firma digitale e marca temporale. .

Chiarito questo, è ovvio che l’autore debba fornire, se vuole tutelarsi a tutti gli effetti, una prova legale della paternità dell’opera e della sua esistenza ad una data certa, specie in caso di contesa giuridica. Alcuni si rivolgono alla Siae anche per questo motivo, ma in molti casi potrebbero farne a meno. La Siae si occupa per lo più della protezione e dell’esercizio dei diritti d’autore, cioè della concessione di licenze e autorizzazioni per lo sfruttamento economico delle opere, dell’incasso dei proventi e della loro ripartizione. ” Se sei nel mercato ci spiega Nicola A. Grossi, Presidente di Movimento Costozero – la Siae ti può servire (è una sorta di partner commerciale), se non ci sei, non è necessaria. Il fatto è che la stragrande maggioranza degli autori non è nel mercato e, in buona parte, si rivolge alla Siae. Un non iscritto alla Siae, che deposita in Siae, non vuole (e non può) ricevere compensi tramite Siae, intende solo tutelare i suoi diritti”.

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La firma digitale, per chi non ne fosse al corrente, è l’equivalente elettronico di una tradizionale firma su carta. Ha lo stesso valore legale.* L’unica differenza è che è sempre associata a un documento informatico, al quale attribuisce informazioni che ne attestano con certezza l’integrità (cioè che il documento non è stato manomesso), l’autenticità (l’identità di chi la firma) e la non ripudiabilità (l’autore non può più disconoscere il documento firmato). L a marca temporale, invece, fornisce la prova che un determinato documento esisteva già al momento della

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marcatura e prima di una certa data. Nella marca sono indicati data e ora, nome dell’emittente della marca e impronta del documento marcato (ossia una sequenza di numeri di lunghezza fissa che identificano univocamente il file). “Da un punto di vista tecnologico ci spiega Grossi – la marca temporale richiede risorse tecniche maggiori. Non è un caso che apporre la marca ha un costo (0,36 euro), mentre apporre la firma no”.

Società Consortile di Informatica delle Camere di Commercio Italiane, è uno dei primi e più efficienti .( www.card.infocamere.it/firma/cps/m anualeoperativo_PRA_2.12_I.pdf )

Il procedimento da seguire è semplice. L’autore converte la propria opera in formato digitale, vi inserisce i dati di copyright e l’eventuale licenza ed infine la firma e la marca utilizzando una smart card, il relativo lettore e uno specifico software (in genere multi-piattaforma). Se il lettore è reperibile ovunque, in qualsiasi punto vendita abilitato, la smart card può essere ritirata presso l’Ente Certificatore, così denominato perché rilascia un “certificato digitale di sottoscrizione” nel quale è specificata l’identità del titolare della smart card, la chiave pubblica che gli è stata attribuita, il periodo di validità del certificato e i propri dati, cioè dell’Ente che ha certificato. Così facendo il titolare entra a far parte di un elenco pubblico di certificati e chiunque voglia verificare la validità del suo certificato può farlo consultando questo elenco online o richiedendo informazioni direttamente all’Ente. InfoCamere, la

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La firma tutela tutti i diritti, patrimoniali e morali, ed è anche conveniente dal punto di vista economico. Tutelare i propri diritti tramite Siae, infatti, costa, per ogni singolo deposito da parte di un non iscritto alla Siae, 110 euro, da corrispondere ogni 5 anni per il rinnovo. Comprare una smart card e un lettore costa molto meno, al massimo 50 euro ed è un prezzo che si paga una sola volta e per sempre (negli anni è anche destinato a calare). Per chi non volesse o non potesse comprare neanche la smart card e il lettore, c’è sempre Copyzero On-line un servizio gratuito ma riservato ai sostenitori, ossia a chi ha donato anche un solo euro all’associazione.

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Il procedimento da seguire per Copyzero Online è ancora più rapido. L’opera, convertita in formato digitale, viene compressa in un archivio protetto con password (la dimensione del file non deve essere superiore ai 20 mega) e inviata direttamente a copyzero.org, insieme ad un modulo opportunamente compilato e un documento di identificazione. Nel caso in cui si tratti di un software, il file archivio dovrà contenere i sorgenti. Una volta che copyzero.org l’ha marcata temporalmente (nel caso di Copyzero Online la marca è ciò che conta veramente), l’autore potrà scaricarla dalla rete. Sempre in rete è possibile esaminare e verificare la validità dei file ottenuti (quelli firmati e marcati hanno rispettivamente estensione .p7m e .m7m), che non sarebbero altrimenti leggibili se non dotandosi dell’apposito software ( www.card.infocamere.it/servizi/verice rt.htm).

Copyzero favorisce soprattutto, ma non esclusivamente, il copyleft, l’open content e chi non è iscritto alla Siae (e dunque non percepisce eventuali compensi). “Ciò non significa sottolinea Grossi – che il diritto a compenso sparisce se non ci si rivolge alla Siae. E’ sempre possibile mettere in vendita le proprie opere su Internet. Inoltre, se non si tratta di un’attività professionale, ma di una vendita occasionale, e se non si è iscritti alla Siae, è possibile vendere le proprie opere senza la necessità di aprire partita iva e senza la necessità di richiedere la licenza multimediale Siae”. “Il software proprietario ci spiega ancora – è “autotutelato” (il sorgente è invisibile e dunque non è possibile “appropriarsene” facilmente). Il software libero, invece, è per sua natura più esposto a indebite utilizzazioni del codice. Nell’open content il lavoro, spesso, è collettivo e progressivo: è opportuno tutelarlo “giorno per giorno” (questo ovviamente vale anche per il software libero)”. Copyzero non solo fortifica il copyleft contribuendo significativamente alla sua rispettabilità in tutti quei rari casi in cui versi in condizione di debolezza, ma risulta particolarmente utile anche in caso di work in progress o di opere che si sviluppano collettivamente, in quanto dà la possibilità ad ogni nuovo autore di aggiungere la propria firma a quella degli autori che l’hanno

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preceduto e di apporre una marca temporale nuova ad ogni nuova versione dell’opera.

altrimenti dette clausole, come, ad esempio, la clausola di limitazione di responsabilità, sono nulle e possono comportare la nullità dell’intera licenza), domani si firmeranno petizioni on-line (una bella prospettiva di democrazia partecipativa)… molti usi, molte opportunità di progresso. Certo, sono in pochi a conoscere e a sapere usare la firma digitale qualificata. Se Copyzero è poco noto è anche perché le potenzialità della firma digitale sono poco conosciute, malgrado alcuni siti giuridici ne parlino costantemente e in profondità”.

Alla domanda “Copyzero può essere definita una valida alternativa alla Siae?”, Grossi risponde: “Sì, per chi non ha interesse a percepire compensi attraverso Siae. La firma digitale qualificata è uno strumento molto potente soprattutto in paesi come l’Italia. Oggi, con la firma digitale qualificata si stipulano contratti (le stesse licenze open content sono contratti, le cui clausole vessatorie necessitano della sottoscrizione:

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( http://www.scuolaonline.wide.it/Pag ine/pianowork22.html), altri alle Copyzero X, le prime e uniche licenze made in Italy. Se con Copyzero tuteli l’opera con le licenze Copyzero X la liberi. Ma questo è un altro discorso e l’affronteremo nel prossimo numero. * Le firma digitale è stata equiparata a quella tradizionale con il DPR 10 novembre 1997, n. 513. La principale legge che la disciplina è il decreto legislativo 5 marzo 2005, n. 82, che però entrerà in vigore il 1° gennaio 2006.

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Anche se di Copyzero si parla poco, sono già tanti quelli che se ne servono per tutelarsi: saggisti, narratori, fotografi, grafici, programmatori e soprattutto musicisti. Sono così numerose le richieste giornaliere per Copyzero Online che si è dovuto stabilire una regola: “tra una richiesta e l’altra devono intercorrere almeno 15 giorni”. Molti abbinano Copyzero alle licenze Creative Commons

www.costozero.org www.card.infocamere.it www.siae.it

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Crionica, Prospettiva Di Immortalita’ Gigi Ghezzi

nanotecnologia). L’ibernazione quale orizzonte dell’immaginario fantascientifico è un tema frequente (un film su tutti è 2001 Odissea nello Spazio ), ma la sfida alla morte è una costante culturale nella storia dell’umanità (essa è per esempio testimoniata negli Antichi Egizi con la mummificazione). Il primo lavoro con contenuti scientifici sul tema è il libro The Prospect of Immortality , pubblicato nel 1964 da Robert Ettinger, un professore di fisica, mentre il primo esperimento di crionica risale invece al 12 gennaio 1967 a Los Angeles quando un paziente venne trattato con speciali agenti protettivi e congelato immediatamente dopo la morte.

