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alle buone prassi
Saggi e pareri Saggi e pareri pareri saggi e Per una pianificazione condivisa delle cure: dai principi alle buone prassi
Sommario: 1. L’art. 5 della l. n. 219/2017: uno sguardo d’insieme. – 2. Testo e contesti dell’art. 5. – 3. Il ruolo del «fiduciario»: possibili configurazioni. – 4. Regole di capacità e forme per la pianificazione. – 5. Quali «modalità organizzative» per una adeguata pianificazione condivisa di cure?
Abstract: L’art. 5 della legge 219/17 introduce la pianificazione condivisa delle cure che si presenta come strumento apparentemente innovativo nell’ordinamento giuridico. Il consenso di cui all’art. 5 è un consenso “progressivo” o “bifasico” che inizia con un paziente in grado di interagire in maniera consapevole con i curanti e che potrà operare anche in una fase successiva quando il paziente non sarà più consapevole per sopravvenute condizioni di incapacità legate alla patologia. Alla luce di queste premesse, le autrici si propongono di evidenziare i problemi tecnico-giuridici che presenta l’istituto della pianificazione condivisa, collegandoli alle potenzialità applicative dello stesso nei diversi contesti clinici. Si prende ad esempio la specifica esperienza attuativa dell’azienda ospedaliera di Padova per proporre una più generale riflessione sulla possibilità di dare attuazione all’art. 5 in modo da rendere la “pianificazione condivisa delle cure” strumento di attuazione dei principi della l. n. 219/2017, ed, in particolare, di “promozione e valorizzazione” della “relazione di cura e fiducia” tra il paziente (e le persone che questi desidera coinvolgere) ed il medico (nonché l’équipe e gli altri professionisti sanitari che si trovino ad interagire con il paziente).
Article 5 of Law 219/17 introduces shared treatment planning which is presented as an apparently innovative tool in the legal system. The consent referred to in art. 5 is a “progressive” or “biphasic” consent that begins, in fact, with a patient who is able to interact consciously with the carers and that will operate even when the patient will no longer be able to interact due to incapacitated conditions pathology. In light of these premises, the authors propose to highlight the technical and legal problems that the institute of shared planning presents, linking them to its potential application in different clinical contexts. The authors take as example the specific experience of implementation in the hospital of Padua to propose a more general reflection on the possibility of implementing the “shared planning of care” of art. 5, an instrument to implement the principles of Law n. 219/2017, and, in particular, an instrument of “promotion and enhancement” of the “relationship of care and trust” between the patient (and the people he wishes to involve) and the doctor (as well as the team and other healthcare professionals who interact with the patient).
La l. n. 219/2017 introduce all’art. 5 uno strumento apparentemente “innovativo” nell’ordinamento giuridico. La «pianificazione condivisa delle cure» compare, infatti, per la prima volta in un testo normativo 1 ; a ben guardare, ci si accorge che si tratta di un modus operandi da tempo diffuso nelle migliori prassi cliniche, con particolare (ma non esclusivo) riguardo alla programmazione terapeutica per pazienti affetti da gravi malattie degenerative a prognosi infausta 2 .
1 Di «vera norma nuova della legge» parla Busnell i, Premesse, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, in questa Rivista, 2019, 6.
2 Uno strumento per molti versi analogo è l’advance care planning (ACP) operativo a livello internazionale ed utilizzato nei contesti di malattia progressiva in previsione di peggioramento e con lo scopo di definire un piano d’azione rispettoso dei desideri del paziente nella prospettiva che egli perda la capacità di autodeterminarsi. Sul punto a titolo esemplificativo: Mull ick, Martin, Libby, A introduction to advance care planning in practice, in British Medical Journal, 2013, 347, f6064. Nel contesto interno, di particolare rilievo è il “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura, Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative?, promosso dalla Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianim azione e Terapia Intensiva (S.I.A.A.R.T.I.), ed approvato nel corso del 2013 da 9 società scientifiche, consultabile all’indirizzo: www.siaarti.it. Nel documento non solo si utilizza una terminologia simile a quella accolta dal legislatore – «Processo condiviso di Advance Care Planning (ACP)» – ma se ne propone nel glossario una definizione, che sembra interessante riportare: «Ci si riferisce con questa locuzione alle pratiche di condivisione anticipata del piano di cure. La scelta terminologica è dettata, per un verso, dalla necessità di fare riferimento alla letteratura e alle numerose esperienze internazionali. D’altro canto, posto che non esiste ancora, né nella normativa né nella letteratura del nostro paese, una terminologia consolidata, si è ritenuto di inserire il sostantivo “processo” seguito dall’aggettivo “condiviso” per due essenziali motivi. L’accento sulla condivisione del processo decisionale, senza nulla togliere al ruolo propulsivo dei professionisti sanitari, è anzitutto una forte garanzia per evitare che il paziente sia sottoposto a trattamenti sproporzionati in eccesso; in secondo luogo, è strumento di garanzia che il paziente sia sottoposto a trattamenti che lui stesso ha considerato proporzionati, contro il pericolo che le scelte del team curante siano guidate da sole esigenze di efficienza e razionalizzazione della spesa sanitaria». Per considerazioni più specifiche sulla scelta terminologica si vedano anche le considerazioni contenute nella parte III
La pianificazione condivisa delle cure si presenta, in questo senso, come una particolare specie di consenso “progressivo” 3 . Sembra, dunque, che la fattispecie tipizzata dal legislatore all’art. 5 della l. n. 219/2017, quella della «patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta» 4 , altro non sia che l’ipotesi in cui si rende più di frequente necessaria una programmazione protratta nel tempo. Secondo questa lettura, l’art. 5 costituisce la specificazione di un più generale principio desumibile dall’intero impianto normativo 5 , e già espressamente indicato dal legislatore pure nella l. n. 38/2010 (richiamata dal 1° comma dell’art. 2, l. n. 219/2017) rispetto all’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore appropriate; si tratta della necessità per le strutture sanitarie di assicurare un «programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia» 6 . Il principio
del documento (sugli aspetti etici e giuridici), al par. 5 sulla «pianificazione condivisa».
3 V. Società Italiana di Cure Pall iative (S.I.C.P.), Informazione e consenso progressivo in cure palliative: un processo evolutivo condiviso, Raccomandazioni della SICP, Milano, 2015, consultabile all’indirizzo: www.sicp.it.
4 Questo ha portato qualche autore a disquisire dei requisiti richiesti per l’attivazione dello strumento ed a proporne un’interpretazione restrittiva. Cfr., ad esempio, La Russ a et al., Consenso informato e DAT (disposizioni anticipate di trattamento): momento legislativo innovativo nella storia del biodiritto in Italia, in Resp. civ. prev., 2018, 353 ss.
