Vimercate Arte 2015

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Marzo 2015

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Sommario Must, il museo del territorio che racconta la storia del Vimercatese................................................. 4 Gianfilippo Usellini e le tracce della sua arte metafisica in città....................................... 8 Agostino Bonalumi. Con Fontana, Manzoni e Castellani ha cambiato il modo di intendere l’arte............................................ 11

In copertina, il chiostro del convento dei Frati Cappuccini di Oreno. Sopra, una delle sale del Museo Must di Vimercate

Gian Giacomo Caprotti da Oreno................................... 13 Il Convento dei Frati Cappuccini di Oreno....................... 15

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“Ville di delizia”: le oasi estive delle famiglie aristocratiche milanesi................................................. 18

Redazione: Associazione Autori Grafica: Giancarlo Favaro Foto: Museo Must Vimercate, Giornale di Vimercate, Giancarlo Favaro

Il ponte di San Rocco: la porta della città......................... 20

Stampa: Reggiani Spa Brezzo di Bedero (Va)

Le chiese della città: un patrimonio artistico da conservare............................................................ 21

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MUST il museo del terr Percorso espositivo Il mito delle origini (prima sala)

La prima sala è intitolata “Il mito delle origini”. Narra l'incontro tra le popolazioni locali e la civiltà romana. Vi sono esposti reperti archeologici provenienti dalle necropoli locali, due are dedicata a Giove (I secolo d.C.) e una serie di monete databili tra il II secolo a.C. e il III secolo d.C.

Sulle strade del medioevo (seconda sala)

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on si può parlare di arte a Vimercate senza parlare del “Must”, il Museo del territorio, insediato in un’ala della settecentesca Villa Sottocasa, di via Vittorio Emanuele. Il Must, dopo un’attenta progettazione (iniziata già a partire dal 2004) e anni di lavoro, è stato inaugurato nel mese di dicembre del 2010. Espone reperti archeologici, dipinti e sculture, accanto a installazioni interattive e multimediali, che narrano il territorio della Brianza Est. Nel 2012 il museo ha ottenuto la nomination all'”Emya”(European Museum of the Year Award) ed ha vinto nel 2012 il premio “Icom Italia” come museo dell'anno, nella categoria “Miglior allestimento”. Il percorso espositivo si articola in 14 stanze. Quelle del piano terra seguono una narrazione cronologica, quelle del piano superiore sono invece dedicata interamente al Novecento.

Segue la sala “Sulle strade del medioevo”, con la ricostruzione del percorso tra Monza e Trezzo sull'Adda. Arricchisce la sala un video, che illustra la città in età tardo medievale, e i reperti longobardi rinvenuti nella necropoli di Trezzo sull'Adda: due anelli sigillo del VII secolo, un anello con pietra di reimpiego romana, una croce funeraria in oro.

La pieve di Santo Stefano (terza sala)

La sala della pieve di Santo Stefano, accanto a un plastico che mostra l'estensione della pieve dal secolo X al secolo XVIII, presenta una statua di scuola campionese che raffigura San Giovanni Battista (1370 circa) e il gruppo statuario pro-

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itorio che racconta la storia del Vimercatese

veniente dalla Collegiata di Santo Stefano, con la Vergine con il Bambino, Santo Stefano e un santo guerriero (1360 circa).

Il feudo di Vimercate (quarta sala)

La Sala del feudo conserva i dipinti del feudatario Giovanni Antonio Seccoborella e di sua moglie Fiorbellina Caimi (XV secolo). Accanto ad essi un'installazione interattiva che mostra i prodotti dell'agricoltura e della manifattura di quel periodo.

metà del secolo XVIII. E’ infatti noto come molte delle grandi famiglie nobili cittadine, a partire dal Cinquecento, edificarono ville prestigiose che si diffusero nei borghi e nelle campagne a nord di Milano e lungo i navigli. Residenze riservate agli ozi della villeggiatura, queste dimore erano anche al centro di immense proprietà immobiliari, destinate allo sfruttamento agricolo del territorio.

La sala dedicata a ”Luigi Ponti e la questione sociale” illustra come, con il contributo di possidenti illuminati, tra i quali Luigi Ponti (che fu proprietario della Villa Sottocasa dove il Must è insediato), negli ultimi decenni dell'Ottocento, si svilupparono società di mutuo soccorso, che crearono istituzioni sociali, alcune delle quali tuttora esistenti: l'asilo infantile, la scuola popolare di disegno, il teatro sociale.

Il decollo industriale (settima sala)

L’oratorio dell’immacolata (nona sala)

Viene qui narrato lo sviluppo dei trasporti tramviari e ferroviari nel territorio brianzolo e lo sfruttamento dei tre corsi d'acqua che percorrono il territorio - Lambro, Molgora e Adda - a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Percorso lungo il quale sorsero mulini, industrie tessili, centrali idroelettriche. Posto fra Monza, con i suoi cotonifici e cappellifici, e le centrali idroelettriche dell'Adda, il territorio agricolo vimercatese conobbe le sue prime avventure imprenditoriali, alcune effimere, altre destinate a crescere nel tempo. Luigi Ponti e la questione sociale (ottava sala)

Leonardo e il Salaino (quinta sala)

La sala di Leonardo e Salaino illustra la presenza di Leonardo da Vinci nel territorio lungo l'Adda, ospite del suo discepolo Francesco Melzi nella villa di famiglia di quest'ultimo a Vaprio d'Adda, e il suo incontro con Gian Giacomo Caprotti da Oreno detto il Salaino, suo allievo prediletto, che lo accompagnò per molti decenni.