Al polo opposto dei pessimisti ad oltranza esiste una corrente di pensiero che ha nei confronti del futuro un certo atteggiamento positivo, per non dire positivista: parlo dei sostenitori di quella terapia che va sotto il nome di crionica. La crionica (a volte definita ibernazione, criopreservazione, biostasi o sospensione crionica) consiste nel congelamento di un corpo umano immediatamente dopo la sua morte, non prima di un trattamento con particolari agenti protettivi che servono a garantire al meglio la conservazione dei tessuti cellulari. Il motivo dell’ibernazione è la speranza riposta nell’avvento di una tecnologia che un giorno possa rimettere in vita lo stesso corpo, magari ringiovanito (ad esempio la

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I costi variano dai 20000 ai 30000 $, cifre decisamente non popolari 47


dovute principalmente al fattore di indeterminatezza dei tempi di conservazione: quando arriverà la tecnologia riabilitante? Tra cinquanta, tra cento o tra mille anni? Altre domande relative alla terapia possono essere soddisfatte visitando la pagina delle Cryonics — Frequently Asked Questions (FAQ).

sussiste la possibilità di intervento medico immediato sul corpo dopo averne accertata la morte (mentre in Italia ed in Europa l’attesa è di 24 ore). La tempestività è infatti alla base del trattamento cronico. L’ibernazione mette in discussione il concetto tradizionale di morte e i limiti “naturali” della vita. La conservazione corrisponde anche a una precisa filosofia della morte contenuta nella teoria dell’informazione (la citazione è tratta dal ricchissimo sito Estropico.com: la morte è la perdita irreversibile di informazione contenuta nel cervello (principalmente la nostra memoria e la nostra personalità).

Esistono diverse organizzazioni che offrono questa terapia. La pagina www.cryonet.org/orgs.html ce ne fornisce un breve elenco. Tra esse la più famosa è sicuramente la Alcor Life Extension Foundation con sede in Arizona. Tutte queste società operano principalmente negli Stati Uniti, dove

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speranze, i sogni e le esperienze dell’individuo, ancora prima che esso muoia, entrano in un processo comunicativo familiare (e ricordiamoci che la comunicazione per essere tale, necessita sempre di un processo di costruzione reciproco e non solo di trasmissione) per poi divenire collettivo. La morte stessa, dal punto di vista della memoria collettiva può essere considerata come un processo di riattivazione dell’esistenza di una comunità codificato da sempre nella nostra società con i rituali di rispetto funebri – che non è assimilabile (almeno, non per sostituzione) alla museificazione fossilizzata dell’ibernazione dell’individuo.

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Ralph Merkle professore del Georgia Tech College of Computing e membro della Alcor Foundation afferma che seguendo la teoria dell’informazione – “una persona è morta, se le sue memorie, personalità, speranze, sogni, etc. sono state distrutte”. In queste discussioni e teorizzazioni manca a mio avviso una dimensione comunitaria storica. La morte non può essere considerata una mera perdita di informazione. La ricchezza delle esperienze di una vita non muore con il corpo del singolo, ma segue diversi canali di comunicazione sociali. Le

www.benbest.com/cryonics/CryoFA Q.html#_IIIA www.alcor.org www.estropico.com

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Come Sara’ Il Videogame Del Futuro? Teresa De Feo

tecnologie al servizio di contenuti! Potrebbe essere il primo video-game d’essai. Ma entriamo nel gioco, questo è il preludio: vi trovate a case di amici, Trip e Grace, siete stati invitati a cena, ma nel bel mezzo della conversazione scoppia una lite furiosa tra loro due. Cosa fate? Le sorti del loro amore sembrano essere affidate proprio nelle vostre mani e il gioco vi chiama necessariamente a partecipare. Non vi si richiede però di vincere nulla, solo di vivere, entrare nel piccolo grande dramma della coppia in crisi.

Qualcuno l’ha chiamato il videogame del futuro: piena interattività, intelligenza artificiale, raffinata decodifica del linguaggio, grande sofisticazione tecnologica . Eppure non è un vero e proprio videogame. Trascura completamente le regole su cui puntano le grandi aziende del gioco. Si chiama Facade ed i loro autori hanno piacere a definirlo un interactive drama, un dramma interattivo: lunghe pause, silenzi, personaggi dalla complessa psicologia, nessun “effetto speciale”, una grafica poco sopraffina. Impaccio, perplessità, imbarazzo, Facade mette in gioco le difficoltà delle dinamiche relazionali e sembra strizzare l’occhio al teatro intimista e psicologico del caro Albee o Tennesse Williams o ancora del neo premio nobel Harold Pinter. Beh niente male: super

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La narrazione si compone momento per momento a secondo della vostra progressiva interazione con i due interlocutori governati da un complesso sistema di A.I..

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Converserete con loro attraverso la scrittura e loro saranno in grado di comprendervi. Vi risponderanno vocalmente, esprimendo i loro sentimenti attraverso il linguaggio del corpo ed espressioni facciali ben articolate. Poi succederà quello che succederà, non potrete prevederlo, così come nella realtà.

coinvolte? O meglio, chi sono i Procedural Art ed il loro background? P.A.: Si, in effetti possiamo considerare Facade come il frutto della riuscita collaborazione tra l’industria del gioco e l’accademia. Andrew Stern è stato infatti designer e ingegnere dei personaggi di successo Dogz, Catz e Babyz prodotti dalla PF.Magic negli anni 90’s, parliamo dei primi animaletti virtuali (che hanno preceduto il Tamagotchi e il Nintendogs!) e di cui se ne sono vendute più di due milioni di copie in tutto il mondo. Micheal Mateas è al contrario un ricercatore nelle discipline di arte e A.I. alla Carnegie Mellon University fino a diventare assistente professore alla Georgia Tech ad Atlanta, dove ha lavorato nell’Experimental Game Lab. Siamo stati noi due a progettare, programmare, scrivere, animare e produrre Facade in prima stesura, avvalendoci poi della collaborazione di attori, che hanno prestato la loro voce, compositori, esperti in ambito artistico, nel campo dell’animazione e programmazione.

Facade è un progetto ambizioso, disponibile e scaricabile in rete, realizzato dagli americani Andrew Stern e Micheal Mateas (Procedural Art). Ma chi sono? Come sono riusciti a realizzare questa “chicca geniale”, complessa e sofisticata ad un tempo, ma anche drammaticamente semplice? Per capirlo a fondo li abbiamo intervistati.

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Teresa De Feo: Facade non è propriamente un gioco così come noi ci aspetteremmo parlando di videogame. I suoi punti forti sono la credibilità dei caratteri dei suoi personaggi, la naturalezza del linguaggio, la singolarità della sequenza narrativa e più di tutto la

Teresa De Feo: Facade per la sua complessità nasce evidentemente dall’integrazione interdisciplinare di pratiche diverse ed è chiaramente il risultato di un lavoro di team. Quali figure professionali sono state

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piena interattività che realizza, fornendo al giocatore un’esperienza a 360°. Tutto questo grazie all’utilizzo di tecnologie innovative e un nuovo modo di concepire l’A.I. Quali sono e come sono stati articolati tra di loro questi elementi così complessi?

costituita dall’interazione delle varie parti relative e conseguenti all’interazione del giocatore momento per momento, e infine la comprensione di come scrivere in modo accattivante e utile nella logica sempre variabile di questa nuova organizzazione di framework. Tutto ciò, come è comprensibile, ci ha portato alla necessità di sviluppare diversi nuovi linguaggi di programmazione al fine di creare i nostri personaggi interattivi e le loro relative storie ed è attraverso la loro elaborazione ad hoc che nasce Facade.

P.A.: Il processo di elaborazione di Facade coinvolge tre linee di ricerca: la progettazione relativa ai modi di decostruzione della linea narrativa all’interno della struttura progressiva della storia, l’ingegnerizzazione delle A.I. per la ricostruzione in tempo reale della performance drammatica

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videogames si muove sempre di più verso il miglioramento dei dettagli: dall’elaborazione di oggetti o di ambienti sempre più complessi così come la definizione sempre più realistica dei loro personaggi, ma sembrerebbe che poco o nulla si faccia per migliorare la componente interattiva. E purtroppo noi temiamo in tal senso che la grande azienda del videogame sarà poca disposta ad affrontare i rischi relativi a tali sperimentazioni e quindi fare questo tipo di investimento futuro (R&D).

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Teresa De Feo: Facade è stato definito il videogame del futuro. Qualcuno parla della possibilità del videogame di diventare il cinema del 21simo secolo. Cosa pensate a riguardo? P.A.: Attualmente vediamo Facade più come teatro che come cinema, riferendoci a un modello come potrebbe essere l’ultima versione di Star Trek di Holodeck. In Facade l’azione è continua ed avviene in tempo reale così che il giocatore è chiamato in prima persona a costruire la drammatizzazione della storia insieme ai due attori virtuali momento per momento, la sua presenza è indispensabile a questo fine.Ma certamente pensiamo che la stessa tecnica potrebbe essere con successo applicata all’esperienza drammatica più propriamente cinematografica.

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Teresa De Feo: Quali potranno essere invece i miglioramenti e i futuri sviluppi di Facade? P.A.: Noi ci proponiamo di migliorare sempre di più la componente interattiva, inserendo nuovi personaggi e raffinando la comprensione del linguaggio del giocatore, ampliando quindi le possibilità di sviluppo non lineare della narrazione.