5 Sulla necessità di considerare la programmazione condivisa delle cure come “stile” fondante il processo di comunicazione e condivisione reciproca di informazioni ed obiettivi che caratterizza ogni relazione di cura e fiducia, al di là della disciplina specifica dell’istituto di cui all’art. 5, l. n. 219/2017, v. Benciolini, Art. 5 “Pianificazione condivisa delle cure”, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, 65; Casonato, La pianificazione condivisa delle cure come paradigma di tutela delle persone malate, in Riv. it. med. leg., 2018, 947 ss.; Gorass ini, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento nella dimensione della c.d. vulnerabilità esistenziale, in Annali SISDIC, 2018; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 249.
6 V. sul punto per tutti Busnell i, Le cure palliative, in Diritto alla salute e alla “vita buona” nel confine tra il vivere e il morire, a cura di Stradell a, Pisa, 2011, 187 ss., ora anche in Persona e famiglia. Scritti di Francesco D. Busnelli, Pisa, 2017, 251 ss. ed Orsi, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, a cura di Barba e Pagliantini, Torino,
è, più in generale, implicito nella l. n. 219/2017 anche per le ordinarie ipotesi di consenso “attuale” (artt. 1 e 2), per le decisioni che riguardano i pazienti privi in tutto o in parte della possibilità di esprimere autonomamente un valido consenso, in quanto minori di età o in condizione di “incapacità” (art. 3), e per quelle, residuali, di consenso “ricostruito” (art. 4) 7 . La specifica disciplina introdotta dall’art. 5 sembra essere correlata alle particolari caratteristiche del rapporto di cura. L’istituto di cui all’art. 5 è destinato ad operare quando si prevede che il rapporto di cura sarà “bifasico”: la pianificazione condivisa inizia, infatti, con un paziente capace di interagire direttamente con il personale sanitario (“fase I”), ma è destinata ad operare anche quando il paziente perderà tale possibilità (“fase II”). È interessante notare, in proposito, come la «condizione di non poter esprimere il proprio consenso» è avvicinata a quella in cui il paziente si trovi in «una condizione di incapacità» (da leggersi, in coerenza con l’art. 4, 1° comma come «di autodeterminarsi»). Il dato normativo è ampio e permette di comprendere tutti i casi in cui venga a mancare la capacità «di prendere decisioni libere e consapevoli» 8 ; ne esce, inoltre, rafforzata la tesi
2009, sub art. 2, l. 22.12.2017, n. 219, 1506 ss.
7 V. sul punto Orsi, Un cambiamento radicale nella relazione di cura, quasi una rivoluzione (articolo 1, commi 2 e 3), in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2018, 25 ss. e Piccinni, Modalità e forme del consenso, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., spec. 67 ss. Per qualche spunto sulle “norme specchio” in ambito biogiuridico, v. Zatti, Piccinni, La faccia nascosta delle norme: dall’equiparazione del convivente una disciplina delle DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1283 ss. e, più di recente, Olivero, Tra ombre e specchi: brevi riflessioni sui commi 39, 40, 41 della legge Cirinnà, ivi, 2019, II, 347 ss.
8 Per utilizzare il linguaggio introdotto dalla Consulta rispetto al diverso problema della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (v. Corte cost., (ord). 16.11.2018, n. 207). Diversamente, non sembra opportuno comprendere nella «condizione di non poter esprimere il proprio consenso» i casi in cui il paziente sia impossibilitato a causa di un ostacolo meramente fattuale. La conseguenza, che non pare auspicabile, sarebbe l’estromissione del paziente dalle scelte, mentre finché il paziente conserva le proprie facoltà intellettive è necessario preservare e
qui proposta secondo la quale lo strumento de quo risponde all’esigenza di poter programmare potenzialmente tutte 9 le situazioni in cui il paziente, dapprima in grado di interloquire direttamente con il personale curante, si trovi in una condizione di incapacità. Alla luce di queste premesse, le autrici si propongono di evidenziare i problemi tecnico-giuridici che presenta l’istituto della pianificazione condivisa, collegandoli alle potenzialità applicative dello stesso nei diversi contesti clinici. Si prende ad esempio la specifica esperienza attuativa dell’azienda ospedaliera di Padova per proporre una più generale riflessione sulla possibilità di dare attuazione all’art. 5 in modo da rendere la “pianificazione condivisa delle cure” strumento di attuazione dei principi della l. n. 219/2017, ed, in particolare, di “promozione e valorizzazione” della “relazione di cura e fiducia” tra il paziente (e le persone che questi desidera coinvolgere) ed il medico (nonché l’équipe e gli altri professionisti sanitari che si trovino ad interagire con il paziente).
2. Testo e contesti dell’art. 5
Il testo normativo indica che la pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico riguarda l’evolversi delle conseguenze di una patologia «cronica e invalidante» o «caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta».
promuovere la relazione di cura e fiducia con il personale curante, ed il problema sarà semmai quello di garantire mezzi di comunicazione adeguati alle condizioni fisiche del paziente. D’altro canto, proprio perché il principio della pianificazione condivisa riguarda anche il consenso attuale di cui all’art. 1, il paziente capace di autodeterminarsi può in ogni momento del percorso terapeutico esercitare i diritti di cui all’art. 1, comma 3°, e, di conseguenza, rifiutare di ricevere ulteriori informazioni e/o indicare la persona di fiducia incaricata di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece.
9 Salvo il rispetto di eventuali diverse esigenze del paziente. Si rinvia sul punto a Piccinni, Il problema della sostituzione nelle decisioni di fine vita, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 219.
