IL LINGUAGGIO DEL CORPO NEL CINEMA MUTO
Il cinema nasce ufficialmente con una rappresentazione pubblica a pagamento, nel seminterrato del “Gran Caffè” (al Salon Indien), sul Boulevard-des-Capucines a Parigi il 28 dicembre 1895. L’ingresso costava 1 franco; il primo giorno vennero incassati 35 franchi, ma tre settimane dopo si arrivava già a 2000 franchi al giorno. I fratelli Louis e August Lumiere proiettarono alcuni brevi film con immagini in movimento: l’Uscita dalle officine Lumière (Sortie des ouvries de l’usine Lumière) e una farsa intitolata Il giardiniere, che divenne poi L'innaffiatore innaffiato (L'arroseur arrosé) considerato oggi il primo film di finzione della storia del cinema: la storia di uno scherzo fatto da un ragazzo a un giardiniere che sta innaffiando un giardino. In seguito fu girato un altro breve film divenuto celebre, L’Arrivo di un treno alla Gare de la Ciotat (L’arrivé e d’un train à la Gare de la Ciotat): si vede la stazione, una signora con un grande cappello, il treno che giunge e si dirige verso la macchina da presa. La scena, secondo quanto si racconta, provocò il panico nella sala di proiezione tra il pubblico ancora incapace a distinguere tra finzione e realtà. Una scena di indubbio realismo. In Italia, al nord Vittorio Calcina e al sud Francesco Felicetti, svolsero lo stesso ruolo
promozionale, organizzativo e di realizzazione delle proiezioni filmiche l’anno dopo: nel 1896. Sia il romano Felicetti, sia il torinese Calcina, erano fotografi ed entrambi utilizzavano la sala di proiezione anche come studio fotografico. Furono costruite sale cinematografiche più grandi e numerose, per raggiungere un pubblico di livello economico maggiore (dette nickel-odeons perché il biglietto d’ingresso costava un nickel, cioè 5 centesimi di dollaro), che affiancarono le sale tradizionalmente dedicate agli strati più poveri della popolazione. Il cinema si stava imponendo come fenomeno di cultura e di costume, la sua influenza si esercitò sui comportamenti individuali e collettivi, sulla moda, sulle scelte morali e sociali, sui gusti. Vedere immagini in movimento proiettate su uno schermo accompagnate o meno da parole, musiche, suoni costituisce una innovazione estetica e tecnologica tale, da scompaginare addirittura le concezioni spaziali e temporali precedenti. Si può ben dire che il cinema, una volta entrato nella prassi abitale dell’uomo, abbia stabilito sconosciuti rapporti con la realtà circostante, nuove abitudini mentali. Era il realismo della rappresentazione che colpiva il pubblico meravigliandolo, “era la naturalezza e la verità degli oggetti e dei personaggi semoventi che costituivano il fascino e la novità dello spettacolo” come scrive Gianni Rondolino. L’attrattiva sottile di osservare accuratamente fatti e situazioni come se fosse la prima volta, come se ci si accorgesse improvvisamente che anche gli aspetti più ordinari, secondari e trascurabili della quotidianità hanno un significato e una funzione. Proprio nel periodo del muto nasce la maturazione, la ricerca, la sperimentazione che anticipa i modelli estetici e la tematica del cinema che verrà ampiamente sviluppata con successo e larga diffusione più tardi. Il difficile equilibrio tra industria e arte nel cinema è caratterizzato dalla compresenza dei film di Ince e Sennett da una parte e David Wark Griffith dall’altra. Infatti quest’ultimo è stato definito, dalla maggior parte degli storici, il primo originale rappresentante “dell’arte del cinema”. Mentre il primo “teorico del cinema” viene da tutti considerato Ricciotto Canudo. Negli anni del muto, a ben vedere, non c’è sostanziale differenza tra le produzioni europee e americane, sono simili nei contenuti, correlati nelle forme, c’è una stabilità tecnicoespressiva, uno standard formale che accomuna tutte le cinematografie dell’epoca. Sarà l’avvento del sonoro e la comprensione delle lingue che farà nascere la “cinematografia nazionale” mettendo maggiormente in risalto peculiarità, caratteristiche, tipicità, originalità e fiero orgoglio dei singoli paesi. Con la sua vertiginosa diffusione il cinema divenne una attività industriale, in cui valevano le regole economiche della concorrenza; tutti i fenomeni connessi al cinema, tra