Teresa De Feo: Quali sono, secondo voi, le possibili evoluzioni del videogame moderno? P.A.: Lo sviluppo attuale dei 53


Teresa De Feo: Nuovi progetti?

Facade. E al Georgia Tech, Micheal sta continuando con successo la sua ricerca in merito ai possibili sviluppi dell’A.I. (Artificial Intelligence).

P.A.: Attualmente siamo molto impegnati nella formazione di un nuovo studio Procedural Art in Oregon. Stiamo inoltre prendendo contatti per pubblicizzare e trovare investitori per la commercializzazione di nuovi prodotti che partano dalle tecnologie e dal lavoro fatto su

www.interactivestory.net/ www.interactivestory.net/download/

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I Sei Sensi Della Citta’ Contemporanea Alessandra Migani

provenienti da tutto il mondo si sono dati appuntamento, in questi quattro giorni di incontri e workshops, nella città di Roma che si offre come il luogo ideale per un congresso di questo tipo. L’elemento nuovo si presenta ai sensi dei partecipanti quando essi varcano la soglia della grande sala congressuale e si lasciano assorbire da suoni, immagini e musica. L’associazione romana Moorroom ha curato le installazioni audio-video e le performances per il congresso, proponendo un approccio alla città contemporanea percepita attraverso 6 sensi, dove il sesto senso è la ‘comunicazione’. Un punto di vista sostanzialmente estetico-percettivo che tende a coinvolgere i sensi umani che penetrano la città intesa in tutti i suoi aspetti: la città globalizzata e globalizzante, si parla di Roma come si può parlare di Berlino, Firenze, Parigi, Londra, New York e così via. Città con similitudini e peculiarità, uguali e diverse, popolate da uno spirito che rifugge dall’omologazione ma dove i tratti caratteristici della rivoluzione tecnologica tracciano percorsi inusuali.

Un fenomeno nuovo ed interessante si è verificato presso il Palazzo dei Congressi a Roma durante il 49° Congresso mondiale su urbanistica e architettura, IFHP (International Federation for Housing and Planning) – Futuri urbani: continuità e discontinuità, un approccio alla riflessione che predilige una lettura della città attraverso i sensi. Infatti, all’interno degli spazi enormi e marmorei del Palazzo dei Congressi all’Eur (quartiere di Roma dalle architetture imponenti), dal 2 al 5 ottobre hanno trovato posto installazioni multimediali e interattive come parte integrante del corpo congresso-palazzo. Esponenti dell’architettura e dell’urbanistica

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mentre i sapori delle culture multietniche entrano a far parte del tessuto urbano. Del resto le città sono mondi pulsanti, dai ritmi frenetici, dall’espansione incontrollata, sono città multiculturali, le culture si omogeneizzano in rispetto alle direttive del mercato ma al contempo rifuggono dalla massificazione selvaggia. .

Durante uno degli interventi dell’architetto americano William J. Mitchell, egli evidenzia come: “Evolvendosi attraverso i secoli, le città si sono sempre più avvicinate all’organizzazione ed ai comportamenti degli organismi intelligenti. ( ) Adesso le città sono state equipaggiate con sistemi nervosi elettronici ed è cruciale iniziare a capirle in termini di loro capacità sensoriali, flussi di informazioni e processi, e capacità di risposte intelligenti”.

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Quest’esperienza sensoriale passa attraverso vari stadi, nel nostro percorso lungo il palazzo ci troviamo di fronte La città e il suono, che si presenta come un’installazione interattiva (uno speciale sistema surround) realizzata dall’artista inglese Justin Bennett, già percussionista per i gruppi Grand Mal e BMBcon. La sua ricerca musicale spazia dalle registrazioni puramente sonore del tessuto cittadino all’espressione materiale che integra elementi plastici e visuali. Il suono contiene in sè la memoria del tempo trascorso e delle tracce spazio-temporali, un suono

Gli artisti (nazionali ed internazionali) chiamati ad esprimere il proprio approccio sensoriale alla città, trovano strade che ci incuriosiscono e allo stesso tempo ci fanno riflettere. Le connessioni fra le diverse discipline finiscono per tracciare una mappa di relazioni evidenti: l’architettura ridisegna il suono, crea punti d’ascolto, vive i paesaggi urbani in mutamento, la topografia diventa video, scandito dai rumori d’ambiente,

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registrato nell’arco di ventiquattr’ore in cima al tetto di un edificio romano. La creatura concepita assume il nome di Sundial ed è appunto l’assemblaggio di 24 frammenti sonori compressi in otto minuti per ogni variazione di suono.

l’installazione interattiva Triplicity, è una serie di videoclip prodotti negli ultimi cinque anni che ripresenta un paesaggio urbano, espressione della globalizzazione economica contemporanea. Il collettivo fiorentino nato nel 1995 come laboratorio di cinema mutante, vive il processo di creazione e gestione dell’immagine analogamente ai processi compositivi della musica. Il tessuto metropolitano permea i montaggi veloci e taglienti degli Ogi:no Knauss , sequenze sempre più veloci che ci si presentano alla vista e immediatamente spariscono: segnali stradali, insegne, manifesti, dettagli e complessi architettonici prendono vita permeati del proprio valore. Gli Ogi:no Knauss realizzano in questo modo un’attenta elaborazione dei movimenti urbani, ridisegnano mappe, definiscono nuovi tracciati in cui è possibile attraversare, in breve, spazi e tempi lontani fra di loro.

L’elemento sonoro spazia e allo stesso tempo si integra con una struttura mobile speciale composta da elementi pneumatici gonfiati da un ventilatore, realizzata dall’artistaarchitetto Marco Canevacci (Plastique Fantastique). Le strutture possono assumere forme diverse, presenti nel palazzo come tubo e bolla, dove trovava sede l’internet point. Mentre percorriamo questi spazi, occupati e rivissuti in un modo atipico e per un breve periodo, ci torna alla mente Russolo con la sua idea di “attraversare una città moderna con le orecchie aperte più degli occhi”.

Lo spettatore-montatore, viene coinvolto direttamente nella selezione dei ‘pezzi’ audiovisivi che interverranno a tracciare un percorso nelle città, come se entrasse nella cabina di montaggio. L’installazione si presenta con 3 schermi e 3 diverse postazioni di controllo. Ogni video selezionato, distinto da un titolo, verrà sistemato automaticamente dal computer in un ordine c onsequenziale, solo alla f i n e, azionando il tasto play, si darà origine

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La città e la vista, presentata dal collettivo Ogi:no Knauss con

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al viaggio, ogni volta diverso, in un’esplorazione continua.

videoinstallazioni. Il video di Circolo di Confusione musicato da Slow Motion, trae la propria ispirazione dai b-movies di fantascienza degli anni cinquanta. Lo scenario surreale in cui il cibo è visto come veicolo per instaurare rapporti e comunicare, intende proiettare lo spettatore in un’atmosfera onirica in cui sia ancora possibile vivere il sogno con ingenuità ed ottimismo, abbandonandosi alle fascinazioni del gioco estetico.

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La città gusto ed olfatto presenta una

La digitazione come elemento insostituibile della contemporaneità, lascia intravedere la sezione Città e il tatto, offre allo spettatore la possibilità di esprime pensieri, attraverso frasi ed immagini, ispirati appunto al rapporto città e 5 sensi. Questa sequenza di immagini e pensieri, uniti a una musica, si offre allo spettatore come nuova opera, in una proiezione speciale durante il congresso.

performance video-sonora nata dalla collaborazione di Slowmotion (musica) e Circolo di confusione (video). Slow Motion è un’entità in costante mutazione, una sorta di gruppo aperto sempre pronto ad accogliere nuove influenze con la volontà di proiettare il proprio istinto creativo in territori inesplorati. La loro musica è un incrocio di elettronica digitale e modernariato analogico, spesso venato da raffinate intrusioni di strumenti acustici e da una spiccata propensione per la melodia. Circolo di Confusione è invece un progetto nato nel 2001 dalla collaborazione tra Virginia Eleuteri Serpieri e Federico Maistrello. Virginia Eleuteri Serpieri dal 1999 ad oggi ha partecipato a numerosi festival cinematografici come autrice di videoclip e cortometraggi e collabora stabilmente con Slow Motion per concerti e

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La rassegna Futuri urbani: continuità e discontinuità permette quindi di costruire vere e proprie mappe mentali, in cui la città non è più solo topografia, architettura e progetto, ma sempre, e soprattutto, vita, luogo d’incontro o passaggio, di comunità e vita urbana. I luoghi virtuali permettono passaggi ulteriori, offrono nuove forme espressive alla mente, così come le divisioni fra discipline si fanno più labili; giorno dopo giorno, i nuovi modelli di città credono in un approccio pluridisciplinare anche grazie alle tecnologie digitali della comunicazione.

comunica con noi, mentre distratti da altro, lo ignoriamo. Gli artisti contemporanei colgono i messaggi nascosti, li decifrano e li offrono ai sensi dello spettatore come in un moderno rito pagano. Partecipare attivamente è probabilmente la nostra unica strada percorribile o almeno è quello che ci si augura.