È facile comprendere che cosa si intenda per patologia «cronica»; più indefinito è l’aggettivo «invalidante», che non caratterizza alcun grado di invalidità; in particolare, il termine non definisce natura ed entità dell’invalidità che devono costituire condizione preliminare per la redazione della pianificazione condivisa. Si possono ipotizzare, infatti, vari gradi di invalidità: da quelli che limitano solo alcune funzioni dell’organismo a quelli che compromettono pressoché totalmente l’autonomia della persona. Anche la locuzione «prognosi infausta» è piuttosto generica: non è precisato se si tratti di prognosi infausta quoad vitam o quoad valetudinem. Le due condizioni si prestano, pertanto, ad interpretazioni diversificate. Se, d’altro canto, si conviene sul fatto che l’art. 5 altro non è che la concretizzazione del più generale principio del consenso progressivo, sembra opportuna un’interpretazione che estenda l’ambito di applicazione della disciplina a tutti i casi in cui vi è un rapporto di cura “bifasico”: una relazione, come si è ricordato, che ha inizio con un paziente capace di interagire direttamente con il personale sanitario, e che si prevede che evolva verso una fase in cui il paziente si troverà nella «condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità» (così il 1° comma dell’art. 5). Prendendo ad esempio l’esperienza maturata nell’ambito dell’attività di consulenza medico-legale svolta presso l’azienda ospedaliera di Padova dall’entrata in vigore della legge al mese di gennaio 2020, i casi in cui si è proceduto a pianificazione condivisa delle cure hanno riguardato a) pazienti con patologie gravemente invalidanti con prognosi infausta a medio-breve termine quoad vitam in persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e, più in generale, da malattie neurodegenerative dei motoneuroni; b) la programmazione di interventi chirurgici su pazienti appartenenti alla congregazione religiosa dei Testimoni di Geova che richiedevano di non essere sottoposti a trasfusioni ematiche anche qualora queste si fossero rese necessarie per salvaguardare la loro salute e la loro vita in fase operatoria o postoperatoria; c) pazienti affetti da patologia neoplastica. Lo strumento della pianificazione condivisa con nomina di fiduciario è stato utilizzato in svariate circostanze che, prima dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017, avrebbero richiesto l’attivazione della procedura per la nomina di amministrazione di sostegno 10 . La peculiare configurazione del rapporto di cura ne condizione la disciplina normativa. In particolare, nella “fase I” del rapporto è necessario il rispetto di tutti i principi e regole che si riferiscono al coinvolgimento del paziente in condizione di partecipare direttamente alla definizione del programma terapeutico che lo riguarda e di avere un ruolo propulsivo nella concretizzazione dei propri diritti (ed interessi). Il 1° comma dell’art. 5 non specifica quale sia il medico che procede alla stesura della pianificazione condivisa delle cure, cosicché è da ritenere che si tratti di qualsivoglia medico con il quale il paziente realizzi una relazione di cura. Può trattarsi di medico di medicina generale, di medico ospedaliero in corso di ricovero, di medico specialista, anche operante a titolo libero professionale, solo a titolo di esempio. Per poter procedere ad una pianificazione condivisa delle cure è necessario che il paziente, nonché le persone che egli stesso sceglie di coinvolgere nella pianificazione, siano adeguatamente informati. L’obbligo informativo è, da un lato, di carattere generale circa le «condizioni di salute» della persona «riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati,
10 Per fare un esempio tratto dai più recenti casi affrontati in sede giurisprudenziale, ci si può riferire a quello all’origine della vicenda su cui si è pronunciata Cass., (ord.) 15.5.2019, n. 12998, consultabile all’indirizzo: www.personaedanno. it. Il caso riguarda un paziente appartenente ai testimoni di Geova, con malformazione artero-venosa, patologia che comporta «emorragie continue con conseguente “instaurarsi di shock emorragico con rapida perdita della coscienza e compromissione delle funzioni vitali”, e con gravi difficoltà nell’eloquio». Prima dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017, l’interessato era ricorso al g.t. per la nomina della moglie come amministratrice di sostegno, con compiti attestativi della sua contrarietà ad eventuali trasfusioni di sangue che si rendessero necessarie in un momento in cui il paziente non fosse in grado di esprimersi. Oggi sarebbe senz’altro indicato procedere con l’applicazione dell’art. 5, l. n. 219/2017.
nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi» (art. 1, 3° comma); dall’altro, di carattere particolare «sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative» (art. 5, 2° comma). L’informazione necessaria per una adeguata pianificazione delle cure non può che essere affidata al professionista sanitario con cui sussiste la relazione di cura. La disposizione non indica neppure quali siano il professionista e/o l’équipe vincolati da quanto indicato nella pianificazione condivisa delle cure. È però evidente che è di estrema importanza, per l’attuazione dei diritti richiamati all’art. 1 della legge, che siano attivate procedure operative che prevedano il coordinamento all’interno delle stesse strutture sanitarie e tra le diverse strutture operanti sul territorio. Da un lato, deve essere garantito al paziente che la pianificazione delle cure condivisa con un medico sia operativa nei confronti di tutti i professionisti sanitari con i quali avrà occasione di incontrarsi nel decorso della sua malattia; dall’altro, i professionisti sanitari devono essere messi in condizione di poter essere tempestivamente informati dell’esistenza e dei contenuti della stessa. È in vista della “fase II” del rapporto – quella in cui sarà necessario prendere decisioni senza potere (più) coinvolgere il diretto interessato e ci si dovrà affidare a quanto precedentemente concordato – che il legislatore prevede i particolari requisiti di forma di cui al 4° comma (su cui v. infra, par. 4), nonché la possibilità di esprimere i «propri intendimenti per il futuro, compresa l’indicazione di un fiduciario». È utile, in proposito, sottolineare la differenza di ruolo tra «familiari», «parte dell’unione civile», «convivente» e, più in generale la «persona di fiducia» che il paziente «desideri» coinvolgere nel programma di cura e la figura (più specifica) del «fiduciario». La prima figura, cui può riassuntivamente riferirsi come “persona di fiducia” – richiamata dal 2° comma dell’art. 5 e che coincide con quella indicata ai commi 2° e 3° dell’art. 1 – deve essere coinvolta dal personale sanitario, nei limiti indicati dal paziente, mentre questi ancora conserva la sua autonomia decisionale. La seconda, il “fiduciario” – che compare al 3° comma dell’art. 5 e coincide con l’istituto disciplinato all’art. 4 – è destinata ad operare nella seconda fase del rapporto di cura e può rivestire un ruolo fondamentale sia per l’eventuale raccordo tra diversi contesti ospedalieri che per vigilare sull’attuazione della programmazione condivisa da parte del personale sanitario in modo conforme agli intendimenti ed all’interesse del paziente. Nel caso della pianificazione condivisa di cura è probabile che “persona di fiducia” e “fiduciario” coincidano, ma il soggetto, o i soggetti, da coinvolgere nella fase in cui si concorda il programma terapeutico potrebbero anche non corrispondere a quello incaricato di «fare le veci» del paziente nel momento successivo al suo stato di incapacità.