Ville di delizia (sesta sala)

Nella sala dedicata alle ville di delizia si possono ammirare i modelli tridimensionali delle principali residenze nobiliari presenti sul territorio. Queste fanno da contorno a un'installazione multimediale che permette di conoscerne la storia, l'arte e i parchi delle ville raccontate. In una piccola stanza contigua sono esposte alcune stampe settecentesche di Marc'Antonio Dal Re, che illustrano ville e parchi nella prima

La sala della “Pieve di Santo Stefano” 5

Il percorso, al piano terreno del Must, si conclude, in un ambiente originario della Villa Sottocasa: l'Oratorio privato che conserva una pala d'altare raffigurante l'Immacolata, opera di Stefano Maria Legnani, detto il Legnanino, (16611713). Esponente più poetico e geniale della pittura milanese a cavallo tra il Seicento e il Settecento Nell'oratorio viene proposto l'ascolto di musiche sacre settecentesche, tratte da manoscritti ritrovati nel santuario della Beata Vergine di Vimercate, che documentano l'importanza della vita musicale nelle chiese cittadine nel XVIII secolo.


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Usellini. Il mito del progresso (decima sala)

La decima sala (che apre il percorso al primo piano del museo) è dedica al mito del progresso. Vi è esposto un ciclo pittorico di Gianfilippo Usellini (Milano 1903, Arona 1971) di quattro tele che rappresentano la cultura, l'arte, la scienza e il lavoro. Opere realizzate, nel 1960, per la nuova scuola media “Alessandro Manzoni”, di piazza Martiri Vimercatesi.

Expo (undicesima sala)

Questa sezione è dedica alla produzione industriale della seconda metà del Novecento. Le principali aziende locali sono presentate con un "campionario" dei loro prodotti: un elaboratore “Ibm”, una moto “Gilera”, una carrozzina “Peg Perego”, una bicicletta “Colnago”, alcuni prodotti “Telettra”. Accanto a essi, alcune vetrine, espongono oggetti prodotti su larga scala da aziende di questo territorio, quali le alimentari “Star” e “Pagani”, la “Bburago”, specializzata in automodellismo, le industrie tessili “Bassetti” e “Frette”. Si tratta di una vera e propria fotografia dello sviluppo industriale del territorio, tra il 1950 e il 1960.

Album della famiglia Sottocasa (dodicesima sala)

In questa sala sono conservati i ritratti della famiglia Sottocasa che abitò nella Villa fino al 2001. Quando, nel 1863, Luigi Ponti (industriale tessile gallaratese) ed Elisabetta Sottocasa (nobile bergamasca) si sposarono, la villa visse il suo periodo di maggior splendore: furono realizzate le scuderie, vennero abbelliti i saloni con

La Sala 11, denominata EXPO, dedicata alla produzione industriale della seconda metà del ‘900

dipinti dei maggiori pittori dell'epoca. Alla loro morte la residenza passò in eredità alla famiglia dei conti Sottocasa, da cui deriva l'attuale denominazione. Gerolamo Sottocasa, nipote di Elisabetta, vi si stabilì agli inizi del Novecento con la moglie Gabriella Levi, donna assai colta e moderna; dal loro matrimonio nacquero tre figlie, Elisabetta, Ferdinanda e Arnolda (l'ultima Sottocasa, deceduta nel 2001, ad avere vissuto nelle stanze della Villa.

Paesaggi contemporanei (tredicesima sala).

La Sala paesaggi contemporanei illustra i cam-

biamenti urbanistici e sociali, attraverso un'installazione che permette al visitatore di interagire con una proiezione su grande schermo; attraverso la luce di alcune torce, si cancella l'immagine storica in bianco e nero ed emergono filmati dei medesimi luoghi ripresi ora. Vecchie fotografie mostrano luoghi del passato: piazze, vie, scuole, stazioni.

Identità e memoria (Quattordicesima sala)

Tracce del passato, materiali della storia recente, frammenti delle tradizioni locali sono qui raccolti e conservati per offrire temi e spunti per una riflessione sull'identità della nostra comunità. E’ possibile inoltre visionare un gran numero di filmati, dal 1934 ai giorni nostri, che documentano avvenimenti storici, ricorrenze, feste, e interviste a personaggi che hanno caratterizzato la vita del territorio. Questo, in sintesi, è il percorso espositivo del “Must”. Un museo che si presta ad essere esplorato da bambini e ragazzi, che possono aprire cassetti e sportelli, toccare monitor e scoprire insieme ai genitori curiosità e storie. Durante tutto l’anno il museo propone una serie di laboratori per bambini e un ricco calendario di appuntamenti domenicali e festivi. E’ aperto al pubblico cinque giorni alla settimana, da mercoledì a domenica. Le visite per gruppi si effettuano su prenotazione. X Per info: Telefono: 039 6659 488, www.museomust.it

La sala “Paesaggi contemporanei” 7


GIANFILIPPO USELLINI

e le tracce della sua arte metafisica in città

“L

a biblioteca magica”, “Il lavoro”, “La scienza” e “La galleria dell’arte”. Questi i nomi delle quattro grandi tele (tempera grassa su tele) realizzate su commissione da Gianfilippo Usellini (Milano, 7 maggio 1903 – Arona, 21 agosto 1971), nel 1960, per le scuole medie di Vimercate “Alessandro Manzoni” di piazza Martiri Vimercatesi, che vennero inaugurate proprio nel maggio dello stesso anno. Si tratta di quattro opere dedicate alle principali attività spirituali e materiali dell'uomo, conservate, dal 2010, nel “Must” il museo del territorio vimercatese.