cui il divismo, sono conseguenza di questa caratteristica di fondo. Quando si pensa al cinema muto ci viene in mente Ridolini, Charlot e le dive che roteano gli occhi, ma agli inizi non esisteva un modo di narrare per immagini per cui il cinema non poteva far altro che ispirarsi al teatro e la recitazione, in mancanza della parola, doveva per forza essere esagerata, spinta all’eccesso, enfatica. Solo negli anni ’20 i critici tendono a stigmatizzare questo tipo di interpretazioni infiammate, si può dire che dopo Assunta Spina si afferma una formula recitativa più sobria, composta, raffinata che non ha più bisogno di andare sopra le righe per far passare il messaggio cinema. Che cosa fa la forza di convinzione e di coinvolgimento, l’evidenza realistica dell’immagine filmica del cinema muto, la sua credibilità assoluta? Essenzialmente il movimento! E’ il movimento che conferisce all’immagine degli oggetti e dei personaggi una corporalità, un peso, un volume, che la stacca dal piano, che la schiude ad
un’esistenza quasi autonoma. Il movimento assegna verità alla ricostruzione cinematografica, non è indispensabile la parola. E’ dall’indipendenza delle inquadrature tra loro, o meglio dalla scelta delle immagini frammentate che nasce la possibilità espressiva del cinema e che “il cinema nacque in quanto arte” come afferma André Malroux. E’ la ricerca delle immagini, la successione delle immagini significative che definisce il cinema. Secondo René Clair gli eroi dello schermo nel cinema muto, “parlavano all’immaginazione dello spettatore con la complicità del silenzio”. Il primo studioso del muto, Sebastiano Arturo Luciani, individua nel nuovo mezzo le enormi possibilità del fantastico cinematografico. Per lui “luce e ritmo sono i principali ordinatori della nuova arte”. Si scopre la sconfinata libertà che consente il cinema, la capacità di rappresentare argomenti fiabeschi e fantastici, che il palcoscenico del teatro non consente. Le ombre e le luci dei film determinano effetti dinamici mentre fino ad allora si conoscevano solo gli effetti statici del disegno e della pittura. Il cinema è, in ordine di tempo, la prima arte dello spettacolo realmente popolare. La musica poi diventava l’elemento necessario per la perfetta integrazione di tutti gli elementi. E quando entrerà la parola, indissolubilmente legata all’immagine, si formerà “una coppia espressiva” il sui significato sarà capito da tutti, molto di più di qualsiasi testo letterario scritto. Naturalmente la polemica era viva anche allora. Le discussioni su che cosa doveva essere il cinema erano pressanti. D’Annunzio e Canudo privilegiavano il realismo. Per il regista Baldassarre Negroni “il cinematografo è essenzialmente visione, ma è visione non solamente di monumenti o di belle messinscene, ma di fatti umani” per la buona riuscita di un film è essenziale soprattutto “dare riproduzioni fedeli della vita quale la si vive”. Il cinema divenuta fenomeno sociale non più solo rivolto al consumo delle classi meno agiate, ma business e anche riutilizzo delle professionalità prima legate al teatro e al varietà. Comincia a essere considerato arte e dunque sottoposto all’attenzione dei critici e degli intellettuali. Tra i primi a occuparsi esteticamente del cinema è in Francia, il già citato, Ricciotto Canudo che nel 1911 espone le sue idee nel “Manifesto della settima arte” (Manifeste de la Septième art): per la prima volta si argomenta sul cinema inteso come arte, e come arte totale sull’esempio del modello wagneriano. “La settima arte concilia tutte le altre”. Se l’Italia produce, nel solo 1913, quasi 500 film significa che il cinema ha davvero