Con riferimento specifico al ruolo del «fiduciario» nell’ambito della pianificazione condivisa di cure è utile riflettere su un paio di aspetti che si sono rilevati cruciali già nella prima esperienza attuativa dello strumento. Ci si riferisce, in particolare, a) alle modalità di coinvolgimento del fiduciario nella fase di condivisione del piano terapeutico ed in quella attuativa, quando il paziente non sia più in grado di interloquire con il personale sanitario; e b) alle diverse possibili configurazioni del ruolo del fiduciario ed all’onere per il paziente di fare chiarezza su questo aspetto nella fase di stesura del programma terapeutico. Posto il compito propulsivo che la legge individua in capo alle strutture sanitarie – pubbliche o private che siano – rispetto alla «piena e corretta attuazione dei principi» della l. n. 219/2017, alla trasmissione dell’«informazione necessaria ai pazienti» (accanto all’adeguata formazione del personale), nonché all’adozione di relative adeguate
«modalità organizzative» 11 , è auspicabile che ogni struttura sanitaria attivi procedure operative che possano facilitare medici, pazienti e persone a questi vicine a predisporre pianificazioni condivise di cure, che si rilevino adeguate a raggiungere l’obiettivo di interpretare al meglio i bisogni e gli interessi del paziente, nel rispetto delle sue volontà, intendimenti e, più nel complesso, della sua personalità 12 . a) Anzitutto, il fiduciario potrebbe astrattamente non essere coinvolto nella fase di “condivisione” del piano terapeutico; sembra peraltro opportuno, sempre che vi sia il consenso del paziente, che il fiduciario sia presente all’attività connessa alla stesura del documento di pianificazione condivisa delle cure e che ne riceva una copia 13 .
11 Cfr. l’art. 1, 9° comma, e, in generale, sul punto Benciolini, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, cit., sub art. 1, l. 22.12.2017, n. 219, 1493 ss. e Busatta, ivi, sub art. 8, l. 22.12.2017, n. 219, 1638.
12 Di una più generale «necessaria interazione tra regole di disciplina dell’attività dei singoli (espressione peraltro di puntuali principi) e regole organizzative del contesto entro il quale la stessa vive ed è operante (ossia all’interno del sistema socio-sanitario)» parla Di Rosa, La relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 29.
13 Per alcune considerazioni sul punto, a partire da un emendamento, comparso nella discussione del d.d.l. n. 989/2018, di conversione del d.l. n. 135/2018 in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e la p.a., poi stralciato, che prevedeva l’aggiunta di un frettoloso 1° comma bis all’art. 6, l. n. 219/2017 ed escludeva che il fiduciario potesse avere accesso alla DAT, v. Fortino, Interventi estemporanei in materia di Dat: errori tecnici e violazione di principi costituzionali, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 138 e Olivero, Che fine hanno fatto i familiari? (Antidoti per un emendamento), ibidem, 139 ss. V. sul punto anche Mantovani, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, cit., sub art. 6, l. 22.12.2017, n. 219, 1622 ss. La situazione è ora normativamente definita nel D.M. Salute, 10.12.2019, n. 168, Regolamento concernente la banca dati nazionale destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento il quale opportunamente precisa all’art. 1, comma 2°, tra gli obiettivi della “Banca dati nazionale” quello «di assicurare la piena accessibilità delle [DAT] sia da parte del medico che ha in cura il paziente, allorché per questi sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi, sia da parte del disponente sia da parte del fiduciario dal medesimo nominato» e prevede la conseguente disciplina per la raccolta, il tempestivo aggiornamento e l’accesso.
In questo modo, si facilita la possibilità di valorizzarne il ruolo nella seconda fase del rapporto di cura. La relazione tra curanti e fiduciario non può che essere, infatti, di cooperazione rispetto al perseguimento del comune obiettivo di rispettare il programma terapeutico concordato con il paziente. Il personale sanitario può, dunque, sollecitare la consulenza/confronto con il fiduciario tutte le volte in cui accada che il contenuto della pianificazione non sia chiaro al medico rispetto alla situazione contingente; il fiduciario può, dal canto suo, suggerire l’interpretazione che lui ritiene corretta, in base alle sue conoscenze circa la concezione di vita e le aspirazioni del paziente, ogni qual volta gli sembri che l’attuazione del piano terapeutico si discosti dagli obiettivi condivisi. b) Un aspetto giuridicamente controverso 14 riguarda la possibile ampiezza dei poteri attribuibili al fiduciario. L’interpretazione che sembra più aderente alla ratio della l. n. 219/2017 ed all’importante ruolo ivi rivestito dalla “fiducia” non solo tra medico e paziente, ma anche tra paziente e persona da questa scelta per interloquire con i curanti, è quella che lascia al paziente la possibilità di delineare ambito e limiti dei poteri attribuiti al fiduciario. Si ritiene pertanto che il paziente possa attribuire al fiduciario una funzione meramente “attestativa” o anche “integrativa” o del tutto “creativa” rispetto alla volontà espressa dall’interessato. D’altro canto, la vaghezza del testo normativo sul punto e l’importanza delle conseguenze dell’intervento del fiduciario consigliano di prevenire i dubbi interpretativi sulla portata dei poteri dello stesso nel momento in cui si dovrà dare attuazione alla volontà del paziente. Questo obiettivo può essere perseguito curando la fase di definizione della pianificazione condivisa in modo che sia specificato e documentato con chiarezza il ruolo
14 V. però sul punto le considerazioni di Zatti, Brevi note sull’interpretazione della legge n. 219 del 2017, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 5 ss. Per un approfondimento della questione si rinvia per tutti a Mantovani, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, cit., sub art. 4, l. 22.12.2017, n. 219, 1566 ss.