G

ianfilippo Usellini, nasce nel capoluogo lombardo nel 1903. Inizia a dipingere giovanissimo, intorno ai sedici anni d’età. Dopo gli studi classici frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove si diploma nel 1927. Ma già, nel 1926, è invitato ad esporre alla Biennale di Venezia. È vicino al movimento “Novecento”, sviluppatosi a Milano all’inizio degli anni Venti, che fa riferimento all’antichità classica, alla purezza delle forme e all’’armonia nella composizione. Sono gli anni in cui giunge a definire il suo linguaggio artistico, caratterizzato da un metafisico classicismo ispirato alla grande pittura italiana del ‘400. Dal 1928 al 1940 è titolare della cattedra di decorazione applicata alla “Scuola Superiore d’Arte Appli-

cata all’Industria” del Castello Sforzesco di Milano. Insegna anche disegno alla “Società Umanitaria” di Milano dal 1935 al 1937. Dal 1940 al 1960 insegna al Liceo Artistico di Brera. Dal 1961 al 1963 ad Arcumeggia (Varese) insegna affresco in corsi estivi tenuti per i migliori allievi delle varie Accademie di Belle Arti italiane. Dal 1961 è titolare della cattedra di Decorazione e affresco all’Accademia di Brera, fino alla sua morte, avvenuta ad Arona nel 1971. Quella di Usellini è stata una carriera artistica che l’ha portato a realizzare opere e ad esporre, sia in Italia che all’estero. Nel 1935 ha realizzato nella “Sala del Consiglio Provinciale di Sondrio” sei grandi encausti parietali, raffiguranti attività tipiche della Valtellina: mietitura, vendemmia, tessitura, filatura,

pesca, alpeggio, caccia, industria del legno, lavorazione del granito e alpinismo. Nel 1939 ha lavorato alle vetrate per la chiesa del nuovo “Ospedale Maggiore” di Milano. Nel 1948 ha tenuto una sua prima personale negli Stati Uniti. Nel 1962 (dopo aver realizzato nel Sessanta le

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Le sue opere grandi tele per le scuole di Vimercate) ha realizzato ad Arcumeggia l’affresco, “ Il ritorno dell’emigrante” . Nel 1967, sempre ad Arcumeggia, ha firmato la decorazione di una cappella votiva con affreschi illustranti Sant’Antonio abate e San Rocco. Negli ultimi anni della sua vita ha realizzato una “Deposizione” per il “Museo d’Arte Sacra del Vaticano”. Sue opere sono oggi conservate nelle Gallerie comunali d’arte moderna di Roma e di Milano.

L’inaugurazione della scuola media “Alessandro Manzoni” di piazza Unità d’Italia. Sullo sfondo delle fotografie, si intravedono, due delle quattro tele, commissionate per l’occasione a Gianfilippo Usellini (le foto sono dell’archivio fotografico del Must)

“La scienza”. Nella concezione di Usellini, la scienza, lontana dai trionfalismi positivisti, riacquista la ricchezza della sapienza antica e del mito e confina con la magia e l’incantesimo. Resta però sempre in agguato il rischio del fallimento, come allude la presenza della torre di Babele.

“La galleria d’arte”. In un museo immaginario Usellini raccoglie tanti capolavori famosi, accanto ad alcuni dei dipinti da lui più amati. Il museo non è un cimitero, un luogo di cose morte come affermavano i futuristi, ma un luogo vivo e popolato da visitatori attenti e curiosi.

“Il lavoro”. Personaggi e architetture descrivono l’avvicendarsi delle epoche, di cui il lavoro umano è il comune denominatore. L’aereo che cattura Pegaso allude alla relazione fra il progresso scientifico e la fantasia, che spinge la ragione sempre oltre i propri limiti.

“La biblioteca magica” (Gianfilippo Usellini, 1960). I persaggi e i protagonisti delle storie custodite fra le pagine escono dai libri e prendono vita in una sorta di teatro della fantasia. Il cavallo di Troia che domina la composizione allude al tema, sempre caro a Usellini, dell’eterno conflitto fra il bene e il male


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AGOSTINO BONALUMI Con Fontana, Manzoni e Castellani ha cambiato il modo di intendere l’arte

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imercate ha dato i natali e ha avviato alla carriera artistica Agostino Bonalumi. Una delle figure di maggior rilievo della pittura italiana del Novecento. Un artista che, insieme ad Enrico Baj, Lucio Fontana, Piero Manzoni e Enrico Castellani, alimentò il clima artistico dell’avanguardia milanese. Bonalumi (scomparso a 78 anni, nel 2013) nacque in città, il 10 luglio del 1935. Una città, Vimercate, in cui mosse i primi passi da studente e da giovane allievo. Frequentò la scuola di “Avviamento al lavoro”, di via Bice Cremagnani, studiando disegno tecnico e meccanico. Nel 2005 fu intervistato da un cronista del Giornale di Vimercate, nel suo studio milanese di viale Stelvio, tra i suoi colori, le sue tele e i bozzetti degli amici (veri piccoli capolavori) appesi alle pareti. “Sono nato a Vimercate nel 1935 – raccontò – e vi ho vissuto fino all’età di 4 anni, quando, con la famiglia mi trasferii a Sulbiate. Mio padre era proprietario di una piccola fabbrica di dolci nella piazza in cui un tempo si fermava il tram (piazzale Marconi, ndr): un laboratorio di pasticceria, all’interno di un cortile, pieno di aiuole con le fragole di proprietà di una certa famiglia Beretta”. Una residenza breve che non ha, tuttavia, interrotto, il legame tra Bonalumi e Vimercate. “Sempre in città – ricordò ancora – ho frequentato la scuola di avviamento al lavoro. Arrivavo, da Sulbiate, tutte le mattine, in bicicletta e spesso e volentieri, facevo tappa in centro, alla cartoleria