“contaminato” tutti gli ambienti. Qualcuno teme la concorrenza che il cinema porterà al teatro, ma presto tutti capiranno che si tratta di due cose ben distinte con precisi significati, specifici linguaggi e particolari valori. Il cinema non è nato come corollario del teatro, ma come forma d’arte a se “con una propria grazia ardita e profonda” come ebbe a dire Nino Oxilia già nel 1913. Una forma d’arte nuova ancora esitante e indecisa, ma che cerca già di individuare “la forma concreta della verità in certi suoi atteggiamenti tipici”. Il cinema per Oxilia era “sole, luce e bellezza”. Mentre Guido Gozzano aveva un’idea ben diversa del cinema agli esordi, lo considerò, in un’intervista del 1916, “un’industria di celluloide. Una cortigiana molto ricca che sa camuffarsi, ma l’imitazione della principessa resta pur sempre un’imitazione”. Comunque anche Gozzano pensava ad una sua successiva evoluzione verso il cinema come “nastro prodigioso”. Il muto in effetti ce la metteva tutta per apparire davvero arte a volte composta di eccentricità e raffinatezza, altre volte assoggettata alla profondità del significato umano. Era una forma di spettacolo artistico non solo per quello che diceva, ma anche per ciò che suggeriva o semplicemente sussurrava, per il misterioso fascino che emanava, per l’entusiasmo che destava nella gente più semplice. Il cinema dà l’illusione della realtà senza esserlo, dà anche un’impressione di consistenza, trasmette contenuti che mai potranno essere comunicati dalla parola scritta con tanta evidenza, tanta forza e ricchezza di dettagli. L’immagine può condensare in un’inquadratura molte più cose di quante se ne potrebbero descrivere in molte pagine scritte. Durante il periodo del muto le pellicole in genere erano accompagnate, durante la proiezione, da un commento sonoro dal vivo, tramite un complessino o un rumorista, più spesso un pianista. Durante la proiezione, il pianista sottolineava le azioni che erano proiettate sul telone, suonando a suon di ragtime (il musicista Scott Joplin ad esempio fece questo di mestiere) o servendosi di altre musichette d’accompagnamento, molte volte improvvisando. Alcuni film prevedevano invece una partitura musicale propria, composta appositamente. Ad esempio la partitura di Edmund Meisel per La corazzata Potëmkin di Ejzenstejn; quella di Antheil per Ballet mécanique di Léger; quella di Hindemith per Vormittagsspuk di Hans Richter. Il cinema muto degli anni ’20, che vede imperversare in Italia Maciste e Leda Gys, produce nel resto del mondo capolavori assoluti e gode della massima espansione espressiva e produttiva. Basti pensare ai capolavori dell’espressionismo tedesco di Robert Wiene (Il gabinetto del dottor Caligari del 1920), Fritz Lang (Metropolis del 1926) e Friedrich Murnau (Nosferatu il vampiro del 1922) oppure alla produzione statunitense: Il monello e La febbre dell’oro di Charlie Chaplin, Rapacità di Eric von Stroheim (1924), La grande parata di King Vidor (1925). In Francia René Clair gira Entr’acte. In Russia realizzano le loro più acclamate opere registi come Dziga Vertov, Sergej Ejzenstein, Vsevolod Pudovkin, Grigorij Aleksandrov e Alezandr Dovzenko. Carl Dreyer gira nel 1928 La passione di Giovanna d’Arco, Luis Bunuel produce il suo primo film Un Chien andolou nel 1929 che divenne il manifesto dei surrealisti parigini. La parola al cinema arriverà con Il cantante di Jazz di Alan Crosland, il 27 ottobre 1927 negli Usa. Prodotto dalla Warner Bros e dalla Vitaphone e tratto da una piece di Samson Raphaelson, protagonista Al Jolson. E’ la storia del figlio di un rabbino che si dedica al varietà. Fu il primo film con dialoghi sincronizzati. Vengono pronunciate in tutto meno di 350 parole. In tutto il 1928 su 820 film prodotti negli Usa soltanto 10 sono sonori a tutti gli effetti cioè contengono musica e parlato. E di tutte le 22.300 sale circa 200 sono attrezzate per proiettare il sonoro. Il primo film sonoro realizzato in Italia e distribuito nelle sale è
considerato La canzone dell’amore di Gennaro Righelli, realizzato a Roma dalla “Stefano Pittaluga” nei cantieri Cines e tratto da una novella di Luigi Pirandello intitolata, ironia della sorte, … “In silenzio”! Gli attori che lo interpretarono furono: Isa Pola, Elio Steiner e Dria Paola. Fu presentato in anteprima al “Supercinema” di Roma il 7 ottobre 1930. Già nel 1928 però un cortometraggio parzialmente sonoro è stato girato a Torino dalla Fert, si tratta di Napoli che canta con la direzione artistica di Mario Almirante e le scenografie di Giulio Botto, che venne poi interamente sonorizzato nel dicembre del 1930. Il primo film parlato, secondo Riccardo Redi, dovrebbe essere stato Nerone di Petrolini e Blasetti nel novembre del 1930. Mentre il primo doppiaggio in italiano pare sia stato fatto sul film Milione di