che il paziente attribuisce al fiduciario da lui nominato. Si tratta di definire, infatti, se il fiduciario debba solo riportare la volontà del paziente rispetto ad un percorso già del tutto delineato dandogli voce nel momento in cui egli non sia più in grado di esprimere autonomamente la propria volontà (ruolo meramente attestativo/nunciativo) o se il fiduciario possa concordare con il medico di discostarsi dalla pianificazione ed in quali precise circostanze, specialmente qualora si tratti di circostanze non espressamente contemplate nella pianificazione condivisa in quanto non distintamente prevedibili oppure, ancorché prevedibili, talmente remote rispetto alla possibilità di un loro verificarsi da non essere oggetto di analitica prospettazione preventiva. A nostro avviso, il fiduciario può esercitare il potere di assumere decisioni sostituendosi al paziente (in funzione integrativa o del tutto creativa rispetto alla manifestazione di volontà o preferenze attuata da parte del paziente) solo quando questa indicazione venga chiaramente esplicitata dal paziente stesso. È chiaro che se il fiduciario, legittimato dal paziente a partecipare alla determinazione delle scelte in ambito sanitario, dovesse assumere decisioni proprie, palesemente incongrue e non rispettose dell’interesse del paziente, che ne determinino un peggioramento della condizione clinica o, addirittura, la morte, il medico si verrebbe a trovare in conflitto con il fiduciario e dovrebbe procedere, nelle situazioni di emergenza o di urgenza, ai sensi dell’art. 1, comma 7°, ad assicurare le “cure necessarie”, ed, in tutti gli altri casi, o non appena le circostanze lo consentano, ai sensi del 5° comma dell’art. 3, ricorrendo al giudice tutelare. Riteniamo utile richiamare in via esemplificativa un particolare scenario che si è presentato con una certa frequenza nelle prime esperienze di medicina legale clinica presso l’Azienda ospedaliera di Padova, che riguarda il problema delle trasfusioni ematiche nel caso di pazienti Testimoni di Geova. Pensiamo che una breve ricognizione delle varie ipotesi che possono configurarsi in questa situazione possa meglio chiarire la portata del problema anche a livello più generale 15 . Dall’entrata in vigore dalla l. n. 219/2017 al mese di gennaio 2020, si è proposto ai pazienti Testimoni di Geova, affetti da quadri patologici per i quali era stata posta indicazione chirurgica, di pianificare congiuntamente con il medico chirurgo, l’anestesista e gli altri professionisti coinvolti nell’assistenza peri e post-operatoria, la gestione di eventuali complicanze comportanti la necessità di utilizzare trasfusioni ematiche 16 . L’esigenza era sentita sia dai pazienti, che cercavano rassicurazioni circa il fatto che l’intervento sarebbe stato eseguito senza ricorrere all’emotrasfusione, sia dai professionisti che, per taluni casi, valutavano eccessivamente rischioso effettuare un intervento in presenza di questa limitazione. L’esperienza si è rilevata particolarmente significativa: solo una minima parte dei pazienti ha “semplicemente” ribadito il rifiuto espresso prima dell’incontro e manifestato la volontà di non nominare alcun fiduciario ritenendo sufficiente ed esaustiva la sua dichiarazione sul punto; nella
15 Il caso proposto può apparire distante rispetto alla formulazione letterale dell’art. 5. Si è, sin dal par. 1, giustificata la scelta di una interpretazione del disposto normativo che includa tutti i casi in cui sia prevedibile una “struttura bifasica” della relazione terapeutica. È utile precisare che non tutte le ipotesi di interventi chirurgici “programmati” richiedono una pianificazione condivisa delle cure; questa, peraltro, sembra necessaria ogni qual volta, già in fase di prospettazione dell’intervento chirurgico, si rilevino variabili e criticità prevedibili che possono verificarsi sia in corso di intervento sia nel post-operatorio, in una condizione di incoscienza del paziente. Per i testimoni di Geova i problemi sono connessi alla richiesta del paziente di non essere trasfuso; anche in altri casi di interventi chirurgici complessi (si pensi, per fare un altro esempio, a quelli che richiedono una ventilazione assistita anche nel post-operatorio e in cui il paziente viene mantenuto sedato) la pianificazione condivisa di cure può divenire opportuna.
16 Riferiamo, in questa sede, della casistica rappresentata da oltre sessanta pazienti Testimoni di Geova, adulti, con età compresa prevalentemente nella quinta decade, distribuiti pressoché uniformemente tra maschi e femmine, per oltre due terzi coniugati con persona appartenente alla medesima fede il cui consorte è stato nominato fiduciario. Non riportiamo le vicende cliniche relative ai pazienti minorenni, che pongono peculiari problemi che non è nostra intenzione discutere in questa sede.
maggioranza dei casi, invece, l’incontro ha comportato una modifica della posizione originaria o nel modulare diversamente il rifiuto, o nel riconsiderare il progetto terapeutico iniziale e si è concluso con l’indicazione della nomina del fiduciario, nonché con la definizione del ruolo che il paziente intendeva attribuirgli. Ne è emerso un panorama non uniforme: alcuni pazienti hanno espresso la volontà che il fiduciario fosse interpellato al verificarsi di condizioni tali da rendere necessaria la trasfusione per ribadire, in sua vece, ai curanti il rifiuto alla trasfusione e, nel contempo, hanno precisato che il fiduciario avrebbe dovuto essere consultato per condividere con i curanti diverse opzioni terapeutiche; altri pazienti hanno espresso il desiderio che fosse il fiduciario, insieme ai curanti, ad assumere le decisioni in caso di sua incapacità, sia per rifiutare sia anche, eventualmente, per accettare la trasfusione ritenendo che la persona indicata, in quanto di fiducia, avrebbe saputo comunque ben interpretare il suo interesse. Questa posizione, in cui il paziente assegna ampia libertà di scegliere, se trasfondere o meno, al fiduciario, è stata assunta sia in presenza di fiduciario appartenente alla stessa fede dei testimoni di Geova, sia, in un caso, di fiduciario non testimone di Geova. Il colloquio con l’èquipe dei curanti prima dell’intervento si è rivelato determinante anche per chiarire le modalità e la stessa persistenza dell’indicazione chirurgica. In alcuni casi, quando l’indicazione era finalizzata alla correzione di situazioni patologiche potenzialmente aggredibili anche con approccio alternativo non chirurgico, posti sul piano di valutazione i benefici attesi e i rischi correlati ad un intervento bloodless, il bilanciamento ha fatto prevalere la scelta di rinunciare all’intervento. In talune altre situazioni, in particolare quando l’indicazione chirurgica rappresentava l’unica possibilità di evitare una rapida evoluzione verso il decesso, i curanti hanno deciso di intervenire anche nella consapevolezza del rischio elevato di un intervento bloodless, modificando quando possibile l’approccio chirurgico preventivato. Particolarmente significativo in tal senso il caso di una giovane donna di 22 anni cardiopatica che, dopo ampia illustrazione da parte dei cardiochirurghi che l’avevano in cura della situazione clinica che la riguardava, ha scelto di essere operata con un approccio sternotomico invece che con quello così detto mini-invasivo, mediante mini-toracotomia sottoascellare destra, inizialmente proposto. A parità di efficacia terapeutica della correzione del difetto cardiaco, l’incisione sottoascellare avrebbe comportato esiti pressoché nulli sotto il profilo estetico e un tempo di guarigione della ferita più breve rispetto alla sternotomia mediana; l’approccio mediante sternotomia, però, avrebbe garantito una migliore visualizzazione del campo operatorio e, quindi, un miglior riconoscimento delle strutture cardio-vascolari, con possibilità di miglior controllo intra-operatorio in caso di eventuali complicanze emorragiche e questa peculiarità ha indotto la giovane paziente a preferirlo. Interessante anche riportare che circa la metà dei pazienti compresi nella casistica in questione avevano prodotto ai medici curanti, un documento di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Si trattava di un documento sostanzialmente per tutti sovrapponibile e costituito da un modulo prestampato che riportava, oltre alle generalità, la disposizione, tassativa, di non essere sottoposto a trasfusione neppure qualora gli operatori sanitari la ritenessero necessaria per salvaguardare la vita. Rispetto alla mera indicazione di rifiuto presente nel documento di DAT, per molti di questi pazienti la condivisione con l’èquipe e la definizione di una pianificazione condivisa, ha consentito di delineare una traiettoria della cura ben più articolata delle DAT e più aderente al sentire della persona malata e rispettosa della sua volontà.