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“Penati” dove, con i soldi del pranzo e all’insaputa dei miei genitori, acquistavo olii e colori per dipingere”. Il talento, già allora non gli mancava e, ad appena 13 anni, fu invitato dai suoi insegnanti ad esporre, fuori concorso, al “Premio nazionale città di Vimercate”. Una partecipazione che, ancora oggi, viene ricordata in tutte le biografie ufficiali dell’artista, come il primo passo verso una carriera di altissimo livello. Le opere figurative, allora presentate, erano certo ben lontane da quelle tele “estroflesse” (che oggi le case d’asta, battono a cifre astronomiche) che lo hanno reso noto al mondo già a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Opere che, tuttavia, costituirono il necessario punto di partenza di un percorso di crescita e ricerca che Bonalumi compì da assoluto autodidatta. “Non fu semplice iniziare a vivere di sola arte – spiegò ancora – per anni e anni ho dipinto e, contemporaneamente, svolgevo i lavori più disparati. Ho fatto l’operaio in una ditta tessile di Aicurzio, ho lavorato in un’industria dolciaria, per poi passare in una fonderia e poi, ancora, a fare da autista. Solo vero i trent’anni, la pittura e la scultura, hanno iniziato a garantirmi una certa sicurezza. I miei genitori, persone molto concrete, riconobbero che per me, l’arte poteva essere un mestiere, solo quando mi videro in televisione, intervistato da Ruggero Orlando, durante la mai prima mostra a New York”. E fu proprio in quegli anni che Bonalumi, insieme a Castellani, Piero Manzoni e, con il sostegno di artisti dal calibro di Lucio Fontana e Gillo Dorfles, diventò animatore della scena culturale e artistica milanese. “L’arte è per me una ricerca conti-

La tipografia cartoleria “Luigi Penati” all’angolo tra via Garibaldi e via Mazzini, negli anni Cinquanta (immagini dell’archivio fotografico del “Must”)

nua – ricordò – dalla rappresentazione figurativa sono passato alla pittura polimaterica, più dichiaratamente astratta e informale. Poi, pian piano, ho iniziato a non dipingere più, ma a piegare la tela, creando opere estroflesse. La tela non era più, per me, un supporto per la pittura. Divenne lei stessa un’opera d’arte, un’opera che si dilata nello spazio”. Oggi si potrebbe dire che, mentre Lucio Fontana tagliava la tela, lui, Bonalumi, la piegava. A Bonalumi è stato conferimento, nel

2001, il “Premio presidente della Repubblica” da parte di Azeglio Ciampi. Nel 2002 ha esposto alla fondazione “Peggy Guggenheim” di Venezia. Nel 2003 ha allestito la mostra “Futuro Italiano”, a Bruxell in occasione del “Semestre di Presidenza Italiana al Consiglio dell’Unione Europea”. A Bonalumi (oggi le sue opere sfiorano quotazioni da milioni di euro) è stata conferita, nel dicembre del 2005, la benemerenza cittadina da parte dell’Amministrazione comunale.

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GIAN GIACOMO CAPROTTI DA ORENO L

eonardo Da Vinci e il suo pupillo, infido e malizioso, meglio noto come il “Salaino” ovvero il Diavolo. All’anagrafe si tratta di Gian Giacomo Caprotti da Oreno, terzogenito di Pietro da Oreno e Caterina Scotti che entrò nella bottega milanese di Leonardo, nel 1490, ad appena 10 anni. Ne divenne allievo e garzone e, secondo alcuni, anche amante.

L

a straordinaria vita di Leonardo Da Vinci si è intrecciata, non solo artisticamente, con quella di Gian Giacomo Caprotti da Oreno. Allievo prediletto, che ebbe con il grande maestro un rapporto controverso, testimoniato dal soprannome che gli venne dallo stesso affibbiato: il “Salaì”, ovvero il “Salaino”: il diavolo. Gian Giacomo Caprotti (nato a Oreno nel 1480), terzogenito di Pietro da Oreno e Caterina Scotti, entrò nella bottega milanese di Leonardo, nel 1490, ad appena 10 anni. Fu lo stesso maestro ad annotarlo su un manoscritto, oggi conservato all’”Institut de France”, a Parigi: “Iacomo venne a stare con meco il dì della Madonna del 1490, d’età d’anni 10”. Non solo allievo, ma anche modello e, secondo testimonianze ormai certe, anche amante, Gian Giacomo fu una delle persone più controverse e misteriose che intrecciò la sua vita, con quella del più grande artista e genio italiano. Alcuni studiosi, nel 2011, arrivarono addirittura a sostenere che in realtà la Gioconda fosse il ritratto del Salaino e non di Lisa Ghirardini. Una tesi avvincente che la dice lunga sull’enigmatico rapporto che si instaurò tra il maestro e il garzone. L’allievo “diabolico” che però, pian piano, riuscì ad ottenere la fiducia del suo mentore. Il Caprotti era indubbiamente malizioso e infido. Sin dal giorno successivo alla sua entrata in casa di Leonardo, fu accusato (e l’accusa verrà ripetuta susseguentemente con sconcertante regolarità) di aver rubato del denaro e vari altri oggetti: “Salaj ruba li soldi”. Ma il Salaino aveva anche tratti di generosità e di lealtà che controbilanciavano i difetti del carattere: nel 1508, ancora una volta, Leonardo annotava che “egli aveva preso in prestito 13 scudi per compiere la dota alla sorella”. Era anche affascinante e di bell’aspetto. Tutto questo bastò a farlo diventare il suo pupillo prediletto.