I sensi ci attraversano ogni giorno in maniera evidente e tutti questi input quotidiani richiamano la nostra attenzione verso qualcosa che

www.slowmotion.it/ www.virginiaeleuteriserpieri.com/

www.bmbcon.demon.nl/justin/ www.plastique-fantastique.de/ www.oginoknauss.org/

www.moorroom.org

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Insite 05, Network Attivista Lucrezia Cippitelli

muro (o di aggirarlo, nuotandoci attorno nel Pacifico) senza passare per i controlli della dogana (“con el coyote no hay aduana” salmodiava quasi dieci anni fa Manu Chao) ed ha avuto sfortuna; o ha avuto fortuna ed ora fa il lavapiatti in nero nel retro di un diner di Los Angeles sperando di non avere a che fare con le forze dell’ordine. InSite05 è la quinta dizione di una mostra periodica che si svolge dal 1992 tra San Diego (California, Stati uniti d’America) e Tijuana (Messico). Un progetto pensato per e negli spazi pubblici delle due città, che da fine agosto a metà novembre riflette sul concetto di Frontiera e che reifica, con progetti di artisti e attivisti, quello spazio mentale e ideologico che è la Frontiera.

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La Frontiera tra San Diego e Tijuana è anche il concetto stesso di diversità – rappresentata da due agglomerati urbani che sulla carta geografica sono distinti e nella teoria parlano due lingue diverse che sfocia nella fluidità del flusso continuo di esseri umani che la passano. Due città vicine, speculari e complementari, che hanno inglobato il border ed i cui cittadini sono intercambiabili: liberi

Il border tra Stati uniti e Messico è un entità sfaccettata: un muro; una terra di nessuno in cui, dal lato costiero statunitense, è stata rasa al suolo ogni forma di vita per poter meglio controllare militarmente – i tentativi di accesso illegali dei latinos che cercano fortuna nell’Eldorado californiano. La Frontiera è anche la storia di chi ha tentato di scavalcare il

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professionisti che dagli Usa preferiscono vivere in Messico perché è più economico, o gestori di traffici più o meno leciti che fanno la sponda tra i due poli per controllare l’andamento delle loro attività. Ed ancora studenti radical (e gringos ) e lavoratori a tempo che si incrociano sulla frontiera, andando e venendo dalle loro attività quotidiane (chi si attiva per i diritti civili, chi pulisce le piscine delle ville).

culturali, gruppi di azione artistica e comunicativa, artisti e curatori (anche del jet-set del sistema internazionale dell’arte contemporanea, quelli che partecipano alla Biennale di Venezia o alla Documenta di Kassel per intenderci) si attiva con azioni negli spazi pubblici (la spina dorsale di inSite, quest’anno curata da Osvaldo Sánchez), conferenze, installazioni, mostre in musei e gallerie, lectures che coinvolgono anche potenti istituzioni accademiche come il Dipartimento di Arti Visuali dell’Università di San Diego o la UNAM Universidad Nacional Autonoma de México di Città del Messico.

Tutto questo confluisce e definisce questo un progetto atipico che i suoi fondatori preferiscono definire network piuttosto che Biennale, in cui un numero impressionante di agitatori

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Diego e Tijuana sono separate da poco meno di venti chilometri di tessuto urbano/residenziale, un continuum di case e strade in cui trovare inizio e fine è talvolta un impresa), significa puntare il dito sull’incoerenza del sistema politico e sociale che impone la differenza versus la condivisione, l’immobilità versus la fluidità. .

Il sito di Insite05 è, per forza di cose, bilingue ed è pensato per essere il momento di raccolta delle varie attività che trovano il proprio significato esattamente nel momento in cui sono affiancate l’una alle altre: frammenti di un mosaico che da soli descrivono una realtà specifica, ma hanno senso solo tutti insieme e viste da lontano.

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Di questo mosaico capiamo che i contesti urbani post-post (post industriali, post-moderni, postideologici) sono destinati al disfacimento, che la vita di città si basa sul movimento e sullo scambio, che i Centri (urbani nello specifico ma anche politici a livello globale) non esistono senza le relative Periferie (di cui si nutrono), che il “paradigma stesso di cittadinanza” – come spiega Osvaldo Sánchez – è destinato a fallire, e con esso l’anacronistico border che tenta di sostenerlo. Presentare delle opere d’arte in un territorio urbano transnazionale (San

Per chi osserva inSite05 da lontano, da segnalare Tijuana Calling Llamando Tijuana, progetto espositivo online curato da Marc Tribe con i lavori di Fran Ilich, Ricardo Miranda Zuniga, Ricardo Dominguez e Coco Fusco, Angel Nevarez e Alex Rivera. Da notare, ed è la cosa più interessante della mostra online, che ogni progetto nasce come risultato di un’indagine quasi sociologica sul territorio. Per questo ogni lavoro è la narrazione di una delle mille realtà che compongono il panorama umano e sociale di questa zona così complessa e densa di storie.

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Turista Fronterizo, co-realizzato da Ricardo Dominguez e Coco Fusco, è un fantastico Gioco dell’Oca interattivo, in cui si può decidere di prendere i panni di una fricchettona di San Diego che studia antropologia e che vuole conoscere i problemi dei latinos , o della lavoratrice atipica di Tijuana che incrocia il confine alla ricerca di lavoro, e seguirle nelle peripezie che accompagnano gli spostamenti oltre il confine.

Corridos di Anne-Marie Schleiner e Luis Hernandez è un videogioco in 3D downloadabile e che permette di passare la frontiera attraverso uno dei tunnel usato dai narcotrafficanti dell’area per arrivare da Tijuana a San isidro . DENTIMUNDO: Dentistas en la Frontera / Dentists on the Border Mexico / U.S.A , di Ricardo Miranda Zuñiga Kurt con Olmstead & Brooke Singer, un delirante viaggio negli studi dei dentisti di Tijuana, che apprendiamo dal karaoke iniziale in cui le parole della canzone di apertura sono segnalate da un dente che salta hanno stuato gringos alla UNAM di Città del Messico e lavorano nella frontiera, “tra puttane, spacciatori e mezcal” per curare i che non possono permettersi l’assicurazione sanitaria, e quindi le cure mediche, nel loro paese.

Tj Cybercholos (a project of literatura táctica / un proyecto de tactical literature), di Fran Ilich, una narrazione ipertestuale della Frontiera, aggiornata quotidianamente.

www.turistafronterizo.net http://delete.tv/loscybercholos/ .

www.lowdrone.com/

LowDrone è la macchina volante munita di telecamera di Angel Nevarez e Alex Rivera che tenta di superare il confine tra Messico e Stati uniti.

http://ungravity.org/corridos www.dentimundo.com/ www.insite05.org/auxillary/tjcalling2. htm

open-source 63


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New Media Art, Vendere L’immateriale Maria Rita Silvestri

o l’argilla che l’artista tradizionale utilizza per creare. I risultati, come in tutte le arti, possono essere i più svariati, soprattutto per la maggiore versatilità che lo strumento digitale offre rispetto agli strumenti tradizionali. Immateriale è però da sempre anche il valore dell’arte, la sua fruibilità, immateriale è il godimento estetico e quindi, per esempio con il percorso compiuto dalla net.art, l’arte si avvicina un po’ di più alla sostanza che ne costituisce il suo stesso valore. Dopo diversi anni dalla nascita vediamo quindi a che punto è arrivato il mercato della new media art, ma soprattutto a che punto di comprensione del fenomeno sono arrivati i compratori e i collezionisti.

L’immaterialità della new media art crea un certo scompiglio nel sistema dell’arte mondiale, tanto che al principio sembrava in dubbio l’appartenenza di queste opere digitali al sistema artistico tradizionale e istituzionale. A ben vedere però è proprio questo l’aspetto eccitante del fenomeno, la vera rivoluzione culturale: l’arte creata mediante le nuove tecnologie è costituita nella sua forma pura da software, il software è composto di 0 e 1 che altro non sono che impulsi elettromagnetici, on e off, segnali che, essendo digitali e quindi elettrici, sono per loro stessa natura immateriali. Questa forma d’arte è composta quindi da un codice scritto appositamente dall’artista. In termini tradizionali, il codice è come il colore

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La new media art allo stato puro, come dicevamo, è il software. E il solo 65


al mondo che ha avuto il coraggio di venderlo è ancora lui: Steve Sacks, gallerista di New York e oggi anche di Seoul. Il suo sito www.softwareartspace.com vende software artistici e li spedisce a casa.

di net.art installate in pc con monitor touch screen. “Chi compra, dal collezionista alle corporation, preferisce ancora acquistare un oggetto materiale piuttosto che un software”, ci dice Sacks. E non importa che l’opera dai 200 arrivi ai 10.000 dollari.