La disciplina introdotta dall’art. 5 pone problemi attuativi rispetto ad altre due questioni di particolare rilievo, quali il problema della capacità richiesta e quello delle modalità e forme previste per la pianificazione. a) I requisiti di capacità. L’art. 5 non regola espressamente il problema della “capacità” richiesta per predisporre una pianificazione condivisa delle cure.
Il testo normativo contiene un riferimento alla «incapacità» al diverso fine di individuare il momento in cui sorge l’obbligo, per il medico e l’équipe sanitaria, di attenersi alle decisioni programmate. Deve, anzitutto, sgombrarsi il campo da un possibile equivoco. Il 5° comma dell’art. 5 dispone che «[p]er quanto riguarda gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 4». Si potrebbe, di conseguenza, pensare che le regole in materia di capacità possano direttamente evincersi dal 1° comma dell’art. 4. Deve però notarsi come le regole previste dall’art. 4 in materia di DAT non possano trovare automatica applicazione al caso della pianificazione condivisa delle cure. La situazione oggetto della disciplina e, in particolare, la più volte richiamata struttura bifasica della relazione di cura, portano a ritenere implicita una clausola di compatibilità di quelle disposizioni con l’istituto regolato all’art. 5 17 . Nella fase del rapporto che precede la condizione di “incapacità”, il paziente è capace di interagire direttamente con il personale sanitario, e trovano applicazione (almeno limitatamente a questo arco temporale) le regole indicate all’art. 1. Si pone, dunque, il problema di coordinare le regole di capacità previste per la prestazione di consenso/dissenso attuale alle cure (artt. 1, 5° comma e 3) con quelle previste per le disposizioni anticipate, destinate a valere pro futuro (art. 4, 1° comma). Di tale distinzione tiene conto anche la formulazione dell’art. 5, 3° comma che differenzia l’espressione del consenso “attuale” al piano terapeutico «proposto dal medico» rispetto agli «intendimenti per il futuro» del paziente. Se si accoglie l’interpretazione secondo la quale le regole di capacità introdotte agli artt. 1 e 4, nonostante l’apparente divergenza letterale («ogni persona capace di agire» vs. «ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere»), sono equivalenti, il problema teorico si risolve nel senso che è sufficiente che il paziente sia maggiorenne ed in una condizione di “capacità di agire”: non sia, cioè, sottoposto a misure di protezione limitative della capacità di partecipare alle decisioni sanitarie e non si trovi in una condizione di palese incapacità di fatto 18 . Sono senz’altro escluse dall’applicazione diretta dell’art. 5 le persone minori di età e coloro che si trovano in una condizione di incapacità di agire. La scelta normativa, che potrebbe sembrare non giustificata, sembra comunque ridimensionata sul piano degli effetti pratici, se si ritiene che il principio della programmazione condivisa delle cure abbia una portata più generale, che deve valere, dunque, anche per il minore e per la persona in condizione di incapacità di agire, pur nelle diverse modalità previste all’art. 3. Resta aperto il problema pratico delle modalità e dei criteri per l’accertamento dei requisiti della capacità del paziente di partecipare alla pianificazione delle proprie cure. La legge non affronta espressamente il problema, anche se si possono indicare alcuni punti di riferimento normativi. Una prima indicazione discende dalla disciplina generale della capacità di agire: la persona maggiore di età, per la quale non vi siano provvedimenti giudiziari limitativi della capacità di prendere decisioni sanitarie, beneficia di una presunzione di “competenza” all’attività giuridica. Di conseguenza, il paziente «capace di agire» deve essere considerato dai professionisti sanitari come interlocutore principale nella relazione di cura e fiducia, sia ai fini di una informazione «completa, aggiornata» ed espressa in termini comprensibili sulle proprie condizioni di salute, e sui diversi scenari possibili rispetto alle cure, all’efficacia delle stesse ed ai rischi legati alle scelte, sia in vista dell’espressione del proprio consenso o dissenso alle cure proposte, che, infine, nella più ampia individuazione del percorso di cura e dei soggetti da includervi, su indicazione del paziente.