Ogni spostamento li vide uno accanto all’altro. Seguì Leonardo in tutti i suoi viaggi, da Milano a Venezia, da Firenze (nel 1499) a Roma (nel 1513). Poi se ne perdono le tracce, fino a quando lo si vedrà ricomparire in Francia, al capezzale di Leonardo. Anche se, è stato accertato, che il giovane orenese, non era presente il giorno della morte del maestro, il 2 maggio del 1519, a cui sottrasse dei quadri prima di tornare in Italia e che, comunque gli lasciò in eredità, un parte della vigna di Porta Vercellina, già residenza da vent’anni della famiglia Caprotti. Morì nel 1524 in circostanze misteriose: alcuni storici sostengono per una fucilata accidentale. La figura del Salai, dal punto di vista artistico, è stata trascurata per anni e, forse a ragion veduta, sebbene lo stesso sia stato menzionato, dai suoi contemporanei (tra cui il Vasari) come l’unico allievo e discepolo di Leonardo. Poco e quasi nulla, infatti, si sa della sua carriera artistica. Delle tante opere attribuitegli nel passato, soprattutto nel corso del Seicento e del Settecento, poche continuano ad essergli riferite. La più nota è “Il San Giovanni Battista” conservato alla “Pinacoteca Ambrosiana” e realizzato dal “Salaì” sulla falsa riga de “Il San Giovanni” di Leonardo, oggi esposto nei saloni del Louvre. La versione del Caprotti riproduce assai fedelmente l’originale del maestro, con la differenza che lo sfondo notturno è sostituito da un limpido paesaggio prealpino. Due altre opere tradizionalmente attribuite al Salaì sono la “Madonna col Bambino e i Santi Pietro e Paolo” e la “Madonna col Bambino e i Santi Giovanni e Battista”, entrambi conservati nella “Pinacoteca di Brera”. Al Salaino è intitolata una via di Oreno e, sul suo rapporto con rapporto con Leonardo è dedicata la sala n. 5 del Must, Il Museo del Territorio di via Vittorio Emanuele. 13

“Testa di giovane di profilo”, Windsor Royal Collection. Disegno di Leonardo da Vinci. Si ritiene sia un ritratto del Salaino

“San Giovanni Battista”, Gian Giacomo Caprotti” detto il “Salaì”, Pinacoteca Ambrosiana, Milano.


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Gian Giacomo Caprotti modello per la Gioconda?

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l volto de “La Gioconda” potrebbe essere quello di Gian Giacomo Caprotti da Oreno e non quello di Lisa Gherardini. Questa ipotesi, molto suggestiva e dai contorni misteriosi, è stata formulata nel 2011 dallo scrittore, Giovanni Clerici, in “Una nottte con la Gioconda”. Ipotesi sposata anche da Silvano Vinceti, presidente del Comitato Nazionale per la Valorizzazione dei beni storici, culturali e ambientali. Tale tesi è supportata da indizi storici, comparazioni e recenti scoperte. Da un’analisi millimetrica del panorama alle spalle della Gioconda, è curiosamente apparsa l’immagine stilizzata di un diavoletto. E Gian Giacomo Caprotti, come già noto, era appellato da Leonardo il “Salaì”, il Salaino,

ovvero il diavolo. In modo molto enigmatico e misterioso, sembrerebbe che il grande artista abbia voluto lasciare un’impronta e fornirci un indizio, per scoprire la vera identità del ritratto: un diavoletto che sembra voler dire “La donna qui a fianco in realtà sono io!”. Delle indagini digitali effettuate nel 2008 hanno inoltre rilevato che negli occhi di quella che, ormai comunemente chiamiamo Monna Lisa, vi sarebbero dipinte due lettere: una “S” nell’occhio sinistro e una “L” nel destro. “S” per Salai e “L” per Leonardo. A sostegno di questa ipotesi vi è infine la somiglianza della persona ritratta nella Gioconda con il San Giovanni dove è ritratto il giovane Caprotti.

IL CONVENTO DI ORENO, 800 anni storia e di pace

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to nella vicina Concorezzo. Nei secoli successivi vide vari ingrandimenti: all’inizio del Quattrocento è documentata una cappella dedicata a san Nazaro, nel XV secolo venne edificato il nuovo convento, a quadrato perfetto, di fianco all’attuale sacrestia, mentre nei primi anni del Cinquecento la “Schola della Beata Vergine” costruì una cappella dedicata all’Immacolata Concezione. Nel 1769 un decreto di soppressione ne causò la chiusura ed il trasferimento nel vicino convento dei Francescani di Vimercate, i quali soltanto alla metà del Novecento ritornarono a Oreno. Al convento, posto ad est della frazione, si accede da una strada in leggera salita, con una doppia porta d’ingresso ad archi che introduce nella piazza, su cui si affaccia la chiesa di San Francesco. Elegante esempio di architettura provinciale del XVII secolo. La facciata accoglie, all’interno di alcune nicchie, due belle statue barocche raffiguranti san Francesco e sant’Antonio da Padova. Di impianto cinquecentesco è invece il chiostro, costituito da un doppio ordine di logge ad arco, con colonne in pietra al piano terreno cui corrispondono pilastri in muratura al secondo. I Frati Cappuccini hanno fatto di questo luogo il centro regionale dell’animazione dell’Ordine Francescano secolare ”Ofs” ed é un convento adibito all’accoglienza di quanti desiderano qualche giorno di riposo spirituale, con ambienti che aiutano la meditazione e il raccoglimento.