Di software Steve Sacks ne spedisce abbastanza, ma egli stesso ci spiega che il mercato richiede preferibilmente installazioni, perché i compratori, comprese istituzioni e musei, preferiscono che il gallerista e l’artista diano loro gli strumenti più adatti per godere dell’opera. In effetti molte delle installazioni vendute dalla galleria Bitforms sono semplici opere

Attenzione però, non è che il software costi sempre così poco: Mark Amerika ha venduto il DVD di Filmtext a un collezionista privato per 10.000 dollari e il noto Guggenheim di New York ha acquistato un paio di anni fa due opere di net.art a 15.000$ ognuna: Net.flag e Unfolding Object.

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ginevrina Analix Forever. Perfino qui in Italia ne esiste una on-line, si chiama Graphola e vende stampe di opere digitali a prezzi molto concorrenziali (dai 150 ai 200 euro). Graphola ha una selezione di 100 artisti e a sentire il suo direttore vende soprattutto nell’ambito dell’interior design.

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C’è poi chi vende l’accesso ad un’opera on-line, è successo con Waiting Room di Mark Napier. Lo stesso artista rappresentato da Bitforms, afferma che “ il vendere installazioni è solo una metodologia intermedia, in attesa che i compratori comprendano il reale valore di un software”. Ci sono installazioni geniali nel mercato che contraddicono però questa teoria: dagli specchi di Daniel Rozin alle opere con i led di Jim Campbell. Queste sono opere che utilizzano le tecnologie digitali insieme ad altri materiali tradizionali ed i risultati possono variare dalle sculture interattive ai quadri in movimento.

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Vi sono poi dei “net.artist” che arrivano a vendere dei veri e propri feticci: oggetti che generalmente richiamano l’opera on-line, merchandising venduto come opera d’arte. Così mentre il marketing della new media art lavora in maniera sempre più consistente per vendere opere e sostenere i nuovi artisti, è necessario lavorare affinché i compratori siano più informati e arrivino a comprendere quali sono le opere che vale la pena acquistare.

Nel mondo dell’arte digitale una metodologia di vendita molto utilizzata è la stampa. Le opere, create con software scrittii appositamente dagli artisti o software per la grafica diffusi nel mercato, vengono stampate su tela o carta e vendute in diverse gallerie da Bitforms alla

Solo diffondendo la cultura dei new media potremo arrivare ad avere un mercato solido della new media art.

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www.graphola.com/ www.markamerika.com/filmtext/

www.jimcampbell.tv/

www.guggenheimcollection.org/site/ medium_works_Internet_Art_0.html

http://smoothware.com/danny/

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Interazione E Nuove Percezioni Motor

possiamo nemmeno affermare che il pubblico sia allergico alla creatività digitale, basta pensare a come vengono accolte le nuove meraviglie tecnologiche, specie dai più giovani. E qui di solito s’ode uno sdegnato: “Ma quella roba lì non è ARTE”. Alla presunzione quindi di sapere cosa sia l’arte, si aggiunge zitta zitta la presunzione di essere artisti, sia pure minori, sia pure misconosciuti. Forse perché manca l’esperienza del palco? Nel rock conta quanto si riesce a comunicare con il pubblico ma anche il dj alla consolle è bravo se comprende e guida gli umori del pubblico. Non dobbiamo però dimenticarci che la stessa musica che il dj suona è stata concepita e creata da altri, con lo stesso identico mezzo di molta altra arte digitale; un personal computer.

“I figure that the listener requires about half of what you think you require when you’re the creator,” dice Brian Eno. Spesso, scambiando opinioni nei festival, sii sento ripetere da artisti e da organizzatori che “l’arte digitale è per pochi”. I numeri delle manifestazioni (affluenze, libri o dvd specialistici venduti, licenze software ecc…) sembrerebbero confermare questa affermazione. Ma è completamente vero? Il digitale creativo è veramente per pochi? Ovviamente no. Il digitale oggi è parte integrante della cultura mainstream. Pensiamo a chat-line, cellulari, videogames, i film di soli effetti digitali, la cultura del remix, la televisione, i personal computer, la realtà virtuale dei vari Disneyworld, la cultura del gadget elettronico. Non

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La differenza quindi è che il prodotto artistico digitale nel primo caso viene testato con il pubblico dalla figura del dj, mentre nel secondo caso quello che viene giudicata è la teoria alle spalle del prodotto. Questo è il motivo di una generale incomprensione nei confronti dell’arte elettronica e uno dei motivi per cui è difficile trovare dei fondi per i tipici progetti di “arte digitale”. Non è forse un paradosso che le telecom cerchino in tutti i modi nuovi linguaggi e dei nuovi usi per il digitale, a scopo di lucro of course, e non ne trovino? Che i produttori di multimedia cerchino nuovi paradigmi (da vendere of course) e non ne trovino?

con successo un linguaggio estremamente complesso attraverso pochi salti evolutivi e infinite migliorie. Le Creative Commons pongono la questione, vedremo se saranno una delle soluzioni.

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Obbiettare che i prodotti artistici in questione sono troppo complessi per essere accessibili a tutti mi pare solo un torto verso chi gira film o crea videogame. Se poi l’accento viene posto sulla novità tecnologica, beh non stupiamoci se l’interesse dura solo fino al prossimo effetto speciale. Qui il problema è anche comunicativo (o meglio della cultura della comunicazione come direbbe Perniola).

Non è affatto contradditorio, come accade con i migliori artisti impegnati, fare politica e cultura alternativa nel digitale; è contradditorio e molto snob pensare di fare successo senza sporcarsi almeno un pochino. L’attuale scena digitale riflette perfettamente in scala ridotta la scena mainstream pop. Ci sono pochi innovatori (diciamo il 5% per cento?) e il resto imita. Non è strano: l’imitazione è una fortissima macchina culturale. La nostra stessa percezione empatica ha basi imitative: i neuroni copiano , emulano le emozioni viste. Imitare e perfezionare è sempre stata una strategia vincente dell’artigianato. Se stiamo elaborando dei nuovi linguaggi ha quindi molto senso usare e riusare l’esistente, anche i videogame hanno sviluppato

Quindi cosa possono fare i cosiddetti “artisti digitali”, sballottati tra crisi di snobbismo e senso di abbandono e marginalità, tra tecnologie che spesso travolgono per complessità e velocità? L’arte digitale è da intendersi come arte astratta dell’occhio, come codice

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algoritmico o come espressionistica dominanza del gesto, della mano, del caso o come terza via Baconiana? Quando il digitale si affida integralmente al concetto, al codice, allora si avvicina all’ astrattismo. Quando si affida alla interazione totale allora diventa espressionismo. La scommessa è nel cercare una terza via, con artigianale umiltĂ . Torniamo quindi alla percezione, a cosa accade dopo o attraverso l’interfaccia, dalla

parte della macchina, ma anche dalla parte del pubblico. Usiamo le tecnologie e le conoscenze per raggiungere il pubblico attraverso la sua percezione (o la sua manipolazione), non per scrivere dimostrazioni di teoremi sulla lavagna. Impariamo dal pubblico. Chiediamoci da dove nasca la vertigine di certe immagini o certi suoni generati nel digitale: dalla formula o da come vengono percepiti? Voto per la seconda e non mi curo della prima.

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Living Theatre, Fuck The Legend! Annamaria Monteverdi

scenografo ha incarnato l’urlo e la rivolta alla società capitalista e guerrafondaia con il suo teatro della crudeltà ispirato ad Artaud che toccava nel profondo la sensibilità dello spettatore. Teatro da cui scrutare impietosamente il mondo, teatro come diceva Beck, “migliorativo”, del cambiamento e della consapevolezza sociale. Secondo alcuni critici l’imponente personalità artistica di Beck, per la sua opera capitale e rivoluzionaria di distruzione della forma artistica tradizionale, sarebbe da paragonare a Vasilij Kandinskij. Ricordiamo alcuni dei capolavori con firma di Julian Beck e Judith Malina: The connection , la forza espressiva dell’iperrealismo, Antigone , manifesto del pacifismo e della disobbedienza nel Sessantotto, Mysteries, il “teatro libero” e Paradise now, la rivoluzione a teatro.

Judith Malina e Hanon Reznikov del Living Theatre hanno presentato al Politeama di Cascina (Pisa) il film Resist! di Dirk Szouszies e Karin Kaper sulla storia del rivoluzionario gruppo teatrale. A vent’anni esatti dalla morte di Julian Beck. Vent’anni fa, il 14 settembre 1985 moriva a New York Julian Beck, fondatore con Judith Malina del più famoso gruppo della neoavanguardia teatrale, il Living Theatre, il “teatro vivente” ancora in attività dopo cinquant’anni. Il suo messaggio anarco-pacifista ha rivoluzionato la scena mondiale diventando un punto di riferimento per la ricerca espressiva contemporanea. Julian Beck è stata una delle più straordinarie menti creative del Novecento, poeta e pittore, regista, interprete e

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accadimento attuale, qui e ora; teatro come processo interminabile . E in mezzo le “azioni” in strada: dal ciclo de L’eredità di Caino a Not in my name, naturali filiazione di Antigone e di Frankenstein che già presagivano l’uscita dalla struttura teatraleculturale borghese.