18 Sul problema v. Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, spec. 262 ss.
Dalla complessiva disciplina di cui agli artt. 1, 3, 4 e 5 della l. n. 219/2017 si possono, poi, trarre almeno un paio di indicazioni che riguardano, più nello specifico, il problema della capacità di partecipare alle scelte sulla propria salute. Anzitutto, la presunzione di capacità opera fino al momento in cui, nell’ambito del rapporto di cura, non emergano gravi elementi che portino il medico a dubitare della capacità di agire del paziente e ad un conseguente accertamento della sua capacità di discernimento. In secondo luogo, nel caso in cui, a seguito degli accertamenti, emerga che il paziente ha una capacità solo parziale di interagire con il personale sanitario, vi sarà il dovere di coinvolgere il paziente «in modo consono alle sue capacità» per essere messo nelle condizioni di partecipare alle decisioni che lo riguardano (v. art. 3, 1° comma). In assenza di indicazioni normative più precise, nel caso in cui emergano dubbi sulla capacità del paziente, il compito del relativo accertamento non può che spettare al curante e deve essere svolto nell’ambito della relazione di cura e fiducia. Il professionista potrà, dunque, fare affidamento sullo stato dell’arte e sugli strumenti elaborati con riferimento alle diverse fasi della vita e ad eventuali specifiche menomazioni delle capacità decisionali per valutare, con riferimento agli specifici compiti, se il paziente possa essere suo valido interlocutore. Se si ammette che il concetto di capacità in ambito medico è funzionale al tipo di decisione da assumere, inoltre, anche con riferimento specifico alla pianificazione condivisa, si potrà valutare il paziente in grado di compiere alcune scelte e non altre. Solo per fare un esempio: per un paziente di età avanzata, con una malattia di Alzheimer in corso, la capacità richiesta per indicare come persona di sua fiducia e fiduciario un familiare con cui vi sia una lunga ed affettuosa comunione di vita (ad esempio il coniuge non separato o il convivente di fatto) potrà essere inferiore a quella richiesta per acconsentire a, o per rifiutare un, intervento terapeutico poco invasivo che i curanti considerino adeguato rispetto ad obiettivi terapeutici conseguibili e auspicabili per un paziente in quelle specifiche condizioni di vita e di malattia 19 . Ove si realizzi una situazione consimile, è opportuno verbalizzare in cartella clinica che il paziente ha nominato come proprio fiduciario il coniuge – risultando il paziente capace di compiere questa scelta e fornire questa indicazione – e dare atto in cartella che le decisioni relative alla terapia da attuarsi sono state discusse e condivise con il fiduciario nominato dal paziente. Più in generale, è opportuno che il personale sanitario documenti in modo adeguato la condizione di capacità del paziente nella prima fase, in modo che non sorgano dubbi nella seconda fase del rapporto 20 . Analogamente, e nonostante il silenzio della legge, è necessario che sia documentato in modo adeguato il verificarsi del momento, successivo, in cui la persona non sia più in grado di interagire direttamente con il personale sanitario e si entri, dunque, nella seconda fase del rapporto, sempre in costanza dello stesso. b) Modalità e requisiti formali. Quanto alle regole concernenti la forma da utilizzare per esprimere, documentare e rendere conoscibili le proprie manifestazioni di volontà nell’ambito della pianificazione condivisa, l’art. 5, 4° comma prevede che il consenso e l’indicazione del fiduciario siano espressi in forma scritta o «nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso video-registrazione o dispositivi che
19 V. sul punto ad esempio, il documento su Nutrizione ed idratazione artificiale nella persona affetta da demenza: riflessioni etiche per un corretto impiego, approvato dal Comitato etico per la pratica clinica, ed adottate con delibera 28.6.2018, n. 557, del Direttore generale della Ulss 6 Euganea, Regione del Veneto, 21 s. Cfr. anche Lenti, Ai confini della cura. I ruoli di protezione, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 120.
20 Sugli oneri di prova della capacità a carico del personale sanitario e del paziente nel più generale contesto della l. n. 219/2017, v. già Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità”, cit., 263 ss.; per un caso pratico, Aprile, Ai confini della cura. I ruoli di protezione, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 115.
consentano alla persona con disabilità di comunicare» 21 . La ratio sottesa alla previsione di requisiti formali più ristretti rispetto a quelli previsti dall’art. 1 sembra rinvenirsi nell’idoneità a valere per il futuro in un tempo in cui la persona non potrà più modificare le proprie volontà. La forma è richiesta ai fini della validità e può essere particolarmente utile, anche nella prospettiva del paziente, a garantire l’efficacia della pianificazione condivisa di cure 22 . Un discorso a sé va fatto per l’«aggiornamento», inteso come adeguamento al mutare dei fatti, e per la «revoca», intesa come ripensamento. Il legislatore prende in considerazione espressa solo il primo (v. art. 5, 4° comma, ultima parte). Anche per aggiornamento e revoca debbono valere i requisiti di forma al limitato fine di poter fare riferimento alla pianificazione condivisa delle cure quando la persona non è più in grado di interloquire (con applicazione, ex art. 5, 5° comma, dell’ultima parte dell’art. 4, 6° comma per eventuali ripensamenti in condizioni di emergenza o urgenza). Diversamente, finché la persona conservi la propria capacità, potrà applicarsi il principio della libertà delle forme ex art. 1, l. n. 219/2017 per l’espressione della propria volontà attuale 23 . La legge richiede, infine, l’«inserimento» «nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». La cartella clinica e, dove presente, il fascicolo sanitario elettronico, si confermano così come documenti destinati alla rappresentazione in forma scritta non solo dei rilievi di carattere sanitario in senso stretto della persona ricoverata, ma anche degli aspetti relazionali e dei dati di carattere progettuale sulla medesima. Essi sono la sede in cui inserire il verbale originale dell’incontro che ha dato luogo alla pianificazione condivisa. Nel verbale è opportuno indicare le modalità con le quali si è pervenuti a definire il percorso che il paziente condivide rispetto alle proposte di intervento diagnostico o terapeutico formulate dal medico in rapporto all’evoluzione della patologia. Qualora la pianificazione venga definita con medico curante al di fuori dell’ambiente ospedaliero 24 il documento attestante la stessa sarà trattenuto nell’archivio del professionista verbalizzante. Posto il fine della norma, la mancata o inesatta registrazione delle informazioni sul processo di pianificazione e del percorso concordato nella cartella clinica non incide sull’esistenza e validità del consenso, né sulla possibilità di farlo valere nei confronti di terzi estranei al rapporto di cura 25 ; si tratta, peraltro, di un obbligo di natura anche pubblicistica, per il medico e per la struttura sanitaria di appartenenza, il cui mancato adempimento ha conseguenze potenzialmente pregiudizievoli per il paziente. Questi potrà ottenere l’accesso ai dati che lo riguardano, chiederne, eventualmente, la registrazione, rettifica o integrazione ed, in caso di difformità o diniego ingiustificato, agire in sede amministrativa o giudiziale 26 .
21 Nell’esperienza maturata fino al mese di gennaio 2020 nell’ambito dell’Azienda ospedaliera di Padova per la verbalizzazione della volontà del paziente si è sempre utilizzata la forma scritta, in quando la verbalizzazione è stata curata dal medico responsabile della pianificazione delle cure e si è riservato al paziente “solamente” il compito di sottoscrivere con la propria firma la veridicità del contenuto della stessa. Questo ha reso possibile l’utilizzo della forma scritta anche per patologie gravemente invalidanti.
22 V. in proposito anche le considerazioni di Gaudino, DAT e pianificazione condivisa delle cure, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 65 e Busatta, Ai confini della cura. Limite e pianificazione condivisa, ibidem, 88 s.
24 V. sul punto Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 249.
25 La natura giuridica della cartella clinica (ed ora del fascicolo sanitario elettronico) è di particolare complessità. Si vedano per tutti le riflessioni ancora attuali poste da Buzzi, La cartella clinica: atto pubblico, scrittura privata o tertium genus? in Riv. it. med. leg, 1997, 1161 ss.