Il convento dei frati Cappuccini di Oreno è un posto dove, ancora oggi, ci si può rifugiare, per respirare tranquillità. Un angolo, ritagliato fuori dal mondo e dalla sua frenesia, che ha per motto “pace e bene”. Con queste due parole, forse un po’ inusuali, si viene accolti anche telefonicamente: “Digitate l’interno che desiderate. I frati ricevono dalle, alle. Pace e bene”. Il convento di San Francesco da 800 anni è davvero un’oasi. Un’oasi per meditare, un’oasi per riposare circondati da una “Grande Bellezza” . Secondo la tradizione (e non c’è alcun motivo per dubitarne) il Convento orenese fu fondato dallo stesso Francesco, tra il 1214 e il 1215, per contrastare l’eresia catara che stava dilagando nel territorio circostante, soprattut-

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Casino di Caccia di

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n portone di legno massiccio introduce il visitatore alla corte rustica e al Casino di Caccia di Villa Borromeo. Edificio di sobria eleganza, risalente al quattrocento, caratterizzato da una muratura di ciottoli posti a spina di pesce intramezzata da mattoni, tipica dell’edilizia medioevale dell’alta pianura padana. La corte faceva parte di un complesso tardo medioevale di proprietà dei “De La Padela” (funzionari degli Sforza). Nel 1544 (esiste ancora l’atto di vendita) la struttura fu ceduta a Erasmo D’Adda. Nel 1612 Isabella D’Adda, la nipote, porta in dote i possedimenti di Oreno nel matrimonio con Carlo Borromeo. All’interno l’edificio si presenta ricco di affreschi quattrocenteschi. Affreschi scoperti dal conte Giancarlo Borromeo, solo nel 1927, sotto uno strato di calce (nel 600 si usava disinfettare le stanze con la calce durante la peste per paura del contagio ) in occasione di alcuni lavori di restauro. La decorazione pittorica (all’interno di una stanza posta nella torretta) si svolge lungo le pareti della stanza senza soluzione di continuità. Si incentra sulla tematica venatoria posta qui, in stretto collegamento con il motivo dell’amor cortese. Sulla parete nord, priva di aperture, si incontrano “La caccia alla tesa” (cioè lo stagno dove si allevavano anatre, gru, aironi), “Il cavaliere accolto nel giardino d’amore” e “La caccia con il falcone”. La

VILLA BORROMEO

parete breve a ovest accoglie “La caccia all’orso” mentre la parete sud, divisa in due dalla porta-finestra, presenta “Il gioco con gli orsi” e “L’allevamento degli orsetti”. Le scene sono delimitate in alto da una fascia decorativa a motivi floreali cui si alternano gli stemmi dei “De la Padella”; in basso da una serie di finte specchiature marmoree policrome. Un ciclo pittorico che colpisce per la raffinatezza delle scene affrescate e per le tonalità impiegate, che variano dal rosso al verde degli sfondi, e per

la trasparenza dei bianchi e dei rosa degli incarnati. Inoltre le vesti lussuose delle dame ricordano quelle effigiate in un altro, ancor più celebre ciclo pittorico, realizzato in Palazzo Borromeo a Milano, per l’elegante leggerezza delle signore nei loro abiti preziosi arricchiti di perle. Fino al 1970 il Casino di Caccia, pur restaurato, ha conserva la sua funzione agricola originaria. Più recentemente, a termine di un recupero architettonico, è stato destinato a una funzione ricettiva.

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“VILLE DI DELIZIA”: le oasi estive delle famiglie aristocratiche milanesi

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nche Vimercate, come tutto il resto del territorio di Monza e della Brianza, ha vissuto nel Settecento la grande stagione delle “Ville di delizia”. Una magnificenza di architetture e di giardini commissionati dalle grandi famiglie nobiliari dell’epoca per farne veri e propri luoghi di villeggiatura lontani dalla città. “Residenze di campagna” in cui i nobili si dedicavano allo svago nel pieno godimento della natura, della conversazione cortese, dell'arte, della musica, della poesia all’insegna della raffinatezza e del buon gusto. Spesso costituivano la residenza di rappresentanza del casato a cui appartenevano e di cui erano destinate a narrare gesta e fasti. Il termine “Ville di delizia” fu coniato nel Settecento dall'incisore Marc'Antonio Dal Re, che proprio con questa locuzione intitolò un libro, da lui realizzato, dedicato alle ville nobiliari dell’aristocrazia milanese.

Villa Gallarati Scotti

La costruzione di Villa Gallarati Scotti, voluta dal conte Giovanni Battista Gallarati Scotti, iniziò negli ultimi anni del XVII secolo. Venne poi pro-

fondamente trasformata in forme neoclassiche tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento. La villa, che sorge nel cuore del borgo di Oreno, fu inizialmente edificata in stile rococò influenzato dal barocchetto lombardo. Il progetto dell’imponente edificio è documentato da un’incisione realizzata da Marc’Antonio Dal Re e pubblicata

nel volume “Ville di delizia”. Il corpo principale dell’edificio era di soli due piani di altezza e si affacciava su un vasto parco all’Italiana ornato da statue e giochi d'acqua che si chiudeva al confine settentrionale con la fontana del Ninfeo di Nettuno, ancora oggi esistente. L'acqua che sgorgava dal Ninfeo andava a

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raccogliersi in un canale, che veniva a formare un laghetto tondeggiante, sufficientemente grande da essere navigato da piccole imbarcazioni. Laghetto che scomparve solo nella prima metà del novecento per problemi di approvvigionamento idrico. La villa fu completamente trasformata dal duca Francesco Gallarati Scotti. Dello schema precedente ha mantenuto l'ampia corte anteriore ad U, con le ali laterali di servizio più basse e con due tempietti laterali di forme classiche, dei quali quello di destra adibito a cappella privata. Furono invece rifatte le decorazioni delle sale interne. Il corpo centrale fu sopraelevato di un piano e il parco fu trasformato in un giardino all'inglese. Il tutto avvenne sotto la direzione dell’architetto brianzolo, Simone Cantoni, allievo del Vanvitelli. Nel 2010 la Villa Gallarati Scotti (uno dei migliori esempi di dimora signorile e di villa di delizia) lombarda ha subito un profondo intervento di restauro conservativo. Oggi è adibita a centro di alta formazione aziendale. La Villa privata apre le porte al pubblico in due sole occasioni: durante la manifestazione di settembre “Ville aperte in Brianza” e durante la “Sagra della Patata”.