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Per tutti noi che abbiamo visto nel Living Theatre incarnarsi l’utopia concreta di un’antistoria, di una rivolta fatta di corpi e azioni che invadono le platee e le strade di New York o le fabbriche di Pittsburgh, la memoria è un dovere. Per celebrare la memoria di Beck, Judith Malina è arrivata in Italia con l’attuale marito e direttore della compagnia Hanon Reznikov per una breve tournèe; al Politeama di Cascina ha presentato Resist! un appassionato film girato in digitale e trasferito in 35 mm da un ex componente del gruppo, Dirk Szouszies (evento a cura del Politeama, Università di Pisa e Forum degli allievi della Scuola Normale Superiore di Pisa).

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Il film restituisce con grande efficacia la forza, l’impegno e la r–esistenza del gruppo a un mondo (e a un apparato artistico…) “frankensteiniano”, trasportandoci dentro i momenti cruciali della loro esistenza e nei luoghi del Living di oggi: la New York del Ground Zero e Rocchetta Ligure, dove Judith Malina e Hanon Reznikov discutono e progettano, insieme alla nuova generazione di artisti della compagnia, il prossimo lavoro la cui trama sarà per citare Malina la Rivoluzione.

Dall’aprile 2000 Szousies li ha seguiti in varie parti del mondo mentre il gruppo riallestiva Paradise now negli Stati Uniti, con una versione che musicava i famosi slogan, e mentre portava, con tutta la forza destabilizzante e ottimistica del loro messaggio antiviolento, l’ultimo spettacolo Resistence in Libano e a Genova durante l’anti G8. Sono questi i due momenti su cui si concentra l’attenzione di Dirk Szousies, dimostrando la forza di rottura e la continuità, ideale e concettuale, del lavoro del Living theatre, in perfetta coerenza con l’idea di Malina e Beck di un teatro come presenza nel mondo,

A Cascina abbiamo rivisto una brillante Judith Malina leggere come saluto al numeroso pubblico alcune

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delle sue poesie tratte dalla recente raccolta Love and Politics e ci siamo commossi a sentir raccontare il suo sogno, a ottant’anni compiuti, dell’apertura di un nuovo teatro a

Manhattan.

www.livingtheatre.org

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E’ Il Tempo Di Zimmerfrei Massimo Schiavoni

contemporaneamente anche difficile da assorbire e digerire all’istante; tempo e senso sono parole chiave nella vita di tutti i giorni ma possono anche entrare in conflitto d’interessi sul piano della percezione. Tempo e senso abitano lo stesso ambiente, la stessa anima, fino a quando però l’attività artistica non ci mette di fronte a una possibilità: quella dell’altro io, che ci predispone a essere aperti e consenzienti al nostro doppio quotidiano, a un altro tempo cioè in cui sono pregnati altri sensi.

“Non mi interessa creare “oggetti d’arte” nel campo dell’eccellenza, della bellezza, della novità, della meraviglia ma proporre tempo e senso: modi di ascoltare il tempo, luoghi per condividerlo, pratiche per esercitare i sensi, modi per rintracciare il proprio senso. Avere la possibilità di lavorare nel campo dell’arte è comunque un grande privilegio: si accede al diritto di espressione e di attenzione. C’è la possibilità di mettere in comunicazione tutta la sensibilità, il pensiero, la paura, la tensione, l’intuizione, l’energia con la propria attività. E’ come vivere il doppio e nel pieno di una collettività.”

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Con l’attività artistica del collettivo bolognese ZimmerFrei, formato tra l’altro da Anna Rispoli (regista teatrale e performer) e Massimo Carozzi (sound designer) andiamo al di fuori del tempo presente; come se il tempo non abbia una forma assoluta di

In queste poche righe la regista video e performer Anna de Manincor esprime un concetto chiaro ma

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manifestazione e misurazione. E lo si può riscontrare nella penultima istallazione performativa presente fino al 23 ottobre scorso presso l’attivissimo MAN, il Museo d’Arte Provincia di Nuoro e curata all’interno della collettiva video arte Modern Times dalla critica Maria Rosa Sossai, Panorama_Bologna in cui la città di Bologna viene ritratta letteralmente impressionando il tempo come una sorta di Grande Fratello per regalare alla città frammenti di vita quotidiana.

360° attorno alla quale il tempo e la luce scorrono velocissimi. Contro questo sfondo a lc uni indiv i d u i sembrano invece perdurare, e lasciano una traccia più vivida e definita, fino ad arrivare a moltiplicarsi nello stesso tempo presente e condiviso. Il set dura 12 ore e i cittadini, visitatori e transitanti della città di Bologna sono espressamente invitati a passare e sostare quanto più possibile in piazza del Nettuno, dove la videocamera-lancetta del tempo scorrerà senza interruzione, registrando e ritraendo ogni volto e ogni passo.

Si tratta di un video girato come un’unica e continua panoramica di

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materializza quindi il desiderio di incidere il proprio segmento di tempo, intensificandolo e affondandovi con forza, immaginando di non temere la morte. Tempo che fugge dunque, fragilità delle “cose” umane, presente dilatato e sensi moltiplicati.

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Il suo scorrimento può essere percepito in modo molto diverso da esistenze diverse che coesistono nello stesso istante: in piazza del Nettuno il Tempo procede lungo binari non paralleli e due videocamere puntate sullo stesso campo registrano due diversi presenti che scorrono con velocità e densità diverse. Il lavoro rappresenta una dimensione quasi immateriale, quella del pensiero e dell’immaginazione; il tempo non è mostrato come sequenza di intervalli cronologici e lo spettatore non osserva immagini che rievocano la propria esperienza, ma qualcosa di puramente visionario, più simile a un processo mentale.

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A novembre ZimmerFrei è impegnata in una residenza produttiva in Germania, divisa tra Francoforte e Berlino. La prima della versione tedesca della performance Quando è a Berlino giovedì 3 e venerdì 4 novembre prossimi, nell’ambito della rassegna di teatro italiano Italienisher Theaterherbst in Berlin presso la sede del Sophiensæle , per poi approdare giovedì 12 e venerdì 13 novembre al Festival plateaux – new positions in international performing arts presso la sede del Künstlerhaus Mousonturm – Studio und Cristallobar.

Più tempo si ha da spendere o da perdere più si lascia traccia di sé (se si riesce a sostare con tranquillità fino all’immobilità), perché la dilatazione del tempo delle riprese viene trasformata in intensità attraverso l’estrema accelerazione del tempo nel montaggio. Panorama_Bologna

Anche questa preformance realizza uno dei nostri più profondi desideri: accedere cioè a una dimensione

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temporale parallela in cui, nello stesso momento, i nostri corpi hanno altre vite e altri destini. Essa si svolge in diverse stanze adiacenti (stanze libere: zimmer frei) in cui i tre perfromer si raddoppiano e sono visibili contemporaneamente in più spazi. La loro presenza è moltiplicata anche dalla proiezione di diapositive a grandezza naturale, con le quali le azioni sono anticipate di pochi istanti ma consentendo però la moltiplicazione reale delle persone. A questo scopo il collettivo ha organizzato un casting e un laboratorio in Germania per cercare i loro sosia tedeschi (come li hanno trovati a Bologna, a Roma, a Genova e Bruxelles). In questo modo sfruttano al massimo le possibilità di visibilità e illusionismo degli spazi architettonici che gli vengono offerti, cercando di conoscersi a fondo, muovendosi identicamente ma conservando le loro assolute diversità di percorsi vitali, intenzioni, storie e destini.

“Spesso la gente dichiara di ricordare una vita passata; io dichiaro di ricordare una diversa, diversissima, vita presente”. È da questo pensiero dello scrittore di fantascienza Philip Dick – supportato dalle ipotesi scientifiche di Stephen Hawking e Paul Davies che muove la coinvolgente performance del collettivo bolognese che indaga su mondi semi-reali, abitati da persone gemelle, esseri che riproducono se stessi nella speranza distratta di permanere, sviluppando una forma di risonanza reciproca. I ricordi non riguardano il passato, bensì alludono ad un “altro” presente indicando un tempo parallelo. Suoni, corpi, proiezioni creano sdoppiamenti, sovrapposizioni, persistenze e slittamenti di figure, in un continuo biforcarsi di sentieri, che producono effetti di suggestiva ambiguità scenica. Wann? Wenn fa quindi parte del ciclo di performance che indaga il Tempo e i suoi piani laterali, tangenti e sovrapposti. Nello spettacolo convivono due diversi presenti prossimi e gli interpreti di ZimmerFrei sono presenti in carne e ossa in entrambi, ma in vite separate e diverse. La continua trasformazione del futuro in passato rende infatti impossibile definire il presente, nel quale, del resto, noi viviamo. Quando dunque? Quanto dura il presente ? E dove si trova? Non sappiamo da dove

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veniamo né dove stiamo andando: è adesso che il tempo ci incalza e ci manca. Di quante vite avremmo bisogno per vivere pienamente? E se stessimo vivendo contemporaneamente anche altre esistenze, in altri luoghi? Non lontano, ci sono le nostre altre vite, separate solo da cunicoli di tempo: non buchi neri di anti-materia, ma corridoi bianchi tra vite parallele o piccoli episodi di neghentropia in cui la stasi o l’inversione temporale sono possibili.