René Clair e realizzato presso gli stabilimenti Caesar di Roma, diretto da Giorgio Mannini e terminato nel marzo del 1932. Il canto del cigno del cinema muto, il Italia, si può dire che sia rappresentato sostanzialmente da due film: Sole di Alessandro Blasetti del 1929 e Rotaie di Mario Camerini del 1930. Pur nella relativa modestia dei loro risultati segnano comunque una svolta nel cinema italiano anche perché hanno avuto il merito di imporre all’attenzione degli spettatori figure nuove del contesto sociale: operai all’interno di una fabbrica, contadini veri, passeggeri di un treno all’interno di una carrozza di terza classe. La strada è aperta il muto appartiene ormai alla storia passata. I film muti non circolano più e soprattutto in Italia saranno destinati ad un rapido, quanto ingiustificato, oblio. Charlie Chaplin più di ogni altro, si dimostra contrariato. Parla di “attacco alle tradizioni della pantomima” da lui creata e che, secondo lui, rappresentava l’essenza dell’arte cinematografica. Pensava che riuscisse a sopravvivere poiché “solo nel cinema muto – diceva – c’è la poesia del gesto”. In effetti il “linguaggio silenzioso” del cinema pionieristico ha tuttora grande fascino e mantiene intatto un valore essenziale. La tecnica La tecnica di recitazione necessitava di enfasi mimica, esagerando l'espressività facciale e l'azione corporea affinché giungesse al pubblico il messaggio emozionale inteso dal regista. Oggi potrebbe risultare esagerata, a volte grossolana, ma il valore dei grandi interpreti è racchiuso nell’essenzialità del gesto, nella pantomima, nella capacità di trasmettere, nell’istante del gesto, l’intensità dell’emozione. Per di più oggi sempre più raramente ci è dato di poter visionare sul grande schermo queste produzioni, che per poter essere apprezzate nella loro grandezza e sfumature necessiterebbero di questa collocazione e di un pubblico con cui condividerle. Nel genere comico questa gestualità fu classificata come slapstick, si spiega anche perché fu generalmente più apprezzato il cinema comico, per sua natura paradossale, piuttosto che il dramma. La tecnica di ripresa, invece era molto lenta a confronto del film sonoro (16 o 20 fotogrammi al secondo del film muto, contro i 24 del sonoro) e il risultato era il tipico movimento a scatti e innaturale, volutamente rafforzativo, in particolare nelle commedie piuttosto che nel film drammatico. La durata del film era misurata in rulli o bobine, dove era fisicamente contenuta e avvolta la pellicola, ogni rullo poteva contenerne circa 600 piedi per circa 7 minuti di proiezione. Migliaia sono i film girati nel periodo muto, una considerevole parte dei quali (stante agli storici almeno l'80-90%[senza fonte) è scomparso per sempre. Volendo considerare il cinema muto italiano, nel periodo che va dal 1905 al 1931, gli storici hanno catalogato poco meno
di 10.000 titoli, il 90% di essi scomparso per sempre. Almeno fino alla prima metà del ventesimo secolo veniva utilizzata una pellicola altamente instabile e altamente infiammabile che richiedeva cure particolari per garantirne la conservazione nel tempo. Molti di quei film furono fissati su materiale di pessima qualità, pregiudicandone la sopravvivenza al logorio del tempo e alla decomposizione in polvere, alcuni furono riciclati, molti finirono distrutti nei frequenti incendi degli studi. Oggi la conservazione e il restauro di quelle pellicole è la priorità principe per gli storici della cinematografia. Kevin Brownlow, esponente di spicco della categoria ha detto: I vecchi film sono come il vino, il tempo li matura, ma molti sono finiti in aceto. Film muti nell'era del sonoro Diversi cineasti hanno reso omaggio alla favolosa era del film muto: Jacques Tati col suo Le vacanze di Monsieur Hulot, 1953, e così pure Mel Brooks con L'ultima follia di Mel Brooks, dal titolo originale di Silent Movie, del 1976 in cui, simbolicamente, l'unica parola del film è pronunciata da un mimo. LA COMICITA’ DINAMICA DI BUSTER KEATON
«Ci sono comici che sembrano rivolgersi direttamente allo spettatore, che vogliono entrare in confidenza con lui. In questo modo fanno ridere il pubblico insieme a loro, mentre per quanto mi riguarda, so che il pubblico ride di me ».