Villa Sottocasa

Villa Sottocasa fu realizzata in stile neoclassico, nel pieno centro di Vimercate, alla fine del Settecento. Architettonicamente è caratterizzata da un impianto a “U” (tipico di molte ville di delizia lombarde) e da un ampio cortile d'onore che si affaccia su via Vittorio Emanuele. Al corpo nobile centrale si affiancano altri edifici più bassi e laterali: il granaio, le scuderie, il maneggio, il teatrino e la suggestiva limonaia. Nell'atrio d'ingresso si trova, sulla sinistra, lo scalone principale che conduce al secondo piano (a metà del quale è collocata una statua con l'Apollo del Belvedere) e, sulla destra, la cappella privata nella quale è conservata una tela del primo Settecento con ”Immacolata”, recentemente attribuita al Legnanino. Dal salone d'onore, con soffitto ricco di stucchi e fregi decorativi, si accede ad un vasto parco che fu sistemato nel XIX secolo secondo la moda del giardino all’inglese e dove sono inserite tipiche architetture da giardino, tra cui una deliziosa torretta neogotica e una “Kafehaus” a pianta circolare dove i nobili si recavano a sorseggiare caffè. Il nome della villa lo si deve alla famiglia Sottocasa. Nel 1865 vi abitarono Luigi Ponti (industriale tessile gallaratese che divenne anche sindaco della città) e la moglie Elisabetta Sottocasa facente parte di una nobile famiglia berga-

masca. Alla morte dei due coniugi l’edificio andò in eredità ai Sottocasa. Nel 2001 l’amministrazione comunale di Vimercate ha acquistato l'immobile (ad accezione dell’ala nord che è di proprietà privata) e il parco, dando inizio agli interventi di restauro che hanno portato nel 2010 all'apertura, nell'ala meridionale, del Museo del territorio.

Palazzo Trotti

Palazzo Trotti, oggi sede del Municipio in piazza Unità d’Italia, è un altro esempio di Villa di delizia in Brianza. Fu residenza fin dal XVI secolo dei conti Seccoborella, feudatari di Vimercate. Passò poi, nel 1739, alla famiglia Trotti da cui prende il nome. Il complesso architettonico si compone di più edifici. Il corpo centrale si affaccia, da una parte, su una corte quadrangolare chiusa, dall’altra verso l’omonimo parco. Il fascino principale dell'edificio deriva dalla de-

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corazione pittorica interna, con affreschi di soggetto mitologico e leggendario, databili alla prima metà del Settecento che furono realizzati in tre successivi interventi. La centrale “Sala Cleopatra”, che presenta accessi diretti alla corte e al giardino, è l’unica interamente affrescata dal pavimento al soffitto. Insieme alle altre due sale centrali del piano terra e ad una sala del primo piano, “Sala Minerva”, fu affrescata da un anonimo pittore tra il 1705 e il 1706. Al piano superiore, sul fianco della sala centrale priva di decorazioni, si trova la Sala di Bacco, che presenta affreschi realizzati tra il 1710 e il 1715 da Carlo Donelli detto il “Vimercati. Il terzo, ed ultimo intervento pittorico, è invece databile attorno al 1750, quando le restanti sale laterali del piano terra e del primo piano vennero decorate con scene mitologiche di grande impatto visivo a cura del pittore ticinese, Giuseppe Antonio Orelli. Tra i più noti esponenti del barocchetto lombardo.


IL PONTE DI SAN ROCCO: la porta della città

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Il ponte di San Rocco, oggi posto all’imbocco di via Cavour, è simbolo e punto di riferimento della città. Unico esempio lombardo di ponte fortificato medioevale ha acquistato nel tempo una forte valenza storica ma anche simbolica, rappresentando, di fatto, l’unica porta ancora esistente, di accesso all’antico borgo. Fu edificato sui resti di un preesistente “ponte romano” (del III secolo d.c.) di cui sono ancora visibili i piloni in pietra e dal profilo tipicamente cuspidato per fendere la corrente del Molgora. Nel XII secolo gli venne sovrapposta una porta difensiva, quella occidentale. Vimercate era, infatti, situata su uno snodo nevralgico di vie romane che univano Milano sia alle Alpi sia alla rocca di Bergamo. Successivamente, nel XIV secolo, fu eretta la porta orientale che, di fatto, conferì al complesso l’aspetto che tutti oggi conosciamo. La torre ovest, che guarda verso il centro cittadino, è di pianta trapezoidale. E’ il risultato di due diversi interventi che si sono susseguiti nel tempo. Quello più remoto risale alla fine del XII secolo quando venne eretta la porta torre, con portale concluso da due archi, uno in pietra e

l’altro in mattoni. I resti dell’antica porta sono ancora perfettamente conservate e visibili nella parte inferiore, dove su tutti e tre i lati si notano i merli alla guelfa, in laterizio, della Porta de

Moriano. Sull’arco in pietra è scolpita una piccola protome umana ad occhi sbarrati, della fine del XII secolo. Questa prima porta venne sopraelevata nella

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seconda metà del Trecento per svolgere un ruolo difensivo, garantito dai due ordini di feritoie e dagli archi pensili sulla sommità, dai quali era possibile calare liquidi bollenti addosso agli eserciti attaccanti. La torre orientale, a pianta rettangolare, risale invece al XIV secolo. La parete centrale è completamente priva di aperture, le due pareti laterali invece presentano quattro feritoie. Quest’ultimo intervento ha conferito al complesso del ponte di San Rocco l’aspetto attuale. Nell’insieme costituisce una delle più preziose opere d’architettura medievale civile e militare dell’intera Lombardia. A partire dall’Ottocento divenne oggetto di stampe e cartoline. Ogni anno, nel mese di gennaio, in occasione della festa di Sant’Antonio, il ponte di San Rocco, fa da sfondo al tradizionale falò che viene allestito sul greto del torrente Molgora. Evento che richiama in città centinaia di visitatori da tutto il Vimercatese.