La performance approda quindi in terra tedesca proseguendo la sua ricerca del doppio, del döppelganger, dell’ “altro me”. Così, la concezione vettoriale della storia entra in crisi, e il tempo diventa una zona.

www.museoman.it www.sophiensaele.com www.mousonturm.de www.plateaux.info

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Klee As Software Domenico Quaranta

omaggio. Non solo un album da leggere, ma anche un album da riempire; non un insieme di disegni, ma di software per disegnare. Scritto in Java, Mobility Agents raccoglie infatti tre strumenti da disegno, a loro volta sviluppati in diverse varianti: l’Hatch Tool, il Rake Tool e lo Spin Tool.

Quando si fa il primo segno / la pagina non è più vuota. / La simmetria si rompe / e il disegno prende vita.” Con queste parole, John F. Simon, Jr. apre Mobility Agents. A Computational Sketchbook, da poco pubblicato da Printed Matter, Inc. in collaborazione con il Whitney Museum of American Art in un elegante CD-ROM con booklet allegato (un assaggio lo si può trovare nell’ultima Gate Page di Arport, la collezione online del Whitney).

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La riflessione di Simon si concentra sugli elementari del disegno, vale a dire punto, linea e superficie, e sulla capacità che il software ha di automatizzare una serie di processi complessi, impliciti nell’attività del disegnatore. Ciò significa che in Mobility Agents non troveremo gli strumenti e gli effetti comuni agli altri programmi di grafica, di norma orientati al fotorealismo, ma nemmeno la loro sovversione

Come suggerisce il sottotitolo, si tratta di un album di schizzi, ma “computational”: quindi, non una semplice successione di appunti e disegni, come poteva essere il Pedagogisches SkizzenBuch pubblicato da Paul Klee nel 1925, e a cui Mobility Agents rende esplicito

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polemica, alla Auto-Illustrator.

lavoro viene letto come un archivio di potenzialità che attendevano solo di essere attivate in un ambiente fluido: il che fa di Simon, in un certo senso, l’ultimo erede della tradizione del Bauhaus, e di Mobility Agents la ciliegina su una torta che comprende L’arte del colore di Itten, i testi di Kandinsky e di Klee, gli appunti di Albers e Moholy-Nagy.

Simon si limita a conferire varie opzioni di complessità alla semplice operazione di tracciare una linea: una serie di opzioni limitate, ma che aprono a possibilità di sperimentazione e di combinazione praticamente infinite. Per esempio, l’Hatch Tool visualizza in modi diversi, attraverso delle linee che intersecano la linea principale, la velocità e la direzione del gesto; il Rake Tool rende multipla la linea tracciata, intervenendo poi su questo fascio di linee con vari parametri; e nello Spin Tool, lo strumento di disegno non è un semplice punto, ma un’asticella che ruota attorno al suo asse. Ma questa descrizione non rende affatto merito alla complessità del progetto di John Simon.

È uno strumento per disegnare, la tavolozza che Simon ha messo a punto per se stesso e con cui ha realizzato le sue opere, e che ora ci permette di utilizzare; ma è soprattutto un’opera di Software Art, il risultato di una riflessione ventennale sul disegno e sul software, un esercizio di scrittura creativa (nel senso di scrittura che crea, dotata dell’enorme “potere di fare quello che dice”). Ed è, infine, uno straordinario diario di bordo, che ci accompagna attraverso tutto il percorso di John Simon e, con lui, attraverso vent’anni di sperimentazione con il software.

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Mobility Agents è infatti ben lontano dall’essere semplicemente un tool per disegnatori in erba. E’, innanzitutto, un accorato omaggio a Paul Klee, il cui

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Un percorso che, per Simon, inizia nel 1989, e che registra il passaggio dal software al servizio della figurazione (e della ripetizione di vecchi processi) al codice come soggetto della ricerca e fulcro del lavoro; da quel capolavoro di spersonalizzazione e automazione che è Every Icon – un lavoro che dovrebbe registrare tutte le possibilità figurative implicite in una griglia di 32 x 32 quadratini, e che si risolve in un processo che sfiora l’eternità senza restituirci, almeno per qualche secolo, la soddisfazione di un’immagine leggibile – alla rivelazione che il lavoro creativo di un artista nasce dalle scelte che compie all’interno di questo “catalogo di possibilità”; dalle stampe, che fissano il dinamismo del processo nell’immobilità del disegno, alle sculture di schermi dei tardi anni

Novanta, che mantengono in vita questo dinamismo; dall’interattività alla contemplazione di un processo dinamico ma concluso. In altre parole, traccia una storia della sperimentazione recente con i media, attraverso la vicenda emblematica di uno dei suoi assoluti protagonisti: una storia fatta di entusiasmi, soprassalti, scoperte e delusioni, ma soprattutto di esperimenti. Provare per credere.

www.numeral.com/souvenirs/mobilit yagents/mobilityagents.html www.numeral.com/ http://artport.whitney.org/ www.auto-illustrator.com/

Mobility Agents

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Generative X, Tra Arte E Codice Fabio Franchino

alcuni ambiti chiave, ovvero estetica generativa, design basato sul processo, software performativi e in ultimo strumenti costruiti da artisti per artisti. In particolare sono presenti due sezioni principali denominate ‘Code as Material’ e ‘Code as Method’. Nella prima fanno parte artisti che usano il codice innanzitutto come primaria forma espressiva, che hanno concepito e sviluppato algoritmi per ottenere una personalissima espressione nel risultato. Nella seconda sono presenti invece artisti che hanno in qualche modo teorizzato concettualmente la pratica generativa o costruito software per artisti.

Marius Watz, attivo come artista dai primi anni novanta, ha recentemente organizzato Generative X , un meeting di conferenze ed esibizioni concentrate sul computational design, tenutosi ad Oslo a fine settembre. L’evento è di particolare rilievo poiché risulta il primo concentrato in questo ambito, vantando tra i suoi partecipanti alcuni fra i nomi più importanti del panorama computazionale, quali Casey Reas, Ben Fry, Martin Wattenberg, Golan Levin, per citarne alcuni. Il tema del festival è anch’esso molto interessante poiché pone una domanda fondamentale: qual’è l’attuale ruolo dei software e delle strategie generative nell’arte e nel design? Il festival viene visto come un ‘framework’ nel quale si distinguono

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In un intervista rilasciata da Watz, emergono alcuni punti interessanti sul

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suo punto di vista che mi sento di condividere, che in parte rispondono a questo quesito. In generale l’accezione Arte Generativa viene vista come una corrente stilistica di produzione di immagini tendenzialmente astratte.

si sono occupati anche di generativeart. Tuttavia ci sono delle differenze concettuali a livello di framework, ovvero a livello di stimolo iniziale, diciamo filosofico. Nella software-art spesso gli stimoli per concepire un opera sono di carattere politico e sociale, dove ironia, demagogia e satira sono all’ordine del giorno, senza dimenticare che molti artisti che si riconocono in questa corrente espressiva spesso fanno parte del movimento Open-Source, il quale è per definizione schierato politicalmente e socialmente.

In realtà è più corretto immaginarla come una strategia per una pratica artistica, un modo di pensare ed agire per concepire e realizzare un opera artistica. Questa linea è confermata anche dall’attività di pionieri dell’era pre-computer, per i quali si può sicuramente attribuire un’affinità nel processo produttivo, mentre viene meno una comparazione stilistica o formale. Un altro aspetto interessante riguarda inoltre la separazione fra lavori e artisti facenti parte dell’arte generativa e quelli facenti parte della software-art.

Nella generative-art invece gli artisti si focalizzano principalmente su sistemi estetici e formali, dove il software è semplicemente uno strumento per creare il lavoro. La software-art per certi versi emula, dissacra e gioca con le regole del sistema in cui viviamo, mentre la generative-art è un po’ fuori dal nostro mondo a livello di responsabilità sociale, puntando ad una ricerca formale ed estetica dell’opera d’arte che probabilmente solo con il codice non sarebbe possibile ottenere.

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In effetti il confine alle volte è piuttosto labile, e spesso e volentieri artisti che si occupano di software-art,

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considerazione da parte degli organi preposti a diffondere ed incentivare cultura innovativa. Per non parlare di tutto il sistema dei mercanti d’arte.

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Generatorx mette quindi un punto fermo fondamentale all’interno della biografia dell’arte generativa e della software-art. È chiaro quanto i tempi siano maturi per il successivo passo nel mercato e in un contesto commerciale, inteso come maggiore possibilità per gli artisti meritevoli di sperimentare in questo campo, ed è altrettanto chiara la scarsa

www.generatorx.no www.unlekker.net www.evolutionzone.com

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Techne 05, La Poetica Del Confine Miriam Petruzzelli

schermo”. Forse un caso e forse no se si pensa all’importanza del “visibile” nella nostra cultura come ha pure testimoniato il Festival Filosofia di quest’anno; di fatto una scelta dagli esiti a tratti incerti che in parte disattende i tecnoentusiasti e di contro si attesta su posizioni consolidate e spesso discutibili.