Questo lo diceva Buster Keaton e, se non ci convince del tutto, dobbiamo però ammettere che serve a chiarirci tante cose del suo cinema. Tra i grandi comici del muto – scrisse James Agee, che cito a memoria – Keaton è il più naturalmente “silenzioso”, tanto che anche un piccolo sorriso potrebbe sembrare assordante come un grido. Sulla sua faccia triste e immobile le nostre risate si infrangono; è il solo a escludere dalla sua recitazione il sentimento, per portare al più alto livello la pura commedia fisica. Forse per questo Buster Keaton sosteneva che il comico va di corsa. E non intendeva dire che la velocità è tutto, ma che ogni gag eseguita o troppo piano o troppo in fretta può risultare penosa. Il ritmo della comicità è scienza esatta, un film comico si mette insieme con la stessa degli ingranaggi di un orologio diceva, ed era come se Edison in persona facesse lezione ad una classe di elettricisti. Perché il lato paradossale della personalità di Keaton sta nel fatto che, nonostante i suoi silenzi in scena e fuori, ha avuto più di altri (più di Chaplin, certo) il senso dell’azzardo, della soluzione innovativa, dell’esperimento, che ne fanno, tra i grandi del suo tempo, una figura, si direbbe, d’avanguardia. Il Cameraman o Io e la scimmia è un testo sacro in proposito. Se non fosse da prendere con le pinze che la «comicità di Keaton contiene una riflessione altamente intellettuale sulla macchina da presa come strumento di rapporto con il reale e come mezzo di verifica» (Moravia), c’è da rimanere estasiati di fronte alla sequenza della scimmia che rifà il verso al fotografo e filma da sola la scena clou della vicenda, cioè Buster che salva la ragazza mentre sta per annegare. Tutto quello che succede nella scena ma soprattutto dopo, quando le riprese effettuate dalla scimmia portano alla soluzione del racconto e al lieto fine, è così ricco di echi “moderni” da far riflettere su tanto cinema a venire. «Inadatto a muoversi nel mondo, la sua goffaggine gli impedisce di ridere e lo salva », scrisse Paul Gilson. Ma parlava dell’uomo o del personaggio? Buster Keaton fu uno dei tre mostri sacri del cinema muto classico, quella straordinaria stagione cinema statunitense tra il 1915 e il 1928, accanto a Charlie Chaplin e Erich von Stroheim. Il suo cinema fu ancora più un meccanismo perfetto di quello di Chaplin, con continui rovesciamenti di senso, all'insegna di un esercizio continuo della logica: gli oggetti cambiano di senso, le azioni semplici diventano complesse e quelle impossibili diventano facilissime, ciò che sembra innocuo diventa un pericolo e le avversità si rivelano aiuti impensati. Nei film di Keaton il mondo reale diventa astratto, surreale, tutto ciò che è sbagliato è anche giusto e viceversa. Per esempio ne Il maniscalco (1922) un'inquadratura da lontano sembra mostrarlo intento a lavorare al fuoco, mentre invece si sta cuocendo due uova al tegamino; in One Week una casa prefabbricata montata male diventa una giostra che ruota su sé stessa, ma alla fine gli abitanti scendono ringraziando per il giro. Il suo cinema, essendo basato sui giochi visivi, non resse la novità del sonoro.