Protome umana presente sull’arcata in pietra del ponte

L’oratorio di Sant’Antonio e le sue campane scampate alla guerra

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1480. Sulla controfacciata è presente un grande dipinto del Seicento raffigurante “La gloria di San Carlo”, opera dei fratelli Lampugnani. La storia dell’Oratorio di Sant’Antonio è ricca di aneddoti. Negli atti dell’Archivio Plebano Vimercatese, sullo Zibaldone, a pagina 98-99 troviamo scritto: “La Chiesa di Sant’Antonio Abate fu restaurata e ridotta in buono stato nel 1875. In questa Chiesa ogni Domenica si fa spiegazione della dottrina per ragazzi e il 17 gennaio si fa una bella festina con l’intervento di tutto il Clero parrocchiale. In questa Chiesina si fa la stazione nelle processioni delle Litanie e nelle grandi processioni parrocchiali”. C’è infine un’altra data da ricordare: il 9 settembre del 1942. In quel giorno le due campane in bronzo, risalenti al 1673, su ordine del Sottosegretario di Stato, sarebbero dovute essere rimosse per le fabbricazioni di armi da guerra. Non si sa e non si conoscono, tutt’oggi, le circostanze che impedirono l’esecuzione di quell’ordine. Sappiamo solo che le campane dell’Oratorio non furono mai trasformate in ordigni di guerra. Forse Sant’Antonio, non si sa in che modo, accomodò la questione.

ella memoria collettiva la piccola chiesa di Sant’Antonio, a metà di via Cavour, è legata alla festa e alla Sagra cittadina del 17 gennaio, quella in cui si ricorda il santo a cui la stessa è dedicata e intitolata: Sant’Antonio Abate (250/356), fondatore della vita cenobita e, per tradizione popolare, protettore dell’agricoltura, degli animali e guaritore dell’herpes zoster o fuoco di Sant’Antonio. La chiesa, o meglio l’oratorio di Sant’Antonio, affonda le sue origini tra il XIII e il XIV secolo. L’impianto originale fu modificato nei secoli successivi. Nel XVI secolo, con la sopraelevazione dell’aula e la costruzione dei grandi archi interni e, nel secolo seguente, con l’edificazione del campanile. L’interno dell’oratorio è suggestivo. Al centro è collocato l’altare barocco realizzato nella prima metà del Seicento, su cui domina la grande pala su tela, ad olio, raffigurante la “Madonna Addolorata” circondata da angeli. In primo piano, a sinistra, è presente Sant’Antonio Abate che apre le braccia in atto di preghiera. La parete settentrionale è ancora ricca di frammenti di un ciclo di affreschi dedicati alla passione di Cristo, che datano al 1460-

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LE CHIESE DELLA CITTÀ: un patrimonio artistico da conservare

La chiesa di Santa Maria Assunta è stata letteralmente studiata “ai raggi X“: dal 2011 sono stati effettuati rilievi con laser scanner e studi diagnostici chimico-fisici. Un’indagine che è servita per fare il punto della situazione e per redigere un computo preciso dei costi da sostenere per far fronte a un intervento di restauro vero e proprio. Intervento che ora necessita di altri fondi da ricercarsi tra sponsor e coofinanziamenti pubblici e privati. Indagini diagnostiche sono state effettuate anche nella Basilica di Santo Stefano e nel Santuario della Beata Vergine del Rosario dove, nell’estate del 2013, si è proceduto con un intervento di risanamento e di restauro pittorico della parete nord La logica di tutto questo progetto è quella di conoscere per intervenire a ragion veduta, utilizzando i dati raccolti a vario titolo, anche per dimostrare la necessità degli interventi e sostenere le domande di finanziamento. Tutte le attività sono basate sul coinvolgimento della popolazione, in quanto si ritiene che la partecipazione degli utenti sia condizione necessaria per l’applicazione delle nuove metodologie anche di programmazione e raccolta fondi. Obiettivo finale è la formazione di competenze radicate sul territorio per assicurare la continuità dell’attenzione e dell’impegno innescati dal progetto

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l progetto, avviato quattro anni fa, di cura e conservazione delle chiese e del patrimonio artistico e architettonico della “Comunità pastorale della Beata Vergine del Rosario” sta cominciando a produrre i risultati attesi. L’obiettivo, forse in apparenza ambizioso, era ed è, quello di intraprendere un percorso di conoscenza, attenzione e manutenzione costante, di tutte le chiese della città, affinché le risorse economiche ed umane impegnate nella conservazione e valorizzazione di questi beni fossero ottimizzate e rese efficaci. L’idea di un intervento a “360 gradi”, a ciò finalizzato, nacque nel 2011, a seguito di un appello spontaneo lanciato dalla comunità di Ruginello, preoccupata per le condizioni in cui versava la chiesetta di Santa Maria Assunta, (collocata nel camposanto della frazione), meglio nota coma la chiesa della “Mort de Rusnell”, che nella sua semplice architettura conserva importanti testimonianze artistiche, in buona parte ancora da studiare. Un appello di salvataggio che, quasi per caso, diede vita ad un progetto di più ampio respiro che si concretizzò con la partecipazione ad un bando e l’accesso ad un finanziamento da parte di “Fondazione Cariplo” che ha consentito di dare il via ad una sorta di “check up” complessivo dello stato di salute di tutte le chiese della Comunità Pastorale, per intervenire (dove ce ne fosse necessità) con manutenzioni costanti, al fine proprio di evitare altre situazioni di emergenza. Gli interventi più consistenti, fino ad oggi, hanno interessato, ovviamente, la chiesa di Santa Maria Assunta (piccolo gioiello romanico risalente al 1300), ma anche il Santuario della Beata Vergine e la basilica di Santo Stefano a Vimercate. 22


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