L’arte che sceglie le nuove tecnologie, l’innovazione tecnologica che diventa innovazione linguistica trova il suo spazio d’elezione in uno degli eventi più attesi di questo autunno milanese: Techne 05, mostra internazionale promossa dalla Provincia di Milano con cadenza biennale giunta alla sua terza edizione che, dal 1999, raccoglie alcune fra le esperienze artistiche più raffinate e mature di questo campo.

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La tecnologia non è qui una presenza indiscreta, invasiva, ma si presenta quale assunto consolidato del fare artistico. Curata da Romano Fattorossi, storico promotore anche di Invideo, in collaborazione con il settore cultura della Provincia di Milano, Technè si apre, o si chiude a seconda, con un bel lavoro di Studio Azzurro allestito all’ingresso dello spazio: premono, spingono, cadono, si rialzano e ci riprovano, i naufraghi

Tuttavia, se la prima edizione proponeva un viaggio nel mondo delle videoistallazioni, tra opere classiche e sperimentazioni di ultima generazione e la seconda si concentrava sull’interattività in Italia, l’edizione 2005 si propone di indagare i rapporti tra l’immagine video, analogica o digitale, e le sue possibilità “oltre lo

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della nostra contemporaneità, a superare quel confine invisibile eppure invalicabile.

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A Mario Canali il cambio di registro con M.OTU, installazione interattiva ispirata al tradizionale sport giapponese del Sumo. Costretti ad assumere la tipica posizione dei corpulenti lottatori, si siede l’uno di fronte all’altro, le mani tese sul tavolo di gioco con al centro un monitor sul quale è visualizzata l’area di gara. I contendenti, rappresentati da due pedine, si studiano per sfidarsi a colpi di emotività attraverso il rilevamento di battito cardiaco e microsudorazione cutanea. Vince chi riesce a far uscire l’avversario dal dohyo, mantenendo la calma mentre una proiezione consente al pubblico di seguire sullo schermo l’andamento emotivo dell’incontro.

Nata a cavallo tra due millenni quest’opera induce ancora a riflettere sui confini che si disfano, ma ancor di più su quelli che continuamente si spostano e si creano. Il percorso è però tutto centrato sull’installazione video di Bill Viola, ormai celeberrimo artista statunitense, fortemente voluto dall’organizzazione della rassegna milanese. Ingente lo sforzo per l’allestimento dello spazio curato nei minimi dettagli secondo le precise indicazioni dell’artista che presenta, per la prima volta in Italia, Ascension. Inquieta rappresentazione dell’eterno ciclo di vita e morte i cui confini sembrano dissolversi come le bolle d’aria fluttuanti intorno al corpo sospeso e inerte in una luce di caravaggesca memoria, l’opera occupa il posto d’onore della galleria, immersa come in un acquario in cui lo spettatore pure sente mancarsi il fiato nelle profondità di acque sconosciute.

Un gioco appassionante, frutto della lunga ricerca dell’artista sulle Macchine per l’inconscio, incluso nella retrospettiva che gli sarà dedicata dal 17 marzo al 14 maggio presso l’Arengario di Monza. Da quest’anno infatti Techne estende i suoi confini al territorio della provincia oltre che della città, in sette ambientazioni eccellenti: lo Spazio Oberdan, cinque tra i Centri culturali stranieri (Centro Culturale Svizzero, Forum Austriaco di cultura, Istituto Cervantes, le centre culturel français), l’Hangar Pirelli che ospiterà il Tableau vivant Flute

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Magique di Gabriele Amadori (24, 25, 26 febbraio 2006) e l’Arengario di Monza. Sette ambientazioni per quattordici artisti dalle due sponde dell’Atlantico. Dagli autori affermati alle nuove espressioni, non molte in verità, dall’Italia, soprattutto da Milano, e dall’estero: sedici opere tra cui Demolition di Luiz Duva in cui ancora una volta è il confine il tema dominante. La videoinstallazione interattiva consente infatti al visitatore di colpire una parete bianca proiettata su una parete reale schiacciando una serie di bottoni fino alla totale distruzione dell’immagine che lascia intuire la presenza di qualcosa al di là. Un lavoro di grande forza e ironia.

danzatrici si muovono a ritmi diversi secondo la vicinanza maggiore o minore dei visitatori ai monitor. Su un piano decisamente altro Spoon River di Alessandro Amaducci. Il videomaker torinese racconta incubi allucinati carichi di rimandi e suggestioni dando voce ai personaggi dell’antologia di Edgar Lee Masters. Parla europeo infine il lavoro di Antonella Bussanich che senza filtri chiede ai giovani di dire con una parola “il mondo di oggi”. Il risultato niente affatto ottimistico, è una giostra di volti e di parole in testa alle quali c’è “guerra”. Con un catalogo curato da Antonio Caronia, uno degli studiosi più attenti dei fenomeni che riguardano l’impatto sociale e culturale delle nuove tecnologie, Techne fa già discutere, ma manca forse di testimoniare con forza quel pullulare di idee che l’era del digitale continua a generare. Qualche speranza viene dal ciclo di incontri dal titolo L’arte nell’era della riproducibilità digitale organizzato in concomitanza con la rassegna presso lo Spazio Oberdan a cura di Antonio Caronia, Enrico Livraghi e Simona Pezzano. Prossimo appuntamento, lunedì 7 novembre per un incontro con Andrea Balzola su “linguaggi ed estetiche nell’era del digitale”.

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Del confine parla pure Terry Flaxton, cineasta inglese, che propone un’irriverente banchetto virtuale con finale a sorpresa per chi sa aspettare. Un’interattività delicata e discreta anima Phases, installazione del gruppo milanese Agon, in cui le

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Dara Friedman, Sunset Island Monica Ponzini

Debra Singer, che ha firmato la cocuratela della scorsa Whitney Biennal.

Creata da Woody e Steina Vasulka nel 1971 come collettivo artistico e spazio privilegiato per sperimentazioni legate al video e alla musica d’avanguardia, The Kitchen, a New York, rimane uno degli hot spots della sperimentazione artistica contemporanea. La sua programmazione spazia dal multimediale alla performance, dai concerti alle lectures, offrendo un variegato panorama delle nuove tendenze. Negli anni, il centro ha ospitato artisti del calibro di Vito Acconci, Gary Hill, Kiki Smith, oltre a quelli che ora sono membri del consiglio direttivo: Laurie Anderson, Philip Glass, e Meredith Monk, tra gli altri.

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Nel settembre-ottobre di quest’anno The Kitchen ha presentato l’ultimo lavoro di Dara Friedman, un’installazione video a due canali dal titolo Sunset Island, a cura di Ali Subotnick (co-curatrice assieme a Maurizio Cattelan e Massimiliano Gioni della quarta Biennale di Berlino). Un uomo e una donna, giovani ma non giovanissimi, belli di una bellezza stereotipata (macho italiano lui, divetta da telenovela brasiliana lei), si muovono in due spazi simili ma separati, ponendosi in contemporanea una sfilza di domande che vanno dall’esistenziale al frivolo. “Che cosa ne sarà di noi? Siamo soli? Assomigli a mia madre? Che cos’è questo odore?…”. Le parole si

Dall’anno scorso la direzione del centro è stata affidata ad una delle più interessanti curatrici del momento,

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rincorrono da uno schermo all’altro, da un ambiente all’altro, senza creare una connessione logica e senza costruire alcuna interazione tra i due protagonisti, che sembrano avere come unico, reale interlocutore la videocamera.

Sunset Island

Dara Friedman (1961), si è formata artisticamente fra la Germania, suo paese natale, e gli Stati Uniti, sua attuale residenza: nei suoi lavori si stratificano uno strutturalismo di base, che la porta ad usare sequenze ripetitive e sincronizzate, senza eccedere in purismi, e l’influenza dello show system americano. In particolare la ripetizione (video e audio) è un tratto fondamentale della sua produzione: da una parte, ha dichiarato la stessa artista, sentir parlare una persona può rivelare più cose di lei che non guardarne l’immagine; dall’altra la ripetizione porta in sé un’antinomia di fondo, dato che può sottolineare un messaggio o fargli perdere d’importanza, affievolendolo nella quantità.

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In Dara Friedman aggiunge al sistema-ripetizione un forte senso di innaturalità: dal titolo del video, che richiama una delle zone più esclusive di Miami, agli interni pieni di mobilia a fiori o color crema, passando per la bellezza standardizzata, artefatta dei due protagonisti, che potrebbero avere avuto una relazione tra loro, oppure potrebbero semplicemente aver letto un copione, recitato una parte i cui stralci (o magari solo le prove generali) sono a disposizione di chiunque abbia voglia di fermarsi ad osservarli. E se fossero semplicemente le cavie di un esperimento sociologico?

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