26 Il problema, che investe diversi profili di natura pubblicistica e privatistica (inclusa la normativa sul trattamento dei dati personali) può essere solo accennato in questa sede. Si vedano sul punto ex multis Corso, Sul trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario: l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali, in questa Rivista, 2019, 225 ss.; Guarda, I dati sanitari, in I dati personali nel diritto europeo (a cura di Cuff aro, D’Orazio, Ricciuto), Torino, 2019, 591 ss.; Id., Fascicolo Sanitario Elettronico e protezione dei dati personali, Trento, 2011; Peignè, Il fascicolo sanitario
È, poi, buona prassi, come già ricordato, che una copia di detto verbale sia consegnata al paziente e, ove nominato, al fiduciario o, in mancanza di quest’ultimo, ad una persona di fiducia indicata dal paziente. I familiari e le persone di fiducia coinvolte dal paziente dovrebbero essere istruiti circa l’approccio al paziente, qualora a domicilio si verificasse una delle condizioni rispetto alle quali il paziente ha espresso la sua volontà; sembra opportuno che anche di questo si faccia menzione nel verbale di pianificazione condivisa di cura, e che lo stesso sia sottoscritto da tutti i presenti.
Come già ricordato, per «garantire la piena e corretta attuazione» dell’istituto della pianificazione condivisa delle cure è necessario che ciascuna struttura individui procedure operative che facilitino la possibilità per i pazienti di conoscere ed esercitare i propri diritti e, per i curanti, intesi come singoli professionisti e come équipe, di rispondere in modo adeguato ai bisogni dei pazienti 27 . Non è realistico, e forse nemmeno auspicabile, pensare che tali procedure siano standardizzate, ma sarebbe opportuno che vi fosse un confronto tra realtà organizzative. Le procedure dovrebbero essere per lo meno facilmente conoscibili sia per permetterne l’accesso al paziente, che per agevolare un coordinamento tempestivo tra le diverse strutture che dovessero avere in carico il paziente. Anche sulla base delle prime esperienze applicative non riteniamo opportuna la predisposizione
elettronico, verso una trasparenza sanitaria della persona, in Riv. it. med. leg., 2011, 1520 ss.; Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, ivi, 2015, 1419 ss.
27 Sul punto v. le più generali considerazioni di Zam peretti, Giannini, La formazione del personale sanitario (commento all’articolo 1, commi 9 e 10), in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, 36 ss.; nonché Zam peretti, Progetto di vita e percorsi di cura, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 23 ss.
di modulistica prestampata, in quanto i contenuti della pianificazione condivisa differiscono molto di caso in caso. Potrebbe essere utile, invece, tanto per il personale sanitario quanto per i pazienti e per i loro familiari, nonché per le persone indicate come fiduciari, una sorta di check list con i passaggi tendenziali da compiere nella pianificazione delle cure 28 , in grado di indirizzare circa la tempistica di attivazione, i soggetti coinvolti, ed i possibili contenuti. Quanto alla tempistica: un tempo giusto per l’avvio della pianificazione condivisa di cure non esiste in astratto e va valutato di volta in volta in base alla patologia ed ai bisogni del singolo paziente. La stessa verbalizzazione costituisce il momento finale di un processo che ha una durata dipendente dalle necessità del paziente. Così, per espressa indicazione normativa, una volta definito il piano, questo può essere aggiornato al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico. Quanto ai soggetti della pianificazione: accanto a quelli necessari, che sono il paziente ed i professionisti sanitari a vario titolo implicati nel processo diagnostico-terapeutico, devono partecipare agli incontri ed essere adeguatamente coinvolti anche i familiari e/o le persone che il paziente desidera avere accanto, nonché la persona eventualmente indicata come fiduciario. È bene che nella fase documentale si dia atto di tutti i soggetti che hanno partecipato alla programmazione, e si precisi quali saranno i poteri del fiduciario (v. supra, par. 3). Quanto ai contenuti, come già precisato nel testo, vanno indicati con chiarezza: a- le modalità con cui si è giunti alla pianificazione condivisa di cure (chi ne ha chiesto l’attivazione e quali le motivazioni; contesto e data degli incontri; soggetti partecipanti); b- le caratteristiche della patologia che affligge il paziente con l’indicazione delle ca
28 Per un’articolata riflessione sulle modalità operative cui attenersi per garantire un adeguato funzionamento nella pratica clinica dell’istituto della pianificazione condivisa delle cure si rimanda a Rodriguez, Aprile, La “pianificazione condivisa delle cure”. Una novità che coglie impreparati sia medici che pazienti, in Quotidianosanità.it, Studi e Analisi, 6.4.2018.
ratteristiche evolutive della stessa; c- i contenuti dell’informazione fornita al paziente ed il parere dei professionisti sanitari presenti (e dei profes- sionisti che, qualora impossibilitati ad intervenire, abbiano comunicato il loro parere) circa l’evolu- zione della patologia e le proposte di intervento da loro ritenute opportune, inclusa l’attestazione del paziente di aver ricevuto e recepito le infor- mazioni relative alle risorse terapeutiche disponi- bili per la sua patologia; d- i desideri, le neces- sità, le opzioni sulle proposte dei professionisti espressi dal paziente nonché l’attestazione delle volontà del paziente, di accettazione o rifiuto, rispetto ai trattamenti suggeriti in relazione alle situazioni cliniche prospettabili in funzione del- le caratteristiche evolutive della patologia; e- nel caso di paziente con capacità di interagire ridotta, la precisazione delle modalità con cui lo stesso è stato coinvolto; f- l’indicazione del fiduciario eventualmente nominato con la precisazione del ruolo che il paziente intende affidargli, nonché l’accettazione dell’incarico. Tenuto conto della peculiarità della materia, per la predisposizione di procedure applicative po- trebbe essere opportuno valersi del contributo dello specialista medico-legale operante nelle aziende sanitarie, sia nel momento formativo di carattere generale rivolto agli operatori, sia nella fase applicativa dei casi che dovessero risultare di più complessa valutazione. Questa figura pro- fessionale è già incaricata, in molte realtà ospe- daliere, di condividere con i professionisti sani- tari impegnati nella cura, i problemi relativi alla verifica del consenso e dell’adeguatezza dell’in- formazione fornita, alla effettiva consapevolezza del paziente nell’accettare o rifiutare la proposta diagnostica terapeutica, al ruolo dei congiunti, ecc., nell’esercizio di quella peculiare espressione operativa della medicina legale che è la “medicina legale clinica” 29 .
29 Si fa riferimento, in particolare, all’esperienza del Servizio di Medicina Legale presso l’Azienda Ospedaliera di Pado- va che ha consentito di identificare, anche sotto il profilo dottrinale, questa particolare connotazione operativa della Medicina Legale (v. Benciolini, La “medicina legale clinica”, (editoriale), in Riv. it. med. leg., 2